Archivio del Tag ‘accumulazione’
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Lotta alla CO2? Acqua senza plastica, anziché tasse “green”
Uno dei segreti di un paese sano economicamente ed ecologicamente (eco deriva da “òikos” che in greco significa “casa”, concetto che richiama anche alla famiglia…) è riconvertire aziende praticamente parassitarie in realtà che producano beni e servizi davvero rispondenti ai bisogni delle persone comuni. Ma in Italia, come al solito, si apprende che stanno per piovere sulle nostre tasche nuove imposizioni fiscali spacciate per “green” che, ovviamente, non risolvono un bel niente e danneggiano le famiglie. Secondo voi un costo leggermente più alto sul diesel, soprattutto in assenza di servizi pubblici, ridurrà l’utilizzo delle auto o rappresenterà un ennesimo balzello per i comuni mortali? E collegandomi a ciò, la presunta democrazia diretta ci ha fornito il top delle menti in economia o per l’ennesima volta personaggi pilotati da chissà chi e in cerca d’autore? Qualcosa di simile alla questione diesel riguarda la molecola inorganica da noi più amata e indispensabile: l’acqua! Ciò che adesso può sembrare utopico, fino a 20 anni fa è stata la regola: bere acqua del rubinetto. L’acqua in bottiglia all’epoca non predominava negli spot televisivi fino alla manipolazione di massa e veniva riservata a ruoli marginali come festini e gite, insieme a bibite zuccherate e patatine.Immaginate, considerando la totalità dei cittadini italiani, quanto si svilupperebbe l’economia nazionale se si evitasse di far finire questo denaro nelle solite multinazionali che in parte non reinvestono (lo accumulano: tesaurizzazione). Non serve un genio dell’economia per capire che i posti di lavoro persi in questa filiera verrebbero più che compensati da assunzioni di altro tipo visto che circolerebbero più soldi, in primis localmente, e che quindi si incrementerebbe il benessere. Senza che ce ne rendessimo conto, quindi, chi sta dietro al business dell’acqua in bottiglia ne ha “costruito la domanda” a nostre spese, sia economiche che come rischio salute (vedi “Aduedi, bottiglie in plastica). Se non fosse stato così, pensate che a qualcuno sarebbe saltato in mente di comperare a peso d’oro l’H2O (!?), qualcosa di immediatamente disponibile in casa? Non stiamo quindi parlando di una tematica limitata agli ambientalisti.Pensate che sia un caso che in certe realtà locali, quando non in intere regioni, gli acquedotti non siano sicuri e perdano ingenti quantità di risorsa? Unite a questo la promozione sulle etichette di immagini accattivanti di cervi, paesaggi freschi e laghetti, in un contesto di continuo bombardamento televisivo, radiofonico e internettiano, e il gioco è fatto. Essendo dal 2012 che mi interesso a codesto tema, credo siano maturi i tempi per sollevare la questione e per essere “gretiano”, ma in modo intelligente; oltre a fare azioni con campagne che interessano il fenomeno a valle (spesso strumentalizzate vergognosamente dai partiti politici), dovremmo permettere ai cittadini di tornare al rubinetto con acquedotti sicuri su tutto il territorio nazionale, ristrutturandoli e/o rifacendoli di sana pianta e assumendo ricercatori, microbiologi e tecnici in questo comparto.Tutte queste azioni concrete ridurrebbero drasticamente le emissioni (in Italia comunque storicamente minori, pro capite, come si può vedere dal primo grafico), il consumo di fonti fossili per produrre plastica, le bottiglie in mare e perfino nei parchi marini con effetti devastanti sulla fauna e sulla catena alimentare (microplastiche) e le idee balzane di altri prelievi fiscali sulle persone comuni che sono le meno responsabili secondo tutti i dati come da secondo grafico. Si pensi che, se riempiamo una brocca da mezzo litro con acqua del rubinetto, essa ha un costo per noi di circa duemila volte minore rispetto a quella del negozio; e il sapore, dai test effettuati, risulta generalmente migliore. Ciò che è ignorato dai più, inoltre, è che l’acqua – prima di giungere sulle nostre tavole dal negozio – viene depositata spesso e volentieri in luoghi dove si scalda, e il suo contenitore di plastica in questo modo rilascia antimonio, benzofenone, acetaldeide e formaldeide quantità tutte da valutare (vedi “Bevi meno plastica, approfondimenti”).Benissimo (!) direte, non ne ho mai sentito parlare; cosa saranno mai queste sostanze!? Sono sostanze cancerogene, che cioè provocano il cancro, e mutagene, che cioè modificano il nostro Dna mettendoci nelle condizioni di partorire un figlio non sano (o renderci sterili). E la brutta notizia è che i controlli per valutare i livelli presenti in ciò che beviamo sono rarissimi e incerti: si pensi che un’acqua a 30 gradi vede quasi decuplicato il proprio contenuto di queste sostanze; effetti paragonabili avvengono anche quando l’acqua sta nei contenitori per 3 mesi o più. Non so che effetto vi farà questo articolo; ma sono certo che, se condiviso e conosciuto, finirebbe sul tavolo dei governi. La buona notizia è che possiamo farci sentire.(Marco Giannini, “Lotta alla CO2? Non tasse ma acquedotti sicuri in tutta Italia!”, Libreidee, 17 ottobre 2019).Uno dei segreti di un paese sano economicamente ed ecologicamente (eco deriva da “òikos” che in greco significa “casa”, concetto che richiama anche alla famiglia…) è riconvertire aziende praticamente parassitarie in realtà che producano beni e servizi davvero rispondenti ai bisogni delle persone comuni. Ma in Italia, come al solito, si apprende che stanno per piovere sulle nostre tasche nuove imposizioni fiscali spacciate per “green” che, ovviamente, non risolvono un bel niente e danneggiano le famiglie. Secondo voi un costo leggermente più alto sul diesel, soprattutto in assenza di servizi pubblici, ridurrà l’utilizzo delle auto o rappresenterà un ennesimo balzello per i comuni mortali? E collegandomi a ciò, la presunta democrazia diretta ci ha fornito il top delle menti in economia o per l’ennesima volta personaggi pilotati da chissà chi e in cerca d’autore? Qualcosa di simile alla questione diesel riguarda la molecola inorganica da noi più amata e indispensabile: l’acqua! Ciò che adesso può sembrare utopico, fino a 20 anni fa è stata la regola: bere acqua del rubinetto. L’acqua in bottiglia all’epoca non predominava negli spot televisivi fino alla manipolazione di massa e veniva riservata a ruoli marginali come festini e gite, insieme a bibite zuccherate e patatine.
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Cremaschi: sono 10 milioni (non 5) i nuovi poveri in Italia
Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.Ma i vertici europei – in guerra tra loro sull’emergenza-migranti, innescata da feroci ingiustizie contro l’Africa e il Medio Oriente – non fanno nulla per le decine di milioni che nella Ue già ci stanno. «I poveri si contano e poi vengono cancellati dall’agenda politica», sottolinea Cremaschi: sono lavoratori, pensionati, precari e disoccupati, donne e giovani. «Sono la parte più sfruttata e oppressa del mondo del lavoro, sono le prime vittime della lotta di classe dall’alto dei ricchi, che più i poveri aumentano, più vedono accrescere i propri patrimoni». I 14 italiani più ricchi – Ferrero, Del Vecchio, Berlusconi, Armani e gli altri – possiedono beni per un ammontare di 107 miliardi di dollari, come ciò che riescono a mettere assieme milioni di poveri. «Il 5% più ricco del paese detiene il 40% della ricchezza nazionale, cioè 4.000 miliardi». I poveri aumentano, aggiunge Cremaschi, «perché i ricchi sono sempre più ricchi, perché la ricchezza si concentra sempre di più in alto e viene espropriata e rapinata in basso». E così, «la diseguaglianza sociale che dilaga senza freni nel nome del libero mercato è la causa dell’enorme incremento della povertà in Italia e in tutta Europa».Il quadro macroeconomico dell’Eurozona è tristemente noto: «Le misure di austerità e di rigore di bilancio, le privatizzazioni, la flessibilità e la precarietà del lavoro, le politiche fiscali di agevolazioni alle imprese e di riduzione delle tasse ai ricchi, i Jobs Act e le Flat Tax che dilagano in tutta Europa, impoveriscono sempre più persone ed arricchiscono sempre di più una piccola minoranza». Se non si combatte la concentrazione della ricchezza non si può ridurre la povertà, conclude Cremaschi, «ma tutti i governi europei, tecnocratici o populisti che siano, di fronte alla sola ipotesi di contrastare la diseguaglianza redistribuendo ricchezza si fermano atterriti». Cremaschi, sostenitore di “Potere al Popolo”, accusa «anche chi ha preso i voti nel nome della lotta contro le élites», in primis lo stesso Salvini. Alla fine, sostiene Cremaschi, il neo-sovranismo «fa proprio l’imbroglio liberista secondo il quale, per redistribuire ricchezza, prima bisogna produrla». E’ la teoria neoliberista dello “sgocciolamento”, in base alla quale «per dare soldi ai poveri, prima bisogna darne ai ricchi». Per questo, insiste l’ex sindacalista Fiom, «vertici europei per la lotta alla povertà non se ne sono mai fatti». In altre parole: «Contro i ricchi nulla si può, nulla si deve fare: e questo è il primo articolo della “Costituzione reale” della Ue».Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.
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La Terra ora ci presenta il conto di un mondo senza giustizia
Guardate che non basta, raddrizzare uno sviluppo – finora ingiusto – sostituendolo con il miraggio di una crescita economica globale finalmente equa. La voce “decrescita” (del Pil) risulta sempre sgradevole, dissonante, preoccupante: ma è purtroppo coerente con tutte le previsioni sistemiche dei climatologi, che danno alla Terra altri vent’anni, al massimo, prima del collasso ecologico che già sta avanzando in modo inquietante, con le temperature balneari registrare alle Svalbard e lo scioglimento inesorabile della calotta artica. Nel lontanissimo ‘700, il padre della fisica Isaac Newton predisse – in base a complessi calcoli – che le risorse terrestri si sarebbero esaurite entro il 2060: un pronostico, sottolinea il saggista Gianfranco Carpeoro – sinistramente coincidente con quello del governo Usa, secondo cui fra quarant’anni, di questo passo, arriveremo alla morte biologica degli oceani. Ragionamenti che possono apparire letterari e strampalati, semplici suggestioni millenaristiche calate in un mondo distratto dai mondiali di calcio o appassionato al derby Italia-Francia su Salvini, gli sbarchi selvaggi e l’opaco traffico malavitoso gestito dalle Ong. Vero, l’Europa ladrona nega all’Italia un’espansione vitale del deficit, mentre c’è chi muore in mare per un tozzo di pane. E se si tracolla tutti, sotto la furia di un pianeta stremato dai nostri abusi suicidi?
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Streeck: sovranismo progressista, contro l’élite globalista
Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».Tutti ci accorgiamo, sottolinea Streeck, che oggi nessuna formula politico-economica, di destra o di sinistra, fornisce un coerente sistema di regolazione al capitalismo. Ma questo succede non tanto per l’assenza di idee progettuali o di leader carismatici, come spesso sentiamo lamentare, bensì «perché nessun intervento riformatore dell’economia può essere efficace se le istituzioni non-economiche sono quasi estinte: non si può curare una malattia in mancanza degli anticorpi». Per Streeck, il capitalismo è ormai ingovernabile per l’attenuarsi dei vincoli che furono in grado di contrastarlo e contenerlo. «Nei momenti cruciali della sua storia, sono state le forze di opposizione a stabilizzare il capitalismo in quanto società: movimenti di classe, etnici o di genere hanno animato i contropoteri della società; movimenti regionali, nazionali o religiosi hanno preservato la coesione sociale; gli Stati socialdemocratici del benessere e i sindacati di massa hanno assicurato una domanda sufficiente nella sfera economica, così come la legittimazione della riproduzione sociale. Il capitalismo vive finché non diventa “puro”, ossia finché non espelle dalla società le forze non-economiche in grado, trattenendone la spinta espansiva, di proteggerlo da sé stesso».Questa tesi non appartiene soltanto a Streeck, rileva Bellanca. In ambito marxista, Rosa Luxemburg sostiene che senza una ulteriore frontiera da valicare, l’accumulazione capitalista s’inceppa. Karl Polanyi aggiunge che nel capitalismo circolano delle “merci fittizie” – il tempo, la natura, il denaro e il lavoro umano – le quali vengono distrutte, o rese inutilizzabili, se affidate alle compravendite mercantili: poiché il capitalismo abbisogna di queste “merci”, deve accettare che siano regolate in maniera non-mercantile, e deve quindi ammettere un proprio limite. Secondo Streeck, la versione neoliberista del capitalismo ha avuto “troppo successo”, colonizzando l’intero mondo della vita e quasi azzerando le controspinte socio-politiche. Smentito il pregiudizio marxista, secondo cui il capitalismo si chiuderà soltanto quando sarà pronta una società migliore, promossa da un soggetto rivoluzionario. «Data la frammentazione dei movimenti antagonisti, manca un gruppo sociale che possa orientare progettualmente la società. Lo scenario futuro più probabile sarà quello in cui il collasso capitalista non sarà seguito dal socialismo, bensì da un periodo di entropia».Per Bellanca, la prognosi di Streeck non è sempre persuasiva, dato che «discute il futuro del capitalismo senza alcun riferimento al luogo in cui il futuro del capitalismo sarà sicuramente deciso: l’Asia». Se non altro, «il suo atteggiamento non scivola nel fatalismo e nell’impotenza politica». Piuttosto, lo studioso tedesco puntualizza: non tutte le maniere con cui attraversare il prossimo “interregno” saranno equivalenti. A suo parere, almeno uno dei fattori non-capitalisti potrà ancora costituire un valido baluardo di resistenza, per i lavoratori e per i cittadini: lo Stato-nazione. «Nel mondo reale, non c’è democrazia al di sopra dello Stato-nazione, ma solo grande tecnocrazia, grandi capitali e grande violenza. I regimi politici capaci di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, dei gruppi discriminati e delle popolazioni locali nel mondo si sono formati – quando ciò è avvenuto – soltanto all’interno del perimetro della sovranità statuale». Pertanto, aggiunge Streeck, il rilancio dello Stato politico come Stato sociale democratico potrà costituire uno strumento per temperare e, in parte, regolare la furia del capitale. E mentre il sovranismo di destra si scaglia contro i migranti in nome dell’etnia e rivendica la chiusura delle frontiere, Streeck indica alla sinistra un percorso strategico nel quale la leva del sovranismo progressista contrasti la tirannia “illuminata” di Bruxelles e affronti il tema di come uscire dal totalitarismo globalista.«I neoliberisti – scrive – hanno convinto tanti a sinistra che oggi il solidarismo internazionalista comporta che i lavoratori dei vecchi paesi industrializzati lascino competere sui loro posti i lavoratori delle aree più povere del pianeta. Invece il solidarismo ha significato e significa che i lavoratori si organizzano assieme per impedire al capitale di contrapporre gli uni agli altri in mercati “liberi”, ossia non regolamentati». Su questo terreno, che Bellanca definisce «del sovranismo democratico-costituzionale», la previsione di Streeck s’incontra con quella dell’economista di origine serba Branko Milanovic, secondo cui «i conflitti tra le classi all’interno dei paesi accresceranno, in termini relativi, la loro importanza nel prossimo futuro». Lo stesso Streeck aggiunge che le battaglie dentro e mediante gli Stati-nazione saranno, nel tempo che ci aspetta, l’orizzonte politico meno inefficace e più vicino ai bisogni dei lavoratori e dei cittadini. «Questa coppia di previsioni – conclude Bellanca – presenta implicazioni politiche molto precise per la sinistra da ricostruire».Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».
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Ciccarelli: reddito di base, il web fa miliardi col nostro lavoro
Dovrebbero pagarci per il solo fatto di esistere: ogni giorno, infatti, produciamo un’immensa mole di “lavoro”, non riconosciuto né contrattualizzato. Il reddito di base, universale e senza condizioni, oggi andrebbe sganciato dal lavoro, essendo «una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale». Dunque «non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà», ma una nuova frontiera della convivenza: è la tesi che Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, esprime nel saggio “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (DeriveApprodi). Sharing economy, gig economy, free lance, robot: l’ufficio e la fabbrica non sono più le uniche sorgenti del “plusvalore”. Un valore invisibile, come quello al quale attinge Facebook: più tempo passiamo a mettere “like” o a esprimere opinioni, più il social network ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”, il nostro lavoro è usato per costruire “frame” interpretativi «sempre più decisivi nella produzione del consenso, attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica». Così si crea profitto: «Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale».Lo stesso avviene per i motori di ricerca, Google in primis. Ciccarelli lo descrive dettagliatamente nel suo libro. «I nuovi monopoli digitali che, sfruttando la retorica idiota dell’utopia web, accumulano ricchezze su ricchezze creando nuove disuguaglianze, sfruttando ogni più piccolo aspetto delle nostre vite, producendo in modo opaco nuove strutture di potere verticistiche, più che di discussione e partecipazione paritaria». E’ evidente: «Questo gigantesco apparato in cui siamo immersi non esisterebbe senza di noi. Senza la nostra forza lavoro, la nostra intelligenza, i nostri “amici” e le relazioni che costruiamo con loro». Ciccarelli ridefinisce questa realtà materiale del funzionamento dell’economia digitale ricorrendo alla definizione di “forza lavoro” data da Karl Marx: categoria con facoltà di produrre valori d’uso. «Chi oggi ha capito meglio questa definizione sono i nuovi capitalisti della Silicon Valley che, attraverso le piattaforme del Web 2.0, hanno inventato un sistema che permette di sfruttare, senza intermediari, la potenza di questa forza lavoro senza tuttavia riconoscere un centesimo – o poco più – a chi lavora per loro, pur non avendone consapevolezza».Nel saggio di Ciccarelli, i robot non sono considerati un nemico: basta rovesciare l’algoritmo che oggi impiega la macchina a discapito dell’uomo. Il reddito di base? «In sé non basta, perché altrimenti rischierebbe di essere una “mancia” data dai capitalisti ai loro schiavi». Occorre invece «una politica coraggiosa, che associ a una misura universalistica di reddito nuova disciplina fiscale, contro le diseguaglianze, una riforma del welfare». Il reddito di base, aggiunge Ciccarelli, è anche un modo per contrastare precarietà, “working poors” e dumping salariale. Una via per riaffermare la dignità dell’individuo. «Il reddito permetterebbe di respingere ogni forma di subordinazione e afferma l’autonomia dell’essere umano. Abbiamo bisogno anche di salario, diritti sociali, tutele universalistiche e un’etica dell’autodifesa digitale». Alla rivendicazione di questi aspetti – scrive – va associata una prospettiva più ampia: non basta un rapporto di lavoro ben regolato per interrompere lo sfruttamento continuo di ogni aspetto della nostra vita, «vanno trovati strumenti per dare la libertà a ciascuno di rifiutare i ricatti». E quello strumento è il reddito incondizionato. «Non è una proposta né utopistica né da scansafatiche, ma l’unico modo per arginare disuguaglianze, lavoro povero e precarietà: una proposta al passo con la trasformazione delle nostre società».La battaglia sul reddito di cittadinanza – patrimonio culturale e politico della sinistra – è passata ad essere pilastro del Movimento 5 Stelle, che l’ha inserito tra i propri punti programmatici. Di recente, sul suo blog, Beppe Grillo ha parlato di “reddito di nascita”, sganciato dalla produttività capitalistica, anche in realtà si configura come una forma di pura assistenza per i disoccupati, condizionata alla ricerca di un impiego. Il movimento Diem25, fondato dall’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, fa un’altra proposta: attingere ai profitti delle grandi corporations invece che alla tassazione generale. La tesi: le grandi innovazioni tecnologiche si appoggiano quasi sempre su investimenti pubblici in ricerca di base, mentre le compagnie più innovative sfruttano una produzione collettiva di ricchezza, come quella dei Big Data. Ma gli immensi profitti che ne derivano vengono ripartiti esclusivamente fra un numero limitato di azionisti. Il “dividendo di base universale” di Diem25, invece, propone di allargare i benefici a tutta la collettività. Come? Riservando una piccola percentuale delle azioni di tutte le compagnie quotate in Borsa ad un fondo comune di proprietà pubblica, che li riverserebbe poi alla cittadinanza in forma di reddito di base.(Il libro: Roberto Ciccarelli, “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale”, DeriveApprodi, 219 pagine, 18 euro).Dovrebbero pagarci per il solo fatto di esistere: ogni giorno, infatti, produciamo un’immensa mole di “lavoro”, non riconosciuto né contrattualizzato. Il reddito di base, universale e senza condizioni, oggi andrebbe sganciato dal lavoro, essendo «una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale». Dunque «non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà», ma una nuova frontiera della convivenza: è la tesi che Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, esprime nel saggio “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (DeriveApprodi). Sharing economy, gig economy, free lance, robot: l’ufficio e la fabbrica non sono più le uniche sorgenti del “plusvalore”. Un valore invisibile, come quello al quale attinge Facebook: più tempo passiamo a mettere “like” o a esprimere opinioni, più il social network ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”, il nostro lavoro è usato per costruire “frame” interpretativi «sempre più decisivi nella produzione del consenso, attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica». Così si crea profitto: «Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale».
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Grimaldi: droga, terrore e migranti, ecco il piano del potere
Tre sono le grandi operazioni con cui la cupola finanzcapitalista persegue nel terzo millennio il dominio totalitario politico, militare, economico e culturale sull’umanità. Lo Stato unico della sorveglianza e del controllo senza spiragli o crepe. Hanno tutte origine nel cosiddetto riflusso degli anni ’80 del Novecento, risposta all’onda insurrezionale del decennio precedente e prodromo dell’offensiva scatenata vent’anni dopo, a partire dalla “normalizzazione-passivizzazione” delle coscienze e dei saperi con gli strumenti hi-tech degli apprendisti stregoni di Silicon Valley. La diffusione della droga per la guerra alla droga; la diffusione del terrorismo per la guerra al terrorismo; la migrazione di massa finalizzata a un unico superstato che persegue la distruzione di ogni statualità attraverso la creazione di masse, estratte dal proprio contesto storico, omologate dall’abbandono, dalla disperazione, dalla perdita di anima e nome collettivi e da un destino di subalternità irrimediabile. Strategia di distruzione dei diritti umani (intesi come libertà, riservatezza, lavoro, autonomia, rapporti sociali), se va bene sostituiti da diritti detti civili (per lo più intesi come superamento di quelli biologici) e dal diritto di muovere guerra e distruzione a chi si pretende di accusare di violazione dei diritti umani.
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Giannini: lo spettro del Britannia e il reddito di cittadinanza
Una importante novità nell’anno 2018 compare di fronte agli elettori: l’analisi dei principali aspetti riguardanti i programmi dei partiti, soprattutto sul piano dei costi. Tra le ricette che sono state presentate, quella del Movimento 5 Stelle ha destato subito interesse quando ci si è resi conto che conteneva passi copiati da Wikipedia o addirittura dal programma Pd. Per quanto la vicenda possa apparire come un indice di scarsa competenza e conoscenza e quindi suscitare inquietudine, l’attenzione andrebbe focalizzata piuttosto sui concetti di fondo della proposta pentastellata. Secondo gli economisti di stampo keynesiano, per uscire dalle situazioni di crisi economica si deve “fare deficit” per attuare politiche di espansione (di crescita) dando lavoro, investendo in infrastrutture, detassando, conferendo nuovi diritti sociali, ecc. In questo modo la disoccupazione si dovrebbe ridurre, i contribuenti dovrebbero aumentare e con essi le entrate andrebbero a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock del debito pregresso. Di Maio, apparentemente in linea con questo approccio, ha insistito sullo sforamento del parametro di bilancio del 3%, un parametro di scarsissima scientificità ma concordato con gli altri soggetti europei: «Prenderemo un po’ di debito e lo investiremo per lo sviluppo», è stato lo slogan in diverse conferenze elettorali.
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Bezos l’uomo più ricco della storia, 105 miliardi in 25 anni
Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.Cresciuto a Seattle come Bill Gates e lo stesso Steve Jobs della Apple, nel 1994 Jeff Bezos era già un trentenne brillante, ricorda il “Corriere della Sera”. «Laurea in ingegneria a Princeton, un passaggio a Wall Street, una prima esperienza nel commercio internazionale con la Fitel, l’approdo all’hedge fund di New York, De Shaw & Co. Qui, nel 1992, aveva conosciuto MacKenzie Tuttle, che sposò l’anno dopo: la compagna della vita con cui ha avuto quattro figli. Jeff veniva da un’infanzia non semplice: sua madre, Jacklyn Gise, lo ebbe nel 1964 quando era ancora adolescente da Ted Jorgensen, da cui divorziò l’anno dopo. Nel 1968 Jacklyn si trasferì a Houston con Miguel Bezos, un immigrato cubano che prestò diventò ingegnere della Exxon». In quel 1994, dunque, Jeff aveva soldi, posizione sociale, un impiego d’élite: quanto bastava per soddisfare anche le ambizioni più esigenti. «Niente rispetto a quello che sarebbe accaduto in quell’anno: Jeff inventa un nuovo formato commerciale, una libreria online che chiama Cadabra e poi Amazon, come il Rio delle Amazzoni. «Nel 1999 è già sulla copertina di “Time”, come persona dell’anno. Il decollo è stato verticale, un po’ come quello del razzo New Glenn, l’ultimo progetto di Blue Origin, una delle società dell’imprenditore».Se si vuole provare a definire la “dottrina Bezos”, scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere”, si deve partire da questa voracità insaziabile, questa spinta a debordare. «Jeff è un onnivoro che ama raccontarsi come un uomo di grandi curiosità e passioni». A cinque anni, dice, rimase «folgorato» dallo sbarco sulla Luna. Per questo nel 2009 fondò Blue Origin, che ora pianifica i primi voli di turismo spaziale per il 2019. «Ma anche sulla Terra l’orizzonte è ampio. Nel 2013 il businessman rivolge lo sguardo all’editoria, uno dei settori più maturi del mercato. Compra, per 250 milioni di dollari, il “Washington Post”, uno de quotidiani più importanti, a quel tempo piuttosto sofferente». Un giornale con 800 reporter, in utile per il secondo anno consecutivo: guadagna con gli abbonamenti, raddoppiati dal gennaio scorso. «Il dato più sorprendente è che l’azienda ha aumentato i ricavi anche con la pubblicità digitale, nonostante la concorrenza micidiale di Facebook e di Google». C’è un po’ di “effetto Trump” in tutto questo. Sotto la testata si legge: «Democray dies in darkness».Il core business, però, ruota sempre intorno ad Amazon, cui ha affiancato, nell’agosto del 2017, Whole Foods, la grande catena di supermercati di qualità negli Stati Uniti: un’acquisizione record da 13,7 miliardi di dollari. «Il progetto prevede: riduzione dei prezzi, distribuzione a domicilio ancora più capillare». Ma non mancano le contraddizioni, aggiunge il “Corriere” L’editore del “Post” litiga spesso con i sindacati e con i “maratoneti”, cioè i dipendenti dei magazzini Amazon, che percorrono chilometri al giorno tra le linee di distribuzione. La Commissione Europea lo accusa di non pagare il dovuto al fisco. «Intanto però tutti continuano a cercarlo. Bezos ha aperto un’asta per la nuova sede di Amazon negli Stati Uniti. Le più importanti città americane, a cominciare da New York, si sono messe in coda».Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.
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Giannuli: spiegate alla sinistra che le tasse vanno tagliate
Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi. Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate. In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale. Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi i consumi; questo produce nuovi fallimenti, e così via.Peraltro la flessione occupazionale, in termini lineari, produce anche una contrazione del gettito fiscale, con il risultato di spingere ad una nuova stretta per mantenere costante il gettito. E di questo passo si fa bancarotta. Naturalmente ci sono una serie di soglie per cui il risultato finale può prodursi più o meno lentamente. Ed esistono anche controtendenze che limitano gli effetti negativi di un’eccessiva pressione fiscale: ad esempio, evasione fiscale e lavoro nero, per quanto condannabili sul piano morale e indesiderabili su quello politico, però hanno l’effetto di sottrarre una parte della ricchezza all’appropriazione statale, mantenendo quindi, almeno in parte, il potere d’acquisto dei cittadini. Con il risultato che più è elevata la pressione fiscale, più aumenta la propensione a pratiche illegali o condannabili come evasione e lavoro nero, il che poi sposta il carico del gettito inevaso sulle spalle dei contribuenti onesti o che non possono sottrarsi agli obblighi fiscali, il che moltiplica tanto le ingiustizie sociali quanto gli effetti antieconomici dell’eccessivo carico fiscale.Dunque occorre capire quale possa essere una soglia accettabile di pressione, e qui dobbiamo constatare che da 6 anni in qua, la pressione (grazie ai governi del Pd o magari sostenuti dall’esterno dal Pd, come il governo Monti) è salita a circa il 55% del Pil, tenendo conto, oltre che della tassazione diretta, di quella indiretta, dei ticket, delle tariffe dei servizi pubblici, eccetera. Un prelievo di quelle dimensioni sarebbe eccessivo anche per un breve periodo, ma qui ormai siamo entrati nell’ordine di idee che questo è un livello “normale” destinato a durare a tempo indeterminato. Il secondo ordine di problemi è chi sia il soggetto tassato, in che misura e con quali meccanismi. Una delle grandi falsità del neoliberismo è quella per la quale, siccome i ricchi sono quelli che hanno più potenziale di spesa, più detassiamo i ricchi (secondo le politiche di tassazione regressiva sul reddito inaugurate dalla Reaganomics negli Usa degli anni Ottanta), più aumentano i consumi e, quindi, si spinge verso una dinamica virtuosa.Chiunque sappia qualcosa di economia e non sia un venduto sa che la propensione all’accumulazione è direttamente proporzionale al reddito: il “ricco” (usiamo questo termine vago) spende una parte minima del proprio reddito in consumi, poi spende una quota più alta di esso in investimenti nell’economia reale, ma la parte più consistente la accumula come riserva di valore in impieghi finanziari che, in quanto tali, sono improduttivi se non nella parte (più o meno minoritaria) destinata all’economia reale. Più denaro resta immobilizzato nella riserva finanziaria, meno risorse ci sono a disposizione. In terzo luogo è decisivo come si spende il gettito fiscale. La sinistra immagina (o fa finta di crederci) che la voce più consistente sia quella della spesa sociale (pensioni, sanità, istruzione, ammortizzatori sociali) il che non è vero, se non in parte. Sicuramente le voci che abbiamo indicato sono consistenti, ma ci sono anche capitoli di spesa tutt’altro che irrilevanti come la spesa militare, quella per i lavori pubblici e, soprattutto, quella per il personale della Pa (per cui, dando lo stipendio a un fannullone, si fa una spesa improduttiva, ma si sostengono i consumi).In ciascuno di questi capitoli di spesa ci sono sprechi e diseconomie che si potrebbero rivedere facendo dimagrire la spesa complessiva, senza per questo danneggiare la spesa sociale. Ma, soprattutto, ci sono spese assolutamente negative come i compensi eccessivi ai dirigenti, l’eccessivo numero di enti che neppure alimentano i consumi ma finiscono in rendita finanziaria, ed è qui che occorre andare col machete (ma ne riparleremo). Poi c’è una spesa direttamente finanziaria: gli interessi per il debito che crescono costantemente (siamo a 84 miliardi l’anno, destinati a crescere perché in 4 anni di governo Pd il debito è cresciuto di altri 200 miliardi). Ma se la spesa rimane questa, il gettito fiscale non ce la fa e si produce nuovo debito, nonostante l’aumento delle tasse. Ma con questo livello di pressione fiscale non c’è ripresa immaginabile e, prima o poi, lo sbocco è il default. Dunque, per una vera ripresa, occorre tagliare il prelievo fiscale con una cura drastica: diciamo almeno 7-8 punti in un anno. E per far questo occorre una vera spending review (non l’attuale pagliacciata) e ricontrattare le condizioni di debito. Ma questo nella sinistra chi lo dice? Chi si preoccupa del fatto che il prelievo fiscale è diventato un moltiplicatore di ingiustizie sociali?(Aldo Giannuli, “Perché la sinistra non capisce niente della questione fiscale”, dal blog di Giannuli del 2 gennaio 2018).Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi. Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate. In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale. Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi i consumi; questo produce nuovi fallimenti, e così via.
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Amazon, Ikea, Fca: miliardari grazie al sangue degli schiavi
Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.Il padrone e fondatore di Ikea si chiama Ingvar Kartman, in gioventù è stato nazista, ora ha superato i novant’anni e ha lasciato la gestione del gruppo ai figli. Assieme sono una delle famiglie più ricche del mondo, che ha abbandonato la Svezia per pagare meno tasse in Svizzera. Anche Ikea fa pubblicità simpatiche e progressiste, a favore di tutti i tipi di famiglie. Le sue dipendenti però la famiglia fanno fatica anche a vederla. Una madre di due figli, uno dei quali disabile, è stata licenziata a Milano perché non poteva far fronte a un cambio di turni che le rendeva impossibile occuparsi dei suoi figli. Questo atto feroce non è un caso isolato, ci ha pensato la stessa azienda a chiarire che esso è parte di un sistema organico di vessazione del lavoro. Infatti neanche una settimana dopo, a Bari, Ikea ha licenziato un dipendente per un ritardo di 5 minuti. E altri soprusi simili stanno finalmente venendo alla luce.John Elkann è l’ultimo padrone della Fiat, ora Fca, erede e socio della grande e numerosa famiglia miliardaria, anch’essa indisponibile a pagare le tasse nel suo paese. La gestione concreta del gruppo come si sa è affidata a Marchionne, che ha aumentato enormemente i guadagni suoi e i profitti della famiglia. Nel 2019 l’amministratore delegato se ne andrà, ma la famiglia Agnelli continuerà ad accumulare miliardi. Lo ha sempre fatto, anche quando la Fiat non vendeva un’auto. I profitti di famiglia sono sempre stati la sola rigidità dell’impresa, tutto il resto è sempre stato flessibile, il lavoro prima di tutto. Oggi poi la flessibilità è in tempo reale. Così alla fine di ottobre la Fca di Cassino ha lasciato a casa 530 operai assunti a termine, con un semplice Sms. Perché sprecare un colloquio, una parola per delle merci sostituibili in qualsiasi momento? Questo sono e così vengono trattati i lavoratori di Fca. Questi supermiliardari sono vezzeggiati e incensati dai mass media e dagli intellettuali di regime. La politica si prostra i loro piedi. Così Bezos e compagnia controllano il mondo e le nostre vite. Sono straricchi perché in tanti sono poveri e sfruttati.(Giorgio Cremaschi, “Bezos, Kartaman e Elkann: miliardari e schiavisti”, da “L’Antidipomatico” del 30 novembre 2017).Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.
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Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte
La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.«Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione. Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?(Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.
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Bufera su Visco, ma silenzio sul retroscena (supermassonico)
Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro anche lo strano “suicidio” di David Rossi.«Anziché attaccare il Grande Oriente per le vicende provinciali di Banca Etruria – afferma Magaldi, oggi presidente del Movimento Roosevelt – giornali e televisioni farebbero meglio a interrogarsi sul ruolo di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, poi ministra di Monti: erano al vertice di Bankitalia quando la banca centrale avrebbe dovuto vigilare sull’operato del Montepaschi». Analoga polemica con Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”: «Si parla genericamente di massoneria, in relazione a piccole vicende locali, mentre si continua a ignorare il ruolo supermassonico di primo piano rivestito in Italia, per conto di reti internazionali, da personalità come Monti, Draghi, la stessa Tarantola, l’ex presidente Napolitano e l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan». Sotto il fuoco renziano è ora finito Ignazio Visco? Non una parola, dal mainstream, sul possibile retroterra comune dei contendenti, legati a influenti “salotti” non italiani. Silenzio anche sul ruolo della banca centrale, a cui un altro supermassone, l’eurocrate Carlo Azeglio Ciampi, “staccò la spina” nel 1980, facendo in modo che Bankitalia cessasse di fungere da “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo lo Stato – per finanziare il debito pubblico – a rivolgersi all’esosa finanza internazionale, mettendo all’asta i propri bond. Risultato: una falla rovinosa nel debito italiano, perfetta per indebolire il paese di fronte all’eurocrazia.«La messa alla berlina del governatore Visco ad opera della maggioranza piddina rappresenta un patetico scaricabarile politico», scrive Alberto Bagnai sul blog “Goofynomics”, che parla di «modus paraculandi». Bankitalia non vigilava adeguatamente sulla crisi delle banche italiane? Consob neppure? Chi, onestamente, può dire il contrario? «Ma pensiamo davvero che Visco e Fazio fossero degli incompetenti, dei dilettanti? Se così fosse – aggiunge Bagnai – la loro nomina ad opera della classe dirigente che ancora oggi si ripropone come insostituibile oligarchia dovrebbe suscitare alcune domande anche nell’elettore più superficiale». Forse, continua Bagnai, la causa di tante “sviste” ad opera degli organismi di controllo esterni e interni alle banche italiane «era imputabile non all’umana pochezza ma ad un’altra causa: ad un vincolo esterno». Più precisamente «a un chiaro e inequivocabile ordine di scuderia», emanato in sede europea. «Un ordine al quale tutti, ma proprio tutti, dai vertici Bce fin al più passivo sindaco e revisore della più piccola banca territoriale», dovevano sottostare. Ovvero: «Non intralciare l’enorme arbitraggio finanziario reso possibile dal Trattato di Maastricht e dall’unione monetaria».Arbitraggio? «Così si chiama il prendere a prestito nel nucleo e prestare con spread ai mal-investitori della periferia senza subire rischi di cambio e senza alcun controllo sui movimenti dei capitali», spiega l’economista. «Una colossale macchina da soldi, la cui già enorme potenza era ulteriormente amplificata dal mercato dei derivati, grazie al quale si diluivano i rischi di credito nell’oceano degli ignari e polverizzati investitori globali». In pratica, una droga: «Come nel narcotraffico fisico, nel narcotraffico finanziario tutti si sono sporcati le mani: i coltivatori (ingegneri e top manager finanziari), i cartelli dei trafficanti (le grandi banche del nucleo, cresciute in “Germagna” sino a diventare uno Stato nello Stato), i cartelli degli spacciatori e la loro rete di “down the line dealers” (le grandi banche commerciali periferiche e le numerose banchette che le contornano)». E poi anche «i governi, i responsabili dei controlli a tutti i livelli: pubblici e privati, nazionali e internazionali, i partiti e le forze politiche, tutti pro-Maastricht e pro-euro (ricordo che la “Costituzione europea” da noi fu votata all’unanimità e il Fiscal Compact con dibattito praticamente zero»).E’ stato questo il “miracolo” dell’euro, sintetizza Bagnai con sarcasmo: «È stata questa la fonte di accumulo di capitale finanziario che ora permette la fase due: sfruttare la mobilità incontrollata del lavoro». Quindi, «cari moralisti falliti e vigliacchi – chiosa l’economista – chi di voi è senza Maastricht scagli la prima pietra». Se è difficile leggere analisi di questo tenore sulla grande stampa, o tantomeno ascoltarle in televisione, è addirittura impensabile imbattersi in spiegazioni dettagliate su quello che Bagnai chiama “vincolo esterno”. La piaga del neoliberismo finanziario in versione europea ha drasticamente impoverito centinaia di milioni di persone? Certamente, osserva Magaldi, ma bisogna pur sapere che ogni piano – compreso questo – cammina sulle gambe di individui precisi, accuratamente selezionati da un’élite occulta per occupare posti-chiave. Rarissimo che l’oligarchia si dichiari: è accaduto di recente in Francia, quando il supermassone reazionario Jacques Attali ha rivendicato la partenità del progetto che ha portato all’Eliseo la sua creatura, Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild. In Italia, invece, si sorvola regolarmente anche su un altro difensore di Ignazio Visco: Romano Prodi. «Ne parlerò nel sequel di “Massoni”, di prossima uscita», annuncia Magaldi.«Pessimo interprete di questa globalizzazione privatizzatrice», l’ex premier ulivista, ex presidente della Commissione Europea nonché advisor di Goldman Sachs: benché ufficialmente “progressista” sarebbe anch’esso «affiliato a quelle potenti reti supermassoniche internazionali che hanno progettato la grande crisi, in termini di svuotamento della democrazia e colossale trasferimento della ricchezza dal basso verso l’alto», sostiene Magaldi. La stampa ne coglie sempre e solo gli effetti terminali – la disoccupazione, la crisi dei risparmiatori colpiti dai crack bancari – evitando però sempre di inquadrare il disegno, i suoi architetti occulti e i relativi interpreti locali. Non stupisce che giornali e televisioni continuino a ignorare le rivelazioni di Magaldi, che forniscono un’inedita geografia del vero potere. Tra le 36 superlogge mondiali, da cui dipendono entità paramassoniche come il Bilderberg e la stessa Trilaterale, spicca il ruolo nefasto svolto negli ultimi decenni dalle Ur-Lodges neoaristocratiche e oligarchiche, come la “Edmund Burke”, la “Compass Star-Rose”, la “Leviathan”, la “White Eagle”, senza contare la potentissima “Three Eyes” (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) e la “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush, secondo Magaldi con intenti addirittura terroristici (11 Settembre, Al-Qaeda, Isis).A valle, la mappa del back-office del potere si rifletterebbe in Italia – come in ogni altro paese, non solo occidentale – nel reticolo dei leader locali: Magaldi ha ripetutamente indicato l’appartenenza di Giorgio Napolitano alla “Three Eyes” (la stessa di Attali). Della “Three Eyes” farebbero parte anche Padoan e Draghi, Gianfelice Rocca (Techint) e Giuseppe Recchi (costruzioni), Marta Dassù (Finmeccanica), Enrico Tommaso Cucchiani (banchiere, già a capo di Intesa Sanpaolo) e l’ex ministra renziana Federica Guidi. Altri circuiti della stessa supermassoneria neo-conservatrice sarebbero rappresentati da uomini affiliati a Ur-Lodges come la “Babel Tower” (Mario Monti), la “Compass Star-Rose” (Fabrizio Saccomanni, Massimo D’Alema, Vittorio Grilli), la “Atlantis-Aletheia” (Corrado Passera), la “Pan-Europa” (Alfredo Ambrosetti, Emma Marcegaglia). Ignazio Visco, l’attuale governatore di Bankitalia, sarebbe invece legato alla “Edmund Burke” (insieme all’ex ministro dell’economia Domenico Siniscalco). Ma non c’è caso che ne si faccia cenno, nelle cronache: tutto finirà, come sempre, attorno alle chiacchiere di Renzi, più quelle su Renzi e quelle contro Renzi, senza spiegare verso quali scogli sta andando la nave, e per ordine di chi.Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro lo strano “suicidio” di David Rossi.