Archivio del Tag ‘Alchimia selvatica’
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Giovagnoli: io non ho nessuna intenzione di suicidarmi
«Non ho nessuna intenzione di suicidarmi. Ripeto: non ho proprio nessuna intenzione di lasciare questo mondo». Suona particolarmente inquietante, il messaggio che Michele Giovagnoli ha consegnato al pubblico, il 29 agosto, attraverso un video su Facebook. Ogni volta, in poche ore, le sue dirette web-streaming ormai raggiungono anche 50-60.000 persone, da quando ha intrapreso il tour “Agorà d’Amore”: una maratona nelle piazze delle principali città italiane, in cui lui – alchimista e saggista, promotore di straordinari corsi nei boschi – invita le persone in mondo gandhiano a non avere paura, a non lasciarsi spaventare dalle intimidazioni psico-sanitarie dell’establishment e a resistere alle crescenti restrizioni disposte col pretesto del Covid. La sua ricetta è la seguente: «Restare immobili, in un momento come questo: ognuno di noi deve rimanere saldo nelle sue certezze e “fermo come un larice”, la conifera alpina che sa sfidare i venti più forti». Perché evocare l’ombra del suicidio? Forse perché Michele Giovagnoli non crede affatto al suicidio della persona cui ha dedicato il suo tour: il dottor Giuseppe De Donno.
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Giovagnoli: e voi cantanti (spariti) avete tradito i giovani
I giovani sono stati ricattati mettendo sul piatto proprio le cose che sono più belle, a quell’età: i luoghi d’incontro, le palestre, le università. Quella dei giovani è una frequenza particolare: una luce fresca, al servizio della verità. Dall’altra parte, invece, troviamo quelli che sono stati gli idoli dei giovani: questi cantanti, questi artisti, che a un certo punto sono totalmente spariti. Tutti lì, anzi, a inneggiare a questo processo di omologazione, questa lobotomia costante, questo dover accettare, “perché quella è la normalità”. Prendo le distanze da tutti quegli artisti che sono diventati famosi prendendo sotto braccio l’arte, e poi dimenticandosi di che cos’è, l’arte. Prima di tutto, l’arte è libertà. E quindi, un cantante che ha inneggiato alla libertà e oggi invece si schiera con chi vuole farci dimenticare che potenza può esserci, dentro la parola libertà, è un individuo che innanzitutto ha tradito l’arte, poi ha tradito se stesso, e poi ha tradito tutti quei giovani che lo avevano seguito perché, sicuramente, in lui sentivano una forza.Quando si accumula una forza, bisogna prendersene la responsabilità. E a tutti questi artisti, che sono spariti nel nulla – non se ne sente uno, in un momento così critico, delicato, importante, dove bisogna dare veramente corpo a certe parole (prima fra tutte, la parola libertà) – mando il più profondo invito affinché l’arte stessa porti giustizia. Un po’ come in tutte quelle forme di potenza che sono state sposate in funzione egoica, e poi si sono rivolte contro chi aveva compiuto quel gesto: la famosa ruota che poi schiaccia chi l’aveva adottata, perché ha voluto sfidare una salita troppo alta. Verso di voi, artisti assenti, va anche tutto il mio profondo disprezzo. Come ci ha insegnato un grande fratello, Nietzsche: nei confronti delle masse, di tutti quelli che seguono una corrente senza chiedersi perché, tutte quelle persone che non vogliono più farsi domande, che vogliono essere nutrite anche nel pensiero, ecco, nei loro confronti bisogna essere superiori “per disprezzo”, perché quel disprezzo è l’ombra dell’amor proprio che, invece, l’osservatore dirige su di sé.(Michele Giovagnoli, dichiarazione estratta dal video della tappa milanese del tour “Agorà d’Amore”, trasmesso in diretta su Facebook il 9 luglio 2021 da piazza Duomo. Scrittore e alchimista, Giovagnoli è autore di libri come “Alchimia selvatica”, “La messa è finita”, “Impara a parlare con gli alberi”. Conduce stage nei boschi in tutta Italia, stimolando i partecipanti a intraprendere percorsi di tipo alchemico, in piena sinergia con gli alberi. Nel 2020, esplosa la crisi Covid, ha fondato la community “Essere Solare”, che aggrega migliaia di individualità, decise a “rispondere” all’emergenza sviluppando talenti umani, messi in rete. Proprio il network “Essere Solare” affolla le tappe del tour “Agorà d’Amore”, pensato anche per stringere alleanze interpersonali in grado di mobilitare risorse interiori, rompere l’isolamento sociale e sviluppare capacità empatiche, lungo un orizzonte che tende a disegnare una nuova umanità, libera da ogni ricatto e refrattaria a qualsiasi restrizione imposta).I giovani sono stati ricattati mettendo sul piatto proprio le cose che sono più belle, a quell’età: i luoghi d’incontro, le palestre, le università. Quella dei giovani è una frequenza particolare: una luce fresca, al servizio della verità. Dall’altra parte, invece, troviamo quelli che sono stati gli idoli dei giovani: questi cantanti, questi artisti, che a un certo punto sono totalmente spariti. Tutti lì, anzi, a inneggiare a questo processo di omologazione, questa lobotomia costante, questo dover accettare, “perché quella è la normalità”. Prendo le distanze da tutti quegli artisti che sono diventati famosi prendendo sotto braccio l’arte, e poi dimenticandosi di che cos’è, l’arte. Prima di tutto, l’arte è libertà. E quindi, un cantante che ha inneggiato alla libertà e oggi invece si schiera con chi vuole farci dimenticare che potenza può esserci, dentro la parola libertà, è un individuo che innanzitutto ha tradito l’arte, poi ha tradito se stesso, e poi ha tradito tutti quei giovani che lo avevano seguito perché, sicuramente, in lui sentivano una forza.
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Tutti in gara per aiutarci, anche Pornhub. Tranne la Chiesa
Ragazzi, persino Pornhub ha donato denaro: ha deciso di dedicare gli incassi di una mensilità degli abbonamenti al sostegno di quelle realtà che cercano di fronteggiare l’emergenza coronavirus. Persino Pornhub, che è un sito porno: persino loro stanno raccogliendo soldi per chi si sta impegnando in quest’emergenza. La Chiesa cattolica, no. In alchimia è noto che, quando si alza la temperatura, in una reazione, le varie sostanze in un certo qual modo si distillano, quindi esaltano le loro identità. Immaginate quando si distilla un macerato, per farci dell’acquavite: si estraggono un po’ alla volta le varie sostanze, si separano; si aumentano certe combinazioni, e altre si separano. Al pari, in questo momento, la grande pressione che sta aumentando (lo vedete, c’è una grande pressione nell’aria) sta facendo evidenziare le caratteristiche di certi soggetti – un po’ di tutti, ma di alcuni in particolar modo. Ed ecco che, in questo momento, la Chiesa cattolica dichiara, palesa, rende evidente la sua identità. Getta la maschera, come non aveva mai fatto, in passato.Pensate: il Papa, tramite il dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale (notizia ben evidenziata dall’Ansa), ha donato centomila euro alla Caritas. Una cifra enorme, ragazzi: centomila euro – alla Caritas, che è uno strumento della compagine catto-cristiana. E’ praticamente un semplice giroconto. Di più invece ha fatto la Cei, la conferenza episcopale italiana, ma non di sua iniziativa: accogliendo una richiesta della fondazione Banco Alimentare Onlus ha deciso di “donare” (attenzione al termine) 500.000 euro dei soldi presi dall’8 per mille. Cioè: non si sono tolti niente. L’8 per mille è quel meccanismo furbo, attraverso il quale la Chiesa cattolica riesce a stillare qualcosa come sei, sette, otto miliardi di euro l’anno – e sono soldi nostri. Non hanno cavato una lira, ragazzi. Pensate: Berlusconi, 10 milioni di euro. Gli Agnelli, 10 milioni di euro. Caprotti, 10 milioni di euro. Lavazza, 10 milioni di euro. Persino la Campari (un milione di euro) ha donato più della Chiesa cattolica. L’Unione Buddista Italiana ha donato qualcosa come 3 milioni di euro. “Loro” invece si è sono limitati a girare una piccola parte dei soldi ricevuti dallo Stato italiano.Eppure stiamo parlando della Chiesa cattolica, cioè quella che può essere considerata la realtà più ricca al mondo. Anni fa pubblicai un testo, “La messa è finita”, nel quale spiego quanto sia falso e sbagliato associare alla Chiesa la figura di Gesù. Se è esistito (e chi lo sa?), Gesù ha lanciato un messaggio e fatto alcune cose; la Chiesa cattolica è ben altro. Giusto per farsi un’idea, si ritiene che ad oggi la Chiesa cattolica possieda il secondo più grande tesoro, in oro, al mondo, secondo solo a quello degli Stati Uniti (e si limita a dare centomila euro alla Caritas). Il patrimonio finanziario della Chiesa è immenso, e spazia da azioni presso i più importanti istituti finanziari: i Rothschild di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, la Banca Ambrose, il Crédit Suisse di Londra e Zurigo, la banca Morgan, la First National Bank e altre, e azioni in multinazionali come Shell, General Motors, Betlehem Steel, General Electric, International Business Machine e tante altre, che non vi sto a leggere. Aggiungiamo l’impressionante patrimonio immobiliare, le proprietà terriere, agricole e boschive (che in tutto il mondo raggiungono quote imbarazzanti) e tutte le opere d’arte.A tutti gli effetti, possiamo tranquillamente considerare la Chiesa cattolica come il maggior possessore di ricchezze materiali esistenti, e il Papa – in quanto amministratore – l’uomo più facoltoso del pianeta. Centomila euro alla Caritas, e cinquecentomila (sempre di soldi pubblici, presi col meccanismo dell’8 per mille) dati a sostegno, sulla base di richieste ricevute. Per il resto, non hanno fatto niente. E continuano a non fare niente. Ma c’è un dato ancora più grave, a mio avviso: invece di dare una mano, privandosi di un po’ di quei soldi accumulati nei secoli (quando rischiavi di essere bruciato, se non credevi nella Chiesa, e comunque dovevi cederle i tuoi beni), stanno addirittura approfittando di questo momento per dare forza ai loro strumenti. Per esempio: un simbolo fortissimo che la Chiesa cattolica utilizza è il crocifisso. La prima cosa che ha fatto, il Papa (gesto utilissimo, che infatti ha salvato milioni di vite), è stato andare a far visita al crocifisso che, si racconta, nel XVII secolo “ha fermato la peste”. La gente segregata in casa, e lui in giro per Roma (tranquillo, senza mascherina).Nosiglia, l’arcivescovo di Torino, ha addirittura esortato tutte le chiese e far suonare le campane all’unisono. Sempre nel mio libro mostro i risultati degli ultimi studi condotti dall’epigenetica: è per comprendere cos’è il suono delle campane, che effetto produce in noi, che tipo di ricordo attiva (grave e minaccioso, ndr). Quindi: invece di darci una mano, loro approfittano della situazione. E pensate: in questo periodo di crisi “Radio Maria”, l’unica radio che si sente in tutta Italia, persino nelle gallerie, grazie al più potente emettitore italiano, ha addirittura esortato a rafforzare le donazioni. E per farci cosa? Per tenersele per sé. Concludo: la storia dà sempre grandi lezioni, è una grande maestra. Basterebbe studiare la storia, per riuscire a far fronte al nostro presente in maniera molto più saggia. Quella che ci lascia questa volta è una lezione inesorabile, e il mio invito è quello di ricordarcela. Osserviamo la bellezza della natura, che sta riemergendo, essendosi abassati tutti i livelli di inquinamento: l’acqua che torna limpida a Venezia; i delfini che giocano nei porti; questa primavera con un’aria molto più leggera; questo silenzio nutrito solo da suoni armonici, dal canto degli uccellini, dal volo di qualche insetto.Ricordiamoci di questa bellezza, che stiamo vivendo. Ma ricordiamoci anche che in questa vicenda c’è un grande sconfitto. Hanno vinto in tanti: hanno vinto i medici, gli infermieri; hanno vinto le associazioni di volontariato; hanno vinto le forze dell’ordine; hanno vinto i sindaci, che si stanno impegnando in una maniera incredibile. Ha vinto la gente, che tira la cinghia e rimane in casa, e va avanti, e si inventa qualcosa per sopportare questo stato di stress che a volte è veramente difficile. Ha vinto la Cina, occorre dirlo: la Cina ha stravinto, in tutto questo; ha vinto con la sua tecnologia, con il suo modo di riuscire a gestire la situazione. Ha vinto la solidarietà, ha vinto l’impegno. Ha vinto l’inarrestabile processo evolutivo. Vince addirittura anche il governo italiano che, seppur strangolato nella morsa, nel ricatto monetario dell’euro e del debito, è riuscito comunque a trovare qualche soldo per la gente. L’unica sconfitta – per la sua inadeguatezza, l’incapacità e l’avarizia – è la Chiesa cattolica. L’unico vero sconfitto è il grande impero della Chiesa cattolica, al quale dedico questa ultima frase: persino una spremuta d’arancia, con la sua vitamina C, in questo momento è più utile di te.(Michele Giovagnoli, estratto del video-editoriale “La Chiesa non dà nulla, anzi…”, pubblicato il 20 marzo 2020 sul canale YouTube di “Border Nights”, su cui Giovagnoli conduce la rubrica settimanale “L’uomo che parla con gli alberi”. Naturalista e alchimista, Giovagnoli ha pubblicato saggi come “Alchimia selvatica” e “Impara a parlare con gli alberi”. Quest’anno ha avviato un’iniziativa formativa speciale, chiamata Accademia Genitore Albero. Il libro citato nel video, “La messa è finita” – 175 pagine, euro 12,90 – è stato pubblicato nel 2017 da UnoEditori).Ragazzi, persino Pornhub ha donato denaro: ha deciso di dedicare gli incassi di una mensilità degli abbonamenti al sostegno di quelle realtà che cercano di fronteggiare l’emergenza coronavirus. Persino Pornhub, che è un sito porno: persino loro stanno raccogliendo soldi per chi si sta impegnando in quest’emergenza. La Chiesa cattolica, no. In alchimia è noto che, quando si alza la temperatura, in una reazione, le varie sostanze in un certo qual modo si distillano, quindi esaltano le loro identità. Immaginate quando si distilla un macerato, per farci dell’acquavite: si estraggono un po’ alla volta le varie sostanze, si separano; si aumentano certe combinazioni, e altre si separano. Al pari, in questo momento, la grande pressione che sta aumentando (lo vedete, c’è una grande pressione nell’aria) sta facendo evidenziare le caratteristiche di certi soggetti – un po’ di tutti, ma di alcuni in particolar modo. Ed ecco che, in questo momento, la Chiesa cattolica dichiara, palesa, rende evidente la sua identità. Getta la maschera, come non aveva mai fatto, in passato.
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Giovagnoli: natura e bellezza, l’antidoto al virus della paura
Se la televisione dice “panico”, è panico. Se la televisione e i tanti strumenti utilizzati nel web dicono “panico”, è panico. Se la televisione dice “niente panico”, allora niente panico. Stiamo assistendo a un autentico esperimento sociale, che ci fa capire quanto l’informazione possa controllare le persone, e quanto il terreno delle persone sia stato reso fertile, affinché questa sostanza possa entrare dentro di noi e trasformare la gente. Il vero virus non è il coronavirus, è l’informazione che va ad alterare lo stato psico-fisico delle persone. Mi chiamo Michele Giovagnoli. Sono un amante dei boschi, un appassionato di natura. Da vent’anni opero in questo settore, e lavoro su di me: pratico un’alchimia interiore, che passa attraverso il contatto con gli elementi selvatici. E voglio darvi tutti gli strumenti possibili, quelli che sono riuscito ad apprendere, su come la natura può aiutarci a vivere meglio.
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Come rinascere, nel bosco: la scuola di Michele Giovagnoli
Memoria ancestrale: ricordare cosa eravamo, per scoprire chi siamo. Meta: diventare “genitori di se stessi”, acquisendo una consapevolezza mai prima sfiorata. E’ il dono segreto del bosco, secondo la ricetta del naturalista e alchimista Michele Giovagnoli, pioniere dell’educazione ambientale, autore nel 2003 del primo progetto-pilota del ministero dell’ambiente per trasformare la natura in un’aula didattica a cielo aperto. E’ a suo agio anche tra scuole e aziende, lavoratori stressati dall’ufficio, sportivi di varie nazionali (italiane e straniere) da preparare per le gare aiutandoli ad acquisire una marcia in più, grazie al contatto con gli alberi. Da sempre appassionato conoscitore della vita selvatica, ha istituito una sorta di “presidio devozionale” itinerante: tra il 2018 e il 2019 ha fatto il giro d’Italia, isole comprese, per “incontrare” 366 alberi monumentali, spesso protetti dalle attenzioni quotidiane dei loro custodi. Abile trainer, padrone delle più avanzate tecniche psicologiche, ha lavorato con 30.000 bambini. Ed è proprio la vocazione pedagogica il fondamento della sua ultima invenzione, l’Accademia Genitore Albero (concepita a numero chiuso, e subito “sold out”). Immersione teorico-pratica: 6 weekend, per un totale di 56 ore, nella quiete delle foreste di Carpegna, a due passi da San Marino, tra i silenzi della dorsale appenninica.
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Giovagnoli, alchimista: ero malato, e il bosco mi ha guarito
L’alchimista che vi hanno raccontato gira sempre con l’inseparabile alambicco, no? Ricordo che in un libro di scuola, quando facevo le superiori, c’era mezza pagina sull’alchimia, e c’era ’sto sfigato che girava dappertutto con il suo alambicco. Era uno così, nascosto dal cappuccio perché sente freddo alla testa, e poi l’alambicco – lui ci fa anche il bidet, con l’alambicco! Ma questo è l’aspetto folcloristico che hanno diffuso per allontanarci dall’alchimia. E’ una tecnica: rendi ridicola una persona, così non la cerchi più. Si innesca una dinamica selvaggia: il gregge segue il più forte, evitando lo sfigato solitario con il suo alambicco. Allegorie, il potere dell’immagine: in realtà l’alchimista ha la testa coperta dal cappuccio perché perché la sua attenzione è rivolta dentro di sé. Lui si chiude, e l’alambicco è l’immagine di tutto il suo sistema vitale. Lui quindi cerca di gestire i suoi flussi interni, che sono dominati da un centro mentale, un centro sentimentale, un centro sessuale creativo e un centro fisico, che è la macchina biologica che abbiamo. Cosa vuol fare l’alchimista? Vuole fare il processo inverso rispetto a ciò che hanno fatto fare all’umanità, che è stata creata e addomesticata.L’alchimista sfrutta i codici attraverso i quali hanno creato l’uomo, che è una creatura molto potente – non c’è niente, in natura, che abbia il nostro potenziale biologico. Però l’alchimista lo sfrutta non per essere come come vogliono “loro”, ma per essere come vuole lui. Quindi il processo di alchimia non è altro che un lavorare il proprio “composto”, per riconoscere la propria fattura e capire come siamo fatti, e quindi sperimentare e educare la propria macchina a fare certe cose, in modo tale che la macchina non faccia quello che vuole lei, ma quello che vuoi tu. E’ come se prendesse un computer che ha un sistema operativo: glielo toglie e gliene mette uno nuovo. Quando facciamo alchimia di gruppo, nel bosco, io invito i partecipanti a camminare bendati. Da quel momento, nella loro “macchina” (sotto la loro volontà) viene disinstallato un sistema, un programma che gli diceva “vai dove vedi”, e iniziano a dire: “Vai dove vedi con le mani, coi piedi, con i campi elettromagnetici”. Questa è una forma di alchimia. Io iniziato a praticarla dopo aver vissuto quello che un credente avrebbe attribuito all’intervento “miracoloso” di un santo, che gli ha “fatto la grazia”.Con il bosco ho vissuto un rapporto, un’esperienza forte. Avevo una malattia che non riuscivo a guarire. Avevo una “sigmoidite aspecifica con processi erosivi”. Quando il mio gastroenterologo me l’ha detto, pensavo di avere solo uno zaino, sulle spalle. Invece avevo anche una “sigmoidite aspecifica con processi erosivi”. Stavo letteralmente perdendo l’intestino. Falliti tutti i rimedi farmacologici, restava solo la via chirurgica. Mi sono detto: se sto perdendo il colon e mi devo far tagliare l’intestino, che contiene un terzo del cervello, allora vuol dire che è finito il mio tempo: me ne vado, non devo vivere per forza, e magari “dopo” starò anche meglio, chi lo sa. Quella sera ero in preda a una bella disperazione. E allora mi sono “dichiarato guerra”. E’ la prima operazione che l’alchimista compie: dichiararsi guerra. Mi sono detto: Michele, qual è la cosa che ti fa più paura? Il bosco di notte. Ci vado? Non ci vado? Scatta una sorta di sana schizofrenia, che in alchimia si chiama “doppio alchemico”. In pratica, ti sdoppi. Ti guardi da fuori, e il testimone ti osserva e ti parla. Lo dice anche Dante, “mi ritrovai per una selva oscura” (e infatti la Divina Commedia è un libro iniziatico). “Mi ritrovai”: erano in due, lui e “l’altro”. Così è cominciato quel dialogo, quella seea. “Mi fa paura, il bosco di notte”. “Bene, allora adesso ti ci porto”. “Ma sei matto?”. “Sì, ci andiamo. E senza torcia elettrica”.Così sono entrato nel bosco al buio, alla cieca. Ho cominciato a seguire un sentiero, ma poi mi sono perso. Ci sono rimasto per 4 ore. Sono successe cose turche, unne, ostrogote. Ho vissuto momenti di grande terrore, uno shock emozionale. Sono succese cose particolari, che non so descrivere perché non so cosa fossero. Però avvertito che c’erano dei movimenti, attorno a me, c’erano come delle presenze. C’era qualcuno, con me. Cos’era? Non lo so. Ho fatto incontri particolari, diciamo. E ho stretto un accordo con gli alberi: di questo non vi posso parlare, perché è una cosa che riguarda me e loro. Sta di fatto che, quando ho raggiunto la sommità del pendio, ho avuto un’esplosione di caldo fortissimo alla pancia. Ho fatto una gran sudata, poi scoppiato in singhiozzi. Sono caduto a terra, esausto, e ho pianto fino all’alba. Tornato a casa, la mattina, ho scoperto di essere totalmente guarito: non avevo più niente.Vi racconto questo dettaglio perché bisogna anche prendersi gioco di sé, per vincere. Dopo diversi anni, sapete, ero arrivato a pesare 42 chili. E quella mattina, dopo tanto tempo, sono riuscito a fare… la cacca. Ora, quando parli di un uomo e racconti che va a fare la cacca non piace, è poco virile. Ma io ho fatto la cacca e non volevo neppure tirare l’acqua: dopo anni, finalmente, avevo fatto una cacca normale. La rimiravo, pensavo addirittura di conservarla sotto spirito! Davvero: da allora non ho più avuto nessun disturbo. Il mio gastroenterologo non se lo spiegava: pensava che fossi stato a Lourdes, figuratevi. Mi sono detto: caro dottore, io e te non ci vedremo più, se non per un caffè o un aperitivo. Io questa storia l’ho vissuta e basta, e da lì non ho avuto più niente. Pensate che bello. Non vi nascondo che ho un po’ di commozione, nel raccontarla. Avevo seguito la via normale: hai problema, vai dal medico. Avevo lasciato perdere le alternative: mi ero affidato alla scienza, alla medicina ufficiale. E vi lascio immaginate a che tipo di analisi intrusive sono stato sottoposto, con tutte quelle sonde. Ero diventato carne da macello, ma non era servito a niente. Poi, appunto, sono andato nel bosco di notte.E’ successo qualcosa, sotto quegli alberi. Mi reputo una persona normalmente intelligente, capace di coltivare il dubbio. E il dubbio è una delle cose più preziose, è l’anticamera di ogni processo evolutivo. Se cominci a dubitare, smetti di prendere tutto per buono. E allora mi sono detto: è successo qualcosa, nel bosco. Non so cosa: non posso portarvi la formula chimica, non posso dire “è come se avessi preso questo farmaco che inibisce questa cosa e attiva quest’altra”. Eppure sono passato dalla malattia alla guarigione. Posso dire questo: qundo sono entrato nel bosco, quella notte, sapevo che la mia condizione andava degenerando. Lì è successo qualcosa, e infatti ne sono uscito guarito. Da allora ho cominciato a tornarci, tra gli alberi. La sera dopo sono tornato in quel bosco e ho fatto la stessa cosa, però senza più abbandonarmi totalmente. Una volta entrato ho percorso trecento metri e mi sono fermato lì in mezzo: ascoltavo. Il giorno dopo sono ritornato. Poi sono passato ad altri boschi. Cos’era successo, la prima notte? Provo a descriverlo come posso. Stare in quel bosco ha come attivato una memoria, un ricordo.Un po’ come dire: mi ricordo che sono fatto in un certo modo. E mi ricordo che posso anche modificarmi, se ho delle conoscenze. E così mi si è aperto tutto. E’ cos’ che sono morto. Quella sera sono morto: è morto il vecchio Michele, ed è iniziata una vita nuova, sicuramente consapevole e più libera. Per certi aspetti una vita anche più difficile, perché ti accorgi che nel tuo mondo precedente, di cui ti fidavi, c’erano troppe falsità. E allora dici: adesso devo veramente far fronte esclusivamente con le mie forze. E’ faticoso, tutto diventa più difficile. Sta meglio il pollo d’allevamento, sotto certi aspetti, rispetto al gallo cedrone: il pollo ha da mangiare, è protetto e curato. Ma la sua vita è in funzione del padrone. Vuoi mettere, un secondo da gallo cedrone, rispetto ai 43 giorni di vita del pollo d’allevamento? Pensate alla volpe: si sveglia ogni mattina e, di tutti i pensieri che facciamo noi, non ne fa neanche mezzo. Non pensa: devo pettinarmi prima di uscire, devo telefonare a questo e a quello, ho la scadenza dell’Iva, ho un senso di colpa che mi fa marcire dentro perché sono andato a letto con un’altra.La volpe non vive niente di tutto ciò: ha una libertà esperienziale estrema. La cosa ci deve far riflettere, perché il primo punto di partenza – per qualunque processo di guarigione – sta nel capire che stiamo vivendo una quotidianità che è totalmente artefatta. Iniziare a metterla in discussione significa aprire alternative. Poi c’è chi, come me, ha incontrato un albero, ma c’è chi può incontrare una persona e c’è chi, semplicemente, può vivere un sogno: qualcosa di particolare, che gli apre un’alternativa. Aprirsi un’alternativa, secondo me, significa raggiungere il massimo obiettivo. Dove ti porta, questa strada? E’ del tutto secondario. L’obiettivo non è raggiungere qualcosa. L’obiettivo è riuscire ad avere la voglia di cercare. Il risultato non è nel trovare, ma nel voler cercare. E quando la vivi, la ricerca stessa diventa un nutrimento assoluto.(Michele Giovagnoli, dichiarazioni relative alla conferenza al termine del seminario “Il mondo magico degli alberi: come interagire con loro e attingere a una conoscenza superiore”, svoltosi in valle di Susa il 26 agosto 2018, nei boschi che circondano la borgata Cresto, a Sant’Antonino di Susa. Alchimista e naturalista, scrittore e formatore, Giovagnoli ha pubblicato “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione”, edizioni Il Grappolo, 2004; “Alchimia selvatica”, Macroedizioni, 2014; “La messa è finita”, UnoEditori, 2017; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 2018. Info: sul blog di Giovagnoli e sulla sua pagina Facebook, che documenta il suo “Contatto Tour” alla ricerca degli alberi secolari italiani).L’alchimista che vi hanno raccontato gira sempre con l’inseparabile alambicco, no? Ricordo che in un libro di scuola, quando facevo le superiori, c’era mezza pagina sull’alchimia, e c’era ’sto sfigato che girava dappertutto con il suo alambicco. Era uno così, nascosto dal cappuccio perché sente freddo alla testa. E poi l’alambicco: lui ci fa anche il bidet, con l’alambicco! Ma questo è l’aspetto folcloristico che hanno diffuso per allontanarci dall’alchimia. E’ una tecnica: rendi ridicola una persona, così non la cerchi più. Si innesca una dinamica selvaggia: il gregge segue il più forte, evitando lo sfigato solitario con il suo alambicco. Allegorie, il potere dell’immagine: in realtà l’alchimista ha la testa coperta dal cappuccio perché la sua attenzione è rivolta dentro di sé. Lui si chiude, e l’alambicco è l’immagine di tutto il suo sistema vitale. Lui quindi cerca di gestire i suoi flussi interni, che sono dominati da un centro mentale, un centro sentimentale, un centro sessuale creativo e un centro fisico, che è la macchina biologica che abbiamo. Cosa vuol fare l’alchimista? Vuole fare il processo inverso rispetto a ciò che hanno fatto fare all’umanità, che è stata creata e addomesticata.
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Per chi suona la campana: ricordatevi di restare sottomessi
Vi invito a rileggere il significato del battesimo, soprattutto alla luce degli ultimi studi sulle proprietà dell’acqua di assumere forme differenti. Quello è veramente uno studio bellissimo, inaugurato da Masaru Emoto. Hanno visto come cambia, l’acqua, quando la si fa cristallizzare in condizioni ambientali particolari. Ora si sono fatti passi avanti. S’è visto che la molecola dell’acqua mantiene la sua struttura (chimicamente è sempre acqua) ma le molecole, sottoposte a sollecitazioni differenti, si aggregano e formano delle strutture differenti, con proprietà differenti e con capacità di avere memoria differente. Questo è un fatto che metterà in crisi tutto il fronte medico e anche quello farmacologico, perché viviamo ancora in un sistema dove ci si curia con il protocollo sanitario ospedaliero. Io penso proprio a questo, all’epigenetica, cioè alla capacità dei nostri geni di mutare, sulla base di sollecitazioni esterne, emotive. Ci penso anche a proposito del battesimo cristiano: ritengo il battesimo un momento nel quale vengono attivate delle memorie. Questo è indiscutibile – e non ho mai visto un bambino ridere, al suo battesimo. Ma questo ragionamento l’ho applicato soprattutto sul suono delle campane, che è uno degli aspetti più intriganti che si possono incontrare, quando si studiano le strumentazioni clericali: tutto fa pensare, infatti, che il suono delle campane possa indurre precise alterazioni, in noi.Perché suonavano le campane? Per avvisare che stava inziando la messa: non c’erano ancora gli orologi. Oggi, per sapere dove si trova la chiesa e quando comincia la messa ci basta consultare lo smartphone da 50 euro che abbiamo tutti in tasca: è uno strumento di prigionia, per questo costa così poco. Una volta, le campane servivano anche per gli scongiuri: per allontanare la grandine, per invocare la pioggia e interrompere la siccità (oggi invece basta premere il tasto di un Boeing per irrorare il cielo di alluminio e provocare pioggia o neve, caldo o freddo). Eppure le antiche campane suonano ancora: perché? Sapete, il suono delle campane – la possibilità di suonarle – viene ratificato ogni anno, a livello istituzionale: il clero cattolico è appositamente autorizzato dalla legge, a usare le campane delle chiese. Provate voi a prendete un tamburo: salire sul tetto di casa vostra e mettetevi a suonarlo ogni ora, e vedrete se non vi faranno smettere. Il suono delle campane, invece, è contrastabile legalmente solo nella misura in cui arreca disturbo, con un’emissione di decibel superiore a quella consentita, al punto da essere riconosciuto come fonte di inquinamento acustico. Viceversa, quel suono è inarrestabile. Perché allora le suonano ancora, le campane? La Chiesa non fa mai niente, a caso. C’è sotto qualcosa, no?Io ho fatto un’analisi partendo dall’epigenetica, la scienza che studia come i nostri geni possono cambiare, in tempi rapidissimi, in base alle condizioni ambientali che incontriamo. Cioè: quello che viviamo fa reagire i nostri geni in maniera differente, e trasmette queste informazioni ai nostri figli (che però non hanno vissuto la nostra esperienza). Hanno fatto uno studio su delle cavie, veramente interessante. Hanno preso delle cavie e le hanno messe in un contenitore, per un determinato periodo di tempo. All’accendersi di una luce azzurra, le cavie venivano molestate. Trasferite in un altro contenitore, appena riaccesa la luce azzurra le cavie diventavano nervose: sapevano che sarebbero arrivate le molestie. “Apprendimento diretto”, si chiama in etologia. Poi però hanno fatto riprodurre queste cavie, quindi hanno preso i loro piccoli e li hanno messi in un’altra stanza, in un altro contenitore: i figli non avevano mai visto la luce blu, ma appena si accendeva diventavano inquieti: reagivano cioè come i loro genitori, che invece le molestie le avevano sperimentate e subite, associate alla luce azzurra. I ricercatori hanno quindi visto che l’esperienza negativa dei genitori è finita geneticamente nella prole.Altro capitolo: i sopravvissuti della Shoah. Immaginate come si poteva vivere in un campo di concentramento, con quei livelli di stress estremi. A un certo punto sopravvivevano solo i fortunati che non venivano selezionati per lo sterminio. Quelli che riuscivano a resistere, spesso, erano anche i soggetti che avevano abbassavato la loro soglia di reazione all’atroce stimolo ricevuto da quell’ambiente spaventoso, altrimenti sarebbero morti d’infarto. Una ricerca universitaria americana ha scoperto che i figli dei reduci della Shoah hanno una propensione molto alta ad ammalarsi: il loro sistema immunitario scatta in ritardo, esattamente come scattava in ritardo la reattività dei loro genitori, che avevano rallentato i loro campanelli d’allarme, perché altrimenti scoppiava il loro sistema vitale. I figli hanno dunque ereditato l’atteggiamento dei genitori: ma i figli non ci sono mai stati, nei campi di sterminio. Un fenomeno analogo lo si è osservato sulle scimmie: un esperimento dimostra che possono “imparare”, anche loro, da esperienze che non hanno mai vissuto direttamente, sulla loro pelle.Ci sono 4 scimmie, in una stanza. A un certo punto viene fatta calare una banana dal soffitto. La prima scimmia si avventa sulla banana e, appena la afferra, si apre il pavimento sottostante: tutte le scimmie precipitano, insieme, in una vasca d’acqua gelida. Così, la seconda volta che calano la banana, nessuna scimmia si azzarda più a prenderla. Al che, tolgono una delle 4 scimmie iniziali e ne introducono una nuova. Appena compare la banana, la nuova scimmia si protende per afferrarla, ma le altre tre – che sanno cosa vuol dire (acqua fredda) – bloccano la nuova arrivata: guai ad avvicinarsi, a quella banana. Lei quindi non la tocca, ma senza sapere perché: però capisce che non deve prenderla. L’esperimento va avanti sostituendo gli animali. Tolgono un’altra scimmia, delle prime quattro iniziali, e ne mettono un’altra nuova – quindi: ci sono due scimme “vecchie”, una terza che già sa che non deve prendere la banana, più la scimmia nuova, la quarta. Non appena la banana ricompare, proprio quest’ultima scimmia cerca di afferrarla, ma viene prontamente fermata: non solo dalle prime due scimmie, che ricordano il bagno nell’acqua gelida, ma anche dalla terza scimmia, che nell’acqua non c’è finita mai. Alla fine, sostituiscono tutte le scimmie. Omai ci sono soltanto scimmie nuove: ma nessuna di loro osa più avvicinarsi alla banana che viene calata.Nel VI secolo dopo Cristo viene introdotta dal Papa la suonata delle campane. Il suono delle campane viene introdotto agli albori di un periodo che segnerà un inasprimento generale delle condizioni di vita: di lì a poco, il potere temporale della Chiesa diverrà assoluto. Le campane suoneranno tutte le volte che qualcuno sarà processato e condannato, tutte le volte che un eretico verrà sottoposto all’Auto da Fè, alla gogna. Succederà ogni volta che la persona torturata verrà messa su un carro e trascinata per la città, coperta di sacchi e abiti penitenziali. Tutti potranno udire il suono delle campane. Hai preso la banana? Finisci nell’acqua fredda. Hai rifiutato la Chiesa? Bruci sul rogo, al suono delle campane. Le campane suonavano sempre, ogni volta che si affacciava sul pubblico un Papa, o un vescovo, presentandosi all’altare per dettare le sue condizioni. Da 1200 anni a questa parte, la campana ha suonato ininterrottamente. Trasmettendoci un messaggio ben preciso: stai attento, perché a comandare sono “loro”. Quindi obbedisci, perché chi non l’ha fatto è finito male.Il suono della campana crea uno stato psicofisico che è l’antitesi dell’eros. Nel nostro contesto culturale, quel suono va a predisporci a temere qualcosa che incombe. E questo ci fa stare più buoni: in altre parole, sottomessi. La Chiesa romana riceve ogni anno 6 miliardi di euro dallo Stato italiano? Be’, pazienza. “Sbattezzarsi”? Ma no, si pensa – lasciamo perdere. E le campane, intanto, continuano a suonare. Eppure, il suono della campana è uno strumento raffinatissimo. Hai voglia a protestare, a dire “signori, guardate che avete stancato, con queste campane”: non smetteranno mai. Oltre un millennio di efficacissima tecnologia, per un formidabile controllo sociale. Lo confesso: mi piacerebbe se, prima o poi, si facesse un vero e proprio studio clinico, di carattere epigenetico, per verificare il tipo di alterazioni ormonali che si viene a creare, su un intero popolo, mediante il suono delle campana. Sarebbe interessante comparare il risultato con quello delle regioni del mondo dove non esistono campane che suonano. Credo che avremmo risultati veramente sorprendenti.(Michele Giovagnoli, dichiarazioni rilasciate nel febbraio 2018 alla conferenza “La messa è finita”, ripresa su YouTube. Naturalista, alchimista e scrittore, autore di libri come “Alchimia selvatica” e “Impara a parlare con gli alberi”, Giovagnoli ha pubblicato anche il saggio “La messa è finita”, ovvero “Come liberarsi del più subdolo dei parassiti – gli acutissimi strumenti di dominio in dotazione al clero”, UnoEditori, 175 pagine, euro 12,90).Vi invito a rileggere il significato del battesimo, soprattutto alla luce degli ultimi studi sulle proprietà dell’acqua di assumere forme differenti. Quello è veramente uno studio bellissimo, inaugurato da Masaru Emoto. Hanno visto come cambia, l’acqua, quando la si fa cristallizzare in condizioni ambientali particolari. Ora si sono fatti passi avanti. S’è visto che la molecola dell’acqua mantiene la sua struttura (chimicamente è sempre acqua) ma le molecole, sottoposte a sollecitazioni differenti, si aggregano e formano delle strutture differenti, con proprietà differenti e con capacità di avere memoria differente. Questo è un fatto che metterà in crisi tutto il fronte medico e anche quello farmacologico, perché viviamo ancora in un sistema dove ci si curia con il protocollo sanitario ospedaliero. Io penso proprio a questo, all’epigenetica, cioè alla capacità dei nostri geni di mutare, sulla base di sollecitazioni esterne, emotive. Ci penso anche a proposito del battesimo cristiano: ritengo il battesimo un momento nel quale vengono attivate delle memorie. Questo è indiscutibile – e non ho mai visto un bambino ridere, al suo battesimo. Ma questo ragionamento l’ho applicato soprattutto sul suono delle campane, che è uno degli aspetti più intriganti che si possono incontrare, quando si studiano le strumentazioni clericali: tutto fa pensare, infatti, che il suono delle campane possa indurre precise alterazioni, in noi.
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Parlare con gli alberi cambia la vita, ve lo spiega Giovagnoli
«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.Alchimista e scrittore, Giovagnoli si dichiara «animato dalla pulsione alla verità e da un universale senso di giustizia». Dalla frequentazione quotidiana dei boschi sostiene di apprendere «l’infinita arte dell’autotrascendenza». Qualcosa che ricorda, misteriosamente, il Giovanni Francese che poi passò alla storia come San Francesco, l’uomo di Assisi che elevò il primo Cantico delle Creature, mettendo l’uomo al pari delle stelle, del sole, dell’acqua e degli uccelli. Giovagnoli condivide le sue conoscenze “di frontiera” attraverso conferenze e seminari. Ha esordito nel 2004 con il saggio “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione” (Edizioni Il Grappolo). Dieci anni dopo, ecco il sorprendente “Alchimia Selvatica” (Macroedizioni), seguito a ruota da “La Messa è finita” (2017) e “Impara a parlare con gli Alberi” (2018). Perplessi, di fronte al rischio di consolatorie vaghezze di sapore new age? Peccato, perché Giovagnoli è innanzitutto uno scienziato degli alberi: li studia, li cerca e li scova in tutta Italia, sulle tracce delle piante secolari che popolano i nostri versanti. Gli alberi millenari, invece – con l’eccezione di qualche olivastro pugliese e sardo – li fece abbattere la Chiesa medievale dopo il Concilio Namnetense, come ad eliminare dei pericolosi “concorrenti”, oggetto di devozione popolare.In questo svolge anche la funzione dello storico, l’alchimista “selvatico” Giovagnoli: prima del suo libro-denuncia “La messa è finita”, quell’oscuro concilio vaticano – vero e proprio atto di guerra contro la tenace resistenza del panteismo pagano – era praticamente irrintracciabile su Google. Si dirà che nel frattempo l’umanità si è evoluta, per fortuna. Punti di vista: da quando abbiamo smesso di “parlare con gli alberi”, sono sparite le foreste vergini europee, mentre le altre (in Amazzonia, in Congo, nel Sud-Est Asiatico) sono ormai al lumicino, assediate da ruspe e motoseghe. Dove sarebbe, allora, quest’umanità improvvisamente pronta a tornare a guardare al bosco con altri occhi? Teorie: quelle dell’astrofisica Giuliana Conforto parlano di eventi cosmici in pieno corso, vento solare in rapidissima evoluzione – con pioggia notturna di microparticelle sul nostro cervello in apparenza dormiente. Ieri, nessun lettore scolastico avrebbe potuto prenderli sul serio, i tipi come Giovagnoli. Da qualche anno – lo dice la crescita vertiginosa di nicchie di consumo culturale – si sta invece diffondendo una nuova forma di curiosità collettiva, la stessa che affolla seminari e conferenze, gonfiando gli scaffali di libri semplicemente impensabili nei decenni precedenti.Quelli di Giovagnoli hanno il passo incantato dell’infanzia che sopravvive, adulta, nella maturità della poesia. Il bosco come preesistenza individuale e collettiva, fisica e metafisica, alla quale fare finalmente ritorno. Tornare là è indispensabile, scrive, in “Alchimia selvatica”: «La crescita è un viaggio in profondità, uno scavare e penetrare, ed è quindi indispensabile tornare indietro, tornare nel bosco». Sappiamo che esiste, ma restiamo sempre a distanza di sicurezza, perché «guardarlo significa sfidarsi». Tra gli alberi, «sentiamo di aver lasciato qualcosa in sospeso, come il vuoto di un tassello staccato da un mosaico. E guardando il bosco – scrive l’autore – si attiva un ingranaggio strano che recupera una corda da un abisso». C’è qualcosa di vivo, legato a quella corda. «Il bosco incute paura, una paura talmente forte da essere attrazione. Tentazione. Ci riguarda, ecco il punto!». Sembra “solo” una foresta, ma è anche uno specchio: «Ci piace parlarne come fosse un’entità esterna, ma intimamente sappiamo che parliamo di noi stessi». Il bosco è misterioso, intricato, buio: un reticolo di forze incontrollabili. «Tutto ciò che è scomodo e minaccioso racchiude in sé una forza propulsiva e creativa immane, e l’atto di affrontare il bosco è quindi il gesto coraggioso di chi affronta la propria immensità occulta, consapevole che dentro agli aspetti più ombrosi e inquietanti troverà un nutrimento essenziale per la propria crescita».Ciò che ci spaventa va quindi cercato, sostiene Giovagnoli: occorre chiamarlo per nome e raggiungerlo. «La crescita si compie attraverso un contatto, un abbraccio, e un riconoscere nel lato oscuro uno strumento di congiunzione con l’assoluto». E così, assicura l’autore, «ci si avvolge anche di innocenza e di stupore, rendendo lecita e obbligata ogni meraviglia». Si intenerisce, Giovagnoli: «Nel suo farsi specchio dell’animo del visitatore, il mondo selvatico risponde con un gesto protettivo fatto di ineguagliabile bellezza e armonia». A modo suo, lo scrittore-alchimista si sbarazza di qualsiasi residuo antropocentrico: niente ci appartiene davvero, siamo noi – semmai – ad appartenere al tutto, di cui il bosco è un simbolo-madre, potentemente archetipitico. L’albero, scrive Giovagnoli nel suo ultimo libro, è un essere senziente in grado di comunicare anche con l’essere umano. Lo stesso bosco «è un organismo dotato di una intelligenza superiore, capace di interagire con l’essere umano e indurre processi evolutivi sani». Parlare con gli alberi? E’ un gesto antico, quasi sovrumano. Aiuta a scoprire sensibilità inimmaginabili. «C’è una potenza smisurata in te: va risvegliata, accolta e poi protetta», si legge, nel manuale “Impara a parlare con gli alberi”, dedicato al nostro «patto ancestrale col Cosmo Natura».Facile declinarla in poesia, la filosofia alchemica di Giovagnoli. «Quando eri poco più che una cellula – scrive – nell’ossigeno che assorbivi ruotava già il ciclo delle stagioni selvatiche. Dagli stomi ti giungeva il fresco della primavera, l’indaco dei crochi e la caduta infinita di ogni foglia d’autunno. Era lì con te la neve, la luce dell’alba e anche l’influsso di Orione. Il mondo vegetale si faceva liquido e aria per diventare animale. Fedele a un accordo incomprensibile, diventavi Bosco in una forma nuova. Cellula dopo cellula, atomo dopo atomo. E su di un punto invisibile chiamato Anima si addensava il canto di un cosmo intero: la Natura!». L’albero quindi è con noi da sempre, aggiunge il poeta, e continua a “nutrirci” di ossigeno a ogni respiro. Un’antenna potente, capace di «trasmette al cuore le informazioni del cielo». Aggiunge Giovagnoli, rivolto al lettore: «Tu sei un albero, un albero che cammina. Quindi sai già tutto del Bosco, del pianeta Terra e del concilio infinito degli astri. Di ciò che è stato e di ciò che è pronto a venire. Ti occorre solo ricordare. Ed è proprio questo “ricordare” che significa saper parlare con gli alberi».In fondo, basta considerare il bosco come «l’archivio vivente, per eccellenza, di tutto l’universo emozionale umano». Per questo, assicura Giovagnoli, a chi lo “consulta” offre «infinite possibilità per il risveglio interiore». Seguendo le ciclicità delle stagioni «in accordo con le fasi alchemiche», l’autore di “Alchimia selvatica” guida un percorso pratico di interazione con gli elementi selvatici, mantenendo una posizione intermedia tra il narratore poetico e il “life coach”. Gli attrezzi da usare sono svariati tipi di comunicazione: quella dell’incanto e quella dell’osmosi, la comunicazione estetica e quella onirica. Teoria e pratica, dalla “comunicazione epidermica” alla “comunicazione invocativa”. Quasi giocoso l’approccio dell’ultima fatica, “Impara a parlare con gli alberi”: istruzioni per “ricordare” dov’è sepolta la sorgente misteriosa della nostra ancestrale parentela originaria con il bosco, la foresta di esseri “fatti di mente e cuore”, fieramente immobili sul terreno, incapaci di menzogna e portatori di una verità che ci sfugge: il sentimento della Terra, non più vista come oggetto di conquista ma finalmente dall’interno, come universo orbitante cui si deve, semplicemente, la vita.(I libri: Michele Giovagnoli, “Alchimia selvatica. La via del risveglio attraverso le arti magiche del bosco”, MacroEdizioni, 135 pagine, euro 10,20; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 109 pagine, euro 13,90. Giovagnoli li presenterà entrambi in valle di Susa domenica 26 agosto 2018 all’ombra degli alberi nel Parco Scholzel Manfrino in borgata Cresto a Sant’Antonino di Susa, ore 19. Nel pomeriggio, dalle ore 14 alle 19, animerà il seminario “Il mondo magico degli alberi, come interagire con loro ed attingere ad una conoscenza superiore”. Prenotazioni per il seminario: AncheAncora, più la pagina Facebook di Giovagnoli).«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.
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Giovagnoli: perché la Chiesa ci ha tolto gli alberi millenari
Solo questo, oggi, possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Era il manifesto poetico e politico di Eugenio Montale, sotto il fascismo. Letteratura a suo modo eroica, da Premio Nobel: ermetismo, frammentismo. Bandire le convenzioni letterarie, le leziosità, i virtuosismi formali e accademici. La verità, innanzitutto. Da allora, la poesia si è frantumata in un “solve et coagula” decisamente alchemico, che a volte l’ha fatta anche risorgere, sotto mentite spoglie, persino nell’universo mercenario degli spot pubblicitari. Di alchimia si occupa un poeta dei nostri giorni, molto sui generis: si chiama Michele Giovagnoli e faceva la guida naturalistica sui monti delle Marche, tra le ultime foreste di cerro. Poi si è ammalato, ed è entrato in crisi. Un problema al colon: incurabile, per la medicina ufficiale – ma non per il bosco: «Sono entrato nel bosco di notte, e il bosco mi ha guarito», racconta, ai microfoni di “Border Nights”. «Già l’indomani, i medici hanno constatato la mia completa guarigione. Mi hanno chiesto se fossi stato a Lourdes: ma quello è l’ultimo posto dove sarei andato». Già, perché il poetico alchimista Giovagnoli – un folletto, dalla chioma che ricorda quella di Branduardi – ha intrapreso una battaglia personale contro il potere che, racconta, ha condannato a morte le foreste primordiali, quelle degli alberi millenari. Pochi lo sanno, ma fu proprio la Chiesa di Roma – nel nono secolo dopo Cristo – a decretare la distruzione sistematica degli alberi antichi, venerati dalla popolazione.Nelle catacombe della storia cristiana, con l’aiuto di archivisti, Giovagnoli ha scovato le carte dello sconosciutissimo Concilio Namnetense, vero e proprio “fantasma” persino su Google, prima che uscisse “La messa è finita”, libro-denuncia nel quale il Folletto marchigiano riesuma lo sconcertante anatema lanciato dal Vaticano contro gli alberi più vetusti, ovviamente associati a misteriosi dèmoni. Altrettanto sconcertante il trattamento che vescovi e preti medievali si impegnarono a riservare alle maestose piante: dovevano essere segate e abbattute, poi addirittura sradicate, fatte a pezzi e infine bruciate – come fossero eretici in carne e ossa, e non monumenti (viventi) del mondo vegetale. Il sommo Guido Ceronetti, scrittore atipico e coltissimo traduttore, ha spiegato cosa c’è nella testa del piromane, quando non è un semplice incendiario a pagamento, reclutato dalla mafia della speculazione edilizia. E’ vero, il maniaco del fuoco prova sempre un segreto piacere nel veder divampare le fiamme, preparandosi poi a godersi di nascosto l’altro “spettacolo”, quello dei soccorsi. Ma c’è altro, in fondo alla sua mente: e cioè il gusto (probabilmente inconsapevole) della dissacrazione, della profanazione sacrilega. Perché i boschi, da che mondo è mondo – ricorda Ceronetti – sono sempre stati la dimora dei dèi. Ovvero: il tempio naturale di una sorta di patto sacro, tra l’uomo e l’universo.Giovagnoli collega le cose in modo diretto, persino brutale: la stessa mano che ci ha privato degli alberi millenari, dice, è quella che ha incatenato il mondo occidentale per 1700 anni, inaugurando la raffinata schiavitù psicologica della fede. Come Machiavelli, lo scrittore-alchimista la considera un sopraffino “instrumentum regni”: la sottomissione spinge gli uomini a mettersi in ginocchio e a chiedere assurdamente perdono – a umanissimi burocrati della religione – per non si sa quali peccati. «Ai romani servivano le catene, ai cristiani bastò il crocifisso». Un simbolo potentissimo e onnipresente, persino sulle cime dei monti: in molte conferenze, ora disponibili su YouTube, Giovagnoli propone un impetoso parallelo tra l’emblema cristico scelto dai cattolici – l’uomo in agonia sulla croce, atrocemente torturato – e «l’altro modello cristico, il meraviglioso Uomo Vitruviano di Leonardo, con tutti i suoi “centri di potere” liberi di esprimersi: la testa non cinta dalla corona di spine, mani e piedi non trafitti da chiodi ma in contatto con terra e cielo, e poi il sesso – i genitali tranquillamente esposti, non “bannati” come quelli del Gesù cattolico, nascosti da un panno». Citando il drammaturgo Alejandro Jodorowsky e il filologo-esegeta Igor Sibaldi, Giovagnoli sintetizza: «L’eros è la nostra maggiore forza creativa, quella che ci rende capaci di ribellarci; imprigionarlo e mortificarlo significa voler produrre generazioni di servi».Nella veemente invettiva anticattolica di Giovagnoli – fiero di essersi “sbattezzato” – c’è spazio anche per le entusiasmanti frontiere scientifiche dell’epigenetica, che studia i mutamenti “alchemici” che avvengono nel corpo umano di fronte a particolari sollecitazioni emotive. «Recenti studi esaminano l’effetto deprimente del suono delle campane: a chi le ascolta, in ultima analisi, ricordano l’onnipresenza di un potere superiore, insuperabile. Sono le stesse campane, dal suono grave, che venivano suonate per ammonire i fedeli: stai attento e vedi di rigare dritto, se non vuoi fare la fine degli eretici o degli ultimi sacerdoti pagani, appesi ai loro alberi sacri e lasciati morire lentamente, con il ventre squarciato». Campane e crocifissi, libertà di pensiero: opinioni, interpretazioni. Ma gli alberi? «In tutte le culture del mondo, l’albero rappresenta da sempre un cardine imprescindibile della spiritualità, un punto di riferimento visivo e simbolico, un’espressione viva che unisce Terra e Cielo. In tutte, tranne che in quella cattolica». Baobab immensi in Africa, sequoie millenarie in America, foreste incontaminate in Asia. Niente di simile, purtroppo, in Europa: tranne rarissimi casi – come quello degli olivastri sardi, vecchi anche di tremila anni – da noi i grandi alberi generalmente non superano i 2-3 secoli di vita.Niente a che vedere con le maestose querce meravigliosamente raccontate da Plinio il Vecchio, nella sua “Naturalis Historia” scritta al seguito delle legioni romane: sul Baltico, le querce millenarie erano così immense da formare archi grandiosi, sotto i quali potevano transitare squadroni di cavalleria. Certo, ammette Giovagnoli, la rivoluzione industriale ha dato il colpo di grazia alle foreste madri europee. Ma la “guerra” contro i grandi alberi nasce prima, ed è squisitamente culturale: qualcosa di molto più sottile e profondo delle mere istanze economiche. Notare: «Più ci si allontana geograficamente dal fulcro del dominio cattolico, quindi da Roma, e maggiore è la probabilità di incontrare esemplari di dimensioni straordinarie», insieme a popoli «con tradizioni che riconoscono all’albero un potere super partes nel vissuto spirituale». Non è un caso, aggiunge, se l’Italia si è data una legge-quadro sui parchi naturali solo negli anni ‘90. C’è stata una «evidentissima reticenza politica» nel concedere al verde la propria naturale importanza, in un paese cresciuto al suono dei campanili. «Al Grande Parassita – scrive Giovagnoli, alludendo al cattolicesimo – la natura selvatica non è mai piaciuta tanto; anzi, l’ha sempre considerata un intralcio», forse anche perché «chi conosce la natura selvatica comprende meglio e più velocemente anche la propria».A lui è accaduto anni fa, racconta, quando era alle prese con un dramma: nessun medico sembrava in grado di curarlo. «Mi sono allora comportato da alchimista», dice a Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Ho cercato volutamente lo stato di “nigredo”, la dissoluzione dell’Io, calandomi da solo nella cosa che più mi faceva paura: il bosco di notte». Scendere nel proprio buio: come Dante, che la sua resurrezione iniziatica la comincia proprio dalle tenebre dell’Inferno. «A un certo punto – racconta Michele – ho sentito un gran caldo alla pancia, e sono crollato in un pianto dirotto, fino all’alba. Tornato a casa, sono andato dal medico e ho scoperto che ero guarito». Come? Mistero: «Posso solo dire che l’albero è il nostro più grande alleato, sulla Terra». Inutile chiedere a un poeta di fare un disegno. Meglio assecondare la sua vena: «Un bosco ti sente, ti ascolta, percepisce la tua energia vibrazionale. Può anche mutare all’istante la sua composizione chimica, producendo acido acetil-salicilico. E’ qualcosa di prodigioso, che cambia la qualità dell’aria e può entrarti nella pelle, per osmosi». Alchimista autodidatta ed entusiasta, “miracolato” dai suoi alberi, Giovagnoli fa notare come sarebbe bello, se oggi avessimo a portata di mano quelle piante millenarie, oscenamente distrutte nel medievo. «Erano un pezzo della memoria vivente del mondo: avevano respirato la stessa aria di Gesù». E a proposito di aria: «Non potremmo vivere, senza gli alberi: sono loro a fabbricare l’ossigeno che ci tiene in vita».In tutte le tradizioni autenticamente esoteriche, inclusa quella ben conosciuta dal citato Leonardo, lo specchio è un simbolo principe: capovolgendo l’immagine, offre la visione integrata e complementare dell’insieme. Tradotto in “giovagnolese”: «Fateci caso: gli organi che respirano l’ossigeno prodotto dal bosco sono come alberi rovesciati: i polmoni la chioma, e sopra di loro i bronchi, le radici, ramificate in modo frattale esattamente come i rami delle piante». Serve altro, per capire come mai i grandi alberi erano sacri? «C’erano prima di noi, sono la storia della Terra. Sono stati i primi a uscire dall’acqua, creando un’atmosfera respirabile per gli esseri umani». Di più: «E’ come se gli alberi entrassero in noi, a partire dalla nascita: quella che respiriamo è la loro aria, il loro ossigeno». Gli alberi, poi, non conoscono frontiere: «Pensate a quando vanno in amore, in primavera: il polline di un noce greco può volare sul mare, per andare a “corteggiare” un noce cresciuto in Puglia». Aprite gli occhi, ripete Giovagnoli: «Non c’è una croce a congiungerci con l’universo: c’è un albero. Per questo, chi ha diffuso croci ha voluto abbattere gli alberi. E il più delle volte, le chiese sono state erette proprio là dove prima sorgevano alberi millenari». Teologia: la visione trascendente “sfratta” la divinità dal mondo: Dio c’è, ma è altrove. Non è immanente, nella natura. «Tutto falso», assicura il Folletto. «Non ci credete? Provate. Il bosco vi aspetta. Ed è pronto ad aiutarvi, come ha fatto con me».(Il libro: Michele Giovagnoli, “La messa è finita. Come liberarsi dal più subdolo dei parassiti. Gli acutissimi strumenti di dominio in dotazione al clero”, Uno Editori, 174 pagine, euro 12,90. Giovagnoli ha inoltre scritto “Alchimia selvatica. La via del riveglio attraverso le arti magiche del bosco”, Macro Edizioni, mentre con Uno Editori ha appena pubblicato “Imparare a parlare con gli alberi. Manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire con il bosco”).Solo questo, oggi, possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Era il manifesto poetico e politico di Eugenio Montale, sotto il fascismo. Letteratura a suo modo eroica, da Premio Nobel: ermetismo, frammentismo. Bandire le convenzioni letterarie, le leziosità, i virtuosismi formali e accademici. La verità, innanzitutto. Da allora, la poesia si è frantumata in un “solve et coagula” decisamente alchemico, che a volte l’ha fatta anche risorgere, sotto mentite spoglie, persino nell’universo mercenario degli spot pubblicitari. Di alchimia si occupa un poeta dei nostri giorni, molto sui generis: si chiama Michele Giovagnoli e faceva la guida naturalistica sui monti delle Marche, tra le ultime foreste di cerro. Poi si è ammalato, ed è entrato in crisi. Un problema al colon: incurabile, per la medicina ufficiale – ma non per il bosco: «Sono entrato nel bosco di notte, e il bosco mi ha guarito», racconta, ai microfoni di “Border Nights”. «Già l’indomani, i medici hanno constatato la mia completa guarigione. Mi hanno chiesto se fossi stato a Lourdes: ma quello è l’ultimo posto dove sarei andato». Già, perché il poetico alchimista Giovagnoli – un folletto, dalla chioma che ricorda quella di Branduardi – ha intrapreso una battaglia personale contro il potere che, racconta, ha condannato a morte le foreste primordiali, quelle degli alberi millenari. Pochi lo sanno, ma fu proprio la Chiesa di Roma – nel nono secolo dopo Cristo – a decretare la distruzione sistematica degli alberi antichi, venerati dalla popolazione.