Archivio del Tag ‘Arianna Editrice’
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Fabian Society e pandemia: come arrivare alla dittatura
Primo nemico, invariabilmente: il popolo (o forse l’essere umano, in quanto tale?). Pericolosamente anarchico, anche gioioso. In una parola: ingovernabile. Come rimediare? Ingannandolo, sostanzialmente. Nella fattispecie, ispirandosi all’arte militare di Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore: saper attendere il momento propizio, per poi colpire. Come la tartaruga totemica della congrega di cui tratta Davide Rossi, nel suo saggio. Il trucco: saper aspettare, anche cent’anni. E’ il marchio di fabbrica della Fabian Society, elusiva struttura la cui ideologia (e non solo quella) sembra ispirare tanta parte delle infamie oggi inflitte all’umanità, nella cosiddetta Era Pandemica. I fabiani, eredi dei proto-socialisti all’occorrenza anche “eugenetici”, li si riconosce dall’atteggiamento politico sfuggente, per non dire subdolo: proprio come il “lupo travestito da agnello” che è l’icona storica di quell’illustre, ambivalente sodalizio nato da un certo “socialismo liberale” ottocentesco, in salsa laburista.Un’istituzione politico-culturale sorta con l’intento dichiarato di realizzare uno statalismo “zootecnico” dall’aria soft, senza cioè gli spargimenti di sangue del leninismo e dello stalinismo. Nel libro “La Fabian Society e la pandemia” (ovvero, “come si arriva alla dittaura”, edito da Arianna), l’autore va in cerca del possibile filo rosso che sembra collegare l’esoterista Annie Besant al nostro Massimo D’Alema, passando per George Bernard Shaw e lo stesso Orwell, il grande Bertrand Russell, autori come Aldous Huxley e figure recenti come quelle di Tony Blair e Gordon Brown, allievi della “terza via” – tra capitalismo e socialismo – annunciata dal sociologo fabiano Anthony Giddens. La premessa: esiste un’élite, “di sinistra”, fermamente convinta che il popolo, semplicemente, non sia in grado di governarsi da solo, cioè in modo democratico. Ergo: serve la guida illuminata di un potere paternalistico e onniveggente, che ne limiti la libertà.Per questa strada, ovviamente, si può arrivare lontanissimo: fino all’attuale regime di Pechino, non a caso adottato nel 2020 come modello – dall’Italia di Conte (e di Bergoglio) – per fronteggiare la terribile, inattesa pandemia. Davvero imprevedibile? Fate voi, dice Rossi: ve lo ricordate, lo strano “suicidio politico” di Salvini nell’agosto del 2019? Davvero pensate che sarebbe stato possibile imporre lockdown e coprifuoco con al Viminale un tizio come Salvini, demonizzato alla stregua di un brutale fascistoide? Ovvero: e se il leader della Lega fosse “impazzito ad arte”, sulla spiaggia del Papeete, proprio perché – lassù – si aveva sentore della catastrofe in arrivo? Tu chiamala, se vuoi, fantapolitica. «Jung le avrebbe definite “coincidenze significative”», chiosa Rossi, guardando all’Italia di oggi: il fabiano Speranza è ancora insediato al ministero della salute, come se Mario Draghi – impeccabile esecutore dei piani del massimo potere – avesse dovuto concedere uno spazio preciso, alla Fabian Society.L’allievo di D’Alema, scrive Rossi, è notoriamente membro della Fabian: seguace di Blair, da studente Speranza fu anche formato dalla London School of Economics, l’università fabiana. Il loro stile è inconfondibile: nessuno scrupolo nell’esercitare il peggior autoritarismo, dopo aver pazientemente atteso che maturassero le condizioni per il più ferreo controllo sociale. Non è una novità – aggiunge Rossi – neppure il fatto che alla sinistra post-comunista venga affidato il lavoro sporco. Il Green Pass imposto da Draghi, peraltro, non lascia adito a dubbi sulle intenzioni dell’élite che punta a colpire l’Italia per arrivare a sottomettere l’intero Occidente. Dove si finisce, di questo passo? Semplice, risponde Rossi: si arriva esattamente dove voleva fin dall’inizio l’ideologia fabiana, cioè a un regime fondato sulla sorveglianza. Il Green Pass? E’ solo il primo step per la nuova normalità: benessere e libertà di movimento, ma in cambio dell’obbedienza (naturalmente, “per il nostro bene”).Il loro sogno? Un mondo senza più l’intralcio della piccola proprietà privata, quella che rende le persone autonome finanziariamente, come nel caso delle Pmi che restano il nerbo dell’economia italiana. Meglio che tutto appartenga a uno Stato-padrone, disposto ad elargire concessioni solo a chi si mostra sottomesso: concessioni ovviamente revocabili in qualsiasi momento, al primo segno di insubordinazione. A meno che – dice ancora Davide Rossi – non si riescano a inceppare, dal basso, gli ingranaggi di questo meccanismo infernale, con atti di diserzione individuale. I segnali non mancano, osserva l’autore: la maggioranza degli italiani è contraria all’obbligo del Green Pass come requisito indispensabile per poter continuare a lavorare, e il 40% di essi ritiene che il “lasciapassare” non abbia alcun significato, sul piano sanitario, in termini di contenimento del famigerato virus. Tutto è evidente, ormai: il gioco è scoperto. Saranno davvero i nipotini della Fabian Society ad avere l’ultima parola?(Il libro: Davide Rossi, “La Fabian Society e la pandemia. Come si arriva alla dittatura”, Arianna Editrice, euro 14,50).Primo nemico, invariabilmente: il popolo (o forse l’essere umano, in quanto tale?). Pericolosamente anarchico, anche gioioso. In una parola: ingovernabile. Come rimediare? Ingannandolo, sostanzialmente. Nella fattispecie, ispirandosi all’arte militare di Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore: saper attendere il momento propizio, per poi colpire. Come la tartaruga totemica della congrega di cui tratta Davide Rossi, nel suo saggio. Il trucco: saper aspettare, anche cent’anni. E’ il marchio di fabbrica della Fabian Society, elusiva struttura la cui ideologia (e non solo quella) sembra ispirare tanta parte delle infamie oggi inflitte all’umanità occidentale, nella cosiddetta Era Pandemica. I fabiani, eredi dei proto-socialisti all’occorrenza anche “eugenetici”, li si riconosce dall’atteggiamento politico sfuggente, per non dire subdolo: proprio come il “lupo travestito da agnello” che è l’icona storica di quell’illustre, ambivalente sodalizio nato da un certo “socialismo liberale” ottocentesco, in salsa laburista.
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Piano Usa: guerra, per rovesciare Maduro (e frenare la Cina)
A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.A fornire gli elementi di questa analisi geopolitica è il giovane Giacomo Gabellini, redattore di “Scenari Internazionali” e collaboratore di “Eurasia”, rivista di studi geopolitici. Gabellini è autore di diversi volumi, in cui si analizzano questioni storiche ed economiche, il più recente dei quali è “Eurocrack”, sul disastro politico-economico e strategico dell’Europa, uscito nel 2015 per Anteo Edizioni. Sul sito di Arianna Editrice, ora Gabellini inquadra le grandi manovre del fronte statunitense per accelerare il collasso del regime di Maduro. «La decisione di Trump – e dei suoi alleati nel continente latino-americano (Brasile, Argentina, Paraguay, Colombia), a cui si è aggiunto l’immancabile presidente canadese Justin Trudeau – di riconoscere come legittimo leader di Caracas il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Gaidò – premette Gabellini – rischia di far scivolare la situazione venezuelana sul piano inclinato della guerra civile, rendendola sempre più affine a quella delineatasi in Siria nel 2011». Un’analogia che emerge anche dal pesante coinvolgimento degli Stati Uniti nell’escalation, fino al recente embargo finanziario, al congelamento dei beni venezuelani in territorio Usa e al declassamento del debito di Caracas.Nel momento in cui il governo venezuelano ha cercato di difendersi svincolando la propria economia dal dollaro attraverso la creazione del “petro”, criptovaluta ancorata alle ricchezze minerarie ed energetiche, l’amministrazione Trump ha reagito vietando qualsiasi transazione nella nuova moneta all’interno degli Stati Uniti ed estendendo le sanzioni al settore dell’oro, minerale di cui il Venezuela è particolarmente ricco. «Una mossa, quest’ultima, che ha impedito al Venezuela di ricevere certificazioni straniere sulla qualità del proprio metallo prezioso, con conseguente interruzione o forte limitazione dei rapporti commerciali con le imprese operanti nel settore aurifero venezuelano». Simultaneamente, aggiunge Gabellini, Trump ha imposto pesanti sanzioni contro otto magistrati del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), con lo scopo di colpire quegli apparati istituzionali venezuelani ritenuti colpevoli di aver bloccato la proposta di intervento militare contro l’esecutivo, avanzata dal Parlamento controllato dall’opposizione. «In precedenza, una delegazione senatoriale Usa aveva sondato il terreno con il presidente colombiano Manuel Santos, maggiore alleato degli Usa in America Latina, per lanciare un’operazione militare congiunta atta a «permettere alla Colombia di difendersi dalle provocazioni venezuelane».Proprio in Colombia, ricorda Gabellini, staziona il più corposo contingente militare di cui gli Stati Uniti dispongano in tutto il continente. E accanto ai soldati americani operano le formazioni paramilitari di estrema destra vicine all’ex presidente Alvaro Uribe, «resesi responsabili di innumerevoli scorribande in territorio venezuelano». In quest’ambito rientrano anche operazioni sotto falsa bandiera: «In passato, alcuni miliziani colombiani erano stati arrestati dalle forze dell’ordine di Caracas con indosso divise della polizia venezuelana». Circostanze, osserva Gabellini, che rendono il ruolo svolto dalla Colombia nella crisi venezuelana «molto simile a quello esercitato dalla Turchia rispetto al conflitto siriano». Il presidente colombiano Manuel Santos ha infatti fornito «supporto attivo alle frange paramilitari annidate nella giungla colombiana in funzione anti-bolivariana». Sono le stesse milizie che, scrive l’analista, nella scorsa primavera presero d’assalto una stazione della polizia venezuelana al confine con la Colombia, «al fine di assumere il controllo di alcune aree strategicamente fondamentali per condurre operazioni di sabotaggio verso le regioni più interne».Ma le analogie con la crisi siriana non finiscono qui: già nel 2002, le forze venezuelane di opposizione tentarono un colpo di Stato contro Hugo Chavez, nel corso del quale «cecchini mai identificati aprirono il fuoco tanto sui civili quanto sulle forze di polizia, con lo scopo di invelenire il clima e destabilizzare l’ordine pubblico». Stesso schema in Romania nel 1989, in Russia nel 1993, in Thailandia e Kirghizistan nel 2010. Poi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria nel 2011, e in Ucraina nel 2014. «Tutte manovre finalizzate al cambio di regime, dietro le quali si è intravista in controluce la longa manus degli Stati Uniti». In molte di esse, il clima preparatorio era stato predisposto tramite l’infiltrazione di Ong «riconducibili a George Soros o direttamente al Dipartimento di Stato», le quali «allacciarono contatti con partiti di opposizione e gruppi organizzati». Sotto questo aspetto, aggiunge Gabellini, il caso del Venezuela appare paradigmatico, se anche una fonte insospettabile come “The Independent” è arrivata a riconoscere che «oltre ad appoggiare le forze che arrestarono Chavez nel 2002, gli Usa hanno inviato centinaia di migliaia di dollari ai suoi avversari attraverso la National Endowment for Democracy».Le manovre di Washington però non si limitano a questo, rivela Gabellini: lo conferma un documento di 11 pagine firmato già nel 2018 dall’ammiraglio Kurt Tidd, comandante del SouthCom (Southern Command), in cui si dichiara apertamente che gli Usa «hanno già predisposto un piano operativo finalizzato al rovesciamento del presidente Nicolas Maduro». Un’analisi spietata: la tenuta della “dittatura chavista” è ormai minata da problemi interni, a partire dalla scarsità di cibo e dalla caduta dei proventi petroliferi, oltre che dalla corruzione dilagante. Ma il problema, per l’ammiraglio Tidd è che le forze d’opposizione «che combattono per la democrazia e il ripristino di livelli di vita accettabili per la popolazione» cioè gli uomini di Juan Guaidò, «non sono in grado di porre fine all’incubo in cui il paese è sprofondato». Motivo? Gli oppositori di Mauduro, secondo l’ammiraglio, scontano tra le loro fila il peso di «una corruzione comparabile a quella dei loro nemici». Corruzione che «impedisce loro di prendere le decisioni necessarie a ribaltare la situazione».Ecco perché, se questo è lo scenario, non resta che «l’entrata in scena negli Sati Uniti», sottolinea Gabellini, «per “recuperare” il Venezuela e reinserirlo nel novero dei paesi latino-americani alleati di Washington». Un club in cui hanno appena fatto ritorno nazioni di grande rilevanza, dall’Argentina del neoliberista Mauricio Macrì al Brasile del parafascista Jair Bolsonaro. Per far cadere anche il Venezuela, prosegue Gabellini, secondo il documento di Tidd, occorre «indebolire le strutture politiche su cui si basa il movimento “bolivariano” collegandole al narcotraffico», nientemeno. Poi bisognerebbe “lavorare ai fianchi” il regime di Maduro per favorire la diserzione dei tecnici più qualificati, alienandogli così il favore della borghesia di lingua spagnola, la stessa su cui fecero perno gli Usa durante il tentato golpe contro Chavez del 2002. Per Tidd, si tratta di agire «fomentando discordia e insoddisfazione popolare, minando l’ordine pubblico, lavorando per aggravare la penuria di cibo, esacerbando le divisioni interne alla struttura di potere chavista», nonché ovviamente «screditando il presidente Maduro, presentandolo come un leader incapace, degradato al grado di fantoccio di Cuba». Attenzione: è necessario anche «provocare vittime, stando attenti a far ricadere la responsabilità sul governo», e inoltre «ingigantire agli occhi del mondo le proporzioni della crisi in atto».L’ammiraglio Tidd raccomanda di far ulteriormente esplodere l’inflazione attraverso nuove sanzioni, così da incoraggiare una fuga di capitali dal paese, scoraggiare eventuali investitori stranieri e far colare a picco la quotazione della moneta nazionale. Occorre inoltre avvalersi di «tutte le competenze acquisite dagli Usa in materia di guerra psicologica», per orchestrare una campagna di disinformazione mirata a screditare le iniziative finalizzate all’integrazione continentale – quali l’Alba e il Petrocaribe – promosse da Caracas nel corso degli ultimi anni. «Tutto il necessario, insomma – scrive Gabellini – per scatenare lo sdegno della popolazione e indirizzarlo contro le autorità, secondo uno schema già palesatosi con le “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e anche nello stesso Venezuela». Come già nel 2002, si suggerisce di mettere in crisi il rapporto di fedeltà che lega le forze armate al governo. Come agire? Utilizzando «gli alleati interni», incoraggiandoli a «organizzare manifestazioni e fomentare disordini e insicurezza, mediante saccheggi, furti, attentati e sequestro di mezzi di trasporto, in modo da mettere a repentaglio la sicurezza dei paesi limitrofi».Dal punto di vista statunitense, continua Gabellini, esacerbare le tensioni tra il Venezuela e i suoi vicini rappresentava un fattore determinante a garantire il conseguimento del “regime change”, nel caso in cui la rivolta interna fomentata dall’estero non si rivelasse sufficiente a scalzare Maduro dal potere. Nel documento si sottolinea infatti l’importanza di approfittare del crescente attivismo dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che sta rapidamente colmando la voragine apertasi con la cessazione delle attività da parte delle Farc. Altra pedina menzionata cinicamente da Tidd: i narcos del Cartello del Golfo, utili per alimentare la tensione lungo il confine con la Colombia, «così da provocare incidenti con le forze di sicurezza schierate lungo il confine venezuelano». Occorrerebbe inoltre favorire «la moltiplicazione delle incursioni armate da parte di gruppi paramilitari», i cui ranghi dovrebbero essere rinfoltiti attraverso «reclutamenti presso i campi che ospitano i rifugiati della Cúcuta, della Huajira e nel nord della provincia di Santander», vaste aree abitate da cittadini colombiani che emigrarono in Venezuela e ora intendono rientrare nel loro paese.Il tutto, con l’obiettivo finale di «gettare le basi per il coinvolgimento delle forze alleate in appoggio agli ufficiali venezuelani» eventualmente disertori. Fondamentale, a questo riguardo, risulta ingraziarsi «il supporto e la cooperazione delle autorità dei paesi amici (Brasile, Argentina, Colombia, Panama e Guyana)», ma anche organizzare l’approvvigionamento delle truppe e l’appoggio logistico, di concerto con Panama. E quindi: dislocare «aerei da combattimento, elicotteri e blindati», oltre a installare «centri d’intelligence destinati ad ospitare anche unità militari specializzate nell’ambito della logistica». Per dare una parvenza di legalità all’intervento, si suggerisce di ottenere l’avallo dell’Organizzazione degli Stati Americani e di adoperarsi affinché si stabilisca una «unità di intenti da parte di Brasile, Argentina, Colombia e Panama», paesi «la cui posizione geografica e la cui collaudata capacità ad operare in scenari non convenzionali come la giungla assumono un’importanza capitale». La dimensione internazionale dell’operazione «verrà rafforzata dalla presenza di forze speciali Usa, che andranno ad affiancarsi alle unità da combattimento degli Stati summenzionati». È bene, a questo proposito, «far sì che le operazioni scattino prima che il dittatore abbia il tempo di consolidare il proprio consenso e il controllo sullo scacchiere interno».Tutto ciò, osserva Gabellini, si inscrive alla perfezione nel disegno strategico dell’amministrazione Trump, «che ambisce in tutta evidenza a riportare saldamente l’America Latina nella sfera egemonica statunitense attraverso l’appoggio a tutta una serie di clientes locali». Tra questi Lenin Moreno (Ecuador), Enrique Peña Neto (Messico) e Luis Almagro (Uruguay), oltre ai già citati Macrì e Bolsonaro. Attori continentali «con i quali concordare il ripristino di una sorta di nuova Operazione Condor rivisitata e corretta». Affidando le redini del potere nei vari Stati dell’America Latina a questi nuovi e ben più concilianti interlocutori, aggiunge Gabellini, Washington «prevede di realizzare un’integrazione economica su scala continentale, concepita appositamente per contrastare la penetrazione cinese». Ecco il punto: negli ultimi anni, osserva l’analista, la Cina ha infatti investito qualcosa come 50 miliardi di dollari per la costruzione di un canale interoceanico in Nicaragua. Sarebbe in grado di rivaleggiare con quello di Panama, controllato dagli Stati Uniti. Pechino ha inoltre messo in cantiere una ferrovia per collegare Pacifico e Atlantico attraverso Brasile e Perù.Un anno fa, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha presenziato al vertice annuale della Communiy of Latin American and Caribbean States tenutosi a Santiago del Cile, per estendere ai 33 Stati membri l’invito a partecipare al progetto della Belt and Road Initiative, con lo scopo di «costruire collegamenti attraverso il continente, farli convergere verso le coste affacciate sul Pacifico e agganciarli ai porti locali da cui si diramano le linee di rifornimento marittimo verso la costa cinese». Una sorta di “Via della Seta Pacifica”. Nessuna competizione geopolitica, aveva sostenuto Wang Yi: «Il progetto è conforme al principio di raggiungere una crescita condivisa attraverso la discussione e la collaborazione». Ma gli Stati Uniti non sono dello stesso avviso. Dal canto suo, l’ammiraglio Tidd ha ricordato a una commissione del Senato che la Cina ha già investito 500 miliardi di dollari in progetti per lo sviluppo dell’America Latina, e ha in programma di mettere sul piatto altri 250 miliardi entro il 2030. Tidd ha inoltre aggiunto che «la più grande sfida strategica posta dalla Cina in questa regione non è ancora una sfida militare: è una sfida di tipo economico, che potrebbe richiedere un nuovo approccio da parte nostra, che ci permetta di affrontare efficacemente gli sforzi coordinati della Cina nelle Americhe».La raccomandazione di Tidd, accolta con entusiasmo da Trump, secondo Gabellini era quindi quella di rispolverare e riadattare alle esigenze del momento la cara, vecchia Dottrina Monroe, che all’epoca in cui fu enunciata (1823) contemplava la chiusura totale del cosiddetto “emisfero occidentale” a qualsiasi ingerenza europea. «Oggi, a differenza di allora, si tratta di sbarrare alla Cina la porte dell’America Latina, attraverso il collegamento di quest’ultima alla comunità economica nordamericana costituita pochi mesi fa con la radicale ristrutturazione del Nafta». In questo senso, conclude l’analista, «lo scatenamento del caos in Venezuela si configura come una tappa cruciale in vista della “risistemazione” definitiva dell’America Latina». In altre parole: il governo Maduro sembra avere le ore contate. Si trova nei guai anche per gravi errori nella sua gestione della politica economica. Ma il giorno che cadesse, non sarà per un moto spontaneo del popolo venezuelano ridotto all’esasperazione: i piani sono pronti – e non da oggi – per tornare a far sventolare la bandiera americana sul paese dove crebbe, a furor di popolo, il sogno indipendentista di Hugo Chavez.A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.
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Denaro, potere, guerra: seguite i soldi, quelli dei Rothschild
Hanno condizionato la storia mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, influendo con i loro capitali ed i loro prestiti bancari su tutte le importanti vicende. Dalla battaglia di Waterloo in poi non c’è un evento storico che non li coinvolga e che dalle loro finanze non sia stato in qualche modo determinato. Ma a scuola non si studiano, sui libri di testo non compaiono e le notizie sui componenti di questa importantissima famiglia di banchieri ebrei scarseggiano in modo per lo meno sospetto. C’è chi giura che incombano massicciamente anche sull’economia mondiale attuale e sulla crisi che ha messo in ginocchio l’Occidente. Prestiti stellari, debito pubblico, speculazione finanziaria, “signoraggio”, banche centrali nelle mani di pochi potentissimi banchieri privati. Questi gli ingredienti che, inquietantemente, sembrano comporre la storia, recente o meno, di quella che è considerata la famiglia più potente del mondo. Meyer Amschel Rothschild nacque nel ghetto di Francoforte il 23 febbraio 1744. Discendente da un’antica famiglia di rabbini e predicatori ashkenazi di Worms (nata dall’unione dell’antichissima dinastia dei rabbini Hahn-Elkan con quella altrettanto antica degli Worms) era figlio del ferramenta Amschel Moses Rothschild (detto “Bauer”, così come il nonno Moses Callman) – che esercitava anche l’attività di cambiavalute.Il ragazzo crebbe al numero 148 di quella Judengasse (la “via degli Ebrei”), in cui si trovava la bottega del padre, che lo lasciò orfano a dodici anni. Meyer Amschel cominciò così a prendersi cura dei suoi fratelli mettendo a frutto la sua abilità di conoscitore di monete antiche, abilità che lo portò a diventare presto consulente e fornitore di importanti collezionisti. In virtù di questo successo decise di abbandonare il pesante soprannome (“Bauer” significa contadino ed era quindi troppo svilente), mantenendo solo il cognome Rothschild, derivante dall’espressione “Rot Schild”, ossia Scudo Rosso, dalla forma dell’insegna che campeggiava sull’antica bottega di famiglia. A venticinque anni il suo principale cliente era già il Langravio di Assia-Kassel, Guglielmo IX. A presentargli il futuro principe elettore fu probabilmente il generale Emmerich Otto August Von Estorff (1722-1796), conosciuto negli anni precedenti, quando Meyer faceva il cassiere nella banca dei ricchissimi Oppenheimer, ad Hannover. Von Estorff (che nel 1764 aveva fatto affari fondando una società agricola a Celle, in Bassa Sassonia), era un estimatore di quel giovane che aveva saputo curare con profitto i suoi interessi, mettendosi contemporaneamente in luce nella stessa banca in cui lavorava, al punto di riceverne in premio un certo numero di azioni.Guglielmo IX era molto ricco, anche grazie alla consuetudine – tipica dei principi tedeschi dell’epoca – di “noleggiare” come mercenari ai sovrani stranieri i suoi soldati migliori, ricavandone notevoli profitti economici. Gli affari migliori li aveva fatti con il Re d’Inghilterra, a cui aveva affittato le sue truppe per supportarlo contro le colonie americane ed il loro generale George Washington. Quella ricchezza andava investita ed accresciuta. E Meyer era l’uomo giusto. Il rapporto col principe fruttò molto. Guglielmo IX vide aumentare il proprio capitale grazie agli investimenti che il suo consulente finanziario effettuava per suo conto, soprattutto in ambito militare. In compenso Meyer Amschel, potendo contare sulle conoscenze giuste, riuscì ad aprire una sua banca a Francoforte. Da Gutele Schnapper – figlia di un mercante ebreo, che lo aveva sposato, a diciassette anni, nell’agosto del 1770 – ebbe dieci figli: cinque femmine e cinque maschi (anche gli Schnapper erano una famiglia antichissima, imparentata anch’essa con quella dei Worms). Nelle mani dei suoi cinque figli (nell’ordine: Amschel, Salomon, Nathan, Karl e Jakob Meyer), Meyer Amschel avrebbe consegnato la sua fortuna.Un importante biografo della famiglia, H. R. Lottman, sostiene che delle femmine non ci siano giunti nemmeno i nomi. In realtà sappiamo che le cinque fanciulle si chiamavano Schönche Jeanette, Isabella, Babette, Julie e Henriette, ma la consuetudine di non divulgare molto l’identità delle femmine della famiglia fu spesso osservata scrupolosamente, poiché proprio attraverso di loro i Rothschild si imparentarono con le altre importanti dinastie ebree d’Europa, facendole sposare a volte con i figli delle figlie di altri uomini di potere il cui cognome, in quel modo, non potesse venir direttamente collegato al loro. Oppure, come vedremo, maritandole con altri Rothschild, quando ciò si rendeva necessario per mantenere in famiglia titoli e capitali. Il matrimonio più rilevante, tra quelli delle figlie di Amschel, fu probabilmente quello che toccò ad Henriette, andata in sposa ad Abraham Montefiore, membro della potente famiglia ebrea londinese emigrata a Livorno e zio di quel ricchissimo Moses Montefiore, imprenditore di successo e futuro filantropo ed attivista per la causa sionista.A rafforzare l’unione tra le due importanti famiglie ebraiche, il matrimonio tra Nathan e la cognata di Moses, Hannah Cohen, futura cugina di terzo grado di Karl Marx (che sarebbe nato dodici anni dopo il matrimonio). Un’unione che diede il via ad un imponente sodalizio finanziario tra i Rothschild ed i Montefiore, a cominciare dalla compagnia di assicurazione Alliance (l’attuale Rsa – Royal & Sun Alliance, une delle più grandi multinazionali assicurative del mondo), che i due fondarono nel 1824. Appena furono indipendenti, i figli maschi vennero mandati ad aprire nuove filiali della banca del padre nelle più importanti città europee. Anche se la tradizione sostiene che l’ideatore di questa dispersione sia stato papà Meyer Amschel, stando alle date, a qualche studioso sembra più credibile che tale provvedimento sia stato preso da Nathan, il primo figlio ad accumulare forti ricchezze, stabilitosi a Londra già dal 1805. Ad ogni modo solo il primogenito, Amschel, fu trattenuto a Francoforte come principale collaboratore e poi successore del genitore. Salomon fu inviato a Vienna, Karl (il cui vero nome era Calmann Meyer), a Napoli e Jakob, resosi poi celebre con il nome “James”, a Parigi.Dal gennaio del 1800, grazie al rapporto privilegiato con il Casato di Assia, i nostri banchieri erano diventati agenti dell’imperatore d’Austria. Il loro prestigio, negli anni, crebbe a dismisura, soprattutto a causa della loro straordinaria abilità nel trasferire merci e fondi di principi e Re – usufruendo il più possibile di lettere di cambio – soprattutto tra l’Europa continentale e l’Inghilterra. E ciò, incredibilmente, anche in situazioni di emergenza, come nei casi in cui le nazioni interessate si trovavano nel bel mezzo di una guerra. Situazione, questa, che spesso vedeva schierate l’una contro l’altra le nazioni in cui si trovavano le cinque agenzie dei Rothschild. Gli affari dei cinque fratelli cominciarono a diventare determinanti, all’interno dello scenario politico internazionale. Un esempio fra tutti. Lo storico Jean Bouvier nel suo “Les Rothschild” (Edition Complexe, 1983), ha giustamente sostenuto che Napoleone sia stato sconfitto su un campo di battaglia prettamente finanziario. Ebbene, già dietro la sconfitta di Waterloo del grande imperatore francese c’è lo zampino dei Rothschild. Furono loro, infatti, a finanziare le operazioni militari del duca di Wellington che portarono alla vittoria dell’esercito inglese. Esattamente come, dopo l’uscita di scena di Napoleone, erogarono i prestiti per la restaurazione, in Francia, del potere di Luigi XVIII.Ma non basta. Il Langravio di Assia, negli ultimi anni del potere di Napoleone, aveva tergiversato chiedendosi se convenisse di più schierarsi con Bonaparte o con le molteplici coalizioni realizzatesi contro di lui. Napoleone non glielo aveva perdonato, ed era piombato sull’elettorato, occupandolo e spedendo il Langravio in esilio. In quella circostanza Amschel Meyer aveva esibito tutto il suo opportunismo, continuando in segreto ad aiutare finanziariamente l’esule Guglielmo (con l’aiuto di Nathan, che aveva custodito i risparmi del principe sottraendoli alla razzia napoleonica e, nel frattempo, utilizzandoli per comprare oro per un valore di 800 mila sterline) e, contemporaneamente, intraprendendo nuovi proficui affari con i francesi, ingraziandoseli al punto di ottenere che venisse sancita la parità di diritti tra gli abitanti del ghetto ed il resto della popolazione dell’Assia, e ciò in cambio del versamento di una somma pari a ben vent’anni di imposte! E ciò, si noti bene, nonostante l’imperatore fosse determinato ad arrestare in tutti i modi il processo di emancipazione degli ebrei innescato dalla Rivoluzione Francese. Dal marzo 1810, poi, Jakob si era trasferito a Parigi in modo definitivo, e gli affari con l’imperatore erano diventati una prassi quotidiana.D’altra parte, negli anni precedenti, aveva improvvisamente moltiplicato le sue ricchezze ed il suo potere grazie ad un affare di cui gli storici tradizionali non hanno mai parlato, ma che lo studioso “non allineato” Vittorio Giunciuglio (nel suo “Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo”, 1994), ha spiegato molto bene in seguito alle sue lunghe ricerche su Cristoforo Colombo. James, infatti, aveva ricevuto da Napoleone l’incarico di smerciare le migliaia di lingotti d’oro sottratti al rivale Banco di San Giorgio, istituto finanziario genovese importantissimo, nonché prima banca della storia europea. Il Banco conteneva, oltre ai depositi della corona francese, su cui la Repubblica voleva mettere le mani, niente meno che l’immensa ricchezza di Colombo, accumulata in tutti i suoi viaggi. Genova era stata occupata dai francesi proprio per metter fuori combattimento e depredare quello che costituiva il principale rivale della Banca Rothschild. Una fortuna smisurata, che aveva successivamente trasformato James in uno degli uomini più importanti del mondo.Ma al di là dei lingotti genovesi, Napoleone sapeva pochissimo del resto degli affari di James. Il quale, in quella nuova sede, aveva potenziato enormemente il traffico di oro ed effetti bancari tra Inghilterra, Francia e resto d’Europa, facendo trasportare il metallo prezioso in vagoni con scomparti segreti e, quando risultava impossibile occultare tali traffici, riuscendo a convincere il ministro napoleonico delle finanze Mollien che il flusso d’oro verso Londra giocasse un ruolo favorevole alla Francia, comportando di fatto un forte indebolimento economico per l’Inghilterra. In pratica i Rothschild stavano facendo affari con dominati e dominatori, vincitori e sconfitti. E nessuno l’aveva davvero capito. Una prassi che, come vedremo, la famiglia saprà consolidare nel tempo. Si racconta che Amschel Meyer, deceduto il 12 settembre 1812, sul letto di morte abbia diviso il mondo tra i suoi cinque figli. Sta di fatto che questi sono gli anni dell’irrefrenabile ascesa di Jakob, ribattezzatosi James. Con la prima sconfitta di Napoleone a Waterloo egli riuscì a registrare la sua banca presso il tribunale di Parigi e ad accogliere, grazie a Nathan, la valuta inglese necessaria per finanziare la salita al trono di Luigi XVIII.Fu il suo primo contratto con un Re. All’età di ventun anni il nostro James vantava un giro d’affari superiore al milione di franchi, l’equivalente di circa cinque milioni di euro attuali. Nel frattempo Bonaparte il 26 febbraio 1815 fuggiva dall’isola d’Elba con cinquecento uomini. Nemmeno un mese dopo, la sera del 20 marzo, sedeva già al posto di comando, presso la residenza delle Tuileries, ma ancora una volta James non si perse d’animo. Non sappiamo che rapporto intercorse tra l’imperatore ed il banchiere in quei leggendari successivi Cento giorni, ma è un dato di fatto che l’esito della battaglia campale di Waterloo sia arrivata alle orecchie dei Rothschild prima che a quelle di chiunque altro. La leggenda vuole che James abbia seguito le operazioni militari da un’altura ed abbia subito informato il fratello Nathan a Londra – che per finanziare le truppe inglesi aveva trasferito nel continente lingotti d’oro per un valore di 15 milioni di sterline tra il 1813 ed il 1815, di cui 6 milioni soltanto tra il gennaio ed il giugno dell’ultimo anno – ottenendo in quel modo guadagni eccezionali in ambito finanziario. Secondo un’altra versione Nathan sarebbe stato informato dal suo agente di Ostenda, Rowerth.Il Lottman – in generale sempre molto “fiducioso” nelle qualità morali e civili della famiglia – così scrive: «In realtà il servizio di informazioni dei Rothschild, che con la consueta efficienza collegava i punti chiave del continente servendosi di battelli e diligenze, portò a Nathan la notizia prima che arrivasse a chiunque altro; ma egli, da buon suddito del Re qual era, ne informò immediatamente il governo inglese. I Rothschild diventarono ancora più ricchi, ma non furono gli unici beneficiari della vittoria». Nel 1816, grazie alle pressioni esercitate da Metternich, i Rothschild ottennero dall’Imperatore d’Austria il titolo di baroni; un riconoscimento estremamente inusuale, mai concesso a commercianti, per giunta ebrei. Il titolo andò a tutti i fratelli tranne Nathan, che in qualità di suddito britannico non poteva ottenere un’onorificenza austriaca. James, barone a soli ventiquattro anni, largheggiò permettendosi di invitare a cena lo stesso Metternich o il duca di Wellington. Divenne amico e consulente finanziario del duca d’Orleans, futuro Luigi Filippo, Re dei francesi, che una volta sul trono non si sarebbe certo dimenticato dei favori del barone. Il tutto visto non proprio di buon occhio dalle varie comunità ebraiche europee, cui non sfuggiva l’alleanza tra i ricchissimi banchieri semiti ed i loro potentissimi, aristocratici persecutori.(Pietro Ratto, “Rothschild, il nome impronunciabile”, dal newsmagazine “InControStoria”. Ratto è autore del saggio “I Rothschild e gli altri”, Arianna editrice, 160 pagine, euro 9,80).Hanno condizionato la storia mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, influendo con i loro capitali ed i loro prestiti bancari su tutte le importanti vicende. Dalla battaglia di Waterloo in poi non c’è un evento storico che non li coinvolga e che dalle loro finanze non sia stato in qualche modo determinato. Ma a scuola non si studiano, sui libri di testo non compaiono e le notizie sui componenti di questa importantissima famiglia di banchieri ebrei scarseggiano in modo per lo meno sospetto. C’è chi giura che incombano massicciamente anche sull’economia mondiale attuale e sulla crisi che ha messo in ginocchio l’Occidente. Prestiti stellari, debito pubblico, speculazione finanziaria, “signoraggio”, banche centrali nelle mani di pochi potentissimi banchieri privati. Questi gli ingredienti che, inquietantemente, sembrano comporre la storia, recente o meno, di quella che è considerata la famiglia più potente del mondo. Meyer Amschel Rothschild nacque nel ghetto di Francoforte il 23 febbraio 1744. Discendente da un’antica famiglia di rabbini e predicatori ashkenazi di Worms (nata dall’unione dell’antichissima dinastia dei rabbini Hahn-Elkan con quella altrettanto antica degli Worms) era figlio del ferramenta Amschel Moses Rothschild (detto “Bauer”, così come il nonno Moses Callman) – che esercitava anche l’attività di cambiavalute.
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Se il popolo di Vasco marciasse contro il governo zootecnico
Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».Bisognerebbe «gridare che le mitiche speranze dell’europeismo sono state tradite», e che «nel mondo reale, il liberismo di mercato non ha gli effetti promessi dal modello ideale, ossia che il mercato non è “libero” ma gestito da cartelli: non tende a evitare o assorbire le crisi, ma le genera e amplifica», onde «non a distribuire le risorse, ma concentrarle in mano a pochi monopolisti». E’ un sistema che «dissolve la società invece di renderla più efficiente», anzi «dissolve l’idea stessa dell’uomo», scrive Della Luna. «Se i giovani per una volta dormissero all’addiaccio, pagassero i trasporti verso Roma, si comportassero per qualche giorno da soldati politici – dice Blondet nel suo blog – farebbero paura al governo che ci è stato imposto dalla Banca Centrale e da Bruxelles, ai parlamentari che dipendono dalle lobbies e comitati d’affari, e che hanno svenduto l’Italia, le sue industrie e la sua sovranità agli interessi stranieri». Della Luna, annota Blondet, è stato «il primo in Italia ad avvertirci che il capitalismo terminale globale fa soldi non più producendo merci ma bolle finanziarie per poi farle scoppiare: non ha più bisogno di lavoratori, produttori, operai, eserciti di massa – né quindi di mantenere sani, efficienti, istruiti, men che meno prosperi e soddisfatti i popoli». Non servono più, i popoli, e neppure i consumatori (risale infatti al 2010 il suo saggio “Oligarchie per popoli superflui”).In questo nuovo saggio, Della Luna ci avverte che il sistema è entrato in una fase ulteriore e più letale, anti-umana. Ormai persino il profitto finanziario «ha perso importanza, sia come scopo che come mezzo». Basta ricordare «le migliaia di miliardi che le banche centrali (appartenenti alla finanza privata) creano dal nulla per mantenere a galla il sistema, mettendoli a disposizione di chi comanda in misura illimitata». E il denaro creato dal nulla «genera un flusso di cassa positivo, ossia un reddito, che la banca incassa, ma su cui non paga le tasse», perché a pagare sono i contribuenti. Della Luna giunge a preconizzare perfino «il tramonto della finanza», inteso come «sistema di dominio della società». Un tramonto che però non coinciderà con la nostra liberazione: è già in arrivo «il dominio diretto e materiale sulla società», attraverso la «gestione coercitiva del demos, potente e unilaterale, e insieme non responsabile delle scelte verso i suoi amministrati». Questo nuovo potere, «non diversamente dalla zootecnia», non è responsabile verso gli animali che “alleva”, cioè noi. Governo zootecnico: «L’allevamento-condizionamento di masse umane per l’utilità degli allevatori». Già lo fanno per via mediatica, «restringendo e omogeneizzando le rappresentazioni che gli umani hanno della realtà».Di fatto, continua Della Luna, stanno già «tabuizzando e psichiatrizzando il dissenso e la contro-informazione», fino a renderla penalmente perseguibile. Lo fanno con “la Buona Scuola”, l’attuale sistema educativo congegnato in modo da non sviluppare facoltà cognitive, né l’attenzione sostenuta, né la capacità di auto-dominio: è il metodo perfetto per «produrre persone deboli, dipendenti, condizionabili, incapaci di opporsi». Non si tratta di risultati fallimentari e ideologie erronee. Al contrario, dice Della Luna: sono effetti perseguiti deliberatamente per «semplificare» l’uomo, standardizzandolo in vista dell’allevamento zootecnico. «Impressionante – aggiunge Blondet – è l’esempio che fa della scomparsa della borghesia produttiva, culturalmente vivace e reattiva, rovinata dalle crisi deflattive continue e dal fisco rapacissimo». Non è un caso malaugurato. E’ che «la piramide sociale va interrotta lasciando uno spazio vuoto sotto il suo apice», il famigerato 1% che concentra l’80% delle ricchezze, «così che l’apice sia al sicuro dalle scalate (mobilità verticale) e dagli attacchi delle classi intermedie erudite».L’obiettivo del vertice è «realizzare tra l’oligarchia e i popoli la medesima distanza e differenziazione qualitativa che c’è tra l’allevatore e gli animali allevati», secondo il modello zootecnico. «Nella chiave del governo zootecnico – scrive Blondet – diventano perfettamente spiegabili la plurivaccinazione obbligatoria dei cuccioli», cioè bambini. Se fossimo cittadini, e non polli d’allevamento, dovremmo rifiutare «la potestà giuridica di immettere nel corpo della gente sostanze attive», fra cui quelle basate su nanotecnologie e biotecnologie, «e molte di esse coperte da segreto militare o commerciale», rileva Della Luna. Sempre nella prospettiva dell’allevamento zootecnico acquista senso anche «il dogma dell’accoglienza e della mescolanza dei popoli», imposto come «evidente, dimostrato», presentando chi li contraddice come «irragionevole, malintenzionato, pericoloso, immorale». La verità è che, oltre ad essere in Italia un business, il «circuito dell’affarismo parassitario» che succhia denaro pubblico, il “dogma” pro-migranti «ha perfettamente senso dal punto di vista dell’allevatore: la trasformazione dall’alto del popolo, il popolo-bestiame, imponendo l’immigrazione sostitutiva delle popolazioni nazionali» nello stesso modo in cui l’allevatore inserisce nella stalla nuovi tori e nuove fattrici, per “migliorare la razza”.L’immigrazione caotica è anti-economica, diminuisce l’efficienza della società e costa moltissimo? Infatti, conferma l’autore: ciò dimostra che «la comprensione economicistica del divenire attuale è palesemente scavalcata». Quando la casta politica-amministrativa «lascia senza tetto e senza cibo i cittadini italiani mentre alloggia gli immigrati in alberghi a tre e quattro stelle», scrive Della Luna, quel che attua è «l’annullamento programmatico del concetto di cittadino come titolare di diritti specifici verso la sua polis», cioè «l’annullamento del “demos”, ossia del “popolo” come entità politica, padrona collettivamente delle proprie scelte». Un modello che «non implica affatto pace, sicurezza, efficienza per le popolazioni, esattamente come non le implica il modello zootecnico». Per gli allevatori, gli animali allevati «sono solo fonte di utilità; non hanno diritti né dignità riconosciuta». Dalla robotizzazione dell’industria all’elemosina elettorale degli 80 euro di Renzi: «La mancanza di redditi e servizi sicuri, la dipendenza da interventi anno per anno, rende queste masse sempre più passive, remissive», dunque «politicamente inattive». Ecco lo scopo.Se infatti il “capitalismo finanziario terminale” tende a «togliere alla gente tutto il reddito e tutti i risparmi disponibili», facendo passare a tutti la voglia di pagare le tasse, “lorsignori” sanno come scongiurare la possibile rivolta: «Contrariamente a quel che fa credere la narrativa hollywoodiana – scrive Blondet – le rivoluzioni non le fanno gli affamati», in coda alle mense della Caritas, ma «le classi emergenti nella prosperità», pronte a reclamare diritti politici. «Quelli con la pancia vuota sono passivi e remissivi, aspettano il bonus da 80 euro; i giovani passano da un precariato all’altro e non avranno mai una pensione sufficiente a farli sopravvivere: dunque pietiranno dallo Stato interventi, che saranno anno per anno, incerti, caritativi». Siamo ormai al “precariato ontologico”, lo stato nel quale puntano a ridurci come condizione naturale. La precarietà «assunta a paradigma normativo» ormai è la condizione standard dei giovani: uno “stipendio” da 450 euro al mese o, in alternativa, l’emigrazione in Nord Europa. «Siete già precari ontologici?», conclude Blondet, rivolgendosi ai giovani. «Per Vasco l’avete fatta, la marcia su Modena. Ne rifarete un’altra per rifiutare il governo zootecnico?».Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».
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Oltre l’agonia: potere totalitario, ma non vincerà per sempre
«Quando saremo completamente sottomessi, non ci renderemo neanche più conto di avere perduto la nostra dignità». Eppure, i grandi poteri non riusciranno a piegarci: nel suo ultimo saggio, “Oltre l’agonia”, Marco Della Luna spiega «come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari». Avvocato, Della Luna esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova, è un attento studioso degli strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Collabora con riviste come “Tema”, “Il Consapevole”, “Nexus”, “Il Popolo”. Tra i suoi volumi più recenti, “Euroschiavi”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”. «Il capitalismo finanziario – afferma – sta diventando sempre più un potere politico assoluto e totalitario», dal momento che «oltre a trasformare l’uomo in merce, degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e riduce tutti a sudditi senza diritti». Con il pretesto di dover rassicurare i “mercati”, questo super-potere invisibile «giustifica il controllo sociale attraverso nuovi mezzi elettronici e organici che tracciano e violano l’uomo con tecniche di manipolazione neurale e biologica, applicando gli strumenti della psicologia aziendale».Prima di spingere lo sguardo “oltre l’agonia”, Della Luna punta al cuore di tenebra del mostro che sta sfigurando l’Italia, mezza Europa e il resto del mondo: «Con il pretesto di dover assicurare a tutti i costi la governance richiesta dagli stessi mercati che hanno destabilizzato la società», il neo-totalitarismo finanziario «crea la giustificazione per controllare la vita sociale attraverso nuovi strumenti elettronici e biologici, che tracciano, violano e manipolano l’uomo fin nella sua integrità neurofisiologica». Socché, questa “società gestita”, pilotata dall’alto, «è il risultato dell’applicazione degli strumenti della psicologia aziendale», potenziati con tecniche di manipolazione derivati dalle neuroscienze. Questa raffinata tecnologia «ha dato ai governanti non solo un potere di controllo e intervento su tutti noi prima impensabile, ma anche una nuova struttura del potere stesso». Una struttura «delocalizzata e politicamente irresponsabile, in cui l’automazione e la smaterializzazione degli strumenti di governo e di arricchimento hanno privato le persone del potere di contrattazione e della partecipazione ai processi decisionali, relegandole al margine dei circuiti produttivi e decisionali».Questo processo ha generato «un ordine contrario ai bisogni dell’uomo e della biosfera, cementato da un catechismo ideologico “politicamente corretto” che criminalizza, censura e inibisce chi ne critica i fondamenti». Di fatto, «siamo piegati dalle crisi incalzanti e dalle loro imposizioni, e così accettiamo che la sopravvivenza del sistema produttivo da cui dipendiamo necessiti di un maggior controllo sociale, di una crescente riduzione delle sicurezze personali, delle relazioni comunitarie e delle libertà». Il capitalismo finanziario, poi, «alimenta il falso dogma della scarsità della moneta e sta diventando sempre più una guida politica assoluta». Oltre a mercificare l’uomo, questo super-potere apolide «disgrega e degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e dissolve le sue basi morali in una logica di competizione individualistica». Nel libro, Della Luna descrive questo minaccioso passaggio epocale, in cui l’umanità sta rischiando tutto. Per contro, l’autore indica una possibile via di uscita dall’incombente dominio tecnocratico: risiede, per forza di cose, «nella stessa insondabile e incoercibile complessità del mondo, della psiche, dell’Essere».(Il libro: Marco Della Luna, “Oltre l’agonia. Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari”, Arianna Editrice, 160 pagine, euro 9,80).«Quando saremo completamente sottomessi, non ci renderemo neanche più conto di avere perduto la nostra dignità». Eppure, i grandi poteri non riusciranno a piegarci: nel suo ultimo saggio, “Oltre l’agonia”, Marco Della Luna spiega «come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari». Avvocato, Della Luna esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova, è un attento studioso degli strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Collabora con riviste come “Tema”, “Il Consapevole”, “Nexus”, “Il Popolo”. Tra i suoi volumi più recenti, “Euroschiavi”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”. «Il capitalismo finanziario – afferma – sta diventando sempre più un potere politico assoluto e totalitario», dal momento che «oltre a trasformare l’uomo in merce, degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e riduce tutti a sudditi senza diritti». Con il pretesto di dover rassicurare i “mercati”, questo super-potere invisibile «giustifica il controllo sociale attraverso nuovi mezzi elettronici e organici che tracciano e violano l’uomo con tecniche di manipolazione neurale e biologica, applicando gli strumenti della psicologia aziendale».
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False flag: usano terroristi per ucciderci sotto falsa bandiera
Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.Come diceva il maiale Napoleone nella “Fattoria degli animali” di Orwell: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». E oggi i governanti sembrano dirci: «Tutte le libertà sono in vigore, ma alcune sono meno vigenti delle altre». Il prezzo da pagare può essere altissimo. Il preavviso passa attraverso i secoli e ci viene da uno dei padri costituenti degli Stati Uniti d’America, Benjamin Franklin: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza». Il libro che avete in mano ricostruisce una serie impressionante di vicende diverse, attribuibili a differenti Stati e legate a circostanze storiche non sempre connesse direttamente fra di loro, ma accomunate da un metodo che sembra essere uno strumento essenziale della moderna “arte di governo”. Enrica Perucchietti entra in dettaglio sui misteri e le scoperte che rivelano da un’altra prospettiva decine di incidenti militari, attentati, azioni terroristiche: di fronte a tanti gialli politici per i quali i governi forniscono su due piedi spiegazioni piatte, sprovviste di profondità, riduttive, banali, riferite a killer solitari e a gruppi isolati che non godrebbero di indecenti connivenze dentro gli apparati dello Stato fra chi potrebbe bloccarli, l’autrice del saggio fa invece affiorare indizi, prove, collegamenti clamorosi, fino a raccontare le storie che la censura di tipo moderno aveva eclissato in mezzo alla sua immensa produzione di notizie inutili.Perciò viene citato regolarmente il saggista statunitense Webster Tarpley, che ha coniato un concetto efficacissimo per descrivere questo sistema, ossia «terrorismo sintetico», che altro non è che «il mezzo con cui le oligarchie scatenano contro i popoli guerre segrete, che sarebbe impossibile fare apertamente. L’oligarchia, a sua volta, ha sempre lo stesso programma politico […] Il programma dell’oligarchia è di perpetuare l’oligarchia». In tante pagine il vostro sguardo potrà posarsi su un secolo intero di vicende storiche innescate o favorite dalle flase flag, fino a notare come queste diventino sempre più numerose. Episodi più lontani nel tempo, come l’affondamento del Lusitania, l’incendio del Reichstag, l’incidente del Tonchino, diventano – decennio dopo decennio – una prassi rodata e frequente, che si moltiplica nel corso degli ultimi 15 anni. E cosa ha inaugurato quest’ultimo periodo? Esattamente la più spettacolare e visionaria delle false flag, lo scenario apocalittico dell’11 settembre 2001. Quel che è venuto dopo – ossia la “guerra infinita”, la “guerra al terrorismo”, lo spionaggio totalitario coperto dal Patriot Act e altre leggi liberticide – una volta illuminato dalla luce terribile dell’11/9, si è avvalso di una sorta di “terapia di mantenimento” a base di attentati piccoli e grandi, perpetrati da gruppi di terroristi presso i quali sono sempre riconoscibili l’ombra e l’impronta dei servizi segreti.I servizi segreti sono il grande convitato di pietra, sempre più ingombrante eppure ancora sottovalutato nelle analisi politiche, storiche e giornalistiche. Anche se gli apparati di intelligence sono formalmente subordinati al potere politico ed esecutivo, hanno risorse enormi in grado di sfuggire ai deboli criteri di trasparenza che possono mettere in campo le eventuali commissioni parlamentari di controllo. Pertanto sono capaci di costruire reti di interessi che in tutta autonomia possono condizionare sia l’agenda politica sia l’agenda dei media. Settori interi di questi servizi giocano partite autosufficienti grazie a budget incontrollabili ed enormi, in grado di mettere in campo forze pervasive. All’interno di quello che certi politologi definiscono “lo Stato profondo” esistono settori ombra del governo, dotati di proprie catene di comando presso le forze armate, di budget non rendicontabili che uniscono risorse pubbliche e autofinanziamento in simbiosi con le attività criminali delle mafie, provvisti di idee proprie in merito al modo di intendere l’interesse nazionale, portati a costruire ogni tipo di rapporto con gruppi terroristici che poi manovrano con “leve lunghe” e irriconoscibili.Le attività sono organizzate e adempiute mascherando ogni responsabilità riconducibile ai governi, tanto che immense risorse sono spese per depistare e neutralizzare le eventuali scoperte con il noto principio della «plausible deniability», ossia la smentita plausibile. Ove rimanesse ancora una notizia impossibile da smentire, la si potrà disinnescare grazie all’immenso arbitrio in mano ai dirigenti dei media più importanti, che hanno mille intrecci con il mondo dei servizi. Il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha a lungo lavorato per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, uno dei principali quotidiani tedeschi, ha scritto un saggio bestseller, “Gekaufte Journalisten” (giornalisti venduti), in cui rivela che per molti anni la Cia lo aveva pagato per manipolare le notizie, e che questa è la consuetudine ancora attuale nei media germanici. Tutto fa pensare che la consuetudine sia identica anche altrove. Di certo non leggerete su “La Repubblica” una recensione sul libro di Ulfkotte, mentre leggerete le geremiadi dei suoi editorialisti su dove andremo a finire con questi complottisti, signora mia…Come spiegarsi altrimenti il silenzio che circonda certe notizie, che vengono pur date per salvarsi la coscienza, ma non hanno un prosieguo, una campagna di inchieste, nessun impegno? Eppure perfino Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato: «L’agenzia Fbi pagava dei musulmani per compiere attentati». Secondo un’indagine su 27 processi e 215 interviste, l’agenzia di intelligence interna americana «ha creato dei terroristi sollecitando i loro obiettivi ad agire e compiere atti di terrorismo». Notare bene: “creato dei terroristi”. In che modo? «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto. «Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», ha detto Andrea Prasow, vice direttore di Hrw a Washington. «Ma se si osserva da vicino si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagate». La notizia, se non la vogliamo ignorare, è semplice e terribile: gran parte degli attentati terroristici sul suolo Usa sono indotti dalla stessa organizzazione che li dovrebbe combattere, cioè l’Fbi.Gli organi di informazione che hanno lasciato appesa al nulla questa notizia impressionante, sono gli stessi che per anni – ad ogni attentato avvenuto o sventato – avevano ripetuto i comunicati dell’Fbi senza chiedere spiegazioni. Queste veline diventavano titoli urlati in prima pagina, notizie di apertura dei telegiornali. Quando la verità emerge, spesso molti anni dopo, non gode certo degli stessi spazi, rimanendo confinata in qualche insignificante pagina interna, in taglio basso. Chi aveva voluto raggiungere un certo effetto con i titoli cubitali, lo aveva già ottenuto. Resta viceversa la prima impressione dell’allarme, quando l’annuncio strillato e falso si deposita nella coscienza di lettori e spettatori. Ed è per responsabilità di questa informazione – che si è curata solo di aizzare (quando gli è stato comandato), o di “sopire e troncare” (quando era comodo) – che ogni giorno ci è stato depredato un pezzo di libertà, di sovranità, e infine imposto lo spionaggio totalitario della Nsa, l’agenzia che perfino di ciascun lettore di questo libro, in nome della sicurezza, possiede tutte le tracce delle sue comunicazioni, tutte le e-mail, i suoi orientamenti, i segreti personali. Ed è naturalmente in grado di ricattare ogni politico-maggiordomo occidentale, esposto al tempismo di qualche scandalo che lo potrebbe colpire e affondare se dovesse ribellarsi ai padroni dei segreti.Enrica Perucchietti ricompone un vasto mosaico di “false flag” che nell’insieme disegnano un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio di massa indiscriminato oltre ad aver reintrodotto gli arresti extralegali assieme alla tortura. In questo quadro emerge chiaramente che il terrorismo sintetico è un’interminabile catena di azioni in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’intelligence, che li manipola per i propri fini. Quel che nel senso comune si chiama terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei media mainstream, i quali sono adibiti a organizzare a comando gli isterismi collettivi e a rinfrescare la paura, ricordando certe vittime innocenti e dimenticandone altre.Nel saggio si sottolinea ad esempio come ci sia una notevole compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti, compresa l’Isis/Daesh. Enrica Perucchietti pone la domanda che nella maggior parte dei nostri media è tabù: «Spuntando dal nulla nel giro di pochi mesi, l’Isis si è assicurata un gran numero di risorse, armi, attrezzature multimediali high-tech e specialisti in propaganda. Da dove provengono i soldi e le tecniche di guerriglia?». L’Isis, cioè lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Siria), è uno stato-non-stato che nel costituire per definizione un’entità terrorista si prende il “diritto” di non attenersi ad alcuna legalità, come se fossero i corsari dei giorni nostri. Nell’epoca dei paradossi, gli Usa – con buone ragioni – definiscono l’Isis e altre organizzazioni della galassia jihadista come “organizzazioni terroriste”; ma quando sentiamo vecchi astri della politica imperiale statunitense come Zbigniew Brzezinski e John McCain definire i jihadisti come «i nostri asset», sembra quasi che definirli terroristi implichi proprio il diritto-dovere di essere terroristi. Catalogarli così somiglia quasi a una “lettera di corsa” da parte della superpotenza nordamericana, simile a quelle autorizzazioni con cui le potenze di un tempo abilitavano i corsari ad attaccare e razziare navi di altre potenze.Mentre i soldati “normali” sarebbero in una certa misura esposti al dovere di rispettare le Convenzioni di Ginevra e altri elementi del diritto internazionale, i terroristi/corsari, viceversa, costituiscono una legione che infrange questi limiti nascondendo la catena delle responsabilità. Quelli dell’Isis condividono valori oscurantisti e l’uso delle decapitazioni con la dinastia saudita che li appoggia e foraggia. Ma siccome l’Arabia Saudita è «un’Isis che ce l’ha fatta», come dice il “New York Times”: il ruolo della canaglia rimane comodamente attaccato solo alla manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo, senza estendersi ai mandanti occulti. Ma poi è arrivato l’intervento in Siria dell’aeronautica russa. Gli aerei di Mosca hanno distrutto quasi tutte le migliaia di autobotti con cui il petrolio razziato dai nuovi corsari veniva smerciato in un paese Nato, la Turchia, proprio con il consenso di Ankara (altro grande sponsor dell’Isis). La mossa strategica di Mosca ha perciò aperto una nuova fase che spinge molti paesi a porsi un semplice problema: che rapporto devo avere adesso con la Russia di Vladimir Putin, ora che i miei alibi sono stati bruciati? Non è un caso che dopo l’intervento russo gli attentati jihadisti, con tutto il loro tipico fumo di false flag, si stiano intensificando drammaticamente, aumentando la pressione e il ricatto sui sistemi politici di mezzo mondo e mostrandosi come una presenza ormai permanente della scacchiera internazionale. Una scacchiera che possono demolire.Sarebbe il momento giusto per fare chiarezza, ma le istituzioni si chiudono a riccio, come nel caso dell’inchiesta sulla strage di Charlie Hebdo: mentre emergevano particolari inquietanti su quell’attentato e i suoi torbidi contorni, il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha deciso che l’inchiesta doveva essere subito insabbiata. Perché? “Segreto militare”. Il che implica – come il lettore vedrà poi in dettaglio in questo saggio – che l’evento terroristico, ancora una volta, andava oltre l’attentato “islamico”, perché erano coinvolti organi di Stato che agivano da complici, se non da pianificatori dell’atto, corresponsabili quindi di un delitto che sacrificava propri cittadini. Le nuove norme eccezionali approvate in Francia si presentano come l’annuncio di una tendenza generale, e già ci sono le avvisaglie del fatto che queste norme saranno usate per restringere le libertà e i diritti, ad esempio di lavoratori o cittadini che manifestino per rivendicare migliori condizioni di vita.Gran parte degli intellettuali – freschi reduci di un’indigestione retorica di “Je suis Charlie” – non leva una sola voce contro le restrizioni della libertà, nemmeno quando toccano in modo massiccio un paese Nato come la Turchia, che ha praticamente schiacciato un’intera generazione di giornalisti che osavano indagare sulle complicità del governo con il terrorismo. Per colmo, accusandoli di terrorismo. Occorre un risveglio intellettuale e morale che accompagni un rinnovamento politico, occorre spostare il pendolo del potere dalle istituzioni modellate dall’«eccezione» e dalla paura verso le istituzioni ispirate alla sovranità popolare e alla corretta informazione. Smascherare il sistema fondato sulle false flag non è una condizione sufficiente per questo risveglio (che ha bisogno anche di coraggio e partecipazione di massa). Ma rivelare ai molti cittadini obnubilati dalla bolla mediatica dominante la verità sugli inganni che hanno subito è una condizione necessaria per difendere e ampliare le proprie libertà. Questo è un buon punto di partenza.(Pino Cabras, prefazione al libro “False flag. Sotto falsa bandiera”, di Enrica Perucchietti, pubblicata sul blog di Cabras. Il libro: Enrica Perucchietti, “False flag. Sotto falsa bandiera”, Arianna Editrice, 256 pagine, euro 12,50).Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.
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Chemioterapia? No, grazie: non guarisce e uccide prima
“Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale”, recita il Giuramento di Ippocrate. Quanti medici lo rispettano? E che dire degli oncologi che prescrivono la chemioterapia, così come i governi che li obbligano a seguire il protocollo anti-cancro basato su chemio e radioterapia? Poco nota al grande pubblico è la vasta ricerca condotta per 23 anni dal professor Hardin Jones, fisiologo dell’Università della California, presentata già nel 1975 a Berkeley. Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsate, Jones prova che i malati di tumore che non si sottopongono alle terapie canoniche sopravvivono più a lungo. Il professor Jones dimostra che le donne malate di cancro alla mammella che hanno rifiutato le terapie convenzionali mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella (di appena 3 anni) raggiunta dalle donne che accettano le cure complete. Un’altra ricerca, pubblicata su “The Lancet”, rivela che, su 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con la chemio è stata di 75 giorni, contro i 120 dei pazienti non trattati.Se queste ricerche sono veritiere, osserva Marcello Pamio, autore di “Cancro SpA, leggere attentamente le avvertenze”, una persona malata di tumore ha statisticamente una percentuale maggiore di sopravvivenza se non segue i protocolli terapeutici ufficiali. «Con questo non si vuole assolutamente spingere le persone a non farsi gli esami», ma si vogliono fornire semplicemente «informazioni che normalmente vengono oscurate». Informazioni spesso decisive per trovare la giusta terapia. «La scelta è sempre e solo individuale: ogni persona deve assumersi la propria responsabilità, deve prendere in mano la propria vita. Dobbiamo smetterla di delegare il medico, lo specialista, il mago, il santone che sia. Nessun altro deve poter decidere al posto nostro». Tra le cose che normalmente il sistema sanitario non ci racconta, oltretutto, c’è l’auto-guarigione: un’altissima percentuale di individui è affetta (senza saperlo) da tumori “in situ”, neutralizzati e resi inoffensivi dall’organismo. Lo ha spiegato Luigi De Marchi, psicologo clinico, autore di saggi conosciuti a livello internazionale: moltissimi di noi convivono con tumori inoffensivi, “incapsulati” all’interno del corpo.Parlando con un amico anatomo-patologo del Veneto sui dubbi dell’utilità delle diagnosi e delle terapie anti-tumorali, De Marchi si sentì rispondere: «Sapessi quante volte, nelle autopsie sui cadaveri di vecchi contadini delle nostre valli più sperdute, ho trovato tumori regrediti e neutralizzati naturalmente dall’organismo: era tutta gente che era guarita da sola del suo tumore ed era poi morta per altre cause, del tutto indipendenti dalla patologia tumorale». Ma allora, si domandò De Marchi, la tanto conclamata diffusione delle patologie cancerose negli ultimi decenni è solo un’illusione ottica? E’ prodotta dalla diffusione delle diagnosi precoci di tumori che un tempo passavano inosservati e regredivano naturalmente? «E se il tanto conclamato incremento della mortalità da cancro fosse solo il risultato dell’angoscia di morte prodotta sia dalle diagnosi precoci e dal clima terrorizzante degli ospedali, sia della debilitazione e intossicazione del paziente prodotte dalle terapie invasive, traumatizzanti e tossiche della medicina ufficiale?». Dubbio atroce: l’angoscia da diagnosi infausta e l’avvelamento da chemioterapia possono sabotare la capacità di auto-guarigione?«Con quanto detto da Luigi De Marchi – confermato anche da autopsie eseguite in Svizzera su cadaveri di persone morte non per malattia – si arriva alla sconvolgente conclusione che moltissime persone hanno (o avevano) uno o più tumori, ma non sanno (o sapevano) di averli», continua Pamio sul sito di “Arianna”, editrice specializzata in informazione alternativa, anche medica. Dall’indagine autoptica elvetica, eseguita su migliaia di persone decedute in incidenti stradali, è risultato qualcosa di sconvolgente: il 38% delle donne tra i 40 e 50 anni presentava un tumore al seno, il 48% degli uomini sopra i 50 anni aveva un tumore alla prostata, e il 100% delle donne e uomini sopra i 50 anni presentava un tumore alla tiroide. Attenzione: tutti tumori “in situ”, cioè incapsulati dal corpo e resi innocui. «Nel corso della vita è infatti “normale” sviluppare tumori: la stessa medicina sa bene che sono migliaia le cellule tumorali prodotte ogni giorno dall’organismo. Vengono distrutte o fagocitate dal sistema immunitario, se l’organismo funziona correttamente». Molti tumori regrediscono o rimangono incistati per lungo tempo, quando la forza risanatrice di ognuno è libera di agire. E se invece l’organismo viene gravemente debilitato da farmaci invasivi?Il più pericoloso è proprio la chemioterapia, il cui principio terapeutico è brutalmente semplice: si usano sostanze chimiche altamente tossiche per uccidere le cellule cancerose.Tuttavia, «non essendo in grado di distinguere le cellule sane da quelle neoplastiche (impazzite)», cioè i tessuti tumorali da quelli sani, «questa feroce azione mortale colpisce e distrugge l’intero organismo vivente». In altre parole, «si sono dimenticati di dirci che queste sostanze di sintesi sono dei veri e propri veleni». Racconta una paziente: «Il fluido altamente tossico veniva iniettato nelle mie vene. L’infermiera che svolgeva tale mansione indossava guanti protettivi perché se soltanto una gocciolina del liquido fosse venuta a contatto con la sua pelle l’avrebbe bruciata». Corollario: giorni interi in preda al vomito, perdita dei capelli, debilitazione catastrofica. «Ero una morta che camminava». Un malato di tumore viene avvertito che la chemio gli provocherà (forse) nausea, vomito e perdita dei capelli, ma siccome la chemio è l’unica cura ufficiale riconosciuta «si devono stringere i denti e firmare il consenso informato, cioè si sgrava l’azienda ospedaliera da qualsiasi responsabilità».In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità ha stampato un fascicolo dal titolo “Esposizione professionale a chemioterapici antiblastici” per tutti gli addetti ai lavori, infermieri e medici che maneggiano fisicamente le fiale per la chemio. Sfogliando l’elenco dei veleni che compongono il cocktail letale, c’è de restare secchi. Ad esempio, gli “antraciclinici” sono “potenzialmente mutageni e cancerogeni” e possono produrre “cardiomiopatia cronica”, mortale nel 50% dei casi. Altra sostanza, la “procarbazina”: anch’essa cancerogena e mutagena, è anche teratogena (malformazione nei feti) e il suo impiego è associato a un rischio del 5-10% di leucemia acuta, che aumenta per i soggetti trattati anche con radioterapia. Un altro documento, sempre del ministero della sanità (commissione oncologica nazionale), avverte i sanitari del pericolo dell’esposizione ai veleni chemioterapici: «Si parla espressamente dei rischi per operatori e pazienti». Testualmente: «Nonostante numerosi chemioterapici antiblastici siano stati riconosciuti dalla Iarc (International Agency for Research on Cancer) e da altre autorevoli agenzie internazionali come sostanze sicuramente cancerogene o probabilmente cancerogene per l’uomo, a queste sostanze non si applicano le norme del Titolo VII del D.lgs n. 626/94 “Protezione da agenti cancerogeni”».«Infatti, trattandosi di farmaci – continua il documento ministeriale – non sono sottoposti alle disposizioni previste dalla Direttiva 67/548/Cee e quindi non è loro attribuibile la menzione di R45 “Può provocare il cancro” o la menzione R49 “Può provocare il cancro per inalazione”». Quindi queste sostanze, nonostante provochino il cancro, non possono essere etichettate come cancerogene (R45 e R49) semplicemente perché sono considerate “farmaci”. L’agenzia, scrive Pamio, è arrivata a queste definizioni prevalentemente attraverso la valutazione del rischio “secondo tumore”, che nei pazienti trattati con chemioterapici antiblastici può aumentare con l’aumento della sopravvivenza. «Infatti, nei pazienti trattati per neoplasia è stato documentato lo sviluppo di tumori secondari non correlati con la patologia primitiva». Massima allerta anche alla voce “smaltimento”: «Tutti i materiali residui dalle operazioni di manipolazione dei chemioterapici antiblastici (mezzi protettivi, telini assorbenti, bacinelle, garze, cotone, fiale, flaconi, siringhe, deflussori, raccordi) devono essere considerati rifiuti speciali ospedalieri». Vanno bruciati in inceneritore, a 1000 gradi, e non senza rischi: «La termossidazione, pur distruggendo la molecola principale della sostanza, può comunque dare origine a derivati di combustione che conservano attività mutagena».È pertanto preferibile «effettuare un trattamento di inattivazione chimica (ipoclorito di sodio) prima di inviare il prodotto ad incenerimento», conclude il ministero, secondo cui sono un pericolo anche le urine dei pazienti sottoposti al trattamento: «Dovrebbero essere inattivate prima dello smaltimento, in quanto contengono elevate concentrazioni di principio attivo». Nemmeno si trattasse di scorie nucleari: ma che razza di sostanze chimiche sono mai queste? «L’amara conclusione, che si evince dall’Istituto Superiore di Sanità, è che l’oncologia moderna per curare il cancro utilizza delle sostanze chimiche che sono cancerogene (provocano il cancro), mutagene (provocano mutazioni genetiche) e teratogene (provocano malformazioni nei discendenti)», scrive Pamio. «C’è qualcosa che non torna: perché ad una persona sofferente dal punto di vista fisico, psichico e morale, debilitata e sconvolta dalla malattia, vengono iniettate sostanze così tossiche?».Parlano chiaro i bugiardini dei farmaci velenosi, come le “mostarde azotate”. Incredibile ma vero, scrive sempre il ministero, queste sostanze-killer «furono prodotte per la prima volta negli anni ’20 e ’30 come potenziali armi chimiche». Particolarmente imbarazzante, oggi, il bilancio dell’oncologia dopo quarant’anni di inutile accanimento chemioterapico: oltre a non guarire dal tumore, i pazienti vengono intossicati e subiscono la proliferazione di tumori secondari, provocata proprio da componenti per “armi di distruzione di massa”, loro somministrate per via endovenosa. E’ il business del secolo, accusano i critici: non è un caso che Big Pharma si premuri di gettare discredito sulle terapie alternative, ormai sempre più diffuse viste le elevate possibilità di guarigione che sembrano offrire, senza peraltro compromettere l’organismo. Chemioterapia? No, grazie. «Per “curare” il tumore oggi vengono utilizzati degli “agenti vescicanti”, prodotti militari usati nelle guerre chimiche», conclude Marcello Pamio. «Anche se la ”guerra al cancro” viene portata avanti con ogni mezzo dall’establishment, ritengo che ci sia un limite a tutto».“Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale”, recita il Giuramento di Ippocrate. Quanti medici lo rispettano? E che dire degli oncologi che prescrivono la chemioterapia, così come i governi che li obbligano a seguire il protocollo anti-cancro basato su chemio e radioterapia? Poco nota al grande pubblico è la vasta ricerca condotta per 23 anni dal professor Hardin Jones, fisiologo dell’Università della California, presentata già nel 1975 a Berkeley. Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsate, Jones prova che i malati di tumore che non si sottopongono alle terapie canoniche sopravvivono più a lungo. Il professor Jones dimostra che le donne malate di cancro alla mammella che hanno rifiutato le terapie convenzionali mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella (di appena 3 anni) raggiunta dalle donne che accettano le cure complete. Un’altra ricerca, pubblicata su “The Lancet”, rivela che, su 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con la chemio è stata di 75 giorni, contro i 120 dei pazienti non trattati.
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Gender: facile da controllare, l’uomo senza identità sessuale
Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».Nel concreto, da un lato le multinazionali finanziano le campagne elettorali chiedendo in cambio di promuovere quelle politiche, e dall’altro c’è l’industria culturale: «Sempre più spesso, film e serie tv fanno passare l’idea di una sessualità fluida». Nel libro, la Perucchietti cita un serial di Mtv, “Faking it”, dove le protagoniste e i loro amici cambiano più volte orientamento sessuale nel corso della stagione. «C’è anche la musica: basta pensare a Miley Cyrus o Lady Gaga, che pur non essendo gay si fanno portavoce delle cause omosessuali, strumentalizzando il messaggio come strategia di marketing costruita a tavolino». Questo progetto avrebbe un duplice scopo: «I padri dell’ideologia gender sognavano una “democrazia sessuale” globale dove tutti gli orientamenti fossero leciti e legali, compresa la pedofilia. La seconda finalità è il controllo sociale: individui sempre più spersonalizzati e disorientati, senza un’identità definita, sono più facili da manipolare».Dietro l’intenzione di distruggere la famiglia tradizionale sostituendola con altri modelli c’è anche una questione economica: «Nel momento in cui vengono sdoganate le famiglie omogenitoriali, che per forza di cose non possono avere figli, si favorisce il business delle maternità surrogate e degli uteri in affitto». Tuttavia, spiega la Perucchietti, la questione non riguarda l’omosessualità in sé. «Nel libro contestiamo il fatto che si sta spingendo verso un’idea di sessualità culturale: non si nasce maschio o femmina per natura, ma lo si diventa per cultura. Un’idea contestata anche da Vladimir Luxuria durante una diretta radiofonica a cui ho partecipato. Eppure è questo ciò che insegnavano i fondatori dell’ideologia di genere. Il rischio è di sfociare nel trans-umanesimo, nel post-umano, e quello che preoccupa è che tale manipolazione avviene in maniera sempre più capillare e perfino violenta».Per contro, osserva Allione, si potrebbe controbattere che la difesa dei “valori tradizionali” è a sua volta propaganda dei poteri forti più conservatori, ad esempio la Chiesa. «Qualsiasi tesi portata avanti con il vessillo di un dogma rischia di diventare fanatismo o di essere strumentalizzata», taglia corto l’autrice. «Le difese a oltranza sono sbagliate, si finisce sempre in fazioni pro o contro, ma così non si dialoga. Non si può combattere un’ideologia con un’altra ideologia. Noi abbiamo cercato di curare un’inchiesta giornalistica storico-sociologica nel modo più obbiettivo possibile». Venendo all’attualità e al polverone alzato dal disegno di legge Fedeli sull’educazione di genere a scuola, «si è fatta molta disinformazione, però il ministro Giannini che dichiara che l’ideologia di genere è una bufala minacciando le vie legali, ricorda molto la “psico-polizia” di Orwell». Per quanto riguarda invece i libri per l’infanzia censurati a Venezia, per la giornalista torinese «l’idea dell’insegnamento gender all’asilo o alle elementari è assolutamente folle».A scuola, aggiunge la Perucchietti, non bisognerebbe parlare di certe tematiche a bambini così piccoli: «Non conosco tutti i libri, ma ne ho letti alcuni, come quello sulla maternità surrogata (“Perché hai due mamme?”, edito da “Lo Stampatello”), che mi è sembrato pazzesco. Perché bisogna spiegare queste cose a un bambino di quattro anni? Non si capisce, a me pare una strumentalizzazione per sdoganare la fecondazione eterologa». Per contrastare questa “mutazione antropologica” messa in atto dall’ideologia gender, l’unica strada passa dall’informazione. «Sia chi è contro il gender, sia i sostenitori, si sono formati un’idea sulla base di chiacchiere, per sentito dire. Molte delle critiche al nostro libro sono state fatte prima della sua pubblicazione. Come si fa a stroncare un libro non ancora uscito, sulla base della copertina? Ci vuole senso critico, dopodiché uno si forma un’idea, ma non sulla base di posizioni acritiche e fanatiche».(Il libro: Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, “Unisex – Cancellare l’identità sessuale, la nuova arma della manipolazione globale”, Arianna Editrice, 224 pagine, euro 11,80).Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».
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Riforme eversive: sabotare l’Italia, registi e complici
In tutta Europa, con le prime riforme della fine degli anni ‘70, il modello di sviluppo favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito con «un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide», con un fine apertamente «antisociale e incompatibile coi principi costituzionali». Questo disegno, già ampiamente realizzato dall’Ue e dalla politica italiana, «è la radicale eversione del fondamento di legittimità dello Stato», sancito dalla Costituzione italiana, che fonda la Repubblica sul “lavoro”, sulla democraticità, sull’eguaglianza giuridica e sostanziale. Come documenta il giurista Luciano Barra Caracciolo, l’insieme delle riforme e dei trattati introdotti in esecuzione di questo piano è radicalmente anticostituzionale, oltre che «penalmente illecito», in quanto «attentato contro la Costituzione commesso con mezzi violenti», cioè il rischio provocato di default pubblico e la diffusione deliberata di «disoccupazione, allarme e grave sofferenza sociale».“Il grande mutuo”, saggio di Antonino Galloni (Editori Riuniti) già nel 2007 preannunciava l’imminente esplosione di un’imponente crisi finanziaria e di liquidità dopo l’inizio, anni prima, delle problematicità nell’economia reale. Quasi contemporaneamente, «in epoca di grandi promesse europeiste al pubblico», un altro saggio, “Basta con questa Italia”, firmato da Marco Della Luna (Arianna Editrice, 2008), anticipava che l’Italia, come sistema-paese, con le sue aziende pubbliche e private meno competitive di quelle straniere, sotto-capitalizzate, sotto-finanziate e strozzinate, vessate da fisco e pubblica amministrazione, incapaci di significativi avanzamenti tecnologici, sarebbe stata «rilevata dal capitale straniero, che la avrebbe riformata e gestita secondo i propri interessi, e certo non secondo quelli degli italiani». Esattamente questo sta avvenendo, scrive oggi Della Luna nel suo blog, grazie alla piena collaborazione tra la politica italiana, l’Ue e la Bce, «che hanno creato ad arte le condizioni affinché ciò avvenisse». Problema capitale: la grave carenza di liquidità, «che si pretende di combattere con misure fiscali e budgetarie che invece la aggravano, gettando il paese nelle mani del capitalismo imperialista appoggiato dalla Bce».«L’eversione costituzionale – scrive Della Luna – consiste essenzialmente nel sostituire, con l’inganno e le crisi create ad hoc, il sistema socioeconomico legittimante stabilito nella Costituzione con uno incompatibile con esso perché antidemocratico e oligarchico». Questa manomissione prende oggi il nome di “riforme”, corrompendo nel modo più subdolo anche il vocabolario italiano. Insieme allo stesso Nino Galloni, Della Luna mette a fuoco il quadro, regolarmente trascurato dai media: l’Italia è ko grazie al piano europeo nonostante la sua economia sia virtualmente ancora sana, e grazie alla disonestà organica della Germania, che bara clamorosamente. Primo appunto: «Nonostante tutto, le imprese italiane esportano più di quanto il sistema Italia importi: quindi hanno un buon potenziale medio di profitto, sono interessanti, fanno gola». Secondo punto: «La Germania ha fatto e fa imbrogli di tutti i generi», anche se – almeno fino a due anni fa, grazie a un ceto politico-imprenditoriale meno rapace di quello italiano – ha investito in innovazione tecnologica per abbassare il costo del lavoro. Terzo problema: da due anni, la stessa Germania sta contenendo la propria domanda interna.«E’ uno squilibrio dovuto a eccesso di avanzo commerciale, che corrisponde al disavanzo di altri», scrivono Galloni e Della Luna. «E’ vero che a tale avanzo non corrisponde un disavanzo dell’Italia, ma nondimeno quell’avanzo è utilizzabile per comperare, in Italia, servizi in via di privatizzazione». Si tengano presenti, poi, le intenzioni annunciate da Draghi: sostenere il credito bancario verso l’economia reale, «nei limiti del mandato della Bce». Si tratta di «espressioni allusive, indeterminate, ambigue, che prospettano una variabile ad oggi ancora tale». A pesare, intanto, è la realtà. Il capitale straniero ha potuto comprare a prezzo di saldo moltissime aziende italiane soprattutto grazie all’euro: la moneta unica agevola l’export tedesco sfavorendo quello italiano, e inoltre aumenta l’indebitamento dell’Italia, rendendo più difficile – per il nostro paese – ottenere crediti. Poi pesa anche la riduzione tedesca del costo del lavoro: «La Germania, aiutandosi slealmente con lo sforamento del limite del 3% del deficit sul Pil (autorizzato dall’Italia), nonché con trucchi contabili e con illeciti aiuti di Stato alle imprese, ha ridotto prima di Italia e altri paesi il suo costo del lavoro per unità di prodotto. Lo ha fatto anche introducendo forme di impiego a 250 e 450 euro al mese, dette minijob e midijob».Grazie a questi vantaggi strategici – moneta favorevole e minor costo produttivo, ottenuto anche “barando” – la Germania ha potuto esportare verso la periferia (Italia compresa) molto più di quanto prima importava da essa, «realizzando così per molti anni forti saldi attivi della bilancia dei pagamenti, e indebitando quei paesi verso di sé, tanto più che prestava loro soldi per importare i suoi prodotti (caso estremo: la Grecia)». Questo ha permesso a Berlino di «rastrellare a basso costo aziende valide o potenzialmente produttive e redditizie di quei paesi, per integrarle nei propri cicli produttivi», lasciando ai paesi d’orgine – come l’Italia – soltanto «le briciole dei margini di utile», o addirittura chiudendo aziende concorrenti di quelle tedesche. «Gli utili di queste aziende rastrellate – scrive Della Luna – vengono trattenuti o deportati in Germania». Di male in peggio: nel settore dei servizi pubblici, l’operazione di “rastrellamento” si sta estendendo con la partecipazione della Francia.Beneficiando di posizioni di monopolio e contando su una domanda costante, quello dei servizi pubblici – nel quale è facilissimo incrementare le tariffe – è un settore che produce fortissimi utili e rendite. Soldi, continuano Galloni e Della Luna, che «saranno sempre più raccolti dalle tasche dei cittadini e delle imprese italiane per essere deportati in Germania e in Francia: probabilmente l’asse franco-tedesco per dominare l’Ue si basa su accordi di questo tipo». Al fine di massimizzare l’utile di questa operazione, sia sul settore manifatturiero che su quello dei servizi, «questo capitalismo mercantilista e imperialista ha bisogno di fare le cosiddette riforme, le quali in sostanza sono riduzioni dei diritti economici e non economici dei lavoratori anche autonomi, aumento della loro sudditanza al datore di lavoro, aumento dei livelli di precariato, di disoccupazione e sotto-occupazione in funzione di battere la forza contrattuale dei lavoratori». Analogamente, «vengono colpiti i piccoli e piccolissimi imprenditori, artigiani, commercianti, che non si prestano al piano di conquista dell’imperialismo mercantile franco-tedesco».Ed ecco il trucco finale: «Per realizzare pienamente questa operazione di take-over sui servizi pubblici, è necessario farli privatizzare. A questo fine essi vengono, attraverso opportune campagne mediatiche, presentati come inefficienti, corrotti, dispendiosissimi, costosi, parassitari». Inoltre, «non si dice che investire in essi aumenterebbe la loro efficienza, in quanto li doterebbe di strumenti oggi mancanti e avrebbe un sicuro effetto di moltiplicatore del Pil, mentre il togliere loro fondi ha un effetto demoltiplicatore». Non è tutto: «Come ulteriore strumento per sabotarli, li si sta sovraccaricando di oneri e spese anche attraverso la politica di immigrazione di massa senza limitazioni, che sta ponendo un onere crescente e potenzialmente enorme alla spesa pubblica per l’accoglienza, mantenimento, cure sanitarie, alloggio, ricongiungimenti familiari». Profezia: «Quando la situazione diverrà esplosiva per i crescenti costi così suscitati da una parte e per la crescente disoccupazione e recessione dall’altra, con ulteriori maggiorazioni delle tasse, la popolazione stessa chiederà la privatizzazione estesa dei servizi sociali ora ancora in mano pubblica. A quel punto, capitali stranieri entreranno e occuperanno queste posizioni di mercato collegate a rendite monopolistiche».In altre parole, la fine dello Stato sociale. «Sottolineo che la Germania e i suoi satelliti riescono a sfruttare questo processo perché hanno eseguito prima dell’Italia e di altri paesi le riforme consistenti nella riduzione del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori», precisa Della Luna. In questo modo, anticipando i “concorrenti” europei, Berlino ha acquisito «quei vantaggi commerciali, quegli attivi negli scambi con l’Italia, quei conseguenti crediti verso di essa», che ora spende «per rastrellare le imprese e i servizi italiani». La Bce, l’Ue, Maastricht, l’euro, i vertici istituzionali: «Tutti concorrono a questo scopo strategico, spingendo per le “riforme” che l’Europa ci chiede». Tutti questi soggetti «lavorano per cedere e trasferire al capitale straniero le risorse e le aziende del paese, e insieme per trasformare i lavoratori italiani in forza lavoro sottopagata e sottomessa dei nuovi padroni finanziari stranieri». Tutto ciò accade per una ragione semplicissima: la politica italiana glielo consente. «In compenso di questa prestazione di tradimento, la nostra casta politica si riserva il ruolo di complice dei capitali stranieri, onde mantenere le sue poltrone e i suoi privilegi».Ecco perché, intorno a questo progetto, «la partitocrazia italiana si è ora saldamente unita in modo trasversale, destra e sinistra, per realizzare di corsa le famose riforme», che ovviamente «non c’entrano col rilancio economico». L’Italicum, per esempio, «è stato concordato tra Renzi e Berlusconi per sopprimere i partiti piccoli e autonomi, non radicati nel controllo della spesa pubblica». La casta punta soprattutto sulla nuova legge elettorale e sul nuovo Senato, «che hanno la funzione di blindarla contro la protesta, il dissenso, il potenziale voto contrario dei cittadini traditi e derubati dai partiti». Non a caso il Senato ridisegnato dal Patto del Nazareno «viene preposto alla regolazione della spesa pubblica e consegnato agli uomini degli apparati partitici regionali, ossia la parte peggiore, più vorace, della partitocrazia: potranno mangiare più che mai, spalleggiati e legittimati anche dagli interessi stranieri». Naturalmente è già in programma anche una riforma della giustizia, «per mettere al guinzaglio quei giudici che restano fedeli alla Costituzione e alla Repubblica». Scontato: «La voteranno tutti insieme, trasversalmente. Sono già d’accordo. E poi qualcuno avrà diritto alla grazia».Scoperto il gioco, c’è da mettersi a piangere: «Le promesse di risanamento e rilancio entro il modello economico vigente sono pura menzogna», sottolinea Della Luna. «Per tornare alla crescita e all’occupazione è indispensabile, innanzitutto, spiegare il complotto alla gente, specialmente agli imprenditori e ai lavoratori, uscire dalla struttura sopra descritta, dall’euro, dall’Ue, e disfarsi dei personaggi politici e istituzionali che la assecondano». In parallelo, dicono Della Luna e Galloni, occorre «avviare una revisione del concetto di moneta oggi in uso, la “fiat currency”, e far capire, con tutte le conseguenze, che essa non è una merce né una materia prima, ma un simbolo, generato col computer e senza costi». Che senso ha, dunque, parlare di scarsità o mancanza di mezzi finanziari per gli investimenti necessari e utili alla società? Al contrario: «E’ un crimine eversivo e contro l’umanità fingere che vi sia una tale scarsità o mancanza, e usare questa finzione per impadronirsi di un paese e della sua economia reale, e per deprimere i salari e i livelli occupazionali». Raccontare la menzogna suprema – dire cioè che ci sia scarsità di moneta, e che la moneta abbia un costo di produzione – significa solo imporre un progetto di dominio, per trasferire la ricchezza reale strappandola a cittadini, imprese, famiglie e lavoratori, per consegnarla «nelle mani del cartello dei produttori dei mezzi monetari che in cambio non produce e non dà alcuna ricchezza reale alla società».In tutta Europa, con le prime riforme della fine degli anni ‘70, il modello di sviluppo favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito con «un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide», con un fine apertamente «antisociale e incompatibile coi principi costituzionali». Questo disegno, già ampiamente realizzato dall’Ue e dalla politica italiana, «è la radicale eversione del fondamento di legittimità dello Stato», sancito dalla Costituzione italiana, che fonda la Repubblica sul “lavoro”, sulla democraticità, sull’eguaglianza giuridica e sostanziale. Come documenta il giurista Luciano Barra Caracciolo, l’insieme delle riforme e dei trattati introdotti in esecuzione di questo piano è radicalmente anticostituzionale, oltre che «penalmente illecito», in quanto «attentato contro la Costituzione commesso con mezzi violenti», cioè il rischio provocato di default pubblico e la diffusione deliberata di «disoccupazione, allarme e grave sofferenza sociale».
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Monti, lo stalinista americano che devasterà gli italiani
I colpi di Stato? Oggi non si fanno più coi carri armati, ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. «È il post-moderno, bellezza!», ironizza il filosofo Costanzo Preve, che denuncia due golpe: «Quello di Monti del 2011 non è il primo ma il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992», un “colpo di stato giudiziario” per abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, «non certo più corrotto di quello venuto dopo, ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello Stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano». Stavolta non c’è stato neppure bisogno di manette: «Sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani».
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Morte, misteri e miliardi: Ogm, l’impero Monsanto
Cosa sappiamo veramente degli effetti degli Ogm sulla nostra salute? Perchè l’agricoltura transgenica è così pericolosa? Quali interessi si nascondono dietro la commercializzazione di sementi geneticamente modificate? Misteri firmati Monsanto, il colosso biotech che detiene il 90% delle sementi del mondo e continua a sfidare le leggi, facendo affari miliardari: in piena crisi economica e alimentare, dovuta alla crescita dei prezzi dei beni primari, la Monsanto naviga nell’oro, esportando felicemente in tutto il mondo il modello di agricoltura transgenica. «La multinazionale delle sementi, invisa agli ambientalisti e ai contadini di mezzo mondo, ha dichiarato vendite per 2,6 miliardi di dollari con un incremento del 29% rispetto al 2008», osserva Gabriele Bindi di “Slow Food”.
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Grandi opere, le infrastrutture dell’assurdo
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