Mafia, 7 anni a Dell’Utri: la Cupola e l’ascesa di Fininvest
Concorso esterno in associazione mafiosa: condannato anche in appello (7 anni di reclusione) il senatore Marcello Dell’Utri, “architetto” politico di Forza Italia. Secondo l’accusa, Dell’Utri avrebbe avuto rapporti con personaggi di spicco di Cosa Nostra come Stefano Bontate, Mimmo Teresi e Vittorio Mangano, poi finito come “stalliere” nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. Rapporti che sarebbero serviti a Dell’Utri per assicurarsi la “protezione” mafiosa per operazioni finanziarie e imprenditoriali da lui gestite per sé e nell’interesse delle società di Berlusconi. In cambio, i boss avrebbero trovato la strada spianata verso i salotti buoni della finanza milanese e nazionale.
La sentenza, ridotta di due anni rispetto a quella di primo grado, condanna Dell’Utri per il periodo antecedente il ’92, quindi “prima” del discusso “patto segreto” tra mafia e Stato, di cui ha parlato il pentito Gaspare Spatuzza, secondo cui Cosa Nostra, braccata dalle indagini di Falcone e Borsellino, avrebbe preteso protezione da “nuovi referenti politici” in vista del crollo della Prima Repubblica sotto i colpi di Tangentopoli. Se il Pdl si stringe attorno al senatore siciliano, a cui esprime incondizionata solidarietà in attesa degli esiti del ricorso – scontato – contro la sentenza, i giovani del Pdl si sfilano dal coro e parlano apertamente di «condanna gravissima».
Dell’Utri, scrive Peter Gomez su “Il Fatto Quotidiano”, «faceva da tramite tra i boss di Cosa Nostra e Berlusconi negli anni in cui nasceva il suo impero immobiliare e venivano inaugurate le sue tv. E il premier quando era stato chiamato a testimoniare sull’accaduto si era avvalso della facoltà di non rispondere. Può un uomo del genere – continua Gomez, riferendosi al Cavaliere – continuare a fare il presidente del Consiglio nel Paese di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?». Opposto il punto di vista dell’imputato: «Una sentenza pilatesca», ha commentato Dell’Utri, «che ha dato un contentino alla procura» nonché «grande soddisfazione all’imputato, perchè ha escluso i fatti dal 1992 che erano un’accusa assurda e demenziale».
Dell’Utri si dice «soddisfatto», ma allo stesso tempo «stupito», perchè «il collegio non è riuscito a chiudere fino in fondo una vicenda che ha cambiato la mia vita». La corte lo ha assolto «perchè il fatto non sussiste» per tutti gli episodi a partire dal ’92, definiti «una macchinazione, spazzata via». Al senatore del Pdl, però, resta l’amaro in bocca. «Quello che rimane – dice – è il nulla assoluto, se non sette anni di condanna, ma non so che reati avrei commesso prima del 1992. Sapevo – sottolinea, in una conferenza stampa tenutasi a Milano – che non ci sarebbe stata l’assoluzione, ma nel caso non avevo in mente di festeggiare, perchè la pena io l’ho già scontata in questi 15 anni di processo».
«Resta la condanna per concorso esterno – conclude Dell’Utri – e mi devono ancora spiegare in cosa consista: sette anni per fatti che riguardano una vita di lavoro a Milano con la Fininvest, con Mediaset, con Berlusconi? Francamente, non si capisce». Fiducioso per l’annunciato ricorso in Cassazione, Dell’Utri non dimentica l’amico e stalliere Vittorio Mangano: «E’ stato il mio eroe», torna a ripetere ai giornalisti, spiegando: «Era una persona in carcere, ammalata, invitata più volte a parlare di Berlusconi e di me e si è sempre rifiutato di farlo. Se si fosse inventato qualsiasi cosa gli avrebbero creduto. Ma ha preferito stare in carcere, morire, piuttosto che accusare ingiustamente. È stato il mio eroe. Io non so se avrei resistito a quello a cui ha resistito lui».