Dylan, il visionario che ha provato a cambiare il mondo
E’ stato un musicista che ha scritto pagine leggendarie della storia della musica popolare contemporanea, è ancora una leggenda vivente che, anche se con lunghi silenzi, produce ancora dischi che vale la pena ascoltare. E come uomo? Ė stato un marito infedele, un padre affettuoso e un figlio devoto; è un uomo che ha bisogno di un Dio, ma di quale non sa; è un poeta ribelle, che però ama premi e onorificenze; è un cantante inquieto, per la strada da quasi tre lustri in un forsennato “NeverEnding Tour” sui palcoscenici del mondo.
E’ stato ed è molte cose, molti Bob Dylan diversi il signore che oggi compie settanta anni. Nato il 24 maggio 1941, a Duluth, Minnesota, da Beatrice e Abram, commercianti. Nato Robert Allen Zimmerman, rimasto Bob, ma divenuto Dylan, come Dylan Thomas, come uno che abbia voglia di essere un poeta. Dice di sé: «Non sono molto articolato. Riservo quello che ho da dire per ciò che faccio». Allen Ginsberg ha detto di lui: «E’ il più grande poeta della seconda metà del XX secolo». Noi sappiamo soltanto che voleva cambiare il mondo e che è stato uno dei pochi a riuscirci.
Visionario e concreto, poeta e cronista, sempre avanti rispetto al suo tempo, Bob Dylan scrive “Masters of war” prima che il Vietnam distrugga la sua generazione; “Hurricane” prima che Hollywood riscopra il caso Rubin Carter; “Forever young” senza sapere che proprio lui sarebbe diventato immortale; si scaglia contro le convenzioni, l’ipocrisia, l’ingiustizia prima che la ribellione diventi parte della società; celebra gli hobo, gli zingari, i diversi essendo lui stesso un cantastorie di strada, un nomade, mai in linea con il pensiero dominante. Ha venduto “soltanto” 58 milioni di dischi (contro i 600 milioni dei Beatles), ma è il musicista più famoso del mondo.
Del suo privato sappiamo pochissimo. Chissà se stravolge la sua vita come continuamente fa con le canzoni, chissà se ci autorizzerebbe a pensare che in questo continuo cambiare albergo, viaggiare in bus, sfuggire al mondo, ci sia la paura della fine. Che nel maggio del ‘97 sembrò essere arrivata: un problema al cuore fermò brutalmente la sua corsa. Si pensò: è finita. Ma dopo tre mesi Dylan tornò per la strada, in cerca di un pubblico fresco al quale cantare le sue vecchie canzoni.
Da quaranta anni si parla dell’uomo accontentandosi di pochi indizi: grazie al bel Jakob, ritratto del poeta da giovane e militante nel gruppo dei Wallflowers, sappiamo che ha un figlio (anzi sei, quattro dei quali con la prima moglie Sara); grazie alle biografie (“Down the highway: the life of Bob Dylan” di Howard Sounes, quella leggendaria di Anthony Scaduto che è stata da poco ripubblicata con alcuni aggiornamenti, scopriamo che fino al ‘92 ha anche avuto una seconda moglie, Carol, dalla quale è nata Desirée (oggi venticinquenne), che è un uomo profondamente solo, che la riservatezza è la sua ossessione.
«Se ne va da solo. Torna sul palco da solo. Da solo scrive canzoni. E’ un uomo che basta a se stesso. E’ orgoglioso nei suoi panni. Non ha bisogno di nulla e di nessuno» dice, nella biografia di Sounes, Carole Childs, una ex fidanzata che di lui forse non ha capito proprio tutto. Ma il libro di Sounes, al quale dobbiamo uno spiraglio di luce sul mistero Dylan, è, come previsto, non autorizzato. Meglio credere a quello che ha raccontato Dylan stesso nella sua autobiografia, spettacolare esempio di letteratura musicale, che ogni buon appassionato di musica dovrebbe leggere.
Sorprese ne fa ancora: i fan sono rimasti di stucco quando nel marzo del 2001 la sua faccia segnata, felina e rapace, è apparsa via satellite dall’Australia ai milioni di telespettatori sintonizzati sulla cerimonia della consegna degli Oscar a Los Angeles: aveva vinto la statuetta per la miglior canzone (“Things have changed” nel film “Wonder boys” con Michael Douglas) ed era pazzo di gioia, tanto da ringraziare persino la sua casa discografica. O quando qualche mese fa è andato in scena, senza chitarra, cantando come un vecchio crooner assieme ai Mumford & Sons e Avett Brothers. O quando ancora, pochi giorni fa, ha preso carta e penna (supponiamo) per scrivere la sua versione dei fatti sul tour in Cina.
Ma Dylan è nato per sorprendere, se stesso e gli altri, lo ha sempre fatto, quando scomparve all’apice del suo successo negli anni Sessanta, quando si convertì e diventò un predicatore cristiano, quando scoprì il punk e cambiò la sua musica, quando fece pubblicità e spot, quando scrisse ognuna delle sue canzoni, quelle vecchie, che ancora cantiamo e ascoltiamo, che non hanno subito le ingiurie degli anni. Quelle nuove, che molti sottovalutano e che invece ci raccontano una “resistenza” contro un mondo che Dylan non ama, a favore di una musica che, testardamente, con passione, con forza, non vuole morire, non vuole scomparire.
E non c’è solo il compleanno da festeggiare. Ma anche l’anniverario, non piccolo, cinquanta anni di carriera sul palco. Era il 21 aprile del 1961, infatti, quando Bob Dylan si esibì per la prima volta in un vero e proprio concerto a suo nome a New York. Nel gennaio aveva fatto una apparizione al Cafè Wha?, al Greenwich Village, e pochi mesi dopo, in aprile, tenne il suo primo concerto come supporto di John Lee Hooker, al Gerde’s Folk Club, il locale dove lo vide suonare il critico del “New York Times” Robert Shelton, che raccontò al mondo della nascita di una nuova stella. E, considerando che in questi cinquanta anni Dylan non ha mai cambiato idea, e ha sempre pensato che il concerto fosse il principale gesto artistico della sua vita, è facile pensare che passerà i prossimi anni continuando a suonare. Non sappiamo come festeggerà i suoi settant’anni, e forse non lo sapremo mai, a meno che, con un nuovo colpo di scena, Dylan non si faccia vivo entro stasera per farsi fare gli auguri. Da chi, come noi, lo continua ad amare incondizionatamente.
(Ernesto Assante e Gino Castaldo, “Buon compleanno, Mr. Dylan”, da “La Repubblica” del 24 maggio 2011, www.repubblica.it).