Fbi sotto falso nome a caccia di criminali su Facebook
Le forze dell’ordine sempre più di frequente si rivolgono a Facebook e ad altri social network per scovare malviventi o spiare conversazioni che potrebbero portare a scoprire attività illegali. in Italia ne sa qualcosa Pasquale Manfredi, giovane boss dell’ndrangheta, arrestato pochi giorni fa grazie alla sua passione per “Facebook”. In America, gli agenti dell’Fbi e quelli del fisco fanno collezione di “amicizie” on line. Fino a ieri protetti dal mistero, ora le loro indagini sono state “svelate” da un rapporto del Dipartimento della Giustizia.
A diffonderlo, scrive Federico Guerrini su “La Stampa”, è stata l’Electronic Frontier Foundation, un’associazione per la difesa delle libertà digitali. Dal dossier, rivela Guerrini, «si scopre che l’Fbi fornisce agli agenti un piccolo manuale per operare sotto copertura in Rete, in particolare su “Facebook”». Diventare “amici” di un criminale può servire per conoscere la sua attuale residenza, esaminare la sua lista di contatti per scovare eventuali complici, vagliare la sua collezione di foto per cercare, per esempio, immagini della refurtiva proveniente da un furto.
Problemi legali? Sì, perché «per diventare amici del ricercato e ottenere le informazioni, gli agenti dell’Fbi gli si presentano, per ovvie ragioni, sotto falso nome». Com’è noto, “Facebook” si differenzia però da altri social network esigendo che gli utenti interagiscano utilizzando le loro autentiche generalità. «Comportarsi come gli agenti federali, costituisce dunque una palese violazione dei “terms of service” del network», scrive “La Stampa”. Diverso l’approccio dell’Irs, l’agenzia del fisco, che invece raccomanda ai propri investigatori di presentarsi in Rete senza barare sulla loro identità.
«Un’altra strada seguita dalle agenzie governative per raccogliere informazioni utili alle indagini – continua Guerrini – è quella di chiedere i dati che occorrono direttamente ai gestori dei vari network». Secondo il documento dell’Fbi, in questo frangente “Facebook” si dimostra particolarmente “collaborativo”, mentre “Twitter” richiede sempre, per fornire i dati, una richiesta formale firmata da un giudice.
«Che “Facebook” collabori con la Cia e altre agenzie governative Usa, è cosa nota», aggiunge Guerrini. Ma visto che «a nessuno piace passare per delatore», subito dopo le rivelazioni dell’Eff, un portavoce del network ha dichiarato (al sito Cnet.com) che lo staff di “Facebook” «esamina attentamente ogni singola richiesta di accesso ai dati, ne esige una precisa motivazione e, ove ritenga che tale richiesta sia pertinente, rivela comunque il minimo indispensabile di informazioni relative all’utente». Risposta che lascia solo in parte soddisfatti, dice Guerrini, dato che non rivela né quante richieste di accesso ai suoi dati “Facebook” riceva ogni anno, né quante ne soddisfi, anche senza un ordine del giudice (info: www.lastampa.it).