Eugenio Scalfari, il tramonto di un (grande) giornalista
L’Europa? «Procede a singhiozzo». Ed è «un guaio», perché i “mercati” «restano all’erta» e “la speculazione”, «quando può», colpisce. Ma «per fortuna c’è Draghi», che «vigila ed è pronto ad intervenire». La fiaba è firmata da un narratore famoso, Eugenio Scalfari: politico, imprenditore e celebratissimo giornalista. La sua tesi: la demonizzazione della “dittatura dello spread” è pura «demagogia», anche se «i contraccolpi sul sociale» sono «assai duri», al punto che «la rabbia cresce, le piazze protestano, i governi sono in difficoltà, il malumore nei confronti dell’Europa aumenta». Ma perché stupirsene? Forse che solo oggi si è scoperto che dalla “fiducia” dei “mercati” dipende il differenziale italo-tedesco fra i titoli di Stato? Mentre la Merkel è condizionata dalle elezioni nell’autunno 2013 in Germania, anche l’attesa di quelle italiane rappresenta un problema: chi verrà dopo Monti? «Il nostro attuale premier – scrive Scalfari su “Repubblica” il 25 novembre – ha recuperato una credibilità internazionale che era andata totalmente perduta». Ma poi? «Il nuovo Parlamento e il nuovo Capo dello Stato manterranno gli impegni presi con l’Europa?».
Scalfari evita di porsi vere domande: chi ha preso impegni con l’Europa, a nome di chi e con quale mandato? E quando, esattamente? E per fare cosa? E come valutare, precisamente, un trattato-capestro come il Fiscal Compact che impone il suicidio tecnico del pareggio di bilancio, con annesso massacro sociale? Tutta propaganda, scrive – sdegnato – l’anziano principe del giornalismo italiano, rifiutandosi categoricamente di approfondire. Meglio le fiabe, o le lezioncine pedagogiche destinate ai lettori della domenica: se le finanze pubbliche di uno Stato «non sono in ordine», ecco che «la fiducia nei suoi titoli diminuisce e lo “spread” aumenta». E’ semplice: gli “investitori” fuggono, le banche che hanno quei titoli in portafoglio vedono diminuire la loro solidità e i risparmiatori che hanno sottoscritto i titoli vedono a rischio una parte del loro patrimonio, e di conseguenza contraggono la loro domanda di beni e servizi. Morale: gli investitori non investono e la disoccupazione aumenta. «E’ curioso che queste elementari verità debbano essere costantemente ricordate», sostiene Scalfari, «ed è curioso che una parte crescente di persone e di forze politiche continuino a predicare che bisogna liberarsi dalla dittatura dello “spread” e dei mercati».
In un’economia globale, continua il fondatore di “Repubblica”, «questi fenomeni che testimoniano l’interdipendenza dell’economia dovrebbero essere compresi da tutti», ed è «una sciagura che la demagogia continui ad offuscare la mente di tanti». Ovviamente, concede il professor Scalfari, «non è soltanto con il rigore economico che si curano questi malanni». Certo, per i paesi “dissestati” il Rigor Montis «è una condizione necessaria», anche se «assolutamente insufficiente». Purtroppo, conclude il fatalista Eugenio, «è molto difficile appaiare la terapia del rigore con quella dello sviluppo». E la ragione, aggiunge, è addirittura «evidente». E cioè: «Il rigore nell’Europa di oggi ha un campo d’esecuzione nazionale», mentre «lo sviluppo, cioè la crescita, dipende in larga misura dall’Europa». Quindi: «Se l’Europa, cioè le Autorità che la governano, non imbocca coraggiosamente la via dello sviluppo, esso non avrà luogo».
Siamo nel 2012, da Tokyo a New York è universalmente noto che viviamo nell’era chiamata “crisi dell’Eurozona”, ma il fondatore di “Repubblica” non ne fa cenno. Il problema non è l’abdicazione dello Stato, la perdita della sovranità nazionale e quindi della democrazia reale. Il guaio non è la resa delle istituzioni pubbliche, che hanno ceduto il debito statale alla finanza internazionale che campa di interessi parassitari. Il problema non è l’amputazione del potere finanziario dello Stato, che – dal 2013 – non potrà più decidere autonomamente come spendere i suoi soldi, e che – in virtù di Maastricht – non dispone neppure più di denaro proprio, ma deve “prenderlo in prestito”, a caro prezzo, dai banchieri da cui dipende la Bce. Niente di tutto ciò: il problema dell’Italia sono le sue «parti sociali», e in particolare la «borghesia imprenditoriale», che da venti o trent’anni «ha cessato di espandersi», ha smesso di creare nuovi prodotti. Insomma: i soliti italiani scansafatiche. Così, «la base occupazionale si è ristretta», la manifattura «ha ceduto il campo alla finanza» e le grandi imprese «si sono sfilate in gran parte dal mercato nazionale», mentre le medie «hanno dismesso una parte delle loro attività», le piccole «non sono cresciute» e i “padroncini” «sono rimasti quelli che erano».
E il sindacato? Anch’esso, purtroppo, «è decaduto dai tempi eroici». Vent’anni fa, secondo Scalfari, rappresentava ancora non solo i lavoratori occupati ma anche i disoccupati e le nuove leve dei giovani che arrivavano sul mercato. «Oggi non è più così, complice la molteplicità dei contratti esistenti». Lavoro polverizzato e precarizzato: da chi? Dai governi tecnici, sostenuti con entusiasmo dallo stesso Scalfari negli anni ’90. E mentre i giovani agonizzano nella voragine aperta dalla legge Biagi, tra poco «i sindacati operai diventeranno di fatto sindacati dei pensionati». Non è una bella prospettiva, ammette Scalfari, che tuttavia se la prende con la Cgil: non perché non denunci con sufficiente forza il patto di potere che ha scaricato solo sul lavoro i costi della crisi del capitalismo globalizzato, ma perché – al contrario – osa puntare il dito contro la finanza. «Dispiace – scrive Scalfari – che la Cgil non si sia data carico del tema della produttività e ripeta sulle piazze le consuete giaculatorie contro i mercati e contro lo “spread”. Se la Camusso non comprende la questione, la studi; se l’ha compresa non faccia demagogia; se è condizionata dalla Fiom – chiosa Scalfari, testualmente – abbia il coraggio di liberarsene».
Questa, per Scalfari, è la ricetta giusta: silurare la Fiom, in piena consonanza col Marchionne-pensiero. A parlare così, il 25 novembre 2012, non è un goffo propagandista alle prime armi, un mestierante qualsiasi. Eugenio Scalfari, di formazione liberal-socialista, è un pezzo (glorioso) di storia dell’informazione italiana: negli anni ’60, come direttore de “L’Espresso”, portò il nuovissimo settimanale a superare il milione di copie vendute. Era il paladino di un’informazione civile, scomoda e coraggiosa, a cominciare da battaglie cruciali come quelle sui diritti, dal divorzio all’aborto. Nel 1968, insieme a Lino Jannuzzi, rischiò la galera per un articolo-denuncia sul Sifar, smascherando il “Piano Solo”, cioè il tentativo di golpe ordito dal generale De Lorenzo. Altra battaglia memorabile, quella sulla morte dell’anarchico milanese Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura milanese – l’ufficio di Calabresi – durante l’interrogatorio per l’accusa (totalmente infondata) di aver avuto un ruolo nella strage di piazza Fontana. Nuovo fronte: la campagna di stampa contro Eugenio Cefis, presidente dell’Eni e poi della Montedison; lo stesso Cefis, accusato da Pasolini come responsabile della misteriosa fine di Enrico Mattei, fu bersagliato da Scalfari nel bestseller “Razza padrona”, scritto nel 1974 con Giuseppe Turani.
Due anni dopo, Scalfari avrebbe fondato “La Repubblica”, col sostegno del gruppo “Espresso” e della Mondadori: imponente la scalata nelle edicole, che fece del giornale romano il quotidiano più letto nel paese, rivoluzionando il panorama ingessato della stampa italiana, tradizionalmente condizionata dai colossi industriali e finanziari alle spalle di testate come il “Corriere della Sera” e la “La Stampa”, della famiglia Agnelli. Alla guida di “Repubblica”, Scalfari si scagliò contro Craxi fiutando in anticipo il terremoto di Mani Pulite, e denunciando la “questione morale” cara ad Enrico Berlinguer. Era l’epoca in cui Giampaolo Pansa ridicolizzava i politici della Prima Repubblica, trasformando la partitocrazia in un dissacrante bestiario dove l’onnipotente Dc era la “Balena Bianca”, eternamente irraggiungibile per il lentissimo “Elefante Rosso”. Quello diretto da Scalfari era – anche – il giornale di Giorgio Bocca, considerato (insieme a Biagi e Montanelli) la massima firma del giornalismo italiano. Poi, l’avvento di Berlusconi e l’ostinata, ventennale crociata cartacea contro l’uomo di Arcore, fino all’esaltazione totale del nuovo potere di Napolitano e del “necessario” Rigor Montis. E oggi, proprio mentre l’Italia sta affrontando la più grave crisi sociale dal dopoguerra, lo stesso Scalfari – quello del “meno male che Draghi c’è” – non trova di meglio che suggerire alla Camusso di cacciare la Fiom dalla Cgil.
Del resto cosa ci si potrebbe aspettare da un’ “internazionalista”, convinto “europeista”, che si rifà ancora alla filosofia sconclusionata di Spinelli, quella della “favoletta” della bella Europa tutta unita?
Difficile stabilire se tali individui siano collusi, sprovveduti oppure resisi conto dell’abbaglio colossale preso dalla sbornia europeista (oggi ne proviamo appieno le sue qualità, quelle della “bella” Europa tutta unita! sic!), continuino a portare avanti la loro tragica visione del reale, continuando a sostenere l’irreale.
Valutando il processo storico, partendo dall’illuminismo ad oggi, non dovrebbe essere difficile stabilire che la forma di governo Statalista, benchè imperfetta anch’essa, sia comunque da preferirsi al liberismo monetario attuale, di cui Scalfari ne è stato ed è sostenitore. Un anglo-americanofilo, lecca piedi dei plutocrati, un fastidioso e assai dannoso “radical scic”, di cui il paese è pieno, tra l’altro.