Benvenuti nella decrescita senza diritti: si chiama povertà
C’è una genia che prospera su tutto lo spettro politico, italiano e mondiale: i lungoperiodisti. L’atteggiamento di chi posa a pensatore del futuro, disdegnando le misure raffazzonate o gli interventi di breve periodo. I lungoperiodisti di destra aborriscono l’inflazione e vogliono una crescita finanziariamente sana; quelli di sinistra sono preoccupati per gli sconvolgimenti causati dalla crescita incontrollata passata. I secondi hanno ragioni migliori dei primi, ma entrambi paiono ignorare che siamo in un periodo di crisi economica che sta già creando recessione e miseria, come sanno bene gli ammalati gravi greci che non possono più curarsi. I primi però non lo ignorano affatto, anzi. Hanno deciso che la crisi economica è un’occasione d’oro per una terapia di immiserimento di ampi strati di popolazione come la cura migliore. Per questo sono acerrimi nemici di Keynes.
Keynes apprezzava quel passaggio di John Stuart Mill, economista e riformatore liberale nell’Inghilterra dell’800, secondo cui non è desiderabile un mondo che assoggettasse tutti gli spazi alla produzione, facendo scomparire quei luoghi appartati di natura incontaminata, che soli permettono solitudine e bellezza. Keynes vi pensava quando auspicava una crescita zero, ritenendo che la dotazione di mezzi di produzione fosse, già allora, sufficiente a garantire una vita decente per tutti. Ma si preoccupava che questa potenziale abbondanza non fosse funestata dalla miseria della disoccupazione. Doveva lottare contro i lungoperiodisti dell’epoca che si preoccupavano, anche loro, dell’inflazione futura e non della miseria presente. Mentre Keynes, contro i Monti d’allora, si ingegnava di far ripartire il motore d’avviamento di una macchina ferma, non di aggiustarne la carrozzeria. Si trattava e si tratta di un’emergenza da affrontare con mezzi di emergenza, poi il futuro. E in questo caso il primo tempo è l’opposto dell’austerità.
La nostra situazione ha alcuni importanti punti di contatto con quella di Keynes. La crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 è l’unica che, per globalità sistemica, può essere paragonata a quella del 1929. Ma allora se ne uscì, quantomeno negli Usa di Roosevelt e del Wagner Act, sostenendo la domanda con la spesa pubblica e con un aumento del potere contrattuale dei lavoratori. Stavolta, invece, dopo aver frenato con stimoli limitati – solo Usa e Cina – una caduta di reddito e occupazione più rapida di quella post-29, la strategia lungoperiodista di destra vorrebbe cancellare sia lo stato sociale che i diritti dei lavoratori. I lungoperiodisti di sinistra si preoccupano che la crescita prema sulle risorse naturali mondiali. Anche la destra condivide questa preoccupazione. Infatti, ha già deciso che debbano «crescere» oggi solo Sudamerica e Asia, poi l’Africa; e «decrescere» i paesi di più antica industrializzazione, o meglio, le condizioni di vita in quei paesi. Il risultato non potrà essere la “decrescita felice” dei lungoperiodisti di sinistra, ma l’immiserimento, perché il processo è strettamente in mano alla destra. Se si vuole strapparle il controllo, bisogna allearsi con grandi masse cui non si può offrire la miseria, bensì quantomeno il mantenimento – anche se rivisitato e depurato da sprechi – del benessere raggiunto.
Ha sicuramente senso pensare a un mondo futuro non più ossessionato dall’accumulazione. Ma ciò non autorizza il disprezzo verso epoche passate, la cui crescita ci permette di poter pensare a un futuro diverso. Mario Cuomo, governatore dello Stato di New York, diceva: «Io sono un figlio delle politiche rooseveltiane, solo grazie a quelle sono qui». Bisognerebbe ricordare, inoltre, che solo il trentennio d’oro – e le lotte sociali del periodo – insieme trasformarono un’Italia povera in un paese con un benessere diffuso. Grazie a questo anche chi non era figlio, o nipote, di magnanimi e prosperi lombi ha potuto accedere a possibilità prima precluse: vita quotidiana decente, istruzione, e poi magari pubblicistica, ecc. Combattere il capitalismo è un conto, ma disprezzare l’unico periodo – quello keynesiano – in cui fu costretto a dividere maggiormente i frutti con i lavoratori, è insensato. Il futuro è certo nero; ma ciò non autorizza a sputare su un passato grazie a cui possiamo ancora quantomeno sopravvivere. E questo vale non solo per Renzi.
(Gabriele Pastrello e Joseph Halevi, “La decrescita è in atto e si chiama povertà”, da “Il Manifesto” del 20 settembre 2012).
A TUTTI I POLITICI lungoperiodisti,filantropi ecc.
Riccordati che devi morire…Riccordati che devi morire….devi morire!!!!
bella…
Che la decrescita sia in atto è un dato inoppugnabile e solo i teorici della decrescita non riescono a comprendere.
La crisi è decrescita e siamo ancora immersi bellamente nella crisi iniziata nel 2007.
E rispolverare Keynes, come fanno gli autori dell’articolo, in questi tempi di assoluta austerità è un bene.
L’articolo ha il merito di comunicare un punto di vista differente dalla martellante ideologia dominante che domina i media.
E fin qui le lodi.
I demeriti son dovuti al fatto di confondere le fasi del capitalismo degli ultimi (quasi) 70 anni cioè dalla fine della seconda guerra mondiale.
I cosidetti “trent’anni gloriosi” (per la verità un pò meno vedi il sessantotto studentesco e l’autunno caldo operaio del 69) sono espressione di un capitalismo “fiorente” e non di politiche keynesiane di politici avveduti.
La crisi del 1929 non è stata superata grazie alle politiche keynesiane di Roosevelt, che son servite a poco, ma grazie alla guerra mondiale!
Il capitale ciclicamente va in crisi perchè non riesce ad autovalorizzarsi, cioè perchè si inceppa nel suo unico scopo di esistenza. E quindi per poter ripristinare le condizioni di accumulazione del capitale devono andar distrutti capitali e forze produttive.
Cosa c’è di meglio di una guerra mondiale?
Quindi i “trent’anni gloriosi” sono frutto di questo immane reset. Ecco spiegato il pil “glorioso” italiano e non solo.
Ed ecco spiegate le cosidette politiche keynesiane che durante le fasi “gloriose” vengono accettate dalla stessa borghesia.
Invece il 2007 in modo simile al 1929 è la fase di inceppamento, incagliamento e quindi di accanimento sul lavoro per
strappare una maggiore profittabilità.
Per sua natura il capitalismo porta con se un gene corrotto, tale gene è la legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto.
Per questo il capitalismo è transitorio, perchè periodicamente mette in contraddizione le forze produttive che sviluppa
con i propri rapporti di produzione. Spetta a noi il compito di buttar via questo modo di produzione che ha fatto il suo tempo e instaurare una società in cui la crescita della produttività non sia, come in quella attuale, una maledizione ma all’opposto una gran fortuna.
Chiudo con una frase di Marx:
“nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a
circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale”.
Spartaco afferma: “Che la decrescita sia in atto è un dato inoppugnabile e solo i teorici della decrescita non riescono a comprendere”. Come al solito, si confonde decrescita con recessione. Decrescita e recessione sono due concetti diversissimi – questo è il dato inoppugnabile – e davvero non riesco a comprendere perchè sia così difficile per qualcuno capire questo elementare concetto. FRA DECRESCITA (FELICE) E RECESSIONE c’è la stessa differenza che c’è fra chi digiuna per dimagrire e chi digiuna perchè non ha da mangiare! Il primo lo fa liberamente e per stare meglio, il secondo lo fa perchè è costretto e starà sempre peggio. Non a caso parliamo di decrescita felice, perchè selettiva, guidata, mirata, ragionata. Scegliere il meno quando è meglio. Mandare in soffitta il vecchio indicatore PIL, che è ormai un arnese malandato che comunue non vuol saperne di crescere, e introdurre cfriteri di valutazione qualitativi nell’attività economica. Nuovi indicatori di progresso, di benessere e di vera ricchezza che il PIL non misura e non ha mai misurato!
Il problema del capitalismo non è la crescita. Dove per crescita si intende una continua maggior produzione di beni che vanno a soddisfare un sempre più alto numero di bisogni umani.
Se fosse così non ci sarebbero crisi, non staremmo qui a discutere ed il capitalismo potrebbe prosperare in sempiterno.
Il problema invece è la decrescita costante dei profitti, o per dirla in termini economici è la legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto, che pone limiti al capitale.
Come ho scritto nel commento precedente il capitale ciclicamente va in crisi perchè non riesce ad autovalorizzarsi, cioè perchè si inceppa nel suo unico scopo di esistenza.
La crisi è il momento in cui la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione si manifesta e, al tempo stesso, il mezzo brutale attraverso cui si ripristinano le condizioni di accumulazione del capitale. Marx dice: “le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni
violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato”.
Allora profitto e accumulazione vengono ripristinati per mezzo della distruzione di capitale e di forze produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera.
Continui a giocare con le parole, confondendo decrescita con recessione. E come fai a dire che il problema del capitalismo non è la crescita, se ciclicamente, come tu stesso affermi, il suo unico scopo di esistenza si inceppa??? Non si potrebbe cercare di cambiare paradigma e andare verso un sistema economico più sostenibile e con indicatori più intelligenti del PIL? Questa è la proposta del Movimento per la Decrescita Felice.
Finalmente siamo d’accordo.
Anche io credo che dobbiamo “andare verso un sistema economico sostenibile”.
Bisogna sapere però che cercarlo all’interno del modo di produzione attuale è utopistico.