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Federico Caffè fu fatto sparire dai killer di Palme e Sankara
Non abbiate paura, il Deep State non è più un monolite oscuro: tra le sue fila oggi ci sono anche i “buoni”, che vigilano sui politici coraggiosi. Tesi firmata da Gioele Magaldi, frontman italiano della massoneria progressista sovranazionale e autore del saggio “Massoni”, che nel 2014 ha svelato il vero volto – supermassonico – dell’oligarchia reazionaria che da decenni regge le sorti del pianeta. In vena di rivelazioni, Magaldi oggi si spinge oltre. Il caso Julian Assange? Aspettate e vedrete: non tutti i mali vengono per nuocere. Può darsi che il suo ruvido arresto non preluda a chissà quale punzione: niente di più facile che si ritorca contro i personaggi messi in imbarazzo proprio dal fondatore di Wikileaks (come Hillary Clinton, accusata di aver truccato le primarie democratiche Usa, che in realtà sarebbero state vinte dall’outsider Bernie Sanders). E non è tutto: il 3 maggio, a Milano, sono in arrivo rivelazioni potenzialmente esplosive sul mistero del professor Federico Caffè, insigne economista keynesiano scomparso da Roma il 15 aprile 1987. Dietro, anticipa Magaldi, c’è la stessa mano che un anno prima aveva assassinato il premier svedese Olof Palme, e che di lì a poco avrebbe ucciso Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso. Tre personaggi scomodi, che ostacolavano il dominio globale neoliberista. Oggi però – altra notizia – non sarebbe più possibile eliminarli: «Fare il gioco sporco, ai nemici della democrazia, non conviene più: sanno perfettamente che in quello stesso Deep State ci sono anche elementi progressisti».Unico indizio a disposizione, per ora: la sicurezza italiana. Tra il 2015 e il 2016, dopo la strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo, l’intera Europa sembrava sul punto di trasformarsi in un mattatoio. Eppure, Magaldi annunciò: vedrete che il nostro paese non subirà attentati. Motivo: l’antiterrorismo italiano è “pulito” e coopera strettamente con settori della Cia altrettanto leali. Il terrorismo targato Isis, aggiunse, può colpire solo in paesi dove i servizi segreti sono infiltrati dagli agenti della strategia della tensione: la Francia in primis, ma anche – come si è visto – il Belgio e la Spagna, il Regno Unito e la Germania. In altre parole: se i “cattivi” hanno orchestrato il terrore per affermare il loro potere (magari impaurendo Hollande per poi lanciare Macron), sul fronte opposto i “buoni” si sono accordati per unire le forze e proteggere almeno uno Stato europeo: non un paese a caso, naturalmente, ma l’Italia che di lì a poco sarebbe diventata gialloverde. Messaggio: non siete più onnipotenti, se c’è un pezzo di Europa che resta al riparo del vostro stragismo che spara nel mucchio, mietendo vittime tra i passanti. E sarà proprio l’Italia la prima pietra su cui costruire una nuova Europa, finalmente democratica.Missione compiuta? Solo a metà: gli ultimi anni in Italia sono trascorsi senza sangue, ma il governo Conte si è lasciato ugualmente spaventare da Bruxelles. Colpa del Deep State, ammette il deputato grillino Pino Cabras: al governo, dice, insieme ai 5 Stelle e alla Lega c’è anche un terzo incomodo, lo “Stato profondo” che ha potentissimi terminali anche al Quirinale, e lavora per sabotare il cambiamento. Nel bloccare la nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia, Sergio Mattarella spiegò che “i mercati” (veri padroni della situazione, quindi, a prescindere dalle elezioni) non l’avrebbero gradito, quel ministro. Con Savona all’economia, non avrebbero esitanto a mettere nei guai l’Italia con il ricatto dello spread. Dal convegno londinese sul New Deal Europeo, organizzato dal Movimento Roosevelt, Cabras ha rincarato la dose: lo “Stato profondo” è insediato ovunque, anche nei ministeri oltre che al Colle, e sta frenando qualsiasi cambio di paradigma: «Lega e 5 Stelle sono divisi su tutto, tranne che su un punto: resistere al Deep State, nel tentativo di dare più soldi agli italiani». Magaldi apprezza il coraggio di Cabras, la cui denuncia – clamorosa – è passata sotto silenzio, letteralmente ignorata dai media. «Il Deep State, però, non può diventare un alibi: perché il governo gialloverde non ci ha nemmeno provato, a rompere le regole Ue con un bel 10% di deficit. Si è limitato a quel misero e inutile 2%, prendendo schiaffoni a Bruxelles e tornando a Roma con la coda tra le gambe».Poteva andare diversamente? «Doveva», dice Magaldi. Che spiega: tutto sta cambiando, ai piani alti. «E già oggi, i politici intenzionati a lavorare per il benessere della collettività non hanno più motivo di avere paura di essere soli, di fronte a chi vorrebbe delegittimarli con la diffamazione o addirittura ucciderli, come nel caso di Palme e Sankara, o magari farli sparire, come accadde a Federico Caffè». Ed ecco la rivelazione, che Magaldi anticipa il 15 aprile a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming settimanale del lunedì, su YouTube: al convegno milanese del 3 maggio (“Nel segno di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara, contro la crisi globale della democrazia”) sarà lo stesso Magaldi a fornire dettagli inediti sui mandanti della sparizione di Caffè. Altre notizie clamorose saranno fornite dall’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt e già allievo di Federico Caffè. Il professore era il più importante economista keynesiano: formò personaggi come Mario Draghi e Marcello De Cecco, Bruno Amoroso e Ignazio Visco (Bankitalia), Franco Archibugi e Giorgio Ruffolo. E poi Luigi Spaventa, Enrico Giovannini, Ezio Tarantelli (assassinato dalle Br) e lo stesso Alberto Bagnai, ora senatore leghista.Persino Wikipedia scrive che Federico Caffè fu uno dei principali diffusori della dottrina keynesiana in Italia, occupandosi tanto di politiche macroeconomiche che di “economia del benessere”: «Al centro delle sue riflessioni economiche ci fu sempre la necessità di assicurare elevati livelli di occupazione e di protezione sociale, soprattutto per i ceti più deboli». In altre parole, era il “cervello” dell’economia democratico-progressista: piena occupazione e welfare, cioè l’esatto contrario della politica del rigore che avrebbe preso il sopravvento, diventando un dogma – lo strapotere dei “mercati” – cui sembra piegarsi anche il Quirinale. La sua improvvisa scomparsa è un mistero rimasto irrisolto? Ufficialmente sì, ma non per Magaldi: secondo il presidente del Movimento Roosevelt, il convegno di Milano strapperà finalmente il velo sul caso Caffè. «C’è un filo rosso – avverte – che lega la sua sparizione agli omicidi di Olof Palme e Thomas Sankara». Palme, carismatico leader socialdemocratico svedese, era il faro del socialismo europeo: aveva varato il miglior welfare del continente e stava per essere eletto segretario generale dell’Onu. Una carica che gli avrebbe consentito di vegliare anche sull’Europa, scongiurando l’avvento del feroce ordoliberismo mercantilista che, da Maastricht in poi, ha rimesso in sella l’élite impoverendo il 99% della popolazione.Quanto a Sankara, parla per lui l’esodo dei migranti che sbarcano in Italia partendo dall’Africa Subsahariana affamata dal neocolonialismo: tre mesi prima di essere assassinato, il giovane leader del Burkina Faso aveva chiesto la cancellazione del debito estero e la fine degli aiuti finanziari all’Africa, vere e proprie catene post-coloniali. Il sogno del socialista Sankara? Un’Africa libera e sovrana, padrona a casa propria, capace di crescere basandosi sulle sue forze. «C’è un nesso che collega l’omicidio di Sankara e quello di Palme alla sparizione di Federico Caffè», insiste Magaldi, preparandosi a fornire dettagli inediti su quegli eventi che, nella seconda metà degli anni ‘80, hanno contribuito a plasmare lo sconfortante scenario di oggi. Un nome esemplare? Mario Draghi: il super-banchiere della Bce «non ha seguito il suo maestro, Federico Caffè, e oggi è nel gotha dei burattinai, degli artefici della involuzione post-democratica dell’Europa e del mantenimento del paradigma ideologico neoliberista in Europa e nel mondo». Paradigma spietato, per il quale ha duramente lavorato il Deep State massonico reazionario di cui lo stesso Draghi, secondo Magaldi, è un autorevolissimo esponente.Si può credere, a Magaldi? Qualcuno, di fronte al saggio “Massoni” (bestseller italiano, ignorato dai media mainstream) si è ritratto, rifugiandosi dietro l’assenza di prove documentali. Falso problema, assicura l’autore, che in premessa avverte: «Chiunque si senta diffamato me lo segnali, ed esibirò le carte che lo riguardano: dispongo di 6.000 pagine di documenti, troppo ingombranti per essere inseriti in un volume». Corollario: nessuno dei tantissimi big menzionati – Napolitano e Monti, lo stesso Draghi – si è azzardato a smentire alcunché. Meglio la consegna del silenzio. Ma il meccanismo innescato da quel libro sembra inesorabile: operazione trasparenza. Nel 2015, Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt. A fine marzo, ha promosso a Londra un confronto strategico tra economisti e politologi per mettere a fuoco un possibile New Deal europeo, basato sul recupero di Keynes (spesa pubblica strategica) per abbattere l’ideologia dell’austerity e restituire benessere alla popolazione. E ora è in arrivo l’assise milanese su Rosselli, Palme e Sankara, con anche le inedite news sulla sorte di Federico Caffè. «Questo incontro serve a dire: viviamo da decenni sotto la cappa di un’ideologia imperante e pervasiva, egemonizzante – il neoliberismo – che noi adesso rifiutiamo radicalmente».Il Movimento Roosevelt, continua Magaldi, si ispira alla lezione di Rosselli, Palme e Sankara: «Il nostro è un laboratorio politico che ha iniziato il suo percorso rivoluzionario a Londra, e a Milano affronta la sua seconda tappa». Teoria e pratica del Piano-B: «La nostra è un’ideologia social-liberale, opposta al neoliberismo: vogliamo proporla in Europa e nel mondo, ridando fiato a una corrente di pensiero che è stata rimossa, nei vari centrosinistra e centrodestra di tutto l’Occidente, a favore di una pervasività dogmatica del neoliberismo». Non si scherzava, ai tempi di Rosselli, ucciso su mandato del regime fascista di Mussolini. Ma c’era poco da ridere anche all’epoca di Palme, unico premier europeo assassinato mentre era in carica: freddato nella civilissima Svezia all’uscita di un cinema, nel cuore dell’Europa democratica. Il killer? Rimasto nell’ombra, ma fino a un certo punto: gli svedesi ricordano benissimo la strana morte del giallista Stieg Larsson, che al caso Palme si era interessato svolgendo indagini accurate, fino a consegnare alla polizia svariati documenti. La pista: servizi segreti, Deep State oscuro. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Gianfranco Carpeoro – dirigente del Movimento Roosevelt – ricorda che, alla vigilia dell’omicidio Palme, un certo Licio Gelli indirizzò al senatore statunitense Philip Guarino il seguente telegramma: “La palma svedese sta per cadere”.Se ti metti contro il Deep State, puoi rischiare la pelle: succede spesso, ed è capitato anche a Julian Assange. «Puoi essere fatto fuori con la diffamazione e la delegittimazione, con il fango che ti gettano addosso, oppure puoi essere eliminato». Assange? «Ha avuto coraggio», ammette Magaldi: «C’è dell’eroismo, nel suo agire». Per Magaldi, però, il destino del fondatore di Wikileaks non è segnato: «La questione è estremamente complessa», si limita per ora a dire l’autore di “Massoni”, lasciando capire che attorno al giornalista australiano si muovono forze diverse e opposte, e che l’estradizione richiesta da Trump potrebbe non trasformarsi in una feroce vendetta nei confronti di Assange. Il motivo? Sempre lo stesso: starebbe cambiando la natura del Deep State. O meglio, la sua composizione. «Oggi, se si ha il coraggio di svolgere il proprio mandato democratico – dichiara Magaldi – lo si può fare senza più il timore di essere eliminati, perché nel Deep State c’è stata, è in corso e si sta irrobustendo di mese in mese una riorganizzazione dei circuiti massonici progressisti, i quali non consentiranno – come è stato in passato – che nessun sincero politico democratico venga assassinato o eliminato in modo improprio».Beninteso: il nemico è ancora molto potente. Uomini che hanno conquistato i posti chiave della finanza, dell’economia, degli Stati. Magaldi li definisce «gli alfieri della massoneria neoaristocratica, i costruttori dell’ideologia neoliberista: quelli che tuttora gestiscono una globalizzazione di merci e capitali che non è fatta anche di diritti, di democrazia e di giustizia sociale». Ma aggiunge: «Credetemi, oggi a quei signori non conviene giocare sporco, nel momento in cui nella questione sono coinvolti anche i massoni democratico-progressisti che hanno la stessa consuetudine con il Deep State. Non gli conviene, è un problema di calcolo». E insiste: «Se c’è qualcuno che vuole agire a beneficio del popolo non abbia paura, non si lasci fermare da minacce o blandizie. Vada avanti per la sua strada, perché c’è chi è in grado, con la sua sola presenza, di frapporsi alle indebite interferenze da parte di rappresentanti del Deep State che vogliono sovvertire le regole del gioco democratico, piegandole a interessi opachi di natura privata». Per questo, aggiunge Magaldi, non hanno più scuse tutti quei politici «divenuti maggiordomi e camerieri, senza più quella forza di elaborazione politica che a molti, nel Novecento, è costata la vita».Oggi, assicura Magaldi, i politici che volessero davvero «difendere il senso e la dignità del proprio mandato, operando al servizio della collettività», possono evitare di farsi intimidire o corrompere per eseguire gli ordini dei soliti burattinai: «Li invito a cercare proprio nell’ambito del Deep State quei circuiti progressisti che sono impegnati per la difesa della democrazia, e che quindi potranno garantire che il Deep State oscuro non interferisca più con lo svolgimento di una normale dialettica democratica». Magaldi è stato affiliato alla Thomas Paine, la più progressista delle 36 Ur-Lodges che gestiscono il back-office del potere mondiale. Il suo Grande Oriente Democratico, movimento massonico d’opinione, è collegato alle superlogge progressiste. E’ in corso una sorta di guerra inframassonica: dopo decenni di letargo, la componente democratica si starebbe risvegliando. Le prove del contrattacco in corso? Tanto per cominciare, la sicurezza di cui ha goduto l’Italia durante l’ultima stagione dell’infame auto-terrorismo europeo, targato Isis ma gestito da settori inquinati dell’intelligence. E ora, dice Magaldi, i cavalieri oscuri del peggior Deep State si preparino: il convegno di Milano svelerà dettagli clamorosi anche sulla misteriosa scomparsa di Federico Caffè.Non abbiate paura, il Deep State non è più un monolite oscuro: tra le sue fila oggi ci sono anche i “buoni”, che vigilano sui politici coraggiosi. Tesi firmata da Gioele Magaldi, frontman italiano della massoneria progressista sovranazionale e autore del saggio “Massoni”, che nel 2014 ha svelato il vero volto – supermassonico – dell’oligarchia reazionaria che da decenni regge le sorti del pianeta. In vena di rivelazioni, Magaldi oggi si spinge oltre. Il caso Julian Assange? Aspettate e vedrete: non tutti i mali vengono per nuocere. Può darsi che il suo ruvido arresto non preluda a chissà quale punizione: niente di più facile che si ritorca contro i personaggi messi in imbarazzo proprio dal fondatore di Wikileaks (come Hillary Clinton, accusata di aver truccato le primarie democratiche Usa, che in realtà sarebbero state vinte dall’outsider Bernie Sanders). E non è tutto: il 3 maggio, a Milano, sono in arrivo rivelazioni potenzialmente esplosive sul mistero del professor Federico Caffè, insigne economista keynesiano scomparso da Roma il 15 aprile 1987. Dietro, anticipa Magaldi, c’è la stessa mano che un anno prima aveva assassinato il premier svedese Olof Palme, e che di lì a poco avrebbe ucciso Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso. Tre personaggi scomodi, che ostacolavano il dominio globale neoliberista. Oggi però – altra notizia – non sarebbe più possibile eliminarli: «Fare il gioco sporco, ai nemici della democrazia, non conviene più: sanno perfettamente che in quello stesso Deep State ci sono anche elementi progressisti».
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Stiamo diventando sempre più stupidi: crolla il Qi in Europa
Gli esseri umani starebbero diventando sempre più stupidi. Il nostro quoziente intellettivo (Qi), infatti, risulta letteralmente in caduta libera rispetto a quello misurato nei giovani degli anni ‘70. Basti pensare che dal 1975 ad oggi, in media, sono andati perduti 7 punti per ogni generazione. Una vera e propria ecatombe di materia grigia, scrive “Fanpage”: a portarla alla luce sono due ricercatori norvegesi del Centro Ragnar Frisch per la Ricerca Economica di Oslo, Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg. I due hanno condotto un approfondito studio statistico sui dati di 730.000 giovani uomini, raccolti tra il 1970 e il 2009. «Tutti i partecipanti si preparavano a iniziare il servizio militare per il paese nordico, e sono stati così sottoposti ai test standard per valutare il loro quoziente intellettivo», spiega “Fanpage”. «Mettendo a confronto i risultati dei test, è emerso che i ragazzi di oggi sono sensibilmente più “stupidi” di quelli di 40-50 anni fa». In pratica, gli scienziati hanno dimostrato una inversione a U del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome del professor James Flynn: è lo scienziato (statunitense, emigrato in Nuova Zelanda) che per primo osservò l’aumento nel valore medio del quoziente intellettivo nella popolazione di alcuni paesi, che era salito di circa tre punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Secondo gli studiosi norvegesi, le ragioni dell’incremento nell’intelligenza fino agli anni ‘70 sarebbero legate a un miglioramento di diversi fattori e condizioni di vita, dall’istruzione alla sanità, passando per l’alimentazione e il benessere generale. Ma a cosa è dovuto il preoccupante crollo del Qi avviatosi negli anni ‘70? Secondo gli scienziati di Oslo, la colpa sarebbe principalmente dei media, che avrebbero allontanato i giovani dalla lettura “intrappolandoli” davanti alla televisione e ai videogiochi, fino a indurli – negli ultimi anni – a trascorrere moltissime ore sui social network. I risultati dello studio, pubblicati sull’autorevole rivista scientifica “Pnas”, seguono quelli di un’altra ricerca condotta dallo stesso Flynn, nella quale emerse che il Qi medio degli adolescenti britannici era sceso di 2 punti in 28 anni. Poi, la caduta è diventata ancora più vistosa: in soli dieci anni, fra il 1999 e il 2009, gli inglesi avrebbero perso 14 punti di quoziente intellettivo, mentre i francesi 4 punti. In base a uno studio della rivista “Intelligence”, i britannici avevano un Qi medio di 114 punti nel 1999, e oggi invece sono appena 100 (dal canto loro, i francesi sarebbero ancora più in basso: appena 98 punti).“Vox News” cita una recente segnalazione di Maurizio Blondet: tutti gli studi ormai confermano che il Qi medio delle popolazioni occidentali sta scemando vistosamente da una quindicina d’anni. «Il calo è tanto più allarmante – sottolinea lo stesso Blondet – perché tutto il ventesimo secolo, al contrario, ha visto un aumento del Qi in Occidente, forse a causa del miglioramento generale della salute e dell’accesso all’educazione». Sulle cause del fenomeno, però, non c’è ancora nessuna certezza scientifica. «C’è chi chiama in causa i perturbatori endocrini, molecole contenute nella plastica che hanno l’effetto (fra gli altri) di ostacolare l’azione dello iodio, così importante nello sviluppo cerebrale: ricordiamo il “cretinismo alpino” di un tempo, che colpiva popolazioni carenti di sale iodato». “Vox News” punta il dito contro l’immigrazione, sostenendo che staremmo “importando” individui dall’intelligenza meno pronta: «Il mulatto è mediamente più intelligente del subsahariano ma meno dell’europeo. Mischiate Europa e Africa e avrete le favelas brasiliane». Proprio sicuri, che la spiegazione possa essere etno-lombrosiana? «Quando ti stai instupidendo – scrive “Vox” – figurati se ti accorgi del tuo instupidimento».Paolo Barnard, impietoso analista della contemporaneità, nel saggio “Il più grande crimine” punta il dito contro quella che chiama “esistenza commerciale”, l’avvento della mercificazione universale che ha spazzato via di colpo molti valori fondanti del vivere civile. Risultato: il mondo distopico di oggi, fatto di mera apparenza e popolato di individui resi apatici, indifferenti a tutto e ormai incapaci di lottare, sul piano sociale e politico. La generazione ruggente della rivolta studentesca del Sessantotto? Liquidata con un sapiente dosaggio di droghe immesse sul mercato. Poi il resto l’hanno fatto la globalizzazione e i signori del Wto, ma anche il web di massa, lo smartphone, lo stupidario di Facebook. Si legge meno: per questo si diventa stupidi? «Ha vinto Walt Disney, quindi abbiamo perso tutti», ebbe a sentenziare il sempre laconico Bob Dylan. Come dire: il dominio dell’apparenza è ormai planetario, non abbiamo scampo. Davvero? Punti di vista, sostiene a “Border Nights” l’eccentrico Fausto Carotenuto, approdato allo spiritualismo dopo anni di ruvido lavoro nell’intelligence Nato. La sua tesi: se inorridiamo di fronte alle tante aberrazioni cui ci tocca assistere, è perché i grandi poteri ricorrono sempre più spesso ai colpi bassi, puntando alla manipolazione di massa. Ma la buona notizia è che lo farebbero perché preoccupati dal nostro “risveglio” collettivo.Da qualche anno, Carotenuto ripete – in solitaria – la medesima diagnosi: i padroni della Terra scatenano guerre anche per abbassare il tono vitale delle moltitudini che si starebbero letteralmente ribellando al mainstream. La riprova? Almeno un cittadino su tre non crede più a quello che gli viene raccontato, da chi comanda. Per questo, aggiuge Carotenuto, sta salendo l’intensità del “bombardamento” cui siamo sottoposti: terrorismo, stragi, cibo inquinato, vaccini imposti a tappeto, scie chimiche. Tutto fa brodo, per spegnere l’energia dei singoli (e magari abbassare anche la loro intelligenza, il famoso quoziente intellettivo). Una tesi originale ma mai convalidata, ad esempio, dal saggista Gianfranco Carpeoro, che si domanda: dove mai sarebbero tutti questi indizi di risveglio coscienziale? Prendiamo le elezioni: votiamo sempre con odio, contro qualcuno – mai per qualcosa. Dove pensiamo di andare, per questa strada? La caccia alle streghe è sempre in voga: il nemico è l’Uomo Nero, non il sistema che lo produce. Morto un mostro, se ne fa un altro. Ma difficilmente ci accorgiamo del trucco: ci basta poter sparare contro il cattivone del momento. E’ così che il sistema, la fabbrica dei mostri, finisce sempre per farla franca.Se Carotenuto evoca il ruolo di un antagonista esterno, annidato in quelli che chiama “mondi spirituali”, Carpeoro resta sul terreno del visibile: possibile, dice, che non ci rendiamo conto che facciamo tutto da soli? E dire che non ci mancherebbe niente. Le doti fondamentali sono già in noi: e si chiamano conoscenza, fiducia e coraggio. Siamo capaci di imparare e di amare. Il problema? Costa fatica. Bisogna impegnarsi, studiare, crescere. E per farlo ci serve la risorsa più preziosa: il tempo. Se corri dal mattino alla sera, non ti resta il tempo per niente. Hai bisogno di informazioni? C’è Google, sullo smartphone: tutto e subito, senza sforzo. Risulato immediato: la memoria si addormenta, e alla lunga si atrofizza. Un guaio: senza memoria non c’è conoscenza. Non puoi fare confronti tra ieri e oggi, finisci per ripetere gli stessi errori, non riesci a collegare fatti lontani nel tempo. Come uscirne? Lottando, per riconquistare il tempo. E’ l’unica chance, per diventare più consapevoli, quindi più liberi. E inevitabilmente, alla fine, anche più intelligenti.Gli esseri umani starebbero diventando sempre più stupidi. Il nostro quoziente intellettivo (Qi), infatti, risulta letteralmente in caduta libera rispetto a quello misurato nei giovani degli anni ‘70. Basti pensare che dal 1975 ad oggi, in media, sono andati perduti 7 punti per ogni generazione. Una vera e propria ecatombe di materia grigia, scrive “Fanpage”: a portarla alla luce sono due ricercatori norvegesi del Centro Ragnar Frisch per la Ricerca Economica di Oslo, Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg. I due hanno condotto un approfondito studio statistico sui dati di 730.000 giovani uomini, raccolti tra il 1970 e il 2009. «Tutti i partecipanti si preparavano a iniziare il servizio militare per il paese nordico, e sono stati così sottoposti ai test standard per valutare il loro quoziente intellettivo», spiega “Fanpage”. «Mettendo a confronto i risultati dei test, è emerso che i ragazzi di oggi sono sensibilmente più “stupidi” di quelli di 40-50 anni fa». In pratica, gli scienziati hanno dimostrato una inversione a U del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome del professor James Flynn: è lo scienziato (statunitense, emigrato in Nuova Zelanda) che per primo osservò l’aumento nel valore medio del quoziente intellettivo nella popolazione di alcuni paesi, che era salito di circa tre punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
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Nuovo sgarro all’Italia: Parigi e Berlino bocciano Fincantieri
La Commissione Europea ha accolto la domanda presentata da Francia e Germania, che la invitavano a esaminare – alla luce del regolamento sulle concentrazioni – la proposta di acquisizione di Chantiers de l’Atlantique da parte di Fincantieri. In particolare, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”, la Germania si è associata alla richiesta di rinvio trasmessa dalla Francia. E questo, nonostante il progetto di acquisizione non raggiunga le soglie di fatturato previste dal regolamento Ue che norma le concentrazioni industriali, per le operazioni che devono essere notificate alla Commissione a causa della loro dimensione europea. La questione è chiara e, secondo Annoni, si può riassumere in questi termini: l’acquisizione strategica di un’azienda francese da parte di una italiana, Fincantieri, verrà con ogni probabilità bloccata dopo due anni di affannosi tentativi perché non c’è più il necessario “supporto politico”. In pratica, la Francia (che aveva dimostrato fin da subito un enorme fastidio per l’operazione, già con Renzi primo ministro) ha ora deciso di volerla “smontare”, come probabilmente accadrà.Di certo, rileva Annoni, l’Italia ha consegnato negli anni alla Francia asset e imprese di grandissimo valore economico e strategico. Una delle ultime (particolarmente fastidiose per il sistema) è stato il risparmio gestito di Unicredit, Pioneer, destinato ad alimentare il campione nazionale francese Amundi. Per Annoni, è l’ennesima espressione di “cupio dissolvi” del nostro sistema-paese. «In tutti questi casi si è usato come “scusa” o l’Europa o il mercato, con una dimostrazione di ipocrisia o dabbenaggine incredibili, perché la Francia presidia i propri campioni con gelosia e in barba a qualsiasi afflato europeo o di mercato». Esempi infiniti: dal settore auto al nucleare, con gli italiani di Enel sbattuti fuori dalla grande partita dell’energia. Nel caso delle trattative per i cantieri navali, oggi l’Eliseo approfitta delle pessime relazioni col governo italiano per mandare a monte l’accordo.«Teniamo presente che noi facevamo affari con un paese che bombardava la Libia, i nostri “impianti” e gli interessi nazionali – scrive Annoni – mentre Dio solo sa cosa vedono e cosa lasciano passare, i militari francesi, dei migranti e dei flussi migratori che arrivano in Italia».Infatti, nonostante gli accordi, «i nostri soldati l’Africa subsahariana non l’hanno potuta vedere neanche con il binocolo». Ma a pesare è anche «il rapporto malato che abbiamo noi italiani con l’Europa», nel senso che «la narrazione sull’Europa che si sente in Italia non ha paragoni al di là delle Alpi». Per tutti gli altri, sottolinea Annoni, l’Ue resta uno strumento che «coincide più o meno chiaramente con i propri interessi o con un ben definito blocco di potere». Noi invece «diciamo Europa, ma in realtà dovremmo dire asse franco-tedesco», con tutte le conseguenze che questa equazione ha sui rapporti tra istituzioni europee. È curioso, aggiunge Annoni, che proprio ora Francia e Germania abbiano annunciato un nuovo incontro per rafforzare la loro alleanza economica. «Non è un caso del destino cinico e baro che più della metà delle banche tedesche non applichi gli stessi standard contabili di quelle italiane. È il frutto di una difesa accorta e persistente dei propri punti deboli».Naturalmente, prosegue l’analista, adesso «qualcuno avrà il coraggio di dirci che il “deal” salta perché in Italia ci sono i populisti, oppure per le dichiarazioni di Di Maio sui Gilet Gialli», quando invece «è chiaro anche ai ciechi che la Francia era due anni che provava a far saltare l’operazione», non gradendo l’ingresso di Fincantieri. «Ma l’aspetto più grottesco è un altro», aggiunge Annoni: «Negli imprevedibili sviluppi della politica, che a volte sfuggono di mano anche ai “grandi fratelli” e alle élites più élite che ci sono, nessuno ci assicura che i populisti francesi o tedeschi di domani saranno migliori di quelli italiani di oggi». Sperarlo, secondo Annoni, è indice di provincialismo italico. «L’unica cosa certa è che i nostri populisti li possiamo eventualmente spegnere noi alle elezioni, mentre quelli francesi o tedeschi no». E in attesa di un’unione politica europea (di cui nessuno sa quando e come potrebbe nascere, «visto che il blocco di potere che dà le carte e ricatta tutti non ha alcun interesse a promuoverla»), l’unica certezza è che gli altri faranno solo i loro interessi. La vera questione, conclude Annoni, è come l’Italia «riesca a uscire dal buco in cui si è infilata e dallo stato di subordinazione e ricatto in cui nei fatti si ritrova».L’austerity, con la sua applicazione arbitraria, è solo un sinonimo di questo stato “coloniale”, mentre «neanche il migliore governo che possiate immaginare può fare molto, rispetto a uno stato di cose che, senza modifiche, è un circolo vizioso». Certo, ammette Annoni, uscirne ha un costo enorme: ma rimanerci? «È un dibattito che noi non possiamo fare, se no lo spread sale, mentre in Germania diventa dibattito tra economisti». I tedeschi sanno che, in questi anni, l’euro è costato carissimo all’Italia. Che fare, adesso? «Bella domanda. Però bisognerebbe porsela e avere bene in testa le alternative, senza edulcorazioni europeiste o sovraniste che siano». Di certo, chiosa Annoni, è davvero surreale farsi “fregare” così incredibilmente dai cugini d’oltralpe, sull’affare-cantieri, proprio mentre «ci rimandano indietro i migranti con le scarpe tagliate, tra il tripudio della grande stampa italiana per le fusioni “europee”».La Commissione Europea ha accolto la domanda presentata da Francia e Germania, che la invitavano a esaminare – alla luce del regolamento sulle concentrazioni – la proposta di acquisizione di Chantiers de l’Atlantique da parte di Fincantieri. In particolare, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”, la Germania si è associata alla richiesta di rinvio trasmessa dalla Francia. E questo, nonostante il progetto di acquisizione non raggiunga le soglie di fatturato previste dal regolamento Ue che norma le concentrazioni industriali, per le operazioni che devono essere notificate alla Commissione a causa della loro dimensione europea. La questione è chiara e, secondo Annoni, si può riassumere in questi termini: l’acquisizione strategica di un’azienda francese da parte di una italiana – Fincantieri – verrà con ogni probabilità bloccata, dopo due anni di affannosi tentativi, perché non c’è più il necessario “supporto politico”. In pratica, la Francia (che aveva dimostrato fin da subito un enorme fastidio per l’operazione, già con Renzi primo ministro) ha ora deciso di volerla “smontare”, come probabilmente accadrà.
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E’ andata a casa con il negro, la troia. Al rogo pure Vasco?
Chissà cosa direbbe oggi la cosiddetta società civile se un Tiziano Ferro qualunque o Laura Pausini usassero lo stesso frasario di Vasco Rossi nella sua celebre canzone “Colpa d’Alfredo”: «L’ho vista uscire mano nella mano con quell’africano che non parla neanche bene l’italiano». Urlava così, Vasco Rossi, al live Modena Park del 2017. E i giovani di oggi – italiani bianchi, neri, omosessuali, eterosessuali, cattolici, musulmani e atei – erano sotto il palco a braccia tese verso il loro idolo, pronti a cantare a squarciagola col Blasco e a spellarsi le mani dagli applausi. Nessuno ha pensato che ad un certo punto Vasco dice che «è andata a casa con il negro, la troia»: roba che se ti provi a scriverla oggi su Facebook il sistema ti banna fino all’età della pensione (cioè per sempre). E’ il politicamente corretto, bellezza. Peccato che il moralismo mainstream il razzismo non solo non lo distrugga affatto, ma che addirittura lo crei. In che senso, il politicamente corretto crea razzismo?Leggiamo su Wikipedia (sì, lo so, abbiate pazienza) che «l’espressione “politicamente corretto” designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l’offesa verso determinate categorie di persone. L’opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale etnico, religioso, ecc». Qui siamo alle semplici definizioni online, e a prima vista sembra tutto ok. Assolutamente condivisibile. Però a ben pensarci, anche nella mera definizione, c’è qualcosa che stride, dato che si parla di pregiudizio, cioè di un giudizio espresso verso una persona o una categoria di persone prima di conoscerle. Già in questo assunto c’è qualcosa che non torna. Se in ufficio volessi dire che quell’ascensore è troppo stretto per la sedia a rotelle del mio amico disabile, non lo potrei oggi fare perchè il politicamente corrretto vuole l’espressione “diversamente abile”. Anzi, meglio sarebbe non dire proprio niente: l’ideale sarebbe far riferimento a un amico impossibilitato a salire in ascensore a causa della sua sedia a rotelle. Punto.Il che, però, non aiuta alla piena comprensione dei miei interlocutori, perchè potrebbe trattarsi di una situazione momentanea (un amico che ha appena subito un intervento chirurgico e che starà sulla sedia a rotelle per qualche giorno, ad esempio). Mentre io, nel far riferimento all’handicap, chiarisco meglio con la parola “disabile” o “handicappato”: cosa c’entra il pregiudizio? Non è forse vero che l’amico cui faccio riferimento si trova in una situazione di menomazione fisica? Nel caso del razzismo, i danni del politicamente corretto sono ancora più evidenti. Se, ad esempio, un passante di origine subsahariana assiste a un incidente stradale, e la polizia che sta eseguendo i rilievi chiede se ci sono dei testimoni, gli interessati si possono trovare in imbarazzo a dire: «Sì, un negro ha visto tutto» (ma anche solo un “nero”, o persino un “signore di colore”). Il politicamente corretto impone che si dica “un signore”, ma questo impedisce in gran parte la comprensione, e impedirebbe persino ai poliziotti di rintracciare il testimone, se egli si trovasse tra una folla di curiosi “bianchi” che assistono alla scena dopo l’intervento della polizia.Il razzismo nasce oggi quando, obbligati dal linguaggio imposto, noi contraddiciamo l’evidenza empirica (un nero per il senso della vista è nero, un disabile è disabile, ecc. ecc.). Da qui la necessità – vietata socialmente – di marcare la distinzione si rafforza a livello inconscio. In altri termini se, di fronte a persone di colore devo stare attento a come parlo, questo finisce per rimarcare, inconsciamente, che quelle persone sono diverse. Nella canzone di Vasco, noi ragazzini degli anni Ottanta ci riconoscevamo perché, chi più chi meno, tutti soffrivavamo di un certo provincialismo. Ne facevamo parte, ma non lo amavamo. Vasco cantava in modo arrabbiato e triste le delusioni d’amore e la superficialità dei coetanei (in questo caso, di una coetanea) che apprezzavano solo chi aveva un determinato stile di vita (la bella macchina). C’entrava un beato beeep il fatto che l’antagonista fosse “nero”; ehm, anzi no, “di colore”, anzi no, “afroitaliano”. Urca: che ho detto? “Un signore”.Secondo il filosofo e psicologo sloveno Slavoj Zizek, se qui in Occidente volessimo davvero sconfiggere il razzismo, il primo passo sarebbe farla finita con questo processo politicamente corretto di auto-colpevolizzazione. L’Occidente ha una tendenza a colpevolizzarsi: dopo essere stati i dominatori del terzo mondo, oggi possiamo ancora esserne i padri moralisti. Se un paese del terzo mondo si macchia di terribili crimini, non è mai pienamente sua responsabilità: sta soltanto imitando quello che faceva il padrone coloniale, ecc. La logica del politicamente corretto attiva quei meccanismi che possiamo chiamare di “sensibilità delegata”, spesso secondo questa linea di argomentazione: «Non mi urtano i discorsi sessisti o razzisti o di odio, o chi si prende gioco delle minoranze, ma io parlo a nome di quelli che potrebbero essere offesi da quelle parole».Il punto di vista è quindi quello di questi “altri” che, viene dato per scontato, sono così ingenui e indifesi da aver bisogno di protezione perché non capiscono l’ironia o non sono in condizione di rispondere agli attacchi. Detto in modo ancora diverso, secondo Zizek noi abbiamo maturato una sensibilità da preti e la proiettiamo su un “altro” ingenuo, producendo così una sua infantilizzazione. Il che è come dire che ci riteniamo ancora superiori e che dobbiamo proteggere i nostri concittadini, amici, compagni, mogli, mariti, figli adottivi e non adottivi, colleghi di lavoro che, magari, sono neri perchè da soli non ce la farebbero. E perchè non ce la farebbero? Perché non sono bianchi.(Massimo Bordin, “E’ andata a casa con il negro, la troia”, dal blog “Micidial” del 4 ottobre 2018).Chissà cosa direbbe oggi la cosiddetta società civile se un Tiziano Ferro qualunque o Laura Pausini usassero lo stesso frasario di Vasco Rossi nella sua celebre canzone “Colpa d’Alfredo”: «L’ho vista uscire mano nella mano con quell’africano che non parla neanche bene l’italiano». Urlava così, Vasco Rossi, al live Modena Park del 2017. E i giovani di oggi – italiani bianchi, neri, omosessuali, eterosessuali, cattolici, musulmani e atei – erano sotto il palco a braccia tese verso il loro idolo, pronti a cantare a squarciagola col Blasco e a spellarsi le mani dagli applausi. Nessuno ha pensato che ad un certo punto Vasco dice che «è andata a casa con il negro, la troia»: roba che se ti provi a scriverla oggi su Facebook il sistema ti banna fino all’età della pensione (cioè per sempre). E’ il politicamente corretto, bellezza. Peccato che il moralismo mainstream il razzismo non solo non lo distrugga affatto, ma che addirittura lo crei. In che senso, il politicamente corretto crea razzismo?
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Migranti, il business dei predoni globalisti condanna l’Africa
Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.Esiste poi la Ong francese Positive Planete (prima Planet Finance), fondata dal francese Jacques Attali – colui che ha scoperto Macron – e dal bengalese Yunus, padre del microcredito, che si prefigge di “combattere la povertà in Africa attraverso lo sviluppo della microfinanza”. Un sodalizio, quello tra finanza, Ong ed emigrazione, molto redditizio e ben occultato. Tutti i paesi che si sono sviluppati l’hanno fatto avviando un piano di sviluppo economico basato sulla protezione dell’industria locale nascente e su politiche pubbliche di tipo keynesiano. Nell’Africa postcoloniale questo non è stato possibile, poiché le forze economiche internazionali hanno imposto il loro modello neoliberista, fatto di massima apertura al commercio estero, liberalizzazioni, privatizzazioni dei servizi pubblici e tagli alla spesa dello Stato. Ciò ha impedito qualsiasi possibilità di sviluppo dell’economia africana. Ogni tentativo in tale direzione è stato represso nel sangue, come nel caso di Lumumba in Congo e di Sankara in Burkina Faso. Questo è esattamente il modus operandi dell’attuale modello unico economico su scala globale: “keynesismo per i ricchi e neoliberismo per i poveri”, utilizzato come strumento di depredazione dei paesi.Mentre sappiamo molto della storia coloniale, quello che è accaduto in Africa con la decolonizzazione è poco conosciuto ai più e distorto da una narrazione mistificatrice che imputa ai vecchi imperi coloniali la causa dell’attuale e persistente stato di sottosviluppo del Continente Nero. Con la nascita degli Stati indipendenti in Africa, come in gran parte del Terzo Mondo, si stava avviando un percorso di crescita economica e di sviluppo locale. I paesi africani avevano adottato la cosiddetta politica di “industrializzazione per sostituzione”, secondo la quale le merci importate venivano sostituite con la produzione interna per tutelare le economie e le industrie nascenti dalla concorrenza internazionale. Questa politica, in aggiunta al riconoscimento da parte del Gatt del “diritto alla protezione asimmetrica” per i paesi in via di sviluppo (1964), generò in molti paesi dell’Africa subsahariana un periodo di crescita e relativo benessere. Ma le ingerenze esterne non tardarono a farsi sentire da parte dei grandi interessi economici internazionali.Con lo scoppiare della crisi del debito del Terzo Mondo nel 1982, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale imposero definitivamente le loro politiche macroeconomiche, che non favorivano lo sviluppo locale, non prevedevano alcun investimento nell’economia nazionale, ma incentivavano gli Stati a importare ingenti quantità di beni di consumo e a destinare la propria produzione all’esportazione per il pagamento del debito. Attraverso la previsione di “condizionalità” legate ai prestiti concessi, si venne a realizzare una nuova forma di imperialismo globale, il colonialismo del debito, da cui banche e prestatori di denaro hanno tratto enormi profitti, congiuntamente alle grandi multinazionali, che hanno depredato il Continente del suo ricco patrimonio di risorse naturali, inibendo ogni possibilità di sviluppo economico locale.La chiusura che incontro è più ideologica che scientifica. Purtroppo non si può parlare di neoliberismo e del fenomeno migratorio senza incorrere in divisioni ideologiche e pregiudizi. Dimostrare che il modello economico imposto dalle grandi istituzioni internazionali in Africa, che è lo stesso a distanza di decenni attuato ora in Italia, sia la causa del suo sottosviluppo lascia sconcertati. Sostenere poi che l’emigrazione non è una soluzione, ma anzi aggrava i problemi del continente africano, arricchendo solo chi specula sulla mercificazione degli esseri umani, suscita contrarietà da parte dei fautori acritici dell’accoglienza illimitata. Rompere dei tabù e dei luoghi comuni non è mai semplice, ma sto riscontrando anche molto interesse e consenso da parte di chi conosce e vive in prima persona la realtà africana. Da parte dei media sapevo, quando ho intrapreso questo percorso, iniziato col mio primo libro sottotitolato “Storia di una bocconiana redenta”, che non sarebbe stato per nulla facile rompere il muro nel mainstream. Tuttavia, l’interesse mostrato nei miei confronti da alcuni programmi televisivi e radiofonici è andato oltre le mie aspettative.Credo che, seppur con grande difficoltà, ci sia un piccolo spiraglio per chi affronta temi scomodi in modo serio e supportato da evidenze scientifiche. Il Decreto Dignità proposto da Di Maio? L’attuale modello economico è basato sulla precarizzazione del lavoro e, di conseguenza, della vita umana. Il Decreto Dignità ha il grosso merito di riportare al centro il lavoratore e i suoi diritti. Mettere un limite alla durata e al numero di rinnovi dei contratti a termine, aumentare la tutela e l’indennità del lavoratore nei casi di licenziamento, sanzionare le imprese che delocalizzano dopo aver usufruito di aiuti di Stato, nonché avviare una dura lotta alla ludopatia sono tutte misure che operano in questa direzione. Lo Stato in questo modo torna a occuparsi del cittadino e del lavoratore, ripudiando il ruolo di servitore dei mercati e degli interessi transnazionali, come vorrebbe il modello neoliberista universale, perfettamente rappresentato dall’attuale Unione Europea.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Marina Simeone per l’intervista “I coloni dell’austerity” pubblicata da “Il Pensiero Forte” il 25 luglio 2018. Economista attiva anche sul proprio seguitissimo blog, laureata alla Bocconi, scrittrice di libri coraggiosi e di successo sul neoliberismo, dopo la risonanza ottenuta dal primo lavoro “Neoliberismo e manipolazione di massa (storia di una Bocconiana redenta)”, Ilaria Bifarini ha presentato “I coloni dell’Austerity. Africa, neoliberismo e immigrazioni di massa”).Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.
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Ma non fuggono dalla fame, gli africani che sbarcano da noi
Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.Ad alimentare questa illusione sono vari fattori. Uno su tutti: i trafficanti, che come è noto gestiscono la gran parte dei viaggi verso l’Europa. Sono loro che rafforzano questa idea, lo fanno ovviamente per procurarsi clienti. È utile sottolineare che il 13 giugno è stato pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) un rapporto dal quale emerge che nel 2016 queste organizzazioni criminali hanno trasportato almeno 2,5 milioni di persone, delle quali quasi 400.000 verso l’Italia, ricavandone in tutto da 5,5 a 7 miliardi di dollari. Il rapporto spiega dettagliatamente come funziona l’avvicinamento ai clienti, l’opera di convincimento, nonché quali sono le varie tariffe. Chi arriva in Europa, per lo più, non fa altro che alimentare verso i propri parenti e amici in Africa l’idea che sia giunto ad un traguardo per cui vale la pena spendere e rischiare. La tendenza è quella di descrivere situazioni positive, anche quando non lo sono, per giustificare la propria scelta. Ma va detto che spesso, in effetti, chi arriva non ha nulla di cui lamentarsi: siccome quasi tutti chiedono e ottengono asilo, almeno nei primi anni godono di un sistema di protezione e di assistenza da far invidia a chi non è ancora partito.Le traversate nel deserto, i campi di detenzione libici, le tragedie nel Mediterraneo: non dovrebbero rappresentare un deterrente nei confronti di chi vuole partire? Il punto è che queste situazioni le conosciamo più noi che loro. L’accesso ai mezzi d’informazione degli africani, anche di coloro che vivono nelle città, è molto limitato. Detto ciò, molti conoscono i rischi e sono disposti ad accettarli, così come non si può escludere che molti altri, magari in un primo momento intenzionati a partire, desistano proprio alla luce di queste tragedie. A tal proposito vorrei sottolineare l’importanza del lavoro di controinformazione che stanno svolgendo alcuni soggetti in Africa. Alcuni governi, così come molte conferenze episcopali africane, si stanno spendendo per spiegare ai giovani quanto costa, quanto si rischia e quanto poco si ottiene, nel lungo periodo, ad emigrare in paesi dove non c’è occupazione né possibilità concreta di integrazione economica e sociale. Stanno svolgendo questo lavoro i governi del Senegal e del Niger – dal 2014 anche quello del Mali, il quale sta facendo una forte propaganda per dimostrare che un paese dal quale emigrano i suoi cittadini più giovani e forti non crescerà mai. E ancora: quello della Sierra Leone, a partire dall’anno scorso e in collaborazione con le autorità religiose, sia cristiane che islamiche. Sono piccoli passi in avanti che incoraggiano i giovani non a fuggire ma a restare, per migliorare il proprio paese.L’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parla di oltre 60 milioni di profughi in generale. Se poi parliamo di rifugiati, ovvero di persone che fuggono all’estero da guerre e persecuzioni, la cifra è di circa 20 milioni. Di questi, soltanto una minoranza esigua arriva in Italia, chiede asilo e lo ottiene: per quantificare, nel 2015 sono stati 3.555, nel 2016 4.940 e nel 2017 6.578. Perché sono così pochi? Perché la maggior parte di chi fugge da una guerra trova asilo appena varca il confine; del resto, la Convenzione di Ginevra prevede che il profugo chieda tempestivamente asilo nel primo paese che ha firmato la Convenzione in cui mette piede. C’è poi un secondo motivo: chi fugge sotto la minaccia di persecuzione e di guerra cerca di rimanere il più vicino a casa perché l’idea è quella di tornarci il prima possibile.Quanto incide sull’emigrazione anche lo sfruttamento delle risorse? C’è il land grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di paesi stranieri o industrie. Sicuramente sono fattori che hanno una loro incidenza. Le responsabilità vanno trovate anzitutto nei governi africani, i quali – per restare al tema del land grabbing – preferiscono vendere le terre ad industrie o a paesi che hanno fame di terre coltivabili (Cina, India, Arabia Saudita) incassando subito del denaro piuttosto che incentivare l’agricoltura locale anche tramite investimenti. L’Africa è ricca di risorse minerarie, penso al cobalto ma soprattutto al petrolio, il quale viene acquistato e pagato dalle compagnie, ma il problema è capire dove vanno a finire i soldi. Nel 2014, su 77 miliardi di dollari che avrebbe dovuto incassare l’ente nazionale del petrolio nigeriano, 14 non sono mai stati depositati. Sono finiti in qualche conto corrente, mentre sarebbero dovuti servire per lo sviluppo sociale del paese. La Nigeria, pur essendo il primo produttore di petrolio del continente, importa il greggio già raffinato dall’estero.L’Africa da oltre 20 anni registra una crescita economica notevole, e in prima fila ci sono i paesi da cui proviene la maggior parte dei migranti, solo che queste risorse vengono dilapidate o se ne giovano poche élite. Al recente Consiglio Europeo, gli Stati si sono impegnati a contribuire ulteriormente al Fondo Ue per l’Africa inviando altri 500 milioni. È un modo per “aiutarli a casa loro” o per alimentare la corruzione? Questi 500 milioni sono un ulteriore quantitativo, che si aggiunge ai miliardi che ogni anno vengono destinati all’Africa dalla cooperazione allo sviluppo di Stati Uniti ed Europa. Infatti quando sento invocare un “Piano Marshall per l’Africa” resto basita, perché di risorse ne vengono già inviate in modo ingente, ma i destinatari, cioè i governi, sono poco affidabili. Un esempio: in Somalia, che è uno dei paesi maggiormente assistiti, la Banca Mondiale qualche anno fa ha dimostrato che ogni 10 dollari che vengono elargiti al governo, 7 spariscono nel nulla.E’ possibile che, dove è forte la presenza del radicalismo islamico, quei soldi che spariscono nel nulla finiscano ad arricchire i gruppi jihadisti? Chi lo sa. Certo è che questi gruppi hanno fonti di reddito molto robuste e sponsor molto potenti. Inoltre sono spesso invischiati in traffici illegali: spaccio di droga, di armi, bracconaggio. Anni fa si è scoperto che gli Al Shabaad della Somalia ottengono circa il 40% dei proventi dalla vendita di zanne di elefante. Considerate che in Kenya c’è un detto: “Oggi è stato ucciso un elefante, domani sarà ucciso un uomo”, proprio per sottolineare la correlazione tra bracconaggio e terrorismo. Una ricerca delle Nazioni Unite rivela che nel 2050 ci sarà un’ulteriore crescita demografica dell’Africa e un declino dell’Occidente. L’immigrazione di massa come fenomeno sempre più ineluttabile? Anzitutto si tratta di proiezioni, non di dati certi. Non è affatto detto che tra trent’anni la situazione rimarrà la stessa di oggi, in termini demografici.Delle buone politiche familiari e un cambio culturale potrebbero invertire la tendenza demografica in Occidente, così come è possibile in primo luogo che la popolazione africana non aumenterà come l’Onu prevede (già si registra una piccola variazione verso il basso rispetto ai pronostici di pochi anni fa) e poi che l’Africa diventi finalmente un continente in grado di svilupparsi e di convincere i propri giovani a non fuggire alimentando i traffici clandestini di migranti. A mio avviso il modus operandi di molte Ong è molto discutibile, perché entrano in contatto diretto con i trafficanti e prevedono il trasbordo quasi in acque territoriali libiche per poi dirigersi verso l’Italia, anche se battono bandiera di un altro Stato e se il porto più vicino sarebbe altrove. Già il precedente governo, con il ministro Minniti, aveva sollevato il problema e aveva pensato di prendere provvedimenti. Il nuovo governo si sta dimostrando solo più determinato, ma l’intento è rimasto quello di far rispettare la sovranità nazionale e le leggi internazionali.Chiudere i porti significa smettere di “restare umani”? L’Europa in generale, ma nello specifico l’Italia, sono molto lontane dalla fase più prospera della loro storia: gli ultimi dati ci parlano di 5 milioni di italiani in povertà assoluta e centinaia di migliaia di italiani emigrano all’estero; l’Italia è 20esima tra i paesi di emigrazione. In questa situazione, è solo giusto impedire a delle persone di raggiungere un paese che può assisterli nel breve periodo, ma che non è in grado di garantire loro un futuro dignitoso. Chi arriva dall’Africa in Italia ha remotissime possibilità di costruirsi una vita: il più delle volte è destinato a vivere di espedienti, a lavorare in nero e in condizioni disumane magari in qualche campo di pomodori oppure ad ingrossare le fila della criminalità organizzata. Chiudere i porti può essere un modo per scoraggiare i viaggi clandestini. È importante che si alimenti il passaparola tra migranti stessi. Esistono tantissime testimonianze di giovani che hanno iniziato il viaggio verso l’Europa ma che non sono riusciti ad arrivare a destinazione, i quali affermano che se lo avessero saputo non avrebbero speso soldi e sprecato anni della propria vita per un’impresa così aleatoria. L’unico modo per scoraggiare questi progetti senza futuro è proprio quello di dimostrare che il viaggio della speranza è un’illusione, che a destinazione non si arriva: e chiudere i porti è il messaggio più netto che possa giungere.(Anna Bono, dichiarazioni rilasciate a Federico Cenci per l’intervista “Bisogna scoraggiare gli africani a emigrare, ecco perché”, pubblicata da “In Terris” l’11 luglio 2018. Africanista dell’università di Torino, la professoressa Bono ha pubblicato importanti studi sul fenomeno dell’immigrazione di origine africana).Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.
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L’esodo condanna l’Africa, e gli africani saranno 2,5 miliardi
«Incentivare la popolazione giovane locale ad abbandonare la propria terra e rinunciare a ogni possibilità e speranza di sviluppo dell’economia nazionale non è la soluzione, ma parte del problema». Lo afferma l’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e autrice del saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. La popolazione africana, scrive Bifarini sul suo blog, sta subendo un’esplosione demografica senza precdenti. Se nel 1960 contava meno di 300 milioni di abitanti (285 per l’esattezza) oggi si attesta a circa un miliardo e duecento milioni di persone. Secondo le stime dell’Onu in pochi decenni raddoppierà: nel 2050 gli africani ammonteranno a qualcosa come 2 miliardi e 500 milioni di persone. Secondo la teoria economica della cosiddetta “transizione demografica”, ogni popolazione umana tende a passare da una situazione iniziale negativa – elevata mortalità e alta fecondità – a una situazione più favorevole, con parametri invertiti: scarsa mortalità e bassa fecondità. La transizione, spiega Bifarini, avviene con un’iniziale riduzione del livello di mortalità, cui fa seguito un consistente aumento del tasso di crescita demografica, che si attesterà presto intorno allo zero grazie a una riduzione del livello di fecondità, completando così il percorso della transizione demografica.Generalmente, prosegue l’analista, a innescare questo processo sono le migliori condizioni igienico-sanitarie raggiunte: proprio la salute ingenera un declino del tasso di mortalità. «Ne segue un mutamento di stile di vita della popolazione adulta, che rivolgerà ai figli maggiori cure e aspettative e sceglierà spontaneamente di pianificare una riduzione delle nascite». Questa transizione, che nei paesi sviluppati è avvenuta nel XIX e nella prima parte del XX secolo, nella seconda metà del Novecento si è estesa a molti dei paesi in via di sviluppo, ad eccezione proprio dell’Africa. «L’Africa subsahariana costituisce un unicum, nel panorama demografico contemporaneo», scrive Ilaria Bifarini: a sud del Sahara, «a fronte di una mortalità che ha conosciuto una diminuzione generalizzata negli ultimi decenni, persiste un tasso di fecondità tra i più elevati nel mondo». Si muore molto meno, ma si continua a nascere “troppo”. «È venuta a concretizzarsi una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione».Attivo alla fine del ‘700, l’inglese Thomas Robert Malthus sostenne che l’incremento demografico avrebbe spinto a coltivare terre sempre meno fertili, con conseguente penuria di generi di sussistenza, fino a giungere all’arresto dello sviluppo economico: secondo Malthus, infatti, la popolazione tenderebbe a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti (che crescerebbero invece in progressione aritmetica). Di fatto, il fenomeno geo-economico noto come “trappola malthusiana” condanna i paesi colpiti a una situazione di vera e propria stagnazione economica. Per spezzare la trappola in cui ormai si trovano gran parte dei paesi dell’Africa subsahariana, secondo Ilaria Bifarini sono necessarie «politiche economiche e sociali orientate alla qualificazione della forza lavoro e all’educazione sessuale della popolazione». Viceversa, «l’unica via di fuga, per una fetta sempre più ampia di giovani condannati alla disoccupazione, rimarrà quella dell’emigrazione, che non fa altro che aggravare la condizione di sottosviluppo del continente». In altre parole: ogni migrante che sbarca sulle coste del Mediterraneo aggrava la crisi dell’Africa, sottraendole preziose risorse umane.«Incentivare la popolazione giovane locale ad abbandonare la propria terra e rinunciare a ogni possibilità e speranza di sviluppo dell’economia nazionale non è la soluzione, ma parte del problema». Lo afferma l’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e autrice del saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. La popolazione africana, scrive Bifarini sul suo blog, sta subendo un’esplosione demografica senza precdenti. Se nel 1960 contava meno di 300 milioni di abitanti (285 per l’esattezza) oggi si attesta a circa un miliardo e duecento milioni di persone. Secondo le stime dell’Onu in pochi decenni raddoppierà: nel 2050 gli africani ammonteranno a qualcosa come 2 miliardi e 500 milioni di persone. Secondo la teoria economica della cosiddetta “transizione demografica”, ogni popolazione umana tende a passare da una situazione iniziale negativa – elevata mortalità e alta fecondità – a una situazione più favorevole, con parametri invertiti: scarsa mortalità e bassa fecondità. La transizione, spiega Bifarini, avviene con un’iniziale riduzione del livello di mortalità, cui fa seguito un consistente aumento del tasso di crescita demografica, che si attesterà presto intorno allo zero grazie a una riduzione del livello di fecondità, completando così il percorso della transizione demografica.
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Con Palme e Sankara, Europa e Africa sarebbero oasi felici
Soltanto un anno e mezzo separa due omcidi eccellenti, tragicamente decisivi per la sorte dell’Africa e per quella dell’Europa, cioè i due continenti che oggi “dialogano” sulle due sponde del Mediterraneo a colpi di naufragi, soccorsi, respingimenti e menzogne. Era il 15 ottobre del 1987 quando i sicari occidentali spensero il giovane Thomas Sankara, profeta dell’emancipazione africana. Poco prima, dal vertice panafricano di Addis Abeba, il presidente rivoluzionario del Burkina Faso aveva lanciato la sua sfida all’Occidente: «Cancellate il nostro debito e, per favore, dimenticatevi di noi: il vostro “aiuto” è la nostra schiavitù». Migliaia di chilometri più a nord, nella capitale svedese, il premier Olof Palme – leader carismatico dei socialisti europei – sarebbe stato il miglior alleato possibile, per Sankara, se solo fosse stato ancora vivo: fu invece assassinato prima ancora del giovane africano, il 27 febbraio 1986, a Stoccolma, all’uscita di un cinema, da un killer tuttora sconosciuto. «La palma svedese sta per cadere», annunciò due giorni prima Licio Gelli in un telegramma al parlamentare statunitense Philiph Guarino, allora vicinissimo al politologo Michael Ledeen, che era accanto a Craxi (altro terzomondista europeo) durante la drammatica notte di Sigonella, in cui il leader del Psi osò sfidare l’America per proteggere i palestinesi e tutelare lo status italiano di potenza sovrana nel Mediterraneo.Prima di finire ad Hammamet, detronizzato da Mani Pulite, lo stesso Craxi aveva fatto in tempo a rilanciare, ad alta voce, la politica di Sankara: primo passo, la cancellazione unilaterale del debito a carico dei paesi del Terzo Mondo. Un tema particolarmente caro ad Olof Palme, che – alla vigilia dell’omicidio – stava per diventare segretario generale delle Nazioni Unite: carica su cui avrebbe riversato la sua statura morale e politica per cambiare paradigma e rimediare alla storica ingiustizia che oggi costringe milioni di esseri umani ad attraversare il Sahara verso il miraggio di un’Europa ormai barbarica, irriconoscibile, devastata dalla crisi. Che ne sarebbe, dell’Unione Europea, se fosse ancora in circolazione uno statista del calibro di Palme? E dove sarebbe, oggi, l’Africa, se la “primavera” di Sankara avesse potuto contagiare il continente nero? Certo non sarebbe andato in scena lo spettacolo dei barconi, dei negrieri, dei trafficanti di esseri umani. Il Burkina Faso stava diventando un modello pericoloso: siamo piccoli, diceva Sankara, ma cresceremo. Agricoltura, autosufficienza alimentare: obiettivi a portata di mano. Unica condizione: la cancellazione del debito. «I soldi che vi dobbiamo – scandì Sankara al vertice etiope – non sono niente, in confronto a quello che ci avete portato via, in decenni, in termini di risorse pregiate».Insisteva: «Accettare altri finanziamenti dal Fmi e dalla Banca Mondiale significa restare “schiavi” in eterno dell’Occidente». Diceva: facciamo un patto, diventiamo amici; voi ci abbuonate il debito, e noi ci dimentichiamo di tutto il male che ci avete fatto. Gli applausi della platea di Addis Abeba furono la condanna a morte per il leader africano, il cui carisma stava infiammando i giovani di paesi ben più importanti, come il Senegal e il Kenya, la Costa d’Avorio, il Camerun. Meglio ucciderlo, Sankara, facendogli fare la stessa fine di Palme. Risultato: un’Europa inquietante e impoverita, preda di oligarchie fameliche e antidemocratiche. E un’Africa ridotta all’esodo forzato: oltre al consueto sfruttamento coloniale – le risorse “rapinate” dall’Occidente grazie al solito dittatore ladro e “amico” dell’Europa, con l’aggravante del mastodontico “land grabbing” promosso dall’emergente potenza cinese – ora sta letteralmente esplodendo anche la tragedia climatica: il Sahara galoppa a vista d’occhio verso sud, rendendo sterile l’immensa fascia sotto il Sahel, fino a ieri coltivabile. Alle Nazioni Unite c’è chi paventa un “trasloco” mai visto nella storia: fino a mezzo miliardo di profughi climatici, in rotta verso l’emisfero nord.Scenari da apocalisse, che avrebbero bisogno di Premi Nobel per essere almeno inquadrati nella loro devastante pericolosità. Gli attuali leader, invece, si chiamano Juncker e Merkel, Macron, Draghi. Viene da chiedersi a quale differente umanità appartenessero i Palme e i Sankara. C’è da domandarsi da quale miracolosa genetica fossero scaturiti i Gandhi, i Mandela, i Martin Luther King. Visione globale e coraggio personale: qualità indispensabili ma in via di estinzione, a quanto pare, così come i migratori per i quali sta diventando proibitivo l’attraversamento stagionale delle regioni subsahariane ormai desertiche. Sembra che il pianeta Terra non riesca a sottrarsi all’autismo del capitale finanziario globalizzato, la regola del business che – pur di far soldi – non si accorge di stare segando il ramo su cui è appollaiato. Siamo stati abituati alla follia quotidiana del Pil suicida, che sta accumulando costi ambientali incalcolabili. Viviamo in un mondo che mai, nella sua storia, è stato così ricco e, al tempo stesso, così pieno di poveri. E mentre scrutiamo inutilmente l’orizzonte in attesa che torni il sale della giustizia, i maggiori climatologi ci avvertono che potremmo non avere il tempo di rimediare al disastro, perché la Terra potrebbe esaurire la sua pazienza molto prima che questa umanità impazzita si decida a rinsavire, mettendo fine all’orrore delle divisioni che la devastano.Soltanto un anno e mezzo separa due omcidi eccellenti, tragicamente decisivi per la sorte dell’Africa e per quella dell’Europa, cioè i due continenti che oggi “dialogano” sulle due sponde del Mediterraneo a colpi di naufragi, soccorsi, respingimenti e menzogne. Era il 15 ottobre del 1987 quando i sicari occidentali spensero il giovane Thomas Sankara, profeta dell’emancipazione africana. Poco prima, dal vertice panafricano di Addis Abeba, il presidente rivoluzionario del Burkina Faso aveva lanciato la sua sfida all’Occidente: «Cancellate il nostro debito e, per favore, dimenticatevi di noi: il vostro “aiuto” è la nostra schiavitù». Migliaia di chilometri più a nord, nella capitale svedese, il premier Olof Palme – leader carismatico dei socialisti europei – sarebbe stato il miglior alleato possibile, per Sankara, se solo fosse stato ancora vivo: fu invece assassinato prima ancora del giovane africano, il 27 febbraio 1986, a Stoccolma, all’uscita di un cinema, da un killer tuttora sconosciuto. «La palma svedese sta per cadere», annunciò due giorni prima Licio Gelli in un telegramma al parlamentare statunitense Philiph Guarino, allora vicinissimo al politologo Michael Ledeen, che era accanto a Craxi (altro terzomondista europeo) durante la drammatica notte di Sigonella, in cui il leader del Psi osò sfidare l’America per proteggere i palestinesi e tutelare lo status italiano di potenza sovrana nel Mediterraneo.
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Craxi nel ‘90: soldi ai poveri, e il mondo guarirà entro il 2020
«Proporre ai paesi poveri del mondo un “contratto di solidarietà” che rompa, entro il 2020, il ciclo infernale della miseria e della fame». Così parlava Bettino Craxi a Parigi nel lontanissimo 1990. La proposta: cancellare il debito del Terzo Mondo. Noi cos’abbiamo fatto, in trent’anni, su quel fronte? Meno di zero. Il 2020 è praticamente arrivato, e quei paesi (sempre più poveri) vomitano disperati sulle sponde del Mediterraneo. Rileggere oggi le parole di Craxi – riportate all’epoca dai quotidiani – fa semplicemente piangere: qualcuno ricorda una sola sillaba, di tenore paragonabile, pronunciata negli ultimi decenni da uno qualsiasi dei famosi campioni dell’Unione Europea? Siamo sgovernati da infimi ragionieri e grigi yesmen al servizio del capitale finanziario neoliberista che i tipi come Craxi li ha esiliati in Tunisia, trasformandoli in profughi politici – corsi e ricorsi, nell’amara ironia della storia: importiamo derelitti, dopo aver cacciato leader autorevoli e dotati di visione strategica. Nel ‘90, Craxi intervenne nella capitale francese in qualità di rappresentante personale del segretario generale dell’Onu per i problemi del debito del Terzo Mondo, dinanzi alla Conferenza parigina dei 41 paesi più poveri del pianeta.Un discorso, scrisse Franco Fabiani su “Repubblica” – nel quale Craxi ha ripercorso quelli che ha definito «i sentieri statistici della povertà che solcano il globo con la loro sfilata di drammatici indici della miseria e del sottosviluppo, dall’America latina all’Asia, dal Medio Oriente all’Africa subsahariana». Circa un miliardo di persone definite povere nelle statistiche ufficiali della Banca Mondiale (senza comprendere la Cina) costrette a fare i conti con risorse inferiori a quelle che occorrono per il minimo vitale. Erano quattro, per Craxi, i maggiori problemi da affrontare: nodi che – ieri come oggi – turbano, in questo contesto drammatico, «la ricerca dell’equilibrio e della prosperità di tutto il nostro pianeta: le guerre, la povertà, il debito, il degrado ecologico e ambientale». Africa e Asia, Medio Oriente, America Latina: aree tormentate negli anni ‘80 da guerre, guerriglie tra Stati e popoli e gruppi di diverse ideologie. Tragedie che hanno prodotto «distruzioni e persecuzioni, ma anche e soprattutto costi economici enormi, che hanno aumentato a dismisura l’indebitamento». Di qui la ricetta di Craxi, proposta alle 150 delegazioni presenti a Parigi: sviluppare una cooperazione con questi paesi per mettere fine ai conflitti e alleviare il debito, cominciando dai paesi che rispettano i diritti umani.In una parola: «Concentrare gli sforzi politici e finanziari per spezzare l’intreccio perverso guerra-povertà». E quindi, innnanzitutto: fare il possibile per evitare nuove guerre. Quella in agenda nel ‘90 era la prima Guerra del Golfo, a cui il “profeta” Craxi si opponeva: un conflitto nel Golfo, sosteneva, «trascinerebbe con sé un carico incalcolabile di distruzioni e di conseguenze tragiche di cui proprio i paesi più poveri sarebbero le prime vittime». Ed ecco la proposta strategica: «Cancellare sino al 90% del debito bilaterale, mentre il restante 10% dovrebbe essere convertito in moneta locale, per farlo affluire ai progetti di sviluppo economico, di formazione di capitale umano e di tutela dell’ambiente». La cancellazione del debito verso i paesi poveri «comporterebbe un onere annuo pari al 10% del Pil dei paesi donatori, cui si dovrebbe aggiungere almeno una percentuale identica di nuovi aiuti». In questo modo, secondo Craxi, «si potrebbe avere una robusta crescita dei paesi più poveri che consentirebbe loro di debellare la fame entro il 2020». Unica condizione: la stabilità del prezzo del petrolio, e quindi la pace. Un simile discorso, oggi, in Europa, avrebbe bisogno di un traduttore specializzato: la lingua di Craxi sembra estinta, come quella dei Sumeri.«Proporre ai paesi poveri del mondo un “contratto di solidarietà” che rompa, entro il 2020, il ciclo infernale della miseria e della fame». Così parlava Bettino Craxi a Parigi nel lontanissimo 1990. La proposta: cancellare il debito del Terzo Mondo. Noi cos’abbiamo fatto, in trent’anni, su quel fronte? Meno di zero. Il 2020 è praticamente arrivato, e quei paesi (sempre più poveri) vomitano disperati sulle sponde del Mediterraneo. Rileggere oggi le parole di Craxi – riportate all’epoca dai quotidiani – fa semplicemente piangere: qualcuno ricorda una sola sillaba, di tenore paragonabile, pronunciata negli ultimi decenni da uno qualsiasi dei famosi campioni dell’Unione Europea? Siamo sgovernati da infimi ragionieri e grigi yesmen al servizio del capitale finanziario neoliberista che i tipi come Craxi li ha esiliati in Tunisia, trasformandoli in profughi politici – corsi e ricorsi, nell’amara ironia della storia: importiamo derelitti, dopo aver cacciato leader autorevoli e dotati di visione strategica. Nel ‘90, Craxi intervenne nella capitale francese in qualità di rappresentante personale del segretario generale dell’Onu per i problemi del debito del Terzo Mondo, dinanzi alla Conferenza parigina dei 41 paesi più poveri del pianeta.
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Africa impoverita, migranti in fuga dal neoliberismo usuraio
Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».«Si tratta di somme di denaro legate a delle condizionalità, ossia all’implementazione di politiche neoliberiste, improntate alla massima apertura commerciale, alle liberalizzazioni, ai tagli alla spesa pubblica e alle privatizzazioni. In pratica una forma di ricatto che ha impedito all’Africa postcoloniale di uscire dalla trappola del sottosviluppo e anzi ne ha aumentato la povertà». Ma l’Africa non ha bisogno di investimenti infrastrutturali e modernizzazione dei sistemi per uscire dalla povertà? «L’Africa ha bisogno di liberarsi dal giogo dell’iperglobalizzazione, di proteggere i propri mercati e di sviluppare un’economia propria, basata sulla produzione e il consumo locale. Il modello imposto dalle organizzazioni internazionali, basato sul massimo ricorso al libero scambio, prevede che si esportino beni di prima necessità sottratti al consumo e si importi il resto, impedendo così la nascita di un’industria locale. L’emigrazione non può essere una soluzione per queste economie, sebbene molti sostengano che le rimesse di denaro nei paesi di origine possano aiutare l’economia locale. Esse in realtà non danno alcun impulso allo sviluppo di iniziative e imprese locali, ma arricchiscono solo il fiorente business delle società di trasferimento di denaro».Secondo la sua tesi, invece, il debito pubblico è uno strumento già utilizzato in Africa per impedire crescita e per improntare la globalizzazione della povertà. È proprio un’altra visione. Da quali prove la fa partire? «Proprio a seguito della crisi del debito del Terzo Mondo del 1982 sono stati introdotti i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale. Questi programmi prevedono l’accettazione totale e acritica da parte dei paesi poveri del modello economico neoliberista, presentato come condizione indispensabile per lo sviluppo e per l’uscita dalla crisi. Gli effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti. L’Africa è entrata nella spirale del pagamento degli interessi del debito: dal 1982 al 1990 ha restituito 400 miliardi di dollari di soli interessi. Una situazione che presenta molte analogie con quella che stiamo vivendo in Europa e in Italia in particolare».La Cina è in Africa e più che quella comunista è quella capitalista, le due cose ormai si fondono. Come è potuta accadere questa “rivoluzione” e perché l’Africa è così appetibile da chi commercia e chi vuole produrre «L’Africa è il continente più ricco al mondo di risorse naturali e minerarie, è quindi un ottimo mercato per la Cina, che pure deve far fronte alla propria pressione demografica e alla sempre maggiore richiesta di beni. I funzionari cinesi hanno stimato che il loro paese ha necessità di inviare in Africa ancora 300 milioni di persone per risolvere i problemi interni di sovrappopolazione e inquinamento. La Cina sta occupando l’intero continente africano, concedendo prestiti a tassi bassissimi e appropriandosi di tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali. Per contro la popolazione africana ripone speranze e fiducia nel Dragone cinese che, a differenza dei paesi occidentali, non ha un passato coloniale e non impone il proprio modello economico e sociale».(Ilaria Bifarini, “La spirale del debito neoliberista ha ucciso l’Africa, ora l’Europa”, intervista rilasciata a “Lo Speciale” il 27 marzo 2018. Il libro: Ilaria Bifarini, “I coloni dell’austerity”, sottititolo “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, 205 pagine, edito da Amazon, con prefazione di Giulietto Chiesa).Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».
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Razziare l’Africa: un Piano Marshall la indebiterà per sempre
Aiutiamoli a casa loro (a indebitarsi per l’eternità), con un maxi-prestito da 500 miliardi. «Senza un grande Piano Marshall per l’Africa – dice Berlusconi – l’Europa corre il rischio di essere invasa dai sei miliardi di persone che vivono nella miseria». Dove trovare i soldi? A finanziare sarebbe la Bei (Banca Europea degli Investimenti). Poi potrebbero intervenire il Trust Fund di La Valletta e il Consiglio Europeo con il Migration Framework, scrive “Rischio Calcolato”. «A Bruxelles si discute, ma il progetto è partito. Alla fine anche il vecchio Piano Marshall stesso sapeva che si sarebbero generate delle perdite, ma l’Italia e la Germania sono dell’idea di mettere in piedi un piano di sviluppo, una politica di investimenti che possa funzionare per contenere il flusso migratorio». Il piano, aggiunge il blog, prevede di coinvolgere investimenti privati e aiuto pubblico per lo sviluppo: un External Investment Plan che attrae i privati e fornisce a questi ultimi le garanzie sulle eventuali perdite. L’Africa non è solo una priorità strategica per economia e sicurezza: il piano è ottimo per “salvarci” da migranti economici, estremismo e terrorismo. «Per ironia della sorte è necessario allargare la platea, creare nuovi potenziali da sfruttare a cui sottrarremo il futuro».Se in una società non esiste più una classe da indebitare “a vita” per beni e necessità che consumiamo “adesso”, scrive “Rischio Calcolato”, si può intuire che il nuovo Piano Marshall, puro «colonialismo velato», è destinato a indebitare milioni di africani. «La politica – sostiene il blog – ha capito che non ci sono più abbastanza dominati a cui sottrarre il futuro, in Italia non ci sono rimasti giovani per produrre “domani” la ricchezza che noi abbiamo bisogno/voglia di consumare “oggi”». Dunque sarebbe un piano dove investire e imporre uno sviluppo, almeno per arginare la crisi. «Per trattare la questione dei flussi bisogna investire, spesso la cooperazione è inutile se le rimesse degli immigrati superano quest’ultima». Grazie all’economia dei paesi Ocse ad alto reddito, spiega la Banca Mondiale, le rimesse verso l’Africa subsahariana dovrebbero aumentare di un robusto 10% fino a 38 miliardi di dollari quest’anno. «I maggiori paesi riceventi le rimesse della regione, Nigeria, Senegal e Ghana, sono pronti per la crescita. La regione ospita anche una serie di paesi in cui le rimesse rappresentano una quota significativa del Pil, tra cui la Liberia (26%), le Comore (21%) e il Gambia (20%). Le rimesse cresceranno da un moderato 3,8% a 39 miliardi di dollari nel 2018».Il 29 e 30 novembre 2017 si è svolto in Costa d’Avorio il vertice Ue-Unione Africana per decidere il futuro dei rapporti tra i due continenti e porre le basi del nuovo partenariato tra Europa e Africa. I promotori del nuovo Piano Marshall hanno capito che bisogna investire perché «i problemi dell’Africa sono, anche, i problemi dell’Europa». Quindi, tramite le varie leve e sinergie con la Bei, si possono investire circa 500 miliardi. Dove guadagnarci? «Alle multinazionali – anche italiane – si offre l’occasione di fare affari con i sieropositivi, con le persone che muoiono di malaria, con le carenze di vitamina A e proteine che provocano circa 500mila casi di cecità ogni anno», scrive ancora “Rischio Calcolato”, che teme che «ci verrà concesso di scatenarci maggiormente con il land-grabbing, seguendo le nuove regole del neo-colonialismo», puntando a saccheggiare i suoi fertili. «Il bello di questo Piano Marshall proposto è che si può finanziare semplicemente stampando simpatici “foglietti di carta”». In compenso, l’Africa «ci ripagherà fornendoci materie prime come: neodimio, cobalto, nichel, manganese», che verranno rivendute alle industrie europee dei semiconduttori. «Con il vecchio sistema geniale di indebitarli massicciamente “direttamente a casa loro” ci si guadagna due volte», osserva “Rischio Calcolato”: «Le classi agiate che emergeranno – da questa operazione – manderanno i figli a studiare in Europa, nel frattempo il piano provvede all’interruzione di esportazione di migranti economici, e incrementa una massa elevata di nuovi debitori freschi freschi».Aiutiamoli a casa loro (a indebitarsi per l’eternità), con un maxi-prestito da 500 miliardi. «Senza un grande Piano Marshall per l’Africa – dice Berlusconi – l’Europa corre il rischio di essere invasa dai sei miliardi di persone che vivono nella miseria». Dove trovare i soldi? A finanziare sarebbe la Bei (Banca Europea degli Investimenti). Poi potrebbero intervenire il Trust Fund di La Valletta e il Consiglio Europeo con il Migration Framework, scrive “Rischio Calcolato”. «A Bruxelles si discute, ma il progetto è partito. Alla fine anche il vecchio Piano Marshall stesso sapeva che si sarebbero generate delle perdite, ma l’Italia e la Germania sono dell’idea di mettere in piedi un piano di sviluppo, una politica di investimenti che possa funzionare per contenere il flusso migratorio». Il piano, aggiunge il blog, prevede di coinvolgere investimenti privati e aiuto pubblico per lo sviluppo: un External Investment Plan che attrae i privati e fornisce a questi ultimi le garanzie sulle eventuali perdite. L’Africa non è solo una priorità strategica per economia e sicurezza: il piano è ottimo per “salvarci” da migranti economici, estremismo e terrorismo. «Per ironia della sorte è necessario allargare la platea, creare nuovi potenziali da sfruttare a cui sottrarremo il futuro».