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I Protocolli dei Savi di Sion: mistero indicibile, profezie vere
L’archetipo della lettura complottista: i “Protocolli dei Savi di Sion”. Un libro maledetto su cui molto è stato scritto e molto resta ancora da scrivere. Pubblicati per la prima volta nel 1905, i “Protocolli” furono accolti dall’opinione pubblica internazionale in modo ambivalente. Da un lato si fa notare che tutte le profezie in essi contenute si sono puntualmente avverate; e ciò dimostrerebbe la veridicità della congiura ebraica e massonica. Dall’altro si punta il dito sul fatto che quella congiura è in realtà il frutto della fantasia di Maurice Joly, che nel 1864 pubblicò un pamphlet, di cui i “Protocolli” sono un plagio evidente; e ciò dimostrerebbe la non-autenticità dell’opera. A mio avviso un’analisi serena e obiettiva del libro dovrebbe incentrarsi su questa inspiegabile contraddizione: come può un documento palesemente falso affermare fatti veri e verificabili? Poiché dei “Protocolli dei Savi di Sion” si fece immediatamente un uso politico, questo interrogativo fu messo da parte e i termini del discorso furono spostati dal problema non-autenticità/veridicità verso una strada sdrucciolevole: quello della verità trascendente. In Germania, dove la congiura ebraico-massonica fu ritenuta reale, i “Protocolli” furono usati dai nazionalsocialisti come una “licenza per un genocidio”, per usare le parole dell’israelita inglese Norman Cohn.In Russia, dove gli ebrei costituivano il 90% del governo bolscevico, bastava il solo possesso del libro per condannare il possessore alla fucilazione immediata, senza processo. Tra i due estremi si collocano i paesi cosiddetti democratici. In Inghilterra e negli Stati Uniti fin dal lontano 1920 la stampa sionista si batté per propagandare la tesi del complotto antisemita, usando l’argomento della non autenticità. In Svizzera si tenne un processo che dimostrò una verità processuale: ossia che ciò che non è autentico non può essere definito vero in aula di tribunale e quindi è una calunnia. Anche la sentenza fu però oggetto di speculazioni politiche, perché la verità processuale contraddiceva la verità dei fatti storici. A questo punto la parola dovrebbe passare proprio agli storici, ma pure costoro si sono lasciati manipolare dalla politica: poiché la storia si fa sui documenti e quelli in questione non sono autentici, gli storici hanno battuto la via a senso unico di indagare chi e perché compose i falsi “Protocolli”. Ancora una volta restava inevasa la questione della veridicità: come facevano questi malvagi calunniatori e falsari a predire con sbalorditiva esattezza tutti gli avvenimenti più importanti del Ventesimo secolo? Possedevano forse una sfera di cristallo?Ammettiamo per un attimo che qualcuno, conosciuto da tutti come un bugiardo, vi dica che possedete due braccia e due gambe: egli non ha forse detto, almeno per una volta, la verità? O la verità ha forse cessato di essere tale in bocca a un bugiardo (o presunto tale)? Crederete dunque di avere sei braccia come il dio Shiva solo perché tutti vogliono convincervi che colui che vi ha detto il contrario è un bugiardo? Ho posto queste domande retoriche per spiegare al lettore la molla che mi ha spinto a compiere ricerche più approfondite: quanto segue è il risultato dei miei studi. Per quanto è dato sapere, i Protocolli furono pubblicati per la prima volta in Russia da Sergey Nilus nel 1905 in appendice al libro “Il piccolo nel grande”. In realtà singole parti dei “Protocolli” iniziarono a circolare in forma privata già a partire dal 1897: l’anno del Primo Congresso Sionista a Basilea. In un primo momento Nilus affermò che i “Protocolli” erano il verbale delle riunioni segrete del congresso. Quando gli fu fatto notare che il congresso si tenne a porte aperte e che non tutti gli ebrei vi avevano partecipato, egli cadde nel tranello e cambiò versione. Nilus, insomma, mentiva e ciò bastò agli storici per parlare di un complotto politico. A nessuno venne in mente un’altra ipotesi: che Nilus, semplicemente, non conoscesse l’origine di quei documenti e che li avesse considerati autentici in virtù della loro veridicità.I due termini, come ho dimostrato, non hanno lo stesso significato; ma procediamo oltre. I primi protocolli furono pubblicati in forma non integrale su un giornale russo a partire dal 1903. Essi si basavano, come detto, su documenti che iniziarono a circolare privatamente dal 1897 e che provenivano dalla Francia. A Parigi operava in quel momento una sezione della polizia segreta zarista, la Okhrana, diretta dal noto antisemita Pyotr Ivanovich Rachkovsky. Una delle spie zariste a Parigi era Matvei Vasilyevich Golovinski, amico del figlio di Joly, che copiò (con minime differenze) interi passi del “Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu” confezionando così i “Protocolli dei Savi di Sion”. Secondo gli storici il capo dell’Okhrana Rachkovsky e il ministro degli esteri, conte De Witte, si sarebbero serviti dei falsi documenti per contrastare la diffusione di idee liberali, anarchiche, socialiste e nichiliste. I “Protocolli”, quindi, avrebbero proposto un’interpretazione artificiosa delle dinamiche storiche: avrebbero semplificato i fatti fino a distorcerli, facendo leva su pregiudizi anti-semiti e anti-massonici che erano largamente diffusi nella società europea.Storici e giornalisti si sono fermati qui, paghi di aver dimostrato la tesi del complotto antisemita. Io invece non mi ritengo soddisfatto, dal momento che nessuno parla mai di Maurice Joly, il vero ispiratore – suo malgrado – dei “Protocolli”. Questo silenzio è quantomeno sospetto. I “Dialoghi all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu” non contengono alcuna accusa contro gli ebrei. Si tratta invece di un pamphlet satirico contro Napoleone III. L’opera mette a raffronto due modi di agire in politica: quello del diritto, identificato con Montesquieu, e quello del potere e cioè il tradimento, l’inganno, la corruzione e la violenza. Erano questi i sistemi raccomandati da Machiavelli al principe ideale, che per Maurice Joly era proprio Napoleone. L’autore dei “Dialoghi” era un socialista utopico e un massone affiliato alla loggia La Clémente Amitié: non sorprende perciò la sua avversione per i circoli cattolici e nazionalisti che sostenevano l’imperatore. Completiamo questa sommaria biografia ricordando che il principale finanziatore del giornale di Joly, Le Palais, era Crémiuex. Di trent’anni più vecchio, questo scaltro uomo politico israelita fu per lui un vero e proprio mentore.Adolphe Isaac Crémieux fu il fondatore dell’Alleanza Israelitica Universale, una organizzazione politica e culturale che sintetizza i principi massonici della Rivoluzione Francese con l’ebraismo. Cremiuex fu inizialmente un seguace dell’imperatore. La sua ambizione si spingeva fino a sognare di diventare primo ministro ed era sostenuta dai generosi finanziamenti del barone De Rothschild. Quando però Napoleone III si orientò sui servizi di un altro banchiere ebreo, questo importante uomo politico divenne un oppositore e tale rimase fino alla caduta della monarchia. Infatti nel 1871 troviamo proprio lui al fianco del barone De Rothschild a trattare la pace con il cancelliere Bismarck dopo la guerra franco-prussiana, che era costata il trono all’imperatore. Crémieux fu anche gran maestro del Rito Scozzese e membro dell’Ordine di Memphis e Mizraim, due Riti del Grand Orient de France: la massoneria più anticlericale d’Europa. A testimonianza del suo odio per i gentili citerò un aneddoto. In occasione dell’omicidio rituale di padre Tommaso a Damasco, un episodio che nel 1848 fece inorridire i salotti della borghesia europea, Crémieux usò tutta la sua influenza per ottenere la liberazione dell’assassino (ebreo) del missionario.Ora la faccenda appare molto diversa da come ci è stata raccontata: sebbene i “Protocolli dei Savi di Sion” siano un falso, la loro fonte principale, che è il “Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu”, fu realmente composta in ambito ebraico, socialista e massonico. Proprio per questo il filo conduttore dei “Protocolli” è tipicamente massonico: il sovvertimento della società cristiana per affermare un nuovo ordine sociale – ordo ab chao è il motto dei massoni. Inoltre lo stesso mondo ebraico a cui alludono i “Protocolli” ha le sembianze di un ordine segreto gerarchicamente organizzato, con a capo un gruppo di iniziati: i Savi di Sion. Infine i “Protocolli”, ricopiando i “Dialoghi”, rilanciano l’archetipo della congiura segreta contro l’umanità, che era proprio delle leggende nere che circolavano sui gesuiti negli ambienti anticlericali. Forse non è azzardo ipotizzare che Golovinski, inventando la congiura giudeo-massonica, tentasse di dare un nome agli interessi che Joly serviva, sfiorando la verità senza riuscire a catturarla in tutte le sue infinite sfaccettature.E’ importante comprendere che tutti i protagonisti di questa vicenda sono individui opachi e difficilmente etichettabili, come spesso si incontrano nel mondo dello spionaggio. Per esempio Rachkovsky, il famigerato antisemita a capo dell’Okhrana, era stato in precedenza un agitatore studentesco e aveva persino diretto un giornale ebraico: “L’Ebreo russo”. Non meno sorprendente è sapere che egli favorì la carriera, in seno alla polizia segreta zarista, di un terrorista ebreo di nome Abraham Hackelman. Che dire poi del suo agente Golovinski, che passò al servizio dei bolscevichi dopo la Rivoluzione del 1917? Forse è meglio usare cautela prima di attribuire intenzioni politiche a soggetti che sono mossi dall’avidità, dalla sete di potere e dall’amore per intrigo piuttosto che dalle ideologie. Per queste ragioni non mi sento di affermare con certezza che i “Protocolli dei Savi di Sion” siano stati creati con l’unico scopo di fomentare l’antisemitismo: chi può dirlo con certezza?Curiosamente Rachkovsky e il conte De Witte risposero alle accuse di essere gli istigatori dei “Protocolli”, attribuendone la paternità al grande illuminato Gérard Encausse detto Papus, il fondatore dell’Ordine Martinista. Infatti costui, già prima della pubblicazione dei “Protocolli”, aveva scritto di una congiura segreta che costringeva i governi delle nazioni a fare le guerre e a dettava i termini dei trattati di pace per il profitto del “sindacato della finanza” e cioè dell’oligarchia finanziaria internazionale. La congiura, a suo dire, mirava a favorire la fortuna di pochi uomini: i promotori della congiura. Perché mai Papus lanciò un’accusa tanto ardita? Perché egli aveva conosciuto lo zar Nicola II e si era guadagnato la sua fiducia. Per conservarla e per sfruttarla a vantaggio degli interessi che serviva, Papus inviò alla corte di San Pietroburgo il suo maestro Nizier Anthelme Philippe, alias Maître Philippe da Lione. Quest’ultimo usò i poteri taumaturgici di cui si diceva investito per proteggere la famiglia imperiale e iniziò lo zar al martinismo. Secondo gli storici dell’esoterismo, Maître Philippe mise in piedi le logge martiniste in Russia, nelle quali attirò ricchi aristocratici e potenti burocrati.A capo della massoneria martinista russa si pose Nicola II in persona. Le accuse di Rachkovsky e del conte De Witte (un cugino della Blavatsky) contro Papus si devono quindi contestualizzare in una faida interna alla corte di San Pietroburgo, che si concluse con l’allontanamento di Maître Philippe e l’ingresso in scena del mistico Rasputin. Se le rivelazioni di Papus arrivarono all’orecchio dello zar, la sua reazione potrebbe aver spinto l’Okhrana ad agire, utilizzando il testo di Joly per fini che a questo punto non sono affatto chiari. Accenno appena al fatto che nel 1905 (o poco prima) la polizia segreta zarista aveva stretto un’alleanza inconfessabile con la Grand Lodge de France per portare avanti un progetto politico che resta tuttora avvolto nel mistero. Questa, però, è una storia che ci porterebbe molto lontano: meglio fermarsi qui, per il momento. Con questo articolo credo di aver svelato l’identità di coloro che si nascondono dietro l’espressione “Savi di Sion”: gli alti dignitari della massoneria del Rito di Memphis e Mizraim e dell’Alleanza Israelitica Universale, patrocinate dal denaro dei Rothschild. L’esistenza di questo centro di potere occulto rimase celato dietro l’ipotesi di una generica congiura dell’intera razza ebraica: in altre parole i “Protocolli dei Savi di Sion” fabbricarono una copertura perfetta per i veri congiurati.Se ciò sia stato intenzionale o meno non posso affermarlo con certezza. Quando però l’industriale israelita Walter Rathenau rivelò alla stampa l’esistenza di un complotto di «trecento persone che si conoscono tra loro» e si sono autonominate padrone dell’Europa, il vaso di Pandora fu finalmente scoperchiato. Rathenau divenne nel 1922 ministro degli esteri della Repubblica di Weimar e a quel punto si trovò nella posizione di rivelare importanti retroscena della congiura – quella vera, intendo – ai governi europei. Bisognava richiudere il vaso di Pandora prima che fosse troppo tardi: quattro mesi dopo la sua nomina, Rathenau fu ucciso da terroristi di estrema destra. Così nessuno più si domandò chi fossero i membri del “Comitato dei Trecento”: il mondo pianse invece l’ennesima vittima dell’antisemitismo agitato dal libro maledetto, i “Protocolli dei Savi di Sion”. Riassumendo: 1) i “Protocolli” non sono documenti autentici, ma il loro contenuto è in gran parte vero e verificabile; infatti 2) la fonte principale a cui attingono i “Protocolli” è un pamphlet scritto in ambito massonico ed ebraico; e infine 3) l’idea di una generica congiura ebraica e massonica (o viceversa di un complotto antisemita) ha finora occultato l’esistenza di una reale congiura, che da oltre un secolo viene condotta dal casato dei Rothschild e dai suoi agenti.(Enrico Montermini, “I Protocolli dei Savi di Sion: un segreto indicibile!, dal blog di Montermini del 6 novembre 2017).L’archetipo della lettura complottista: i “Protocolli dei Savi di Sion”. Un libro maledetto su cui molto è stato scritto e molto resta ancora da scrivere. Pubblicati per la prima volta nel 1905, i “Protocolli” furono accolti dall’opinione pubblica internazionale in modo ambivalente. Da un lato si fa notare che tutte le profezie in essi contenute si sono puntualmente avverate; e ciò dimostrerebbe la veridicità della congiura ebraica e massonica. Dall’altro si punta il dito sul fatto che quella congiura è in realtà il frutto della fantasia di Maurice Joly, che nel 1864 pubblicò un pamphlet, di cui i “Protocolli” sono un plagio evidente; e ciò dimostrerebbe la non-autenticità dell’opera. A mio avviso un’analisi serena e obiettiva del libro dovrebbe incentrarsi su questa inspiegabile contraddizione: come può un documento palesemente falso affermare fatti veri e verificabili? Poiché dei “Protocolli dei Savi di Sion” si fece immediatamente un uso politico, questo interrogativo fu messo da parte e i termini del discorso furono spostati dal problema non-autenticità/veridicità verso una strada sdrucciolevole: quello della verità trascendente. In Germania, dove la congiura ebraico-massonica fu ritenuta reale, i “Protocolli” furono usati dai nazionalsocialisti come una “licenza per un genocidio”, per usare le parole dell’israelita inglese Norman Cohn.
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Summa Symbolica: noi e la memoria ancestrale dell’universo
C’è un non-luogo, chiamato “memoria ancestrale”, in cui è depositata ogni traccia di vita: l’impronta invisibile di pensieri e azioni, eventi materiali e immateriali. Una banca dati sconfinata, una sorta di “preistoria del tempo”. L’ipotesi è profondamente suggestiva: ogni nostra cellula conterrebbe in sé una parte di quella “memoria universale”: la condivide, le corrisponde – per vie analogiche e misteriose, attraverso processi istantanei che non possiamo controllare, e di cui non abbiamo neppure consapevolezza. Tutto quello che riusciamo a verificare è soltanto a valle del “prima”, è qualcosa che avviene dopo. E’ la nostra imperfetta traduzione di quel “grande prima”. E può esprimersi in due modi: sotto forma di miti, cioè narrazioni, oppure di simboli, ovvero rappresentazioni. Ma gli eventi, raccontati o rappresentati, sono i medesimi: si chiamano archetipi, e popolano (da sempre) un non-tempo che ci riguarda da vicinissimo. Una dimensione che “frequentiamo” soltanto in sogno. Per tentare di risalire all’origine, scoprendone il senso segreto, uno strumento efficace è quello che Gianfranco Carpeoro chiama “scienza simbolica”. Materia vastissima, spesso sfiorata da svariati campi del sapere (dalla filosofia alla psicologia, fino alla semiotica) ma mai affrontata separatamente e in modo analitico, sistematico – scientifico, appunto.Proprio l’approccio razionale al mondo sfuggente dei simboli è l’ambizioso l’obiettivo di “Summa Symbolica”, primo volume – introduttivo, metodologico – del vasto lavoro di Carpeoro, simbologo di formazione massonica e rosicruciana, con alle spalle trent’anni di studi sul mondo dei segni tradotti in simboli – segni visivi ma anche sonori, musicali, e persino olfattivi, tattili e gustativi. E’ una dimensione, quella simbolica, nella quale siamo costantemente immersi: meno ce ne rendiamo conto, e più rischiamo di subirla. Esempio: «Verso mezzogiorno, nei supermercati, viene spesso diffuso il profumo del pane caldo, appena sfornato: è un odore che diventa simbolo, innesca la memoria di ciascuno e serve a incrementare la motivazione d’acquisto, da parte degli ignari consumatori». Un simbolo può essere acustico: è il caso del segnale di pericolo emesso dalla gazzella quando, nella savana, avvista la leonessa in caccia. E’ un richiamo straziante, drammatico: l’imitazione perfetta dell’ultimo rantolo esalato, chissà quando, da una gazzella catturata e sbranata. Lo hanno scoperto gli etologi: le gazzelle superstiti assistettero alla predazione e udirono quel grido. Che da allora, una volta riprodotto, avverte le consimili, in modo inequivocabile, dell’imminente pericolo di morte.Ricostruendo l’origine del simbolo, a partire dal “simbolo Universo” e dal “simbolo prima del segno”, Carpeoro si sofferma a lungo sull’analisi del mondo originario da cui il simbolo discende, cioè la dimensione degli archetipi che affollano la “memoria ancestrale”. L’autore esamina le diverse interpretazioni del mondo archetipico sviluppate dal pensiero contemporaneo a partire da Jung, per poi passare attraverso studiosi come Mircea Eliade, Elémire Zolla, il simbologo René Guénon, pensatori meno noti come Réné Alleau e autori controversi come Julius Evola. «A nostro avviso – scrive Carpeoro – i nostri primi grandi archetipi, che noi denominiamo “protoarchetipi” o “specula” sono quelli fondati appunto sulla specularità: buio-luce, silenzio-suono, dolore-piacere, vita-morte». Che cosa sono? «Sono le nostre prime cognizioni o percezioni», cioè «gli eventi primari, fisici o metafisici», tutti derivanti dall’evento base, primigenio, espresso da Amleto: “Essere o non essere”». La cronologia esatta va invertita, e cioè: “non-essere, essere”. Prima il nulla, poi la creazione. Quel motto di Amleto caratterizza anche «il dubbio esistenziale, psicoanalitico e letterario, relativo ai sogni e alla distinzione dei medesimi rispetto alla vita reale, sintetizzato dalla massima “La vita è un sogno e la morte è il risveglio”, del grande scrittore spagnolo Pedro Calderón de la Barca”».«L’evento base “non essere, essere”, o anche “tutto e il contrario di tutto”, realizza il Primo Archetipo», che Carpeoro chiama “Speculum”, specchio. Da quello, e dagli altri “protoarchetipi”, «derivano tutti gli schemi simbolici che ci circondano e ci spiegano la storia e il cosmo, se e quando ci troviamo nella condizione di interpretarli». Fiabe, leggende e allegorie ripropogono sistemi simbolici anche complessi, poi tradotti nella stessa interpretazione dei sogni, a cui tanta importanza ha attribuito la psicanalisi. Sono tutte porte aperte sul misterioso mondo del “prima”, dove la nostra cognizione della vita comincia a nascere, in modo inafferrabile, a partire dallo “speculum” iniziale, l’opposizione tra “non essere” e “essere”, in realtà destinata poi a ricomporsi in modo complementare, nella comprensione del tutto. In altre parole, il linguaggio dei simboli – in cui si specchiano gli archetipi – può dirci qualcosa di importante sul vero luogo in cui nasce, da sempre, la nostra possibilità di pensiero. Il simbolo, poi, fa a meno dell’ordinario codice alfabetico: può viaggiare per secoli e millenni, conservando intatto il suo messaggio primigenio, a prescindere dale epoche e dalle civiltà attraversate. E’ un messaggero del “grande prima”: ci parla del nostro passato più in ombra, quello che non finisce sui libri di storia: è la meta-storia, quella del pensiero (anche invisibile) da cui poi sgorga la storia vera e propria.Nell’agile narrazione del primo volume di “Summa Symbolica”, arricchita da rapide escursioni nel mondo dell’arte, fino al cinema contemporaneo, si coglie lo sforzo di collocare la “scienza simbolica” in un preciso contesto di ricerca, a metà strada tra filosofia e neuroscienze, nell’intento di restituire piena dignità a una materia sempre e solo affrontata in modo tangenziale, periferico e accessorio. Fondamentale, nel lavoro di Carpeoro, la precisione con cui l’autore descrive la meccanica del simbolo, il suo funzionamento, che risponde a regole precise (l’autore le chiama “leggi”). La prima è quella che definisce il simbolo come rappresentazione di un archetipo. Fondamentale la Prima Legge di Guénon: nel simbolo, il piccolo può rappresentare il grande, l’inferiore il superiore, la parte il tutto – mai viceversa. Esistono leggi statiche, che espandono il simbolo in orizzontale, e leggi di corripondenza, secondo cui il simbolo deve contenere le esatte corripondenze della realtà rappresentata (nella frase “come in cielo, così in terra” rivive il motto esoterico “quod superius, sicut inferius” degli antichi alchimisti: al microcosmo corrisponde sempre il macrocosmo).Il simbolo, riassume Carpeoro, obbedisce anche a leggi dinamiche: può essere trasmesso in modo consapevole, mediante iniziazione, o in maniera inconsapevole, per semplice ripetizione (tradizione). Il simbolo ha inoltre precise funzioni: sintetica ed evocativa. «Se per la funzione sintetica è sufficiente un unico simbolo, per la funzione evocativa è necessaria una pluralità di simboli organizzata in linguaggio». A cascata, i sistemi simbolici che costituiscono il cuore delle fiabe vivono in un habitat narrativo fatto di emotività (pathos), mentre è l’epos a “ingigantire” la narrazione delle leggende, e una terza chiave – l’ethos – governa l’allegoria, imponendovi un preciso ordine. Nel sogno, infine, si articola il lògos (parola, racconto), che deriva la greco léghein (legare, collegare) da cui derivano vocaboli come “intelligenza”. Proprio nel sogno, scrive Carpeoro, il cerchio si chiude: in quella esclusiva dimensione, gli archetipi rivivono in purezza. Durante il sonno, la “memoria ancestrale” ci parla direttamente, senza mediazioni. Non disponendo di un linguaggio per tradurla, siamo costretti a ricorrere a espedienti ingegnosi: i simboli, appunto. Per questo è importante imparare il loro linguaggio: potremmo scoprire qualcosa di fondamentale della nostra storia, del nostro pensiero, della nostra vita. Fino a “riconoscere” che molte cose che sappiamo, o crediamo di sapere, hanno un’origine remotissima: “abitano”, da sempre, nella “memoria ancestrale” dell’universo.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Summa Symbolica. Istituzioni di studi simbolici e tradizionali”, parte prima, “Origine e dinamica dei simboli”, edizioni L’Età dell’Acquario, 221 pagine, 24 euro).C’è un non-luogo, chiamato “memoria ancestrale”, in cui è depositata ogni traccia di vita: l’impronta invisibile di pensieri e azioni, eventi materiali e immateriali. Una banca dati sconfinata, una sorta di “preistoria del tempo”. L’ipotesi è profondamente suggestiva: ogni nostra cellula conterrebbe in sé una parte di quella “memoria universale”: la condivide, le corrisponde – per vie analogiche e misteriose, attraverso processi istantanei che non possiamo controllare, e di cui non abbiamo neppure consapevolezza. Tutto quello che riusciamo a verificare è soltanto a valle del “prima”, è qualcosa che avviene dopo. E’ la nostra imperfetta traduzione di quel “grande prima”. E può esprimersi in due modi: sotto forma di miti, cioè narrazioni, oppure di simboli, ovvero rappresentazioni. Ma gli eventi, raccontati o rappresentati, sono i medesimi: si chiamano archetipi, e popolano (da sempre) un non-tempo che ci riguarda da vicinissimo. Una dimensione che “frequentiamo” soltanto in sogno. Per tentare di risalire all’origine, scoprendone il senso segreto, uno strumento efficace è quello che Gianfranco Carpeoro chiama “scienza simbolica”. Materia vastissima, spesso sfiorata da svariati campi del sapere (dalla filosofia alla psicologia, fino alla semiotica) ma mai affrontata separatamente e in modo analitico, sistematico – scientifico, appunto.
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La materia è pensiero: Giordano Bruno anticipò la scienza
«Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia», scrive l’astrofisica Giuliana Conforto. «La Forza è la Vita Cosmica». Giordano Bruno? «Non esprime filosofia, ma una scienza del futuro e una saggezza antica. Testimonia l’eterno presente e, con l’Arte della Memoria, indica il modo per viverlo». Di fatto, il grande pensatore rinascimentale bruciato vivo a Roma il 17 febbraio 1600 «anticipa la scoperta della Forza, la Vita Cosmica, e rivela il grande segreto della materia nucleare che la scienza non ha ancora compreso: la comunione diretta e quindi l’etica naturale di ogni essere umano con la Forza». Fu questo, aggiunge la Conforto, il motivo vero della sua condanna, «perché rende vano il ruolo delle chiese come presunte rappresentanti di Dio». Infatti, «la comunione diretta rivela la centralità dell’uomo e spiega il faticoso preludio al grande evento: la nascita dell’uomo nuovo che, per il fatto di “aver mutato intento”, diverrà cosciente, responsabile di sé e capace di creare un nuovo mondo». Da sempre, sulla Terra, sottolinea una studiosa come Manuela Racci, esistono esseri che «indicano la via per edificare un nuovo mondo, per aprire il cammino all’umanità verso una nuova aurora: sono esseri di luce, accomunati dalla stessa forza ed energia, marchiati dalla stessa solitudine». Forse «venuti troppo presto, nati postumi con la mente dinamite», come direbbe Nietzsche.Giordano Bruno potrebbe davvero considerarsi un nobile antesignano di questa specie chiamata “indaco”, giunta a edificare un nuovo mondo, «un mondo di luce per esseri di luce che vedono e sentono con gli stessi occhi e la stessa mente sia gli universi visibili che quelli invisibili», scrive la Racci, in una riflessione ripresa dal blog “Visione Alchemica”. «Un grande pensatore, arso vivo per il vizio di pensare; un filosofo di una modernità quasi inquietante, ma soprattutto un uomo fuori del comune, uno spirito folletto, fantasioso, originale». Quello che trasmetteva «non era solo un’immagine della vita, ma un’emozione del mondo». Giordano Bruno «era un grande: in lui albergava la conoscenza dei mondi paralleli, della metempsicosi, delle energie sottili». Straordinario, per quei tempi. La sua profondità «non è quella che connota il pensiero tecnico-scientifico da secoli imperante in Occidente». Va ricercata nell’inconscio della scienza stessa, «che è a un tempo ciò da cui la scienza scaturisce e ciò che la scienza rimuove». Innegabili sono i miglioramenti che la scienza ha apportato alla vita dell’uomo occidentale. «Ma sotto l’aspetto della felicità, della ricerca di una pace interiore, di una quiete dell’anima in piena armonia con la natura e più ampiamente con il Tutto, risulta più difficile parlare di progresso».Per la professoressa Racci, sembra quasi che la scienza abbia sdradicato l’uomo dal suo habitat naturale, la fusione con la natura, «facendolo sentire meno alienato di fronte a un computer che al cospetto di un tramonto». Allo stesso modo, la religione, «per quanto antiscientifica possa sembrare», ha sovente «cercato il connubio con la ragione, con l’evidenza e la chiarezza del “lumen” naturale, perdendo in realtà la sua vera “quidditas”, la sua dimensione sacrale». Per questo Giordano Bruno fu messo al rogo: «La sua “nova filosofia” non era né scientifica, né strettamente religiosa, in quanto si fondava sulla “magia naturale”, sulla “prisca Aegiptorum sapientia”», l’amtica sapienza egizia. «Bruno è infatti il vero sensitivo immerso nella “fusis”, convinto che si possano abbattere le barriere tra l’umano e il divino». E attenzione: «Niente è più positivo dello sfondamento dei limiti, dello spostare le pietre di confine per arrivare alla comprensione che l’uomo, la Natura e Dio sono la stessa cosa. Nell’universo tutto è Vita, tutto è animato da uno stesso spirito vivificatore». Letteralmente: «Tutte le cose sono nell’universo e l’universo è in tutte le cose», in perfetta armonia.E’ un’innegabile forma di animismo: per Bruno, tra le piante, gli animali, gli uomini non c’è differenza se non di grado. La differenza è nel “Dorso della Forma”, sono fenomeni di un’unica sostanza universale. Pensare che il mondo sia là solo per l’uomo è un grave errore: «Il filosofo esce così dalla cultura occidentale cristiana e modula il suo sentire sul registro affine a quello buddista». Con l’ammirazione dovuta a chi sacrifica la vita per le proprie idee, «Bruno andrebbe inserito in una sfera iniziatica, riferendosi non tanto alla sua laicità, bensì alla sua sacralità, al suo vedere la presenza divina in ogni cosa, alla sua ansia di ricerca che trascende il raziocinio nel suo identificarsi nella natura, che è per lui un vero e proprio “indiamento”», cioè un’unione estatica tra l’umano e il divino. Si tratta di varcare il limite dell’homo sapiens per avviarsi «verso altra natura, altri corsi, altri mondi».La materia dunque non è inerte, ma viva, animata (pampsichismo) e costituisce uno dei centri archimedei del pensiero di Bruno: infatti, continua Manuela Racci, il filosofo perviene a una concezione della materia universale come fonte dell’infinito prodursi di tutta la realtà: come la gestante che riscuote da sé la sua prole, la materia contiene in sé tutte le forme, è «cosa divina e ottima parente, genitrice e madre di cose naturali, anzi la natura tutta in sustanza»; è «fonte de l’attualità» di ogni cosa. Per Bruno la materia è Vita, materia infinita, e tra l’anima dell’uomo e quella delle bestie non c’è alcuna differenza sostanziale. «Potremmo dire che la “magia naturale” di Bruno si colloca in quella sotterranea corrente che prende il nome di “pensiero per immagini” che, pur perdente in Occidente, costituisce la fonte segreta del sapere, fonte a cui si accede non per via logico-architettonica ma per pratica amorosa». La concezione che Bruno ha della forza dell’Amore ribadisce la pregnanza e l’attualità di tale concetto in campo metafisico e metempirico: la forza «che move il sole e l’altre stelle», di cui parla Dante, è «l’unica che muove infiniti mondi e li rende vivi». E quella “magia naturale” che solo il vero saggio da sempre sente.«L’amore, dice il filosofo, sa “comprendere” ciò che la ragione non sa “spiegare”, là dove la scienza può spiegare tutto, senza nulla comprendere». L’astrofisica Giuliana Conforto, in uno studio irrinunciabile sulla futura scienza di Giordano Bruno, evidenzia come il pianeta si stia trasformando e come il filosofo nolano sia uno dei grandi saggi che l’abbiano previsto. «Quella di Bruno è scienza del futuro, coscienza delle infinite potenzialità dell’essere umano e soprattutto della sua immortalità. Egli annuncia la nascita dell’uomo nuovo, libero da tabù e paure, capace di ricevere e di riflettere nelle sue opere l’intero messaggio vitale, oggi noto come Dna, quindi di creare un nuovo mondo di pace e vera giustizia». In altre parole, «Bruno rivela il grande segreto, la magia della natura: la comunione naturale di ogni corpo con il messaggio genetico, che fu poi il motivo vero della sua condanna perché vanifica il ruolo della Chiesa come intermediaria tra l’uomo e Dio: Bruno rivela il ruolo centrale di protagonista dell’uomo nel progetto cosmico, prevede i tempi attuali e l’evento che ristabilirà l’antico volto: il risveglio dell’uomo alla coscienza dell’infinita e vera realtà, l’Amore».Quella forza cosmica prende il nome, in Bruno, di “eroico furore”: «L’uomo nuovo è il furioso, l’ebbro di Dio e arso d’amore che, con uno sforzo eroico (da eros) e appassionato, giunge a una sorta di sovrumana immedesimazione con il processo cosmico per cui l’Universo si dispiega nelle cose e le cose si risolvono nell’Universo, generando una sorta di copula d’amore tra lui e la Natura. Solo il fuoco dell’esperienza dell’Amore è in grado di aprire la strada alla visione di Dio, del Tutto, dell’unità». Scorrendo in particolare i suoi sette scritti magici, tra cui esemplare risulta essere la “Lampas triginta statuarum”, testo di eccezionale bellezza poetica e immaginativa, il lettore non può non cogliere questo moderno senso del divino nell’uomo come appartenenza al Tutto, scintilla perfetta di un Tutto unico e animato. Per Manuela Racci, è una affascinante concezione della metempsicosi di ascendenza orfico-pitagorica: la morte non è altro che una dissoluzione di legami, ma nessun spirito o nessun corpo celeste perisce; è solo un continuo mutare di complessione e combinazioni. Affiora un «senso etico di giustizia cosmica», che spinge le anime «a comunicarsi a corpi sempre diversi, in una sorprendente affinità con il Karma delle religioni orientali, nella commossa intuizione che l’anima possa istituire innumerevoli legami tra piani dell’universo».Prima ancora dello stesso movimento romantico, Giordano Bruno ha quindi riportato l’attenzione sull’intima connessione del Tutto rispetto all’analitica scansione delle parti, in cui il pensiero logico-razionale per natura trattiene se stesso, smarrendo i vincoli che legano tra loro tutte le cose. Dunque, «non essendoci nell’universo parte più importante dell’altra, non è concesso all’uomo quel primato che lo prevede possessore e dominatore del mondo, ma semplice cooperatore dell’operante natura». All’enfatizzazione del soggetto, Bruno contrappone un percorso opposto: non il primato dell’uomo, ma «il primato degli equilibri sempre instabili e sempre da ricostruire tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura». La sua “magia”? «Non è potere sulla natura, ma scoperta dei vincoli con cui tutte le cose si incatenano, secondo il modello eracliteo dell’invisibile armonia». Ed è la proposta filosofica di Bruno, «antitetica sia alla matematica sia alla religione». Alla legge dell’uomo occidentale sul Tutto, la “magia” bruniana si volge alla legge del Tutto: siamo parte della natura, non i suoi dominatori. E la nostra possibilità di felicità risiede nella complementarità attraverso cui possiamo combaciare con altri esseri, al tempo stesso naturali e divini.Tra le idee straordinarie che Bruno ha consegnato alla modernità, aggiunge la Racci, è impossibile non citare le due opere in chiave ermetica che si presentano come veri trattati di arte della memoria, la mnemotecnica (“De umbris idearum” e “Cantus circaeus”). Ne sviluppa un’analisi sottile Gabriele La Porta, nel suo libro “Giordano Bruno. Vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero”: le immagini descritte dal filosofo non avrebbero solo il compito di potenziare e raffinare la memoria visiva, ma rivestirebbero anche un significato propriamente “magico”. «Infatti la loro contemplazione e la loro rammemorazione porterebbero in contatto con energie cosmiche primordiali, con la vera “quidditas” delle cose, con le realtà supreme e archetipe, infondendo nell’animo pace, quiete, serenità». Secondo La Porta, Bruno si propone di suscitare una sorta di rivoluzione spirituale: «Seguendo le vie di un sapere esoterico, che ha tutti i caratteri di un’illuminazione, l’uomo si libera dai pregiudizi, dalle passioni negative, dagli egoismi, per diventare saggio, cioè in grado di percorrere la via della Forza, quella Forza che è trasparenza, libertà, verità».Una vera e propria scienza futura, che i saggi come Bruno già conoscevano: «Una coscienza che comprende interamente il messaggio della Vita e soprattutto il ruolo cosmico, immortale dell’essere umano». Come non ricordare poi la sua vulcanica intuizione cosmologica? Giordano Bruno, aggiunge la Racci, fu il primo a dedurre che la vita intelligente è distribuita un po’ dappertutto nell’universo, «ponendo così le basi alla giustificazione dei trasferimenti di essa da pianeti in estinzione ma ad alto livello di tecnologia a pianeti non abitati ma tali da consentire la vita». A ragione, Bruno viene visto come il primo ufologo: «Oggi le sue osservazioni sono considerate il punto di partenza per la ricerca di altre forme di vita nell’universo». Superando la rivoluzione copernicana, Bruno immaginava un universo infinito, popolato da un’infinità di stelle che, abbattute le muraglie del cielo fisso e finito, corrono per ogni dove. «Stelle come il nostro sole, ciascuna circondata da pianeti, su taluni dei quali prosperano altre intelligenze, creature viventi senzienti e razionali».«Apri la porta attraverso la quale possiamo osservare il firmamento senza limiti», era il suo motto. «Così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerevoli, non in una terra, un mondo, ma in duecentomila, dico in infiniti». Un universo dunque senza limiti, dai caratteri divini: infinito lo spazio, infiniti i mondi, infinite le creature, infinita la vita e le sue forme. Per Manuela Racci si potrebbe chiudere questa riflessione, meramente propedeutica alla necessità di far risorgere le intuizioni bruniane, con un’asserzione efficace del geniale filosofo che più volte sostiene di essere la reincarnazione di Ermes, il messaggero degli dei, sceso per aprire gli occhi agli uomini. «L’umanità ha bisogno di persone che testimonino la possibilità della fratellanza, in nome della conoscenza e della ricerca». Obiettivo: «Gettare i semi per piante che fruttifereranno nel futuro». Non è possibile dire quando, «ma è importante lasciare un segno, dire parole, formulare pensieri, viver in una dimensione di segno opposto a quella dell’attuale imbecillità. E soprattutto, non scoraggiarsi».«Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia», scrive l’astrofisica Giuliana Conforto. «La Forza è la Vita Cosmica». Giordano Bruno? «Non esprime filosofia, ma una scienza del futuro e una saggezza antica. Testimonia l’eterno presente e, con l’Arte della Memoria, indica il modo per viverlo». Di fatto, il grande pensatore rinascimentale bruciato vivo a Roma il 17 febbraio 1600 «anticipa la scoperta della Forza, la Vita Cosmica, e rivela il grande segreto della materia nucleare che la scienza non ha ancora compreso: la comunione diretta e quindi l’etica naturale di ogni essere umano con la Forza». Fu questo, aggiunge la Conforto, il motivo vero della sua condanna, «perché rende vano il ruolo delle chiese come presunte rappresentanti di Dio». Infatti, «la comunione diretta rivela la centralità dell’uomo e spiega il faticoso preludio al grande evento: la nascita dell’uomo nuovo che, per il fatto di “aver mutato intento”, diverrà cosciente, responsabile di sé e capace di creare un nuovo mondo». Da sempre, sulla Terra, sottolinea una studiosa come Manuela Racci, esistono esseri che «indicano la via per edificare un nuovo mondo, per aprire il cammino all’umanità verso una nuova aurora: sono esseri di luce, accomunati dalla stessa forza ed energia, marchiati dalla stessa solitudine». Forse «venuti troppo presto, nati postumi con la mente dinamite», come direbbe Nietzsche.
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Summa Symbolica: finalmente svelato il segreto dei simboli
«Vi siete mai chiesti perché l’acqua delle nostre fontane esce così spesso dalla bocca di un leone?». Il re della savana non è certo un animale acquatico. Eppure è associato, da sempre, alla sorgente d’acqua. Per quale motivo? E’ vero, non ce lo siamo domandato. «Infatti, non siamo più abituati al “pensiero simbolico”, cioè il pensiero contenuto nei simboli, che ci spinge a chiederci sempre il perché delle cose, che in prima battuta non capiamo». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo con alle spalle trent’anni di appassionati studi. Tutto si aspettava, l’autore, tranne che vedere la sua ultima fatica, “Summa Symbolica”, schizzare in alto nelle classifiche librarie online: è il primo trattato divulgativo interamente dedicato a svelare il grande “segreto” dei codici simbolici che, in fondo, affollano la nostra vita quotidiana, con i loro “perché” a cui non facciamo caso. Il leone e l’acqua? «Qual è la città più acquatica d’Italia?». Venezia, ovviamente. «E qual è il simbolo araldico di Venezia? Il leone alato di San Marco, l’evangelista rappresentato appunto dal leone». Da Venezia al Nilo: «Gli egizi scolpirono teste di leone sulle chiuse in pietra che regimavano le acque del fiume durante la piena, quando nel cielo dell’Egitto campeggiava la costellazione del Leone». Il che rimanda a un archetipo ancestrale: il Diluvio. Simboli, che hanno viaggiato in incognito fino a noi, per raccontarci – a modo loro – la parte nascosta della nostra storia, la meta-storia dell’umanità.Autore di romanzi ermetico-esoterici come “Il volo del Pellicano”, “Labirinti” e (di prossima pubblicazione) “Il Re cristiano”, Carpeoro – al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato e già pubblicitario, saggista, musicologo, direttore di riviste – nel 2016 ha pubblicato per “Revoluzioni” il dirompente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che svela il contesto simbolico destinato a “firmare” i peggiori attentati che hanno recentemente insanguinato l’Europa, dietro il paravento di sigle come l’Isis. Attentati che, per l’autore, sono opera della “sovragestione” dell’Occidente, un vertice occulto che mette insieme settori dell’élite politico-economica e apparati di intelligence al servizio dell’oligarchia reazionaria. Retroterra comune: il codice simbolico adottato dalla massoneria, «ormai quasi interamente infiltrata e corrotta dal potere, il cui linguaggio è quello del “pensiero magico”, cioè l’opposto del “pensiero simbolico”». Traduzione: «Il potere ha organizzato una sorta di deriva “magica” della conoscenza, in tutti i campi, introducendo il dogma». Tema sul quale Carpeoro ha spesso insistito, in seminari e conferenze, nonché nelle video-chat “Carpeoro Racconta”, su YouTube, la domenica mattina con Fabio Frabetti della trasmissione web-radio “Border Nights”.Pensiero magico e pensiero simbolico, dicotomia decisiva per il nostro destino: «Se ci piace una ragazza, andiamo dal “mago” a chiedere come potrebbe accorgersi di noi, anziché chiedere – innanzitutto a noi stessi – perché mai quella ragazza dovrebbe innamorarsi di noi». Così per tutto: «Se siamo malati ricorriamo al medico, ma finchè siamo sani preferiamo la cartomante». Per Carpeoro, il “pensiero magico” – funzionale al potere – ha scalzato il “pensiero simbolico”, condizionando negativamente l’evoluzione dell’umanità: «Finiamo per essere tutti prigionieri di “cerchi magici”, nei quali non valgono le regole della vita, della realtà, ma quelle del “mago” di turno: fattucchiera, pubblicitario, leader politico, economista». Tutti sapienti manipolatori. Il loro obiettivo: «Farci fare, a nostra insaputa, quello che vogliono loro». Capeoro cita il suo antico maestro, l’intellettuale triestino Francesco Saba Sardi, autore del saggio “Dominio” che ripercorre l’origine della civiltà. «Tutto nacque con la comparsa dell’agricoltura. I nomadi scoprirono l’importanza del possesso della terra. Servivano improvvisamente nuove figure: contadini e soldati. Fu lì che nacque il potere, in forma di dominio. E nacque grazie all’invenzione della religione: è stato il “magus”, preteso “ponte” tra l’umano e il divino, a utilizzare la sua superiore conoscenza per indurre gli altri a lavorare e combattere al posto suo. Potere, religione, guerra. Era l’inizio del Neolitico, e da allora quello schema non è cambiato, governa il mondo tuttora».Al “pensiero magico”, Carpeoro contrappone il “pensiero simbolico”: «Non ti spinge a imparare “come” fare una cosa, ma ti costringe innanzitutto a chiederti se farla, e perché». Risultato: la libertà dell’individuo, la sua crescente consapevolezza, l’espansione autonoma della coscienza. E’ il risultato di quella che Carpeoro, per spiegare il meccanismo simbolico, chiama “l’intelligenza del dado”: «Di ogni faccia riconosciamo immediatamente il valore numerico, senza dover contare i puntini: e questo dipende dalla loro precisa disposizione». Simbolo, dal greco “symballo”, unire: mettere insieme, in un’unica rappresentazione, aspetti lontani tra loro. Tutto, a monte, nasce dall’archetipo, cioè dall’insieme di eventi – materiali e immateriali – che sono «depositati nella memoria ancestrale dell’universo», a cui abbiamo accesso «soltanto in un modo, nei sogni del sonno profondo: quello che non sappiamo ricordare, perché non disponiamo del codice linguistico per tradurli». Così, nell’ètà classica, «l’umanità ha tradotto gli archetipi in due modi: nel mito, che è la narrazione dell’archetipo, e nel simbolo, che ne è la rappresentazione». E il simbolo, secondo il francese René Guénon, ha una caratteristica fondamendale: funziona, ci fa pensare, perché rappresenta sempre qualcosa di più grande.Il simbolo è come uno specchio, per dirla con Ermete Trismegisto: «Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto». E questo, aggiunge il sommo esoterista, «per realizzare il miracolo di una cosa sola, da cui derivano tutte le cose, grazie a un’operazione sempre uguale a se stessa». L’editoria ha sfornato bellissimi volumi che catalogano i simboli, o si occupano specificamente di qualcuno di essi. Ma nessuno, finora, aveva mai presentato uno studio unitario sulla simbologia, «materia a cui di regola non è riconosciuta dignità propria». Spesso, afferma in una nota l’editore di “Summa Symbolica”, L’Età dell’Acquario, la simbologia viene affrontata solo in affiancamento ad altre discipline: semiologia, filosofia, letteratura, storia dell’arte. Lo studio di Carpeoro (di cui è uscito per ora solo il primo volume, 221 pagine) affronta invece la materia in modo finalmente organico e sistematico: la prima parte, da qualche giorno in libreria, svela le origini antiche del linguaggio simbolico e le sue dinamiche generali, verificate e catalogate con approccio scientifico: la sua essenza, i singoli simboli e gli schemi simbolici complessi, il rapporto con il mito e gli archetipi, le leggi che lo regolano, la presenza del simbolo nelle leggende, nelle fiabe, nei sogni.«Dopo aver studiato il mondo dei simboli fin dal 1981 – racconta Carpeoro – nel 199 ho maturato la decisione di raccogliere tutti i miei appunti in un’opera organica. L’ho terminata nel 2003, ma è stata più volte aggiornata nel corso degli anni, assumendo dimensioni tanto imponenti da rendere necessaria una sua suddivisione in più parti». In confidenza: «Non speravo che quest’opera avrebbe mai trovato un editore, né tantomeno che un libro simile potesse suscitare tanto interesse, tra i lettori». La prima parte – oggetto del volume appena uscito – ha un taglio esclusivamente metodologico, proviene da uno studio del 1994 che si intitolava “Il Metodo Carpeoro” e costituisce «il primo tentativo di individuare le regole e le leggi del mondo dei simboli in modo totalmente originale e autonomo rispetto ad altre discipline». L’auspicio dell’autore? E’ che «sia riconosciuto, agli studi simbolici e tradizionali, quel carattere di scientificità fino a oggi loro negato».La chiave della missione? I simboli, il potere, li conosce benissimo. E ovviamente li usa a nostro danno, in modo “magico”. Conoscerli a nostra volta significa innanzitutto imparare a difendersi dagli abusi della manipolazione quotidiana. Fino a scoprire che il mondo dei simboli racchiude in sé qualcosa di meraviglioso, che ci riguarda direttamente: è un racconto, per immagini, della nostra vera storia, che attinge all’universo della “memoria ancestrale” della specie. E’ un sistema profondamente analogico che può contenere vere e proprie rivelazioni: ci lascia intuire come siamo fatti, da dove veniamo, chi siamo davvero – e cosa potremmo diventare, se imparassimo a espandere la nostra coscienza. «Accanto alla dimensione fisica esiste una dimensione metafisica», sottolinea Carpeoro. «Analogamente, accanto alla storia esiste anche una meta-storia: è la storia del pensiero non ufficiale, che ha spesso viaggiato sottotraccia, giungendo fino a noi, utilizzando proprio il linguaggio cifrato dei simboli». Funziona, eccome: magari non capiamo perché l’acqua fuoriesca dalla bocca del leone, ma quelle fontane ci sono familiari, ci piacciono. Le troviamo bellissime, anche se non sappiamo perché.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Summa Symbolica. Istituzioni di studi simbolici e tradizionali, vol.1”, L’Età dell’Acquario, collana Biblioteca dei simboli, 221 pagine, 24 euro).«Vi siete mai chiesti perché l’acqua delle nostre fontane esce così spesso dalla bocca di un leone?». Il re della savana non è certo un animale acquatico. Eppure è associato, da sempre, alla sorgente d’acqua. Per quale motivo? E’ vero, non ce lo siamo domandato. «Infatti, non siamo più abituati al “pensiero simbolico”, cioè il pensiero contenuto nei simboli, che ci spinge a chiederci sempre il perché delle cose, che in prima battuta non capiamo». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo con alle spalle trent’anni di appassionati studi. Tutto si aspettava, l’autore, tranne che vedere la sua ultima fatica, “Summa Symbolica”, schizzare in alto nelle classifiche librarie online: è il primo trattato divulgativo interamente dedicato a svelare il grande “segreto” dei codici simbolici che, in fondo, affollano la nostra vita quotidiana, con i loro “perché” a cui non facciamo caso. Il leone e l’acqua? «Qual è la città più acquatica d’Italia?». Venezia, ovviamente. «E qual è il simbolo araldico di Venezia? Il leone alato di San Marco, l’evangelista rappresentato appunto dal leone». Da Venezia al Nilo: «Gli egizi scolpirono teste di leone sulle chiuse in pietra che regimavano le acque del fiume durante la piena, quando nel cielo dell’Egitto campeggiava la costellazione del Leone». Il che rimanda a un archetipo ancestrale: il Diluvio. Simboli, che hanno viaggiato in incognito fino a noi, per raccontarci – a modo loro – la parte nascosta della nostra storia, la meta-storia dell’umanità.
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La fine del mondo c’è già stata: lo dice la stele dell’Avvoltoio
Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni. Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo. Una stele in particolare, quella chiamata “dell’avvoltoio”, ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.La stele è importante perché conferma eventi che già conoscevamo, come il periodo glaciale noto come Dryas Recente (dal nome di un fiore della tundra) e l’anomalia dell’iridio osservata in Nord America, risalente all’11-10.000 a.C.: l’iridio è poco presente nel suolo e quando in uno strato geologico se ne trova molto di più, vuol dire che un meteorite o una cometa lo hanno portato sulla Terra, come avvenne nell’estinzione dei dinosauri. Per il professor Martin Sweatman, direttore della ricerca pubblicata su “Mediterranean Archaeology”, «questa scoperta, insieme all’anomalia dell’iridio, chiude il caso in favore dell’impatto di una serie di comete». Gobekli Tepe è il tempio più antico dell’umanità e pare fosse dedicato all’osservazione delle comete e dei meteoriti. I bassorilievi che narrano la catastrofe dell’11.000 a.C. erano tenuti in grande considerazione e conservati con cura, come se fosse importante non perderne la memoria. Inspiegabilmente, in epoca preistorica, il sito venne abbandonato e completamente ricoperto di terra, perché nessuno lo potesse individuare.Archeologi e antropologi collocano nel Dryas Recente l’inizio della civiltà umana, con le prime coltivazioni e i primi villaggi del Neolitico. Ma per altri ricercatori, che il mondo accademico non tiene in alcuna considerazione, la caduta delle comete ha causato la fine di una civiltà che già esisteva sulla Terra e ha costretto gli esseri umani sopravvissuti a un nuovo e faticosissimo inizio. Graham Hancock, nato a Edimburgo, ha scritto molti libri su questo tema e nell’ultimo, “Maghi degli dei: la saggezza dimenticata delle civiltà perdute”, ha sostenuto proprio la tesi che intorno al 12.000 a.C. l’impatto di una cometa abbia posto fine a una società molto evoluta, che ha lasciato tracce di sé nella perfezione delle piramidi di Giza e in altri inspiegabili monumenti ciclopici sparsi per il pianeta. Se l’asse della Terra si è davvero spostato a causa di quella catastrofe, forse l’Antartide era all’epoca libera da ghiacci e nasconde segreti che non tarderemo a scoprire, vista la progressione del riscaldamento globale.Hancock ha visitato il sito di Gobekli Tepe, giudicandolo uno dei grandi misteri dell’antichità. Se uno sciame di comete era in arrivo sulla Terra, gli astronomi del tempio le hanno sicuramente individuate in anticipo e forse quelle scie luminose arrivate nel Sistema solare interno sono state una presenza costante nel cielo per molti anni prima del loro devastante impatto. Forse da allora ci è stata tramandata la convinzione che tutte le comete (ma per lo meno bisogna salvare quella di Natale) portino sfortuna e siano messaggere di lutti e devastazioni. La teoria che grandi civiltà del passato siano state distrutte da eventi catastrofici è suggestiva e spiegherebbe le grandi costruzioni le cui rovine sono state trovate sui fondali dell’Oceano, dove Platone collocava Atlantide, così come la “piramide” sommersa che si trova vicino all’isola di Yonaguni, in Giappone. Ma c’è da sperare che i cultori delle civiltà perdute non abbiano ragione: gli sciami di comete sono infatti periodici e secondo Hancock quello descritto nella stele di Gobekli Tape potrebbe tornare nell’arco di qualche decennio. Meglio che l’autorevole e più rassicurante mondo accademico si affretti a rimettere ogni pietra, e ogni data, al suo posto.(Vittorio Sabadin, “La fine del mondo c’è gia stata: lo svela la stele dell’Avvoltoio”, da “La Stampa” del 24 aprile 2017).Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni. Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo. Una stele in particolare, quella chiamata “dell’avvoltoio”, ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.
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Leonardo, Jung, Cartesio: la verità ci raggiunge in sogno
Leonardo suggeriva ai suoi allievi di guardare le macchie sui muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere, per scorgervi paesaggi ed animali, cose inusitate e mostruose, com’era solito fare lui stesso, abbandonandosi alla potenza evocatrice delle «cose confuse», perché «nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni». Nel tedesco corrente, gelassenheit significa “calma”, “tranquillità”. La pregnanza storica del termine ha le sue origini nella tradizione mistica (da Meister Eckhart, il mistico domenicano vissuto tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo), in cui indicava il sich lassen, la dedizione e il completo abbandono a Dio. L’esistenzialismo ricondusse il verbo alla radice di lassen, “lasciare”, “lasciar essere”, alludendo ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi. Jung arrivò ad intendere tale abbandono come l’attingere del singolo alla forza o volontà “superiore” che è possibile scoprire attraverso la funzione trascendente.Nella weltanshaung junghiana infatti, l’abbandono insito nel geshehenlassen (“lasciar accadere”) assume una valenza-chiave: lasciare che tutto avvenga e tuttavia conservare intatta una vigilanza etica ed intellettuale sono le condizioni dell’individuazione, di una prova totale di sé stessi… Da note biografiche apprendiamo che Jung maturò personalmente tale concetto in seguito ad un momento che molti conoscono: l’assenza di riferimenti. Al termine di un periodo di enorme sofferenza (1912-1919) ci rende partecipi della sua estenuante esperienza personale: «Mi sentivo letteralmente sospeso. Temevo di perdere il controllo di me stesso e di divenire preda dell’inconscio, e quale psichiatra sapevo fin troppo bene che cosa ciò volesse dire. Le tempeste si susseguivano, e, che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta».Invece di riagganciarsi a idee o ad una situazione sociale, Jung decise di “lasciar accadere”, di abbandonarsi (dal francese à ban donner: mettere a disposizione di chiunque) (mettre à bandon – “laisser au pouvoir de”, NdC), di mettersi a disposizione delle immagini interiori che l’inconscio gli forniva. Possiamo supporre che in un simile contesto non basti scartare le resistenze e lasciar accadere, e che sia necessario un doppio ancoraggio. Da una parte la cura del corpo, la regolarità dell’attività professionale, dall’altra lo sforzo costante per obbligare le emozioni a prendere forma. «Perché altrimenti – scrive – correvo il rischio che fossero esse ad impadronirsi di me. Vivevo in uno stato di continua tensione, e spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi macigni. Dopo sei anni al limite della dissociazione, cominciarono a presentarsi forme nuove». Jung le dipinse senza sapere che cosa fossero.Notò che l’oscurità interiore si dissipava e che si stabiliva da sé una solidità: «Quando cominciai a disegnare i mandala vidi che tutto, tutte le strade che avevo seguito, tutti i passi intrapresi, riportavano ad un solo punto, cioè nel mezzo. Mi fu sempre più chiaro che il mandala è il centro (…). Cominciai a capire che lo scopo dello sviluppo psichico è il Sé». E nel passaggio dalla pittura all’idea si creò lo spazio che gli consentì l’elaborazione. Jung considerò il simbolismo del mandala come una fenomenologia del Sè e definirà l’archetipo del Sè come la totalità della psiche, l’integrazione compiuta tra conscio e inconscio, quello stato psichico che scaturisce dal superamento della dissociazione, dei poli conflittuali, il centro. Quindi, alcuni anni dopo chiamò funzione trascendente la cooperazione tra dati consci e dati inconsci, di immagini ed idee, al fine dell’integrazione di contenuti precedentemente non noti.Probabilmente anche basandosi sulle esperienze personali descritte postulò che le strade per conoscere l’inconscio fossero sostanzialmente due: una procede nella direzione della raffigurazione (la cui manifestazione più immediata è l’attività onirica e quelle più “mediate”, se così si può dire, sono, nella psicologia analitica, l’immaginazione attiva e la sandplay), l’altra della comprensione. Ed affermò: «Le due strade sembrano essere l’una il principio regolatore dell’altra, entrambe sono legate da un rapporto di compensazione. La raffigurazione estetica ha bisogno della comprensione del significato, e la comprensione ha bisogno della figurazione estetica». Le due tendenze s’integrano in quella che appunto denominò funzione trascendente. Piace a questo punto ricordare l’esortazione di Hillman sul “fare anima”, cioè: “fare anima attraverso l’immaginazione delle parole”. Bisogna notare che la capacità di abbandonarsi consapevolmente alle proprie immagini interiori, in una condizione di sospensione della quotidianità, non è solo foriera di insight rispetto agli strati profondi della psiche. Tale stato di liminalità è, infatti, anche fonte di intuizioni ed ispirazioni che consentono di allentare la struttura normativa personale e sociale, di affrontare gli ostacoli incontrati dalla mente conscia, e talora di superarli col sorgere di modelli e simboli nuovi.Riflettendoci, è strano che le origini oniriche del pensiero moderno non siano altro che una nota in calce alla storia: mentre le idee più utili di Cartesio furono accolte a braccia aperte, la reazione alla loro origine fu violentemente negativa. Cartesio stesso fece notare la profonda importanza sia delle sue immagini oniriche, sia dei suoi calcoli e operazioni logiche per costruire il suo metodo. Ma pochi dei suoi contemporanei vollero accettare l’anomalia della conoscenza fondata sul sogno e, di conseguenza, sulle immagini. La conoscenza degli archetipi della mente (i mandala dipinti da Jung e quelli della tradizione alchemica ed orientale raffigurano l’archetipo del Sé) è in effetti difficile a chi crede nella sola forza denotativa delle parole: una definizione solitamente indica il punto di intersezione di una tassonomia, mentre un archetipo è ciò che proietta la tassonomia stessa. Il logos dell’anima predilige il linguaggio immaginale dell’intuizione e dell’evocazione, così come si manifesta nella durata di una psicoterapia analitica. L’individuazione degli archetipi è più agevole quando una parte della psiche si traspone in simboli e, in definitiva, in immagini, come avviene normalmente in sogno. Di tale trasposizione è inoltre capace il poeta, il pittore, lo scultore, un mimo sacro, o il danzatore che traccia spirali attorno al cuore, mostrando la vita che ne procede come un filo dal gomitolo…(Max Lanzaro, “Jung, Leonardo e le immagini dell’inconscio”, dal blog di Gabriele La Porta del 4 marzo 2013. Il professor Lanzaro è uno psichiatra attualmente attivo a Londra, Verona e Napoli).Leonardo suggeriva ai suoi allievi di guardare le macchie sui muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere, per scorgervi paesaggi ed animali, cose inusitate e mostruose, com’era solito fare lui stesso, abbandonandosi alla potenza evocatrice delle «cose confuse», perché «nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni». Nel tedesco corrente, gelassenheit significa “calma”, “tranquillità”. La pregnanza storica del termine ha le sue origini nella tradizione mistica (da Meister Eckhart, il mistico domenicano vissuto tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo), in cui indicava il sich lassen, la dedizione e il completo abbandono a Dio. L’esistenzialismo ricondusse il verbo alla radice di lassen, “lasciare”, “lasciar essere”, alludendo ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi. Jung arrivò ad intendere tale abbandono come l’attingere del singolo alla forza o volontà “superiore” che è possibile scoprire attraverso la funzione trascendente.
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Carpeoro: a colpire Palermo non sarà la mafia, ma l’Isis-P1
Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.Tempo fa, Carpeoro aveva avvertito del possibile pericolo per il nostro paese, legato a una data particolare, il 10 agosto: «Dovete sapere che Federico II ebbe un ruolo di protettore dell’Islam, visto che fu protagonista dell’unica crociata che finì con degli accordi riguardanti la restituzione pacifica di Gerusalemme ai cristiani», racconta Carpeoro a Marcus Mason, che l’ha intervistato per il blog “Lo Sciacallo”. L’imperatore-esoterista, però, subito dopo la pace per Gersusalemme avviò una persecuzione violentissima contro gli islamici siciliani, sterminandoli: «Questa persecuzione culminò il 10 agosto del 1222, quando catturò i capi, lo sceicco e i due figli, decapitandoli in piazza a Palermo». L’autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” conferma i suoi timori: «Prima o poi, qualcosa combineranno». Lo dice la logica, se si interpreta in chiave simbolica il corredo di informazioni attorno agli attentati in Francia e in Belgio, a partire dal massacro di Nizza il 14 luglio, data “sacra” per la massoneria progressista, vero “bersaglio” (tra gli altri) degli organizzatori dell’attentato. Poi la strage del Bataclan attuata il 13 novembre, giorno in cui i Templari messi al bando nel 1308 riuscirono a lasciare Parigi riparando in Scozia, dove contribuirono a fondare la massoneria moderna. E il doppio attacco a Bruxelles contro aeroporto e metropolitana, come a sottolineare il motto “così in cielo, come in terra”.Quanto a Charlie Hebdo, parla la cronaca: indagini “seppellite” dal governo Hollande con l’imposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura, della strana triangolazione che collegava il commando “jihadista” ai servizi segreti parigini, attraverso il trafficante belga che fornì loro le armi. Meccanismo che Carpeoro, nel suo libro, chiama “sovragestione”: esponenti del massimo potere utilizzano settori dell’intelligence per reclutare, all’occorrenza, anche dei kamikaze, a volte completamente all’oscuro del piano, a differenza di quanto avviene nella mafia, dove almeno è possibile risalire ai mandanti, una volta catturati i killer. «E’ Cosa Nostra che ha copiato il metodo. Se uno si va a studiare come agiva Cosa Nostra, può notare che gli anelli superiori li conoscevano. La caratteristica di questo protocollo dell’intelligence, invece, è quella che gli anelli bassi non conoscono nemmeno l’esistenza degli anelli superiori. Questi bombaroli si fanno esplodere senza conoscere i vertici che dirigono questo tipo di operazioni. Molti sono convinti di agire come autonomi».“Sovragestione” non è sempre sinonimo di terrorismo: si tratta di una modalità di potere che collega elementi in apparenza lontani. Come Enrico Cuccia, ad esempio, a torto ritenuto «portabandiera della finanza laica», quando invece era di fede templarista: «Mediobanca era organizzata in capitoli templari e il Consiglio d’amministrazione era composto da 13 membri», racconta Carpeoro allo “Sciacallo”. Il gran capo «presenziava alle riunioni secondo una ritualità templare. Io sono in possesso della lettera che Cuccia scrisse a Romiti quando quest’ultimo fu inquisito, e vi posso assicurare che è una lettera templare al 100%». Il suo braccio destro, Raffaele Mattioli, contribuì alla ricostruzione dell’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano, e chiese di esservi sepolto, «unico laico in un cimitero di frati». Nella lapide «è sdraiato con le mani incrociate, vestito da templare, con tanto di squadra e compasso». Templari, come quelli a cui ammiccherebbero gli “architetti” della strage del Bataclan? Cristiani “eretici”, nella doppia veste di monaci e guerrieri – allora, certo. Ma oggi?«La gente dà poco peso ai simboli e ai miti», premette Carpeoro nell’intervista. «Nel medioevo spesso venivano raffigurati dei draghi: ciò non significa che bisogna credere ai draghi, ma ai dinosauri sì. Questo significa che le leggende e i miti hanno le loro radici da un archetipo, e l’archetipo è una storia vera, reale. Il ricercatore saggio sa decifrare questi simboli fino a coglierne il vero significato, senza fermarsi a un’analisi superficiale». Il suo libro parte dalla spiegazione di questi simboli, dei riti, e poi si snoda indagando la parabola di potere del network massonico, di cui Carpeoro non fa più parte. «La massoneria e la Chiesa cattolica raggiungono insieme l’apogeo: l’apogeo della Chiesa viene raggiunto nel medioevo con la costruzione delle grandi cattedrali, tramite la manovalanza dei massoni». Poi, le due entità parallele si ritrovano su fronti opposti, perché «la Chiesa diventa potere: cessa di essere conoscenza e potere, abbracciando unicamente il secondo». Lo dimostra la stessa soppressione dell’ordine dei Templari. «D’altro canto, la massoneria comincia a mettere in discussione i dogmi, rendendo per questo fragile la costruzione della Chiesa cattolica, che in quegli anni si fondava sul dogma».Quello che ai più sfugge spesso – ma ora, libri come quello di Carpeoro contribuiscono a recuperare il gap di informazione – è il nesso profondissimo che lega il vertice del massimo potere ai simulacri della simbologia esoterica medievale. Dinamiche sempre parallele, che coinvolgono sia il mondo massonico che quello cattolico, ad esempio attraverso l’Opus Dei. «Lo scontro nacque perché la massoneria decise di prendere le difese dello gnosticismo: da quel momento la Chiesa comincia a scomunicare. E la massoneria diventa anticlericale, sbagliando, nella stessa misura in cui la Chiesa si proclamava antimassonica». Poi, però, ci fu una storica saldatura, a cominciare dal livello finanziario, come dimostrano le vicende di Calvi, Sindona e Gelli – su quest’ultimo, Carpeoro si sofferma a lungo, rivelando il ruolo della P2 nei tentativi di golpe di Italia, “sovragestiti” da una struttura-ombra che l’autore chiama P1. Grande burattinaio, un super-massone come il politologo statunitense Michael Ledeen, prima legato a Craxi e poi al suo demolitore, Di Pietro (oggi, si dice, a Matteo Renzi ma anche al grillino Luigi Di Maio). Già ai tempi di Craxi, ricorda Carpeoro, la “sovragestione” affondò le mani nella strategia della tensione, fino al caso Moro, nel quale Ledeen fu direttamente coinvolto, introdotto al Viminale come super-consulente di Cossiga.Terrorismo e mondo arabo, già allora. Nel mirino, Craxi: amico dei palestinesi (che cercò di finanziare, anche attraverso Gelli) e poi di Moro, che tentò di salvare. Tutto inutile, la “sovragestione” aveva deciso altrimenti: Bettino in esilio ad Hammamet, Moro ucciso. E oggi? L’Italia gode ancora di una «protezione speciale da parte dell’Islam», dice Carpeoro. C’è chi ricorda del Conto Protezione, istituito in Svizzera da Craxi per sostenere Arafat. «Perciò l’Italia ha un po’ di benemerenza nei confronti degli islamici. E’ vero che esiste la sovragestione, ma anche questa non può non tener conto che gli italiani non sono odiati dagli arabi. Non come i francesi». Certo, «abbiamo la macchia della Libia, ma è pur vero che è una macchia sbiadita, a differenza del colonialismo francese e di quello che hanno fatto poi gli americani: pensate che Sarkozy ha voluto la morte di Gheddafi perché erano soci e aveva paura che questi potesse parlare». Quindi, «escluso il Vaticano, dove l’Isis ha minacciato di colpire, a meno di clamorosi scenari politici, se l’Italia non parteciperà ai giochi francesi e americani difficilmente verrà colpita». Se invece gli strateghi della “sovragestione” sceglieranno di devastare il nostro paese, Carpeoro scommette che gli stragisti vorranno «invocare una motivazione strumentalmente forte, come i fatti di Palermo del 1222», il fatidico 10 agosto.(Il libro: Gianfranco Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, sottotitolo “Come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come con i servizi segreti vogliono controllare il mondo”, Uno Editori, 189 pagine, 13 euro).Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.
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Vittorio Marchi: la morte non esiste, l’ha scoperto la fisica
Come e quando, da studioso di fisica, sono passato dalla “scienza” alla “coscienza”? Osservando che la materia, ovvero il fondamento della visione meccanicistica della realtà, che si credeva “solida”, densa, compatta e intangibile, perdendo la sua consistenza materiale, si trasformava sempre di più in un Pensiero. Quando? Considerando che noi fisici, ricercatori di un settore come quello del campo della fisica quantistica, confortati dagli studi delle neuroscienze, abbiamo scoperto al Cern di Ginevra che la “nuova sostanza primordiale”, base della formazione dell’universo, non è la “materia” (di cui si diceva sopra), bensì l’Informazione. Un Campo di Coscienza Universale, interamente intelligente. Un “Campo Energetico Unificato”, come lo definisce oggi la fisica e che un tempo, circa 5000 anni fa, il mistico indicava con il nome di “Akasha”. Il maestro è stato un libro, a lungo cercato, e poi il suo autore, grande amico di Enrico Fermi, che ha pensato bene di passarmi il “testimone”. Il punto di riferimento è stata la “caduta del mito di Dio e della Creazione”, determinata dal punto di incontro tra il misticismo orientale e la fisica quantistica.Finché la fisica non è scesa nei meandri del mondo subatomico, non è stato possibile comprendere le Sacre Scritture, e in particolare quelle dei testi himalayani. Quando invece è discesa nelle profondità dell’invisibile, ho scoperto che tempo e spazio perdevano di significato. La verifica mi è stata data dal fatto che il misticismo orientale ha percorso questa strada partendo dall’invisibile, mentre la scienza occidentale è partita dal grossolano del mondo materiale o visibile per incontrarsi con essa sul piano del “sottile”. Inevitabile, certo, che i pensieri meno ordinari che esprimo nei miei libri e nelle conferenze abbiano creato problemi in ambito accademico. La psicoscienza e in particolare la psicofisica hanno scoperto una novità piuttosto dura da digerire. La fisica quantistica sta dimostrando che quel mondo naturale che si credeva così materialmente reale sta svanendo nella “irrealtà” della sua consistenza fisica. E cosa fanno i nostri più illustri leader del conservatorismo scientifico per correre ai ripari? Dicono che la materia solida è qualcosa di stabile e che le regole che si applicano al mondo subatomico non si applicano al mondo macroscopico newtoniano.Dicono insomma che tra il micro e il macro esistono due diverse serie di leggi e di regole. Il che è falso, come dimostrano tutti gli esperimenti eseguiti da Anton Zeilinger, professore di fisica all’università di Vienna. Il quale è un esempio che fa eccezione alla regola. Il fatto è che ciò che ancora le varie accademie del mondo non accettano è che il mondo “spirituale” sia un prolungamento della scienza e ne rappresenti il suo completamento. Di qui l’ostracismo. In che modo le più recenti scoperte della fisica quantistica confermano le visioni mistiche dell’antichità presenti in modo simbolico negli archetipi delle mitologie, dell’alchimia, dell’astrologia, dei tarocchi? Il misticismo orientale afferma che Dio non è una entità, ma uno stato di consapevolezza, e che uno scienziato unidisciplinare non lo troverà mai, perché viaggia con il paraocchi. Per questo c’è stato un Gesù che con la sua missione storica si è speso molto per osservare che “tutto l’universo è figlio di una donna sterile”. Una metafora per indicare come tutta la creazione sia… Increata. Ma come fare per spiegare alla mente umana un concetto così impossibile da assimilare? Come fare ad illustrare che l’Universo è “inessente”, e che quindi non diviene, nel senso che non viene in essere, ma è?Per cercare una via di uscita al problema, il misticismo ha dovuto affidarsi al simbolo e al mito per esprimere un concetto di Assoluto Eterno che eliminasse l’idea dell’origine e della fine, della nascita e della morte delle cose e degli esseri umani. Ma il misticismo, tra archetipi, alchimie, astrologie e altro, mancava di un linguaggio adatto, di una “neolingua”, capace di trasferire quanto sperimentato interiormente (spiritualmente) all’esterno. Per questo la scienza (quantistica), pur arrivando in ritardo, ha avuto il grande merito di tradurre in un linguaggio elaborato, ideale e più adatto alla massa qualcosa che ha le dimensioni dell’“infinito”, per trasmettere tale “Informazione” alle capacità dell’intelletto umano. E allora, coincidendo con quanto affermato dalla verità mistiche millenarie, anche la fisica quantistica ha finito per concordare con i testi dei Veda e dei Vedanta nel dire che non esiste un “altrove” (relatività), bensì un “ovunque” (assoluto); non un luogo (spazio), ma la non-località; non un tempo, ma un “hic et nunc” (qui ed ora), sempre. Ecco perché oggi l’Oriente riconosce che “scienza e spiritualità sono come due gambe che consentono all’uomo di avanzare verso la meta”.Qual è il ruolo dell’essere umano nell’universo? Fondamentale. L’uomo è figlio di questo universo e questo universo è figlio dell’uomo. L’uno genera l’altro, come il seme l’albero e viceversa, in un apparente paradosso inesplicabile. Ognuna delle due “singolarità” non ha creato l’altra, altrimenti avrebbe duplicata se stessa, ma si è semplicemente riflessa (disuguaglianza simmetrica). “Tutto, assolutamente Tutto, è indissolubilmente e in continuità tra nucleo (uomo-particella) e Campo o Spazio Pensante” (“ondi-cella” – Coscienza/Vibrazione) (Schroedinger, 1958). La forma è solo un’area vibrazionale più densa del Campo Energetico Unificato. Pertanto, l’Osservato dipende dalla presenza dell’Osservatore. Lo scopo dell’universo, del resto, è quello di essere osservato. Senza l’osservatore non esiste l’universo – e, viceversa, l’osservato. Sono Uno. Altrimenti, se per assurdo così non fosse, la vita non sarebbe.Che cos’è il tempo? Esiste veramente o è una illusione mentale? Con l’osservazione, l’onda diventa corpuscolo. L’energia del Campo Unificato (intelligente) diventa materia. La materia si trasforma e produce il tempo e lo spazio (il momento e la posizione). Dunque il tempo nasce dalla trasformazione dell’energia in materia. Ma in realtà il tempo e lo spazio non esistono. Ci sono intervalli rapidissimi che sembrano succedersi in continuità tra una scomparsa e una apparizione di una particella e l’altra. Questi intervalli che sembrano susseguirsi in rapida successione sembrano andare a costituire il tempo. Ma così non è. Se il nostro occhio potesse avere un potere percettivo più veloce (più risolutivo), ci accorgeremmo che nulla fluisce e nulla scorre. Tutto è, anche se ciò sembra un ossimoro (paradosso); movimento è quiete – come diceva lo stesso Gesù (primo fisico quantistico ante litteram). Solo ora, forse, si è incominciato a intravedere che il “nulla” o il “vuoto” di cui parlavano il “realizzato” himalayano o il Sufi islamico non stavano a indicare il “niente”, bensì il “pieno” di uno stato quantico vibrazionale, privo di spazio, di tempo e di materia, dal quale, secondo il modello di Vilenkin del 1982 della Tufts University, scaturisce il manifesto e ad esso ritorna eternamente, in un ciclo senza fine e senza inizio.Il limite del nostro ragionare è che esso è lineare e si snoda in un’unica direzione, secondo un orientamento unidirezionale come il presunto sviluppo del tempo, mentre nella realtà noi non vediamo che esso è “ossidato” dalla nostra incapacità di renderlo circolare. E ciò dipende dal fatto che noi crediamo che il nostro tempo di vita sia inferiore a quello dell’universo, dalla concezione che ci siamo fatti di essere una parte, e “da parte”, quindi marginali al Tutto, da cui ci sentiamo strappati, isolati e chiusi. Il giorno però che ci renderemo conto che stiamo ritornando al Tutto (Uno), da cui pensiamo illusoriamente di essere stati tolti (col Due, espresso dal mito della caduta), allora capiremo il perché abbiamo l’impressione che il tempo scorra sempre in avanti, verso il futuro (che non c’ è). E allora il tempo cesserà di esistere, perché tutto ciò che è nell’universo è già dentro di noi.Quale futuro immagino che la scienza possa riservare all’umanità e alla sua evoluzione spirituale? Grandi passi, se i ricercatori del futuro, uscendo dai loro schemi mentali meccanicistici, si orienteranno verso un tipo di ricerca che li vedrà occupati in veste di ricercatori “spirituali” nel campo del “sottile”, della coscienza cosmica e del Campo Unificato. Se riusciranno a superare quel “limen”, un punto liminale o limite di separazione, causato da una soglia sensoriale, psicofisiologica, che procura all’uomo l’illusione ottica di essere Altro dall’essere un unico con il Tutto e di non vedere che Osservatore e Osservato (come asserisce la fisica quantistica) sono Uno. Non per niente il termine “Uomo” deriva dal sanscrito “Manava”, a sua volta derivato da “Manas”, pensiero o “coscienza empirica”. Si tratta quindi di cominciare a riconoscere che esiste una realtà fatta di una certa identità presente tra uomo e cosmo, relazione che si va facendo sempre più stretta, fino ad essere sostenuta oggi dalla stessa Pnei (psico-neuro-endocrino-immunologia). E non è un caso che la stessa Università di Southampton (Regno Unito, altra eccezione) nell’ambito del progetto “Coscienza Umana” abbia lanciato un invito alla collaborazione internazionale per lo studio di “Aware”, connesso al processo conosciuto come “Awarness during Resuscitation”.(Vittorio Marchi, estratti dall’intervista “Fisica quantistica e spiritualità”, pubblicata sul blog di Giovanni Pelosini il 10 luglio 2011. Il professor Marchi è un eminente ricercatore italiano nel campo della fisica quantistica, autore di importanti saggi anche a carattere divulgativo come “La scoperta dell’invisibile”, “La vertigine di scoprirsi Dio” e “La grande equazione – io, l’universo, Dio”).Come e quando, da studioso di fisica, sono passato dalla “scienza” alla “coscienza”? Osservando che la materia, ovvero il fondamento della visione meccanicistica della realtà, che si credeva “solida”, densa, compatta e intangibile, perdendo la sua consistenza materiale, si trasformava sempre di più in un Pensiero. Quando? Considerando che noi fisici, ricercatori di un settore come quello del campo della fisica quantistica, confortati dagli studi delle neuroscienze, abbiamo scoperto al Cern di Ginevra che la “nuova sostanza primordiale”, base della formazione dell’universo, non è la “materia” (di cui si diceva sopra), bensì l’Informazione. Un Campo di Coscienza Universale, interamente intelligente. Un “Campo Energetico Unificato”, come lo definisce oggi la fisica e che un tempo, circa 5000 anni fa, il mistico indicava con il nome di “Akasha”. Il maestro è stato un libro, a lungo cercato, e poi il suo autore, grande amico di Enrico Fermi, che ha pensato bene di passarmi il “testimone”. Il punto di riferimento è stata la “caduta del mito di Dio e della Creazione”, determinata dal punto di incontro tra il misticismo orientale e la fisica quantistica.
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Il volo del pellicano, i Rosacroce sono ancora tra noi?
Tutto comincia con un certo Melchisedek, il biblico “re di giustizia” che ha la facoltà di autorizzare Abramo ad esercitare il potere terreno sul suo popolo. Figura estramamente misteriosa, Melchisedek: secondo la recentissima decrittazione di Mauro Biglino, nientemeno che un Elohim, come lo stesso Yahwè; per l’interpretazione esoterico-simbolica, invece, era una personalità “a diretto contatto col divino”, emblema vivente della perduta regalità, fondata su una speciale conoscenza gelosamente custodita, nei millenni, dalla cosiddetta Radix Davidis, la Stirpe di Giuda il cui destino è prefigurato nella pagina della Genesi su cui, ancora oggi, giurano i presidenti degli Stati Uniti. Dall’evangelico Giuseppe d’Arimatea fino al genio visionario di Salvador Dalì, passando per Alarico il re dei Goti, Dante Alighieri e Giordano Bruno, Bach e Cartesio, Leonardo e Giorgione. Una “confraternita del sapere”, che si sarebbe poi chiamata – anche – Rosacroce, nome col quale, all’inizio del ‘600, firmò un manifesto che chiedeva l’abolizione della proprietà privata e dei confini tra le nazioni.Melchisedek è anche il nome dell’editore che oggi ripubblica l’originalissimo romanzo che Gianfranco Carpeoro, ex avvocato e giornalista, già “sovrano gran maestro” della massoneria indipendente di rito scozzese, nonché appassionato studioso di linguaggi simbolici, ha dedicato al mistero dei Rosacroce, “Il volo del pellicano”. Molti simboli rappresentano la porta di un mondo che ci sfugge, al quale abbiamo accesso soltanto nella dimensione del sogno, che però – ha sostenuto l’autore in una recente presentazione milanese – al nostro risveglio non possiamo ricordare, perché ci manca il linguaggio adatto, dal momento che il sogno è il reame degli archetipi. L’archetipo rivive proprio nel simbolo, un’astrazione concepita per veicolare un messaggio attraverso i secoli. E noi, frastornati dal pensiero magico-manipolatorio del potere (religione, economia, politica), in realtà siamo circondati da simboli che ci “parlano”, se solo li sapessimo “leggere”. E’ quello che scopre Giulio Cortesi, il protagonista de “Il volo del pellicano”, uccello-simbolo della militanza rosacrociana, richiamato anche in una delle ultime apparizioni pubbliche di una rockstar come Freddy Mercury, leader dei Queen.Il libro di Carpeoro è un avvincente thriller alchemico-esoterico che si svolge su due livelli, due binari separati che corrono parallelamente alla verità di un mondo che è davanti ai nostri occhi, a patto che ci decidiamo ad accorgercene. Vi inciampa il grafico quarantenne Cortesi, disoccupato e con la passione per la cucina: sospettato di omicidio, si trova per caso coinvolto in un’insolita ricerca, un’avventura intellettuale tra antichi simboli e opere d’arte, che lo porterà a scoprire i segreti dei Rosacroce, gli iniziati alla fratellanza, attraverso i personaggi storici che, nei secoli, hanno costruito il destino della Stirpe di David, scrive lo stesso Carpeoro sul suo sito. Punto di partenza, l’opera di Giorgione: quale segreto si nasconde dietro la vera identità del grande pittore, la sua breve esistenza e le sue opere misteriose? E poi Giordano Bruno: cosa lo spinge a Wittenberg qualche anno prima della sua morte? E quale incontro, ad Ulm, cambierà la vita del filosofo e matematico Cartesio? E ancora: perché il protestante Silesio andò a Padova, prima di convertirsi al cattolicesimo, e cosa lo collega alle terzine del Pellegrino Cherubico e ai quadri di Giorgione?Lo stesso pittore è stranamente collegato anche al principe Sangro di Sansevero; a proposito: chi fu veramente Cagliostro? E che mistero si cela dietro la storia della famiglia Bach? E ancora: dove finirono le spoglie di Mozart? Gli enigmi si prolungano fino al ‘900, intrecciando indizi che coinvolgono il musicista Eric Satie, il “vate” Gabriele D’Annunzio, il francese Jean Coucteau e lo stesso Dalì, ultimo “Ormùs” (gran maestro) della segretissima confraternita, che prima di morire pare abbia trasmesso un fondamentale segreto: a chi? Tessere di un mosaico, verso il quale Cortesi viene guidato da svariate figure, tra cui un paio di professori torinesi, che lo spingono alla scoperta delle opere di Giordano Bruno e fra’ Luca Pacioli, il precettore di Leonardo, e poi Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, lo stesso Cagliostro. Giulio Cortesi fa amicizia con altri due personaggi singolari: l’anziano architetto Quinto Ammonio Solfo, membro di una loggia massonica e raffinato intellettuale, e fra’ Tommasino di Chiaravalle, al secolo Tommaso Sale, un anziano mistico. «Entrambi – racconta Carpeoro – daranno a Giulio utilissime indicazioni sulla pista da seguire per addentrarsi nei misteri dei Rosa+Croce».Altri indizi gli vengono forniti in sogno da Cecilia, la fanciulla amata dal Giorgione, morta di peste a Venezia nel 1511. «A questo punto il protagonista ha varcato la soglia di un mondo che non conosceva, è proiettato in una dimensione spirituale che lo porta a una comprensione diversa e più profonda della realtà». Chiarito l’arcano dell’omicidio, Giulio proseguirà nelle sue ricerche e arriverà alla conclusione che anche Giorgione aveva appartenuto alla fratellanza dei Rosacroce. Studiando le opere di iniziati e maestri, «emergerà la verità sulla stirpe di David e sulla discendenza della famiglia in cui nacque Cristo». Giulio Cortesi scoprirà che la confraternita fondata dall’apostolo Giacomo (e da Giuseppe d’Arimatea) ha lo scopo di «conservare e diffondere il Sang Real, la stirpe di David, dalla tribù di Giuda, e accogliere anche tutti gli eletti, uomini e donne d’ogni censo e razza, che pur non avendo legami di sangue con la stirpe reale, sono stati e saranno iniziati per tramandare di maestro in maestro l’antica conoscenza».«Tutti gli interrogativi posti potrebbero trovare una risposta tra le righe del romanzo», scrive Carpeoro. «Ricomponendo le tesserine del mosaico si potrebbe trovare l’origine biblica dei Rosa+Croce della nostra bandiera tricolore o, analogamente, degli Stati Uniti d’America». Alcune risposte, però, «sono scritte con l’inchiostro simpatico», e quindi «solo il calore della grande passione per il simbolismo le farà magicamente apparire». E il finale è a sorpresa: sarà la persona più insospettabile a portare Giulio a conoscere una nobildonna austriaca, astrologa e seguace di Rudolf Steiner, che passerà le consegne della confraternita. «L’incontro con l’anziana astrologa condurrà Giulio a conoscere il nome degli ultimi due maestri Rosa+Croce ancora in vita, e lo lascerà con un interrogativo: ci sarà in futuro ancora qualcuno che possa divenire un maestro?». Ovvero, a tramandare la “segreta conoscenza” custodita nei millenni, le cui prime tracce risalgono al racconto biblico di Melchisedek?(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il volo del pellicano”, Melchisedek editore, 512 pagine, 26 euro – 22,10 su Macrolibrarsi).Vuoi vedere che gli antichi la sapevano molto più lunga di noi, riguardo ai misteri dell’universo? «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia», fa dire Shakespeare in “Amleto”. Già, Shakespeare: un inglese ben strano, così addentro alle cose italiane da ambientare alla perfezione, nel Belpaese, i suoi maggiori capolavori, da “Romeo e Giulietta” al “Mercante di Venezia”. Ci sfugge qualcosa, sull’identità del “vero” Shakespeare? Proprio l’Italia del Rinascimento, infatti, fu la culla di grandi artisti che utilizzarono letteratura e pittura per veicolare messaggi segreti attraverso codici cifrati. Un antico sapere, risalente alla notte dei tempi. Tutto comincia migliaia di anni prima con un certo Melchisedek, il biblico “re di giustizia” che ha la facoltà di autorizzare Abramo ad esercitare il potere terreno sul suo popolo. Secondo Mauro Biglino, Melchisedek era un Elohim, come lo stesso Yahwè; per l’interpretazione esoterico-simbolica, invece, era una personalità “a diretto contatto col divino”, emblema vivente della perduta regalità, fondata su una speciale conoscenza gelosamente custodita, nei millenni, dalla cosiddetta Radix Davidis, la Stirpe di Giuda il cui destino è prefigurato nella pagina della Genesi su cui, ancora oggi, giurano i presidenti degli Stati Uniti.
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Tsipras, Grillo, Podemos e la rivoluzione dei maiali di Orwell
Nei momenti di crisi, quando le istituzioni sembrano sul punto di esplodere e la rabbia sociale aumenta, le masse istintivamente guardano a nuove soluzioni e nuovi uomini. Per quanto il sistema riesca a produrre sempre finte opposizioni buone per perpetuare la teoria del Gattopardo, il punto di rottura prima o poi arriva per davvero. Tsipras in Grecia, Grillo in Italia e Podemos in Spagna rappresentano le ultime frecce all’arco dei nazisti tecnocratici Mario Draghi e Wolfang Schaeuble, dopodiché, smascherati gli ultimi ascari e lestofanti al servizio dei summenzionati criminali continentali, tutto diventa possibile. In Grecia Tsipras ha già il fiato corto, avendo appena approvato una miserabile riforma pensionistica in stile Elsa Fornero che lo smaschera definitivamente quale nemico del popolo e volgare traditore della Patria; lo stesso dicasi per Grillo, oramai pronto a lasciare il campo in favore di un damerino come Di Maio già opportunamente “sdoganato” dal Financial Times, libello ufficiale dei nuovi nazisti globalizzati. Podemos, infine, è palesemente un altro covo di “macchiette”, popolato da tante piccole Laure Boldrini iberiche pronte a fare opposizione ai Re Magi in quanto uomini e perciò poco attenti al rispetto delle quote rosa.I contenitori guidati dai tanti “pagliacci” che fingono di opporsi al sistema eretto da Draghi e Schaueble – su preciso ordine conferito degli stessi Draghi e Schaeuble – rimarranno sulla scena giusto il tempo di finire sommersi dagli sputi e dalle pernacchie. Poi sarà il diluvio. Non bisogna guardare al caos con fastidio e preoccupazione, al punto in cui siamo soltanto uno shock vero e profondo potrà invertire un insostenibile corso della Storia. Nel caos però, oltre a sinceri uomini politici animati da desiderio di giustizia, sguazzano spesso pure gli elementi peggiori, avventurieri senza scrupoli che nascondono turpi obiettivi di comando e di potere occultati dietro una maschera di filantropia indossata per l’occasione. Riconoscerli non è semplice ma neppure impossibile. A tal proposito consiglio a tutti la lettura di uno splendido romanzo politico del geniale George Orwell, “La Fattoria degli Animali”, capolavoro immortale che offre a tutti un realistico quadro psicologico e sociale delle dinamiche complessive che sottendono la conquista e il mantenimento del potere.Il maiale “Napoleone” è un archetipo diffuso – scaltro, carismatico e senza scrupoli – garante per antonomasia di un sistema di regole che egli stesso presenta, interpreta e violenta di continuo al fine di puntellare una leadership di cartapesta fondata sull’imbroglio, sulla consuetudine, sulla paura e sul ricatto. La forza del maiale “Napoleone” consiste nella sua capacità di allontanare i dubbi che avvolgono il suo operato tramite la creazione artificiale di un provvidenziale “nemico esterno”, di fronte al quale il gruppo nel suo insieme deve naturalmente trovare smalto e acritica compattezza intorno alla figura del grande capo. Altrettanto importante risulta inoltre il ruolo esercitato dal maiale “Piffero”, strimpello mediatico impegnato di continuo nel presentare a parole Napoleone quale massimo esempio di bontà, generosità e magnanimità, mentre nei fatti il maiale protagonista del racconto è chiaramente un concentrato di vanità, violenza e menzogna.Un altro fattore di riconoscimento è costituito dall’endemico e spasmodico ricorso alla tecnica del “ballon d’essai”, ovvero dalla continua diffusione di notizie non vere ma verosimili, veicolate con l’obiettivo di saggiare a fini manipolativi la reazione della pubblica opinione. Bisogna perciò stare molto attenti, altrimenti correremo in prospettiva il serio rischio di combattere un sistema iniquo per sostituirlo con uno perfino peggiore: «Alla fine non lo chiamavano più semplicemente Napoleone. Ci si riferiva a lui definendolo con formula cerimoniale “il nostro capo, il compagno Napoleone”, e i maiali si compiacevano di coniare nuovi titoli come “padre di tutti gli animali, “terrore del genere umano”, “protettore degli olivi”, “amico degli anatroccoli”, e via dicendo…”» (“La Fattoria degli Animali”, pag 76, cap. 7).(Francesco Maria Toscano, “Il maiale Napoleone e la fattoria degli animali”, dal blog “Il Moralista” del 6 gennaio 2016).Nei momenti di crisi, quando le istituzioni sembrano sul punto di esplodere e la rabbia sociale aumenta, le masse istintivamente guardano a nuove soluzioni e nuovi uomini. Per quanto il sistema riesca a produrre sempre finte opposizioni buone per perpetuare la teoria del Gattopardo, il punto di rottura prima o poi arriva per davvero. Tsipras in Grecia, Grillo in Italia e Podemos in Spagna rappresentano le ultime frecce all’arco dei nazisti tecnocratici Mario Draghi e Wolfang Schaeuble, dopodiché, smascherati gli ultimi ascari e lestofanti al servizio dei summenzionati criminali continentali, tutto diventa possibile. In Grecia Tsipras ha già il fiato corto, avendo appena approvato una miserabile riforma pensionistica in stile Elsa Fornero che lo smaschera definitivamente quale nemico del popolo e volgare traditore della Patria; lo stesso dicasi per Grillo, oramai pronto a lasciare il campo in favore di un damerino come Di Maio già opportunamente “sdoganato” dal Financial Times, libello ufficiale dei nuovi nazisti globalizzati. Podemos, infine, è palesemente un altro covo di “macchiette”, popolato da tante piccole Laure Boldrini iberiche pronte a fare opposizione ai Re Magi in quanto uomini e perciò poco attenti al rispetto delle quote rosa.
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Addio senatori, così Renzi li ha spogliati di ogni dignità
Pensi ai sentori, non quelli di adesso, ma di sempre. A ritroso. Come figura, come maschera, come archetipo. C’era quello all’italiana tronfio e grasso o allampanato e severo da prima repubblica, con le cravatte marroni e il suo codazzo di clienti, buono per una raccomandazione e un posto alle poste. C’era il Bossi secessionista che quasi per beffa si ritrova per la prima volta in Parlamento nella Camera nobile, giusto il tempo di guadagnarsi il soprannome di Senatùr e poi migrare a Montecitorio, dove la politica ha più sale. C’era Andreotti a cui l’«amico» Cossiga fece il più perfido dei regali, un seggio da senatore a vita, come a certificare l’eclissi di un potere. E fu allora che il Divo Giulio cominciò a logorarsi. C’era il Pci di Berlinguer che nel 1981 pubblicò a pagina sette de L’Unità un documento di riforma costituzionale per abolire il Senato e rimpiazzarlo con il Cnel. C’era Bendetto Croce, senatore del Regno, che da antifascista restò in Senato, convinto a ragione che il fascismo fosse solo una parentesi. C’era ancora prima il Senato dello Statuto Albertino, con i senatori scelti direttamente dal re, con il vantaggio di non dover improvvisare un generico «in base alle scelte degli elettori» come nel compromesso partorito dal Pd. C’era in una Roma lontana Cicerone che sbraitava contro Catilina e un Senato di ottimati cieco e oligarchico. Nel nome della libertà accoltellarono Cesare e si beccarono il più furbo Ottaviano. Augusto fece dei senatori una vanagloriosa casta plaudente.Nessuna simpatia per i senatori. Solo che nessuno immaginava come sarebbero finiti al tempo di Renzi. Niente gloria, nessun funerale, neppure un mezzo discorso d’addio, a pensarci bene neppure un suicidio orgoglioso alla Seneca. Nulla. Peggio. La fine dei senatori è una mediocre metamorfosi. Renzi con un abracadabra li ha trasformati in consiglieri regionali.Renzi li ha spogliati di ogni dignità, perlomeno quel poco che restava. Il Senato, il Palazzo, resta lì, ma come qualcosa di inutile, ristretto, periferico, una sorta di Parlamento minore, come un dopo lavoro rispetto agli affari regionali. Non si sa ancora come verranno eletti, forse scelti dai partiti e con la coperta democratica dei poveri elettori. Senatori ancora di più ingaglioffati nel gioco delle clientele, buoni a dirottare finanziamenti pubblici sul territorio e alle prese con le note spese. La cattiveria vera forse è proprio questa: aver salvato le Regioni per spogliare il Senato. Quelle Regioni simbolo di spreco a cui i riformatori concedono il titolo onorifico di Senatori.Non è più tempo di senatori. Sta tramontando perfino la parola. Questo è un tempo dove resistono solo leggende, gente come Pirlo o Totti. Non sono un gruppo storico, sono eccezioni. I senatori erano la bandiera e i vecchi di una squadra, di uno spogliatoio, di una nazionale. Ora sono solo carne da rottamare e utili solo come portaborse di giovani rampanti. Forse però è davvero qui il paradosso italiano. In questo paese di vecchi scompare un simbolo. Non c’è più il senex, l’anziano che incarna la saggezza, la tradizione, la memoria, quello che tramanda, che fa da testimone e che ricorda. Non serve più in una terra dove tutto è presente, dove il futuro è senza orizzonte e il passato si ferma all’altroieri. Non serve perché questo non è un Paese per senatori. Non lo è perché quelli che per età dovevano esserlo hanno bruciato sogni e utopie in piazza, lasciandosi alle spalle solo cenere e macerie. Non lo è perché hanno tradito e si sono traditi. Non lo è perché hanno urlato «la fantasia al potere», per poi buttare la fantasia e tenersi il potere. Non lo è perché si sono mangiati il futuro di chi veniva dopo. Addio senatori. Quello che avete davanti è l’ultimo tratto. I tempi, dicono, si chiuderanno nel 2020. È questo il futuro prossimo. È come in Guerre Stellari, come in quel Senato galattico e suicida. «È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi».Pensi ai sentori, non quelli di adesso, ma di sempre. A ritroso. Come figura, come maschera, come archetipo. C’era quello all’italiana tronfio e grasso o allampanato e severo da prima repubblica, con le cravatte marroni e il suo codazzo di clienti, buono per una raccomandazione e un posto alle poste. C’era il Bossi secessionista che quasi per beffa si ritrova per la prima volta in Parlamento nella Camera nobile, giusto il tempo di guadagnarsi il soprannome di Senatùr e poi migrare a Montecitorio, dove la politica ha più sale. C’era Andreotti a cui l’«amico» Cossiga fece il più perfido dei regali, un seggio da senatore a vita, come a certificare l’eclissi di un potere. E fu allora che il Divo Giulio cominciò a logorarsi. C’era il Pci di Berlinguer che nel 1981 pubblicò a pagina sette de L’Unità un documento di riforma costituzionale per abolire il Senato e rimpiazzarlo con il Cnel. C’era Bendetto Croce, senatore del Regno, che da antifascista restò in Senato, convinto a ragione che il fascismo fosse solo una parentesi. C’era ancora prima il Senato dello Statuto Albertino, con i senatori scelti direttamente dal re, con il vantaggio di non dover improvvisare un generico «in base alle scelte degli elettori» come nel compromesso partorito dal Pd. C’era in una Roma lontana Cicerone che sbraitava contro Catilina e un Senato di ottimati cieco e oligarchico. Nel nome della libertà accoltellarono Cesare e si beccarono il più furbo Ottaviano. Augusto fece dei senatori una vanagloriosa casta plaudente.
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Kultura italiana in Italia, benvenuti nel chiasso del nulla
Kultura italiana in Italia = ultimo modello di smartphpone; ultimo modello di tablet; ultimo modello di app; ultimo modello di televisore; ultimo modello di auto; lavare l’auto col detersivo nel cortile di casa; squadra di calcio, comprensiva di allenatore, presidente e bilancio; Tg1; Tg5; la cronaca nera; Renzusconi; il Bunga Bunga; l’evasione fiscale; le escort; le veline; la moglie trofeo; la fidanzata trofeo; l’accompagnatrice trofeo; la segretaria trofeo; la presentatrice trofeo; le ministre trofeo; Maria De Filippi; Antonella Clerici; Carlo Conti; il film di Natale; il Papa santo; il presidente della Repubblica santo; tutti i santi metropolitani e regionali; la messa della domenica mattina; le bestemmie; il presidente del Consiglio cantastorie; Matteo Salvini; le brave persone che seguono Matteo Salvini; il famoso presentatore televisivo scrittore; il famoso politico scrittore; il famoso attore scrittore; il famoso calciatore scrittore; il famoso cuoco scrittore; il famoso giornalista scrittore; il famoso scrittore scrittore;Dolce & Gabbana; la parrucchiera; l’estetista; fare footing parlando al alta voce; i Tq; il festival di Sanremo; Sky; i giochi on-line; i telequiz; Luciano Ligabue; Laura Pausini; Andrea Bocelli; Giovanni Allevi; Fabio Volo; Il Volo; l’aperitivo; tutto ciò che è mangereccio, preferibilmente a base di salumi, vino bianco e fritti; Carlo Cracco; il nouveau ragu à l’italienne: col cioccolato, il cotechino fritto nell’Amaretto di Saronno, la marmellata fritta nello strutto, la salsiccia fritta nel miele, l’aglio fritto nel patchouli; la Confindustria; la Confcommercio; la Confagricoltura; l’Asppi; l’Uppi; l’Abi; la Confapi; gli affitti in nero; il lavoro nero; il commercio in nero; la Mafia; i tatuaggi; i telefilm americani; i film americani; gli attori americani; i cantanti americani; gli atleti americani; i poliziotti americani; i soldati americani; i serial killer americani; gli adolescenti americani; i wasp americani; i negri americani;i bambini canterini in televisione; i bambini in pubblicità; i bambini nei telefilm; i bambini nella fame nel mondo; i pianti in televisione; gli abbandoni in televisione; le confessioni in televisione; gli amori in televisione; i giuramenti in televisione; i contratti in televisione; gli insulti in televisione; gli insulti alle donne; gli insulti; i gesti osceni mentre si guida l’auto; la polizia; i carabinieri; i due marò; parcheggiare sulle strisce pedonali; parcheggiare sul marciapiede; parcheggiare sulla pista ciclabile; andare con la moto sulla pista ciclabile; andare con la moto nel parco pubblico; gli abusi edilizi; gli abusi finanziari; le discariche abusive di rifiuti; i condoni; le deroghe; l’emergenza; la crisi; la crescita; che cazzo menefregaammé; la Spending Review.Kultura italiana in Italia 2 = gli annunci patacca. E’ costume consolidato da parte dei centri di potere lanciare annunci forti, spettacolari, e reiterarli per un tempo sufficiente a farli entrare a forza nell’Archetipo dell’inconscio collettivo. In questo, il “Presidente del Consiglio” attuale è un maestro assoluto, e ha fatto scuola. Gli annunci vanno ripetuti, con scansioni variabili a seconda delle dinamiche (variabili) a cui si riferiscono. Se sono diretti, cioè recitati dal “ministro” di turno, o addirittura dal “Presidente del Consiglio” in persona, vanno accompagnati da una mimica al contempo rassicurante e autorevole, di chi non è sfiorato dal dubbio, e deve sottendere un agire positivo, “giovane”, energico, e soprattutto liberista, che è una delle grandi passioni della kultura italiana in Italia.Uno degli ultimi, e uno dei più patacca di tutti i pataccari, è stato quello secondo il quale le variazioni catastali conseguenti a interventi edilizi di unità immobiliari siano “tempestivamente inoltrate” direttamente dai comuni all’Agenzia del Territorio (cioè il Catasto), con la fine lavori della pratica edilizia. E’ uno degli articoli del cosiddetto Decreto Sblocca Italia (133/2014), sul quale il “governo” ha puntato molte carte mediatiche: “semplificazione”, lotta alla burocrazia, il fare, il non pagare ecc. Così, i Comuni sono stati inondati da tecnici e da cittadini che chiedevano l’applicazione di questa norma. L’avevano sentito e visto in Tv e in radio, santo cielo! Non si paga, ed è tutto più semplice! “Ci pensa il Comune”. E’ stata una bufala, una norma inapplicabile e inapplicata. A parte problemi molto seri di personale, che i Comuni scontano in seguito ai tagli delle risorse, tra i due enti non esiste un linguaggio informatico condivisibile: l’Agenzia del Territorio usa una piattaforma e una banca dati indisponibili ai comuni. E’ un linguaggio che va costruito, con un grande investimento di tempo e di denaro. Ma cosa interessa ai professionisti degli annunci?Nulla! L’importante è sostituire la realtà con l’annuncio, nutrire certi rancori della popolazione, reiterarlo fino a che è possibile, poi abbandonarlo e sostituirlo con un altro, altrettanto “forte”, enfatico, “giovane” e positivo. Funziona. Il cittadino si accorge che quello precedente si è rivelato una patacca, ma c’è già quello nuovo a riempire gli spazi, a stimolare aspettative. Così lo dimentica presto, mentre resta quel brivido liberista, come traccia, come “segno mondano”, come l’avrebbe definito Deleuze, il segno del vuoto, del nulla, dell’ingannevole, dell’effimero, il segno che passa e va, mentre quello nuovo si fa strada e genera altro vuoto, altri inganni. Così si tira avanti con questa straordinaria complicità tra ingannatori e ingannati, che si basa sul complesso e al tempo stesso primordiale sistema dei segni mondani, il codice non tanto segreto che costituisce il vero, solido e palpitante organo vitale della kultura italiana in Italia.(Mauro Baldrati, “Kultura italian in Italia”, da “Carmilla online” del 21 maggio 2015).Kultura italiana in Italia = ultimo modello di smartphpone; ultimo modello di tablet; ultimo modello di app; ultimo modello di televisore; ultimo modello di auto; lavare l’auto col detersivo nel cortile di casa; squadra di calcio, comprensiva di allenatore, presidente e bilancio; Tg1; Tg5; la cronaca nera; Renzusconi; il Bunga Bunga; l’evasione fiscale; le escort; le veline; la moglie trofeo; la fidanzata trofeo; l’accompagnatrice trofeo; la segretaria trofeo; la presentatrice trofeo; le ministre trofeo; Maria De Filippi; Antonella Clerici; Carlo Conti; il film di Natale; il Papa santo; il presidente della Repubblica santo; tutti i santi metropolitani e regionali; la messa della domenica mattina; le bestemmie; il presidente del Consiglio cantastorie; Matteo Salvini; le brave persone che seguono Matteo Salvini; il famoso presentatore televisivo scrittore; il famoso politico scrittore; il famoso attore scrittore; il famoso calciatore scrittore; il famoso cuoco scrittore; il famoso giornalista scrittore; il famoso scrittore scrittore;