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Il Texas alla Corte Suprema: stop alla falsa vittoria di Biden
Ostacolo non da poco in vista per il presidente eletto Joe Biden: il Texas, infatti, chiede di annullare il voto in quattro Stati chiave. Come riporta l’Agi, il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha fatto ricorso alla Corte Suprema americana contro Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, accusando questi Stati – decisivi nella vittoria di Biden – di aver sfruttato la pandemia di Covid-19 per «modificare illegalmente all’ultimo minuto» le regole di voto per corrispondenza. Paxton, forte sostenitore del presidente Donald Trump, vorrebbe escludere i quattro Stati dal voto dei grandi elettori in programma il 14 dicembre in cui è attesa la conferma di Biden alla presidenza. Il ricorso, annunciato da Paxton, accusa i dirigenti dei quattro Stati di non aver protetto dalle frodi il voto per posta – esteso a causa della pandemia – riducendo così «il peso dei voti espressi negli Stati che rispettano legalmente la struttura elettorale esposta nella Costituzione». Così il Texas chiede di bloccare l’elezione di Joe Biden: «Usando la pandemia Covid-19 come giustificazione, i funzionari governativi di Georgia, Michigan e Wisconsin e Pennsylvania hanno usurpato l’autorità dei loro legislatori e hanno rivisto in maniera incostituzionale l’elezione del loro stato statuti», riporta la denuncia di Paxton.L’elezione «ha subito irregolarità significative e incostituzionali negli Stati citati», afferma la denuncia del procuratore generale del Texas. Se dovesse avere ragione, la quota dei grandi elettori per il dem Biden passerebbe dagli attuali 306 a 244 (-62), sotto i 270 necessari per la vittoria. È bene inoltre ricordare che la Corte Suprema ha una maggioranza conservatrice (6 a 3) dopo le nomine di tre giudici da parte di Donald Trump. In uno dei retweet del presidente Usa Donald Trump, si legge: «Quest’ultima causa intentata dal Texas direttamente alla Corte Suprema degli Stati Uniti, poco prima della mezzanotte di ieri sera, contro diversi altri Stati per aver violato la Costituzione americana nel modo in cui hanno cambiato le regole elettorali, potrebbe essere quella giusta». L’avvocatessa Sidney Powell, che ha intentato diverse cause per contestare i risultati delle elezioni e non fa parte ufficialmente del team legale di Donald Trump, ha spiegato nelle scorse di aspettarsi che la sua battaglia, soprattutto in Georgia, finisca davanti alla Corte Suprema. «Siamo determinati a vincere, perché il popolo americano è stato derubato dai suoi voti legittimi in queste elezioni, e questo non può esistere», ha aggiunto.Secondo il segretario di Stato Brad Raffensperger non ci sono stati brogli: «Oggi è un giorno importante per l’integrità elettorale in Georgia e in tutto il paese», ha affermato in una dichiarazione. «Le affermazioni inerenti il famoso “Kraken” si dimostrano mitologiche quanto la creatura da cui prendono il nome. I cittadini della Georgia possono ora andare avanti sapendo che i loro voti, e solo quelli legali, sono stati conteggiati in modo accurato, equo e affidabile». Come già riportato da “InsideOver”, Rudy Giuliani ha dichiarato nelle scorse ore che i legislatori in Arizona, Georgia e Michigan potrebbero finire per decidere quali elettori inviare al collegio elettorale. L’ex sindaco di New York ha spiegato che gli Stati controllati dai repubblicani potrebbero votare per l’invio della propria lista di grandi elettori, sottolineando che una tale opzione è sostenuta nella Costituzione degli Stati Uniti. Sia Giuliani che Jenna Ellis hanno fatto pressioni sui legislatori statali negli ultimi giorni per riaffermare il loro potere di scegliere i propri grandi elettori a causa delle presunte prove di brogli. L’ex sindaco ha detto domenica a “Fox Business” che i legislatori della Georgia «hanno avviato una petizione per scegliere i propri elettori», sottolineando che i membri del Gop sono «disgustati» dalle prove mostrate durante un’udienza la settimana scorsa.Trattasi di un’eventualità – quella ipotizzata da Giuliani – che il celebre politologo Graham Allison aveva illustrato poche settimane fa sulla prestigiosa rivista “The National Interest”. Potrebbe accadere ciò che è già successo in occasione delle elezioni presidenziali del 1876, che vedevano contrapposti Tilden e Hayes. Come allora, ogni Stato dovrà riunire la propria assemblea per certificare il risultato delle elezioni e la lista dei grandi elettori al Congresso. Questo dovrebbe accadere indicativamente verso il 6 gennaio. Tuttavia, sottolinea Allison, «i legislatori statali hanno l’autorità costituzionale per concludere che il voto popolare è stato corrotto da possibili brogli, e quindi inviare una lista di elettori in competizione per conto del loro Stato. Ciò significa che in caso di controversie su liste elettorali concorrenti, il presidente del Senato, il vicepresidente Pence, sembrerebbe avere l’autorità ultima per decidere quali accettare e quali rifiutare. E Pence sceglierebbe Trump».(Roberto Vivaldelli, “E ora il Texas chiede di bloccare l’elezione di Joe Biden”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale”, del 9 dicembre 2020. Secondo “The Gateway Pundit”, altri 8 Stati sarebbero pronti a unirsi al Texas nell’appello alla Corte Suprema contro la convalida dell’elezione di Biden: si tratta di Louisiana, Arkansas, Alabama, Florida, Kentucky, Mississippi, South Carolina e South Dakota).Ostacolo non da poco in vista per il presidente eletto Joe Biden: il Texas, infatti, chiede di annullare il voto in quattro Stati chiave. Come riporta l’Agi, il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha fatto ricorso alla Corte Suprema americana contro Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, accusando questi Stati – decisivi nella vittoria di Biden – di aver sfruttato la pandemia di Covid-19 per «modificare illegalmente all’ultimo minuto» le regole di voto per corrispondenza. Paxton, forte sostenitore del presidente Donald Trump, vorrebbe escludere i quattro Stati dal voto dei grandi elettori in programma il 14 dicembre in cui è attesa la conferma di Biden alla presidenza. Il ricorso, annunciato da Paxton, accusa i dirigenti dei quattro Stati di non aver protetto dalle frodi il voto per posta – esteso a causa della pandemia – riducendo così «il peso dei voti espressi negli Stati che rispettano legalmente la struttura elettorale esposta nella Costituzione». Così il Texas chiede di bloccare l’elezione di Joe Biden: «Usando la pandemia Covid-19 come giustificazione, i funzionari governativi di Georgia, Michigan e Wisconsin e Pennsylvania hanno usurpato l’autorità dei loro legislatori e hanno rivisto in maniera incostituzionale l’elezione del loro stato statuti», riporta la denuncia di Paxton.
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Usa: lockdown inutile, meno vaccini e meno bambini morti
“Lessons from the Lockdown”, un documento prodotto pochi giorni fa da Health Choice, racconta cosa è successo in questi mesi negli Stati Uniti durante l’emergenza coronavirus. Tempo fa, abbiamo parlato di una correlazione tra Infarix Hexa e morte in culla, prontamente insabbiata dalla Gsk. Sono state 7 le lezioni che secondo gli autori, Amy Becker e Max Blaxill, sono meritevoli di considerazioni. Le ho tradotte, aggiungendo qua e la qualche commento. Trend delle morti: effettivamente, nel periodo compreso tra fine marzo e inizio maggio, c’è stato un aumento del 37% nella media delle morti attese, esattamente dal 28 marzo al 16 maggio. Nel periodo compreso tra 2017 e 2019 circa 60.000 morti, nel 2020 circa 75.000. Dopo questa data, il trend è tornato stabilmente nei numeri delle scorse stagioni. Dato che parliamo del numero totale delle morti, è ragionevole pensare che sia questo il motivo dell’aumento in queste 8 settimane. Localizzazione: questa lezione per me è quella tra le più interessanti. Tra i 50 Stati, abbiamo differenze notevoli. Se prendiamo come inizio febbraio, terminando a maggio, periodo di 90 giorni coperto al 100% dai dati, con uno sguardo totale agli Usa possiamo notare come l’aumento delle morti attese sia stato solo del 5% rispetto al periodo 2017-2019. Sicuramente un aumento, ma da qui a parlarne come ne hanno parlato i media, cambia qualcosina, no?Altra cosa interessante è che ci sono particolari regioni e Stati colpiti decisamente di più: la città di New York ha avuto un incremento del 130%, il New Jersey un incremento del 37%, il Colorado del 12%. Possiamo vedere New York come la nostra Bergamo? Ancora: su 50 Stati, sono in 31 quelli che hanno registrato un numero maggiore di morti, ma solo 6 con un aumento superiore del 10%. Tre tra gli Stati più grandi, California, Texas e Florida, hanno avuto un modestissimo aumento, tra 1% e 5%. Altro dato molto interessante, sono 5 gli Stati che non hanno ordinato di stare a casa alla propria popolazione, e nessuno di questi ha registrato un aumento di mortalità, anzi North Carolina e South Dakota hanno avuto una sensibile riduzione. I lockdown stringenti non hanno inciso: come già detto, gli Stati senza lockdown non hanno avuto in risposta un eccesso nel numero di morti. Nebraska, Iowa, Arkansas, South Dakota e North Carolina. Nessuna di queste! Comunque, concludono gli autori, non sapremo mai se un lockdown meno aggressivo nella città di New York avrebbe potuto cambiare le cose. Gli anziani i più colpiti: lo sapevamo, gli over-65 sono la fascia più colpita. Confrontando anche gli under-65, possiamo notare che i momenti di maggiore intensità sono similari, anche se poi nel numero effettivo dei morti gli over-65 sono stati molti molti di più.Difatti, negli under-55 il passaggio della pandemia è praticamente impercettibile. Non per rimarcare il fatto che prima o poi si deve morire e che gli anziani chissenefrega se muoiono. Ma perlomeno l’idea era quella di proteggere le fasce più deboli, anziani e bambini: sui primi è stato un fallimento totale. Se guardiamo ai bambini, il discorso vira tremendamente. Bambini: i meno colpiti; questa è un’altra caratteristica importante da andare a studiare. Praticamente, da febbraio in poi, sono crollate le morti dei minorenni. Se andiamo a guardare le fasce più nello specifico, quella che ha giovato di un grande miglioramento grazie al lockdown è stata quella dei bambini con meno di un anno. Anche la fascia tra 1 e 5 anni ha avuto un miglioramento. Negli adolescenti il valore è rimasto pressoché identico, ed è stato escluso il fattore del non andare a scuola. In pratica, nel mese di maggio circa 200 infanti alla settimana in più sono sopravvissuti. Anni di vita persi, anni di vita guadagnati: ogni vita ha valore, è evidente e da ribadire. Quando guardiamo l’età mediana in cui si muore per coronavirus, circa 83 anni nel Minnesota, abbiamo una perdita di anni di vita di circa 2 anni. Quando guardiamo al potenziale guadagno di un infante, sono circa 80 anni in più. Una triste misura da considerare nei parametri socio economici che regolano questa società, ma così è.Questo è quello che il coronavirus ci ha lasciato, con 540.000 anni di vita persi tra gli over-65 e dall’altro lato 154.000 anni di vita guadagnati tra gli under-25, e di questi ben 110.000 negli Under-1. Possibili cause di questa drastica diminuzione? Le principali cause di morte nel primo anno di vita sono: malformazioni congenite, Sids o morte in culla, e gli incidenti. Possiamo dire che durante i lockdown i genitori siano stati più attenti nei riguardi dei loro bambini? Possibile spiegazione. Qualcosa che è certo, è questo: c’è stato un crollo nelle vaccinazioni. Una lettera pubblicata dal Cdc il 15 maggio sottolinea proprio come ci sia stato un calo tremendo nelle vaccinazioni in questi mesi di lockdown. Casualmente, le morti in culla sono diminuite proprio quando le vaccinazioni sono calate. Lo sappiamo già: dall’altra parte della barricata, in questa insensata guerra tra poveri, si parlerà di correlazione spuria, e che potremmo anche individuare un collegamento con la diminuzione della vendita di macinato moka per il caffè. Perché quello che non stupisce, è che sappiamo già le loro risposte. Ed è un tipico argomento dello 0-0. Perlomeno, per voler essere il più neutri possibile, non è corretto escludere questa come causa della diminuzione: nel primo anno d’età la vaccinazione è sicuramente uno se non l’atto più invasivo che viene fatto sul corpo dei bambini.(”Diminuiscono le vaccinazioni, diminuiscono le morti in culla: coincidenze?”, da “Coscienze in Rete” del 24 giugno 2020; il blog è curato da Enrico Carotenuto).“Lessons from the Lockdown”, un documento prodotto pochi giorni fa da Health Choice, racconta cosa è successo in questi mesi negli Stati Uniti durante l’emergenza coronavirus. Tempo fa, abbiamo parlato di una correlazione tra Infarix Hexa e morte in culla, prontamente insabbiata dalla Gsk. Sono state 7 le lezioni che secondo gli autori, Amy Becker e Max Blaxill, sono meritevoli di considerazioni. Le ho tradotte, aggiungendo qua e la qualche commento. Trend delle morti: effettivamente, nel periodo compreso tra fine marzo e inizio maggio, c’è stato un aumento del 37% nella media delle morti attese, esattamente dal 28 marzo al 16 maggio. Nel periodo compreso tra 2017 e 2019 circa 60.000 morti, nel 2020 circa 75.000. Dopo questa data, il trend è tornato stabilmente nei numeri delle scorse stagioni. Dato che parliamo del numero totale delle morti, è ragionevole pensare che sia questo il motivo dell’aumento in queste 8 settimane. Localizzazione: questa lezione per me è quella tra le più interessanti. Tra i 50 Stati, abbiamo differenze notevoli. Se prendiamo come inizio febbraio, terminando a maggio, periodo di 90 giorni coperto al 100% dai dati, con uno sguardo totale agli Usa possiamo notare come l’aumento delle morti attese sia stato solo del 5% rispetto al periodo 2017-2019. Sicuramente un aumento, ma da qui a parlarne come ne hanno parlato i media, cambia qualcosina, no?
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Virus letali contro la popolazione? Gli Usa la sanno lunga
Quelli che prevengono le malattie e si espongono alla creazione di virus sono eroici, ma quelli che creano e diffondono intenzionalmente malattie e virus sono spietati. Data la storia del governo degli Stati Uniti e del suo complesso industriale militare riguardo alla guerra batteriologica e con i germi, l’uso di questi agenti contro le grandi popolazioni e il desiderio di creare agenti che sono ceppi specifici per razza, queste potenti entità sono diventate diffusori di morte, che non dimostrano compassione per gli innocenti. I virus artificiali intesi per la guerra, che si tratti di rovina economica, fame o morte di massa, sono i meccanismi del vero male che è tra noi. Una volta pensavo che la guerra nucleare avrebbe segnato la fine della vita per come la conosciamo, ma considerando la guerra e la tecnologia della modernità, ora penso che virus incontrollati e mortali possano logorare la popolazione mondiale, poiché uno dopo l’altro i veleni vengono rilasciati come atti di guerra nascosta. Non può esserci fine a questa follia, poiché qualsiasi ritorsione con la stessa moneta comporterà la diffusione di malattie in tutto il mondo: tutto creato dall’uomo.Il nuovo coronavirus (2019-nCoV) è uno in una serie di molti che, probabilmente ma più certamente, non sono stati i soli prodotti dall’uomo nei laboratoro. Questo virus ha caratteristiche uniche, che hanno avuto luogo in precedenza con Sars e Mers, e ha materiale genetico che non è mai stato identificato e non è legato a nessun virus noto, animale o umano. Questo dovrebbe essere preoccupante per tutti, perché se questo è prodotto dall’uomo, è stato fabbricato come un’arma da guerra. Quindi chi è responsabile del suo rilascio in Cina? È possibile che questo virus sia stato creato in Cina e sia stato “accidentalmente” rilasciato nella popolazione, ma non sembra credibile a qualsiasi livello: pensate che il governo cinese avrebbe creato un virus specifico per la razza cinese e lo avrebbe rilasciato nel proprio paese? È interessante notare che, in passato, le università e le Ong statunitensi si sono recate in Cina appositamente per fare esperimenti batteriologici illegali, e questo è stato così vergognoso, per i funzionari cinesi, che il risultato è stato la rimozione forzata di queste persone.L’università di Harvard, uno dei principali attori di questo scandalo, ha rubato i campioni di Dna di centinaia di migliaia di cittadini cinesi, se ne è andata dalla Cina con quei campioni e ha continuato la ricerca batteriologica illegale negli Stati Uniti. Si pensa che l’esercito americano, il che imprime una svolta completamente diversa nel filo del discorso, aveva commissionato la ricerca in Cina in quel momento. Questo è più che sospetto. Gli Stati Uniti, secondo “Global Research”, hanno avuto un massiccio programma di guerra batteriologica, almeno dai primi anni ’40, ma hanno usato agenti tossici contro questo paese e altri a partire dal 1860. Questo non è un segreto, indipendentemente dalla propaganda diffusa dal governo e dai suoi partner nella ricerca e produzione criminale di armi batteriologiche. A partire dal 1999, il governo degli Stati Uniti aveva dispiegato il suo arsenale di armi chimiche e batteriologiche (Chemical and Biological Weapons – Cbw) contro le Filippine, Portorico, Vietnam, Cina, Corea del Nord, Laos, Cambogia, Cuba, i boat-people haitiani e il vicino Canada, secondo “Counterpunch”.Naturalmente, i cittadini degli Stati Uniti sono stati usati molte volte anche come cavie ed esposti, dal governo, ad agenti di germi tossici e sostanze chimiche letali. Tenete presente che questo è un breve elenco, in quanto gli Stati Uniti sono ben noti per l’utilizzo di procure per diffondere i loro prodotti chimici tossici e agenti germinali, come è accaduto in Iraq e in Siria. Dal 1999 si sono verificati continui episodi di diversi virus, molti dei quali si presume siano prodotti dall’uomo, incluso l’attuale coronavirus. Non sono solo gli Stati Uniti a sviluppare e produrre agenti e virus di guerra batteriologica; lo fanno anche molti paesi sviluppati in tutto il mondo. Ma gli Stati Uniti, come in ogni area di guerra e di uccisione, sono di gran lunga il leader mondiale, nel disumano desiderio di poter uccidere intere popolazioni attraverso mezzi di guerra batteriologica e chimica. Poiché questi agenti sono estremamente pericolosi e incontrollabili e possono diffondersi all’impazzata, è evidente il rischio non solo per le popolazioni isolate, ma anche per il mondo intero.Considerate che un virus mortale creato dagli Stati Uniti e usato contro un altro paese è stato scoperto e verificato e, per rappresaglia, quel paese o altri hanno deciso di contrattaccare l’America con altri agenti tossici. Dove andrebbe a finire, e nel tempo, quanti miliardi di persone potrebbero essere interessate in un simile scenario? Tutte le indicazioni sottolineano il fatto che i virus più tossici, velenosi e mortali mai conosciuti vengono creati nei laboratori di tutto il mondo. Negli Stati Uniti pensiamo a Fort Detrick (Maryland), Pine Bluff Arsenal (Arkansas), Horn Island (Mississippi), Dugway Proving Ground (Utah), Vigo Ordinance Plant (Indiana) e molti altri. Pensate alle partnership a carattere fascista tra questo governo [americano] e l’industria farmaceutica. Pensate alle installazioni militari statunitensi posizionate in tutto il mondo. Da ciò non può derivare nulla di buono, dal momento che non si tratta di trovare cure per le malattie o di scoprire vaccini, ma viene fatto solo per una ragione, e questo è a scopo di guerra batteriologica per uccidere in massa.Il tentativo di trovare armi batteriologiche che ammaleranno e uccideranno milioni di persone alla volta non è solo una farsa, ma oltrepassa ciò che è il male. Il primo passo è scoprire che i governi – il colpevole più probabile è il governo degli Stati Uniti – stanno disseminando questi virus appositamente, per causare gravi danni. Una volta dimostrato ciò, sarà noto l’incredibile rischio per tutti, e quindi le persone di tutto il mondo dovrebbero mettere da parte tutto ciò che causa la loro divisione, fare fronte comune e fermare questo assalto all’umanità. «Nei vasti laboratori del Ministero della Pace e nelle stazioni sperimentali, team di esperti sono instancabilmente al lavoro alla ricerca di gas nuovi e letali; o di veleni solubili che possono essere prodotti in quantità tali da distruggere la vegetazione di interi continenti; o di ceppi di germi patogeni, immunizzati contro tutti i possibili anticorpi» (George Orwell, “1984″).(Gary Barnett, estratti dell’intervento “Gli Stati Uniti sono il leader mondiale nella ricerca, produzione e uso di armi batteriologiche contro l’umanità”, pubblicato il 22 febbraio 2020 su “Information Clearing House” e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Quelli che prevengono le malattie e si espongono alla creazione di virus sono eroici, ma quelli che creano e diffondono intenzionalmente malattie e virus sono spietati. Data la storia del governo degli Stati Uniti e del suo complesso industriale militare riguardo alla guerra batteriologica e con i germi, l’uso di questi agenti contro le grandi popolazioni e il desiderio di creare agenti che sono ceppi specifici per razza, queste potenti entità sono diventate diffusori di morte, che non dimostrano compassione per gli innocenti. I virus artificiali intesi per la guerra, che si tratti di rovina economica, fame o morte di massa, sono i meccanismi del vero male che è tra noi. Una volta pensavo che la guerra nucleare avrebbe segnato la fine della vita per come la conosciamo, ma considerando la guerra e la tecnologia della modernità, ora penso che virus incontrollati e mortali possano logorare la popolazione mondiale, poiché uno dopo l’altro i veleni vengono rilasciati come atti di guerra nascosta. Non può esserci fine a questa follia, poiché qualsiasi ritorsione con la stessa moneta comporterà la diffusione di malattie in tutto il mondo: tutto creato dall’uomo.
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Amazzonia in fiamme: il business di Carrefour, Nestlé e soci
L’incendio dell’Amazzonia e l’oscuramento dei cieli da San Paolo in Brasile e a Santa Cruz in Bolivia hanno catturato la coscienza del mondo. «Gran parte della colpa degli incendi è giustamente caduta sul presidente brasiliano Jair Bolsonaro per aver incoraggiato direttamente l’incendio delle foreste e il sequestro delle terre delle popolazioni indigene». Ma l’incentivo alla distruzione proviene da grandi aziende internazionali di carne e soia come Jbs e Cargill, e dai marchi globali come Stop & Shop, Costco, McDonald’s, Walmart, Asda e Sysco, che acquistano da loro e vendono al pubblico. «Sono queste aziende che stanno creando la domanda internazionale che finanzia gli incendi e la deforestazione». Lo scrive “Shorthand”, piattaforma internazionale no-profit di giornalisti impegnati su temi etici, sociali ed ecologici. In pratica, sottolinea “Shorthand” in un post tradotto da “Coscienze in Rete”, siamo noi – indirettamente, al supermercato – ad alimentare la devastazione criminale delle foreste. E la distruzione non è limitata al Brasile: «Appena oltre il confine, nell’Amazzonia boliviana, in poche settimane sono bruciati un milione di ettari, in gran parte per liberare la terra per nuove piantagioni di bestiame e di soia. E il Paraguay sta vivendo una simile strage». Lo confermano i recenti rapporti di una Ong che sta monitorando il fenomeno, “Mighty Earth”: i peggiori in campo sono due colossi come Jbs e Cargill.«La domanda interna e internazionale di carne bovina e di cuoio ha alimentato la rapida espansione dell’industria del bestiame in Amazzonia», spiega “Shorthand”. Dal 1993 al 2013, il bestiame amazzonico si è espanso di quasi il 200% raggiungendo i 60 milioni di capi. «Mentre la deforestazione per il bestiame era stata ridotta sia grazie al settore privato che all’azione del governo, la nuova ondata di deforestazione quest’anno mostra che le grandi aziende internazionali di carne bovina e di cuoio, i loro clienti e finanziatori continuano a creare mercati per i bovini basati sulla deforestazione». La compagnia più coinvolta dalla deforestazione è Jbs: è il più grande confezionatore di carne del Brasile, nonchè la più grande azienda di carne del mondo. «Come altri importanti confezionatori di carne brasiliani, Jbs ha firmato la “moratoria del bestiame” del 2009, impegnandosi a non acquistare carne bovina da bestiame legata alla deforestazione». Ma c’è il trucco: «Le indagini del governo e delle Ong hanno ripetutamente riscontrato gravi violazioni da parte di Jbs, anche attraverso il riciclaggio di bestiame». Questi scandali hanno raggiunto la loro apoteosi con il caso Cold Meat (Carne Fria) nel 2017, in cui le forze dell’ordine brasiliane «hanno prodotto ampie prove che dimostrano che Jbs stava ricavando bestiame da aree protette».Questa e altre indagini hanno scoperto che Jbs ha violato sia le norme del governo sia le proprie politiche, acquistando bestiame riciclato che era stato allevato in aree collegate alla deforestazione e poi trasportato in “ranch puliti” per eludere i requisiti. I due fratelli che controllano la compagnia furono incarcerati per il loro ruolo negli scandali di corruzione in Brasile. Poi ci sono le catene di approvvigionamento della soia, che funzionano in modo diverso rispetto al bestiame. «I grandi coltivatori trasportano abitualmente la loro soia lungo l’autostrada Br-163 fino al porto principale di Cargill a Santarem, dove viene imbarcata e inviata in tutto il mondo per alimentare il bestiame in Europa, Cina e altrove». Cargill, Bunge e altri importanti commercianti hanno partecipato alla “moratoria della soia amazzonica” in Brasile negli ultimi dodici anni, in cui si sono impegnati a cessare l’approvvigionamento da fornitori che si sono impegnati nella deforestazione per la soia. Tuttavia, la “moratoria della soia” conteneva importanti lacune. Per esempio, «i grandi commercianti possono continuare ad acquistare soia dagli agricoltori che praticano la deforestazione su larga scala, purché la deforestazione sia per colture diverse dalla soia».L’ubicazione della deforestazione vicino alla Br-163 suggerisce che gli agricoltori stanno sfruttando questa scappatoia per continuare la deforestazione – aggiunge “Shorthand” – anche quando vendono soia a grandi commercianti come Cargill e Bunge. In secondo luogo, la “moratoria della soia” si applica solo all’Amazzonia brasiliana. E invece, i principali commercianti di soia hanno continuato a guidare la deforestazione anche nel bacino dell’Amazzonia boliviana, nel Cerrado brasiliano e nel Gran Chaco di Argentina e Paraguay. Due rapporti di “Mighty Earth”, precisamente “The Ultimate Mystery Meat” e “Still At It”, hanno mostrato gli estesi legami di Cargill con la deforestazione nel bacino dell’Amazzonia boliviana e il suo ripetuto rifiuto di agire contro i principali fornitori, anche di fronte a prove ripetute. E nonostante tutta l’attenzione che sta ricevendo l’Amazzonia, con le centinaia di milioni di ettari andati in fumo in Brasile, è stata ulteriormente disboscata anche la foresta vergine del Cerrado, famosa per la sua ricca biodiversità. «Mentre l’80% dell’Amazzonia è ancora intatto, gli interessi del bestiame, della soia e dell’agricoltura hanno distrutto più della metà del Cerrado, mettendo questo ecosistema a rischio ancora maggiore».“Mighty Earth” ha scoperto che nel Cerrado, dove è continuata la deforestazione, due erano le compagnie principali responsabili della deforestazione, Cargill e Bunge. «Cargill è il maggiore commerciante di soia proveniente dal Brasile e la più grande azienda alimentare e agricola del mondo». Un rapporto di Mighty Earth diffuso a luglio, “The Worst Company in the World”, ha profilato la vasta deforestazione di Cargill in Sud America e in altre parti del mondo, basandosi su precedenti indagini in Bolivia, nel Cerrado brasiliano, in Paraguay e in Argentina. «Sebbene Bunge abbia un ruolo di primo piano nel Cerrado, in tutto il Sud America – in Bolivia, Paraguay e Argentina – le precedenti analisi di deforestazione di “Mighty Earth” (legate alla soia destinata a diventare mangime per animali) hanno riscontrato che la Cargill era strettamente associata alla deforestazione». La compagnia ha rifiutato di interrompere i rapporti coi fornitori che “Mighty Earth” aveva scoperto essere coinvolti nella deforestazione, e in più «ha resistito agli sforzi per espandere il monitoraggio della deforestazione in Sud America al di fuori dell’Amazzonia brasiliana».C’è tanta Europa, insieme agli Usa, nella devastazione del Sudamerica. Sempre “Shorthand” fornisce una mappa estremamente precisa dei marchi coinvolti nel disastro, come acquirenti dei prodotti ottenuti dalla deforestazione. In primo piano ad esempio c’è l’Olanda con il colosso della grande distribuzione Ahold Delhaize, che possiede Stop & Shop, Giant, Food Lion e Hannaford negli Stati Uniti, e inoltre Albert Heijn, Delhaize, Etos, Albert, Alfa-Beta e altri ancora in Europa. «Pur sostenendo costantemente i propri impegni di sostenibilità, Ahold continua a vendere i suoi prodotti ai clienti da alcune delle peggiori aziende del mondo». Per quanto “grandiose” siano le azioni di Ahold Delhaize, non sono le sole: McDonald’s è probabilmente «il cliente più grande e più importante di Cargill», accusa “Shorthand”. «I ristoranti di McDonald’s sono essenzialmente vetrine di negozi per Cargill». L’azienda brasiliana «non solo fornisce pollo e manzo a McDonald’s, ma prepara e congela hamburger e McNugget, che McDonald’s semplicemente riscalda e serve». Poi c’è l’americana Sysco: con 55 miliardi di entrate annue, è il più grande distributore al mondo di prodotti alimentari a ristoranti, strutture sanitarie, università, hotel e locande. Anche Sysco si rifornisce nel Brasile in fiamme.Nonostante assicuri il contrario («proteggeranno il pianeta promuovendo pratiche agricole sostenibili, riducendo la nostra impronta di carbonio e deviando i rifiuti dalle discariche, al fine di proteggere e preservare l’ambiente per le generazioni future»), i manager di Sysco «hanno onorato Cargill come il fornitore più apprezzato di carne suina e manzo», facendo anche «affari per 525 milioni di dollari con Jbs, nel 2019, attraverso vendite e altre partnership». Da Sysco a Costco, sempre negli Usa: «Sia Jbs che Cargill elencano Costco come uno dei loro principali clienti», continua “Shorthand”. «Popolare tra le famiglie e i proprietari di piccole imprese, è il terzo più grande rivenditore al mondo». Anche Costco cerca di barare: dichiara di «procurarsi i propri prodotti in modo rispettoso per l’ambiente e per le persone». Sul loro web, un catalogo di ottime intenzioni: «Il nostro obiettivo – si legge – è contribuire a fornire un impatto positivo netto per le comunità in paesaggi che producono materie prime, facendo la nostra parte per aiutare a ridurre la perdita di foreste naturali e altri ecosistemi naturali, che includono praterie, torbiere, savane e zone umide autoctone e intatte». Peccato che, secondo “Bloomberg”, Costco abbia trattato affari, quest’anno, per un miliardo e mezzo di dollari proprio con Jbs.Tra gli “eroi” dell’Amazzonia figura anche la remota Australia, con la sua catena di fast food Burger King: ha detto al fornitore Cargill che cesserà di acquistare prodotti da aree deforestate, ma solo a partire dal 2030. Importante cliente anche di Jbs, l’altro “mostro” che sta devastando la foresta amazzonica, Burger King fa parte della catena Rbi (Restaurant Brands International) che comprende anche Tim Horton e Popeye. Tra tante eccellenze etiche, poteva mancare la Svizzera? Un nome, una garanzia: Nestlé. «E’ stata tra le prime aziende a prendere impegni su “zero deforestazione”, ma ha iniziato a monitorare effettivamente le sue catene di approvvigionamento nove anni dopo, nel 2019 – e solo per l’olio di palma, non per la soia o la cellulosa». Se il 77% della sua catena di approvvigionamento è certificato come “privo di deforestazione”, in compenso Nestlé «continua ad acquistare da Cargill per la sua sussidiaria per alimenti per animali domestici, Nestlé Purina Petcare». E i dati di “Bloomberg” mostrano anche Nestlé come uno dei principali clienti di Marfrig, uno dei devastatori dell’Amazzonia. Dalla Svizzera alla Francia, poi, il passo è breve: ed ecco Carrefour, colosso della grande distribuzione. Attenzione: «Carrefour è la maggior parte proprietaria delle più grandi catene di supermercati del Brasile», con carni che vengono direttamente dalla deforestazione.Carrefour ha collegamenti significativi con le catene di fornitura Cargill e Jbs, precisa “Shorthand”. Anche la mega-azienda francese si è impegnata ad eliminare la deforestazione dai suoi prodotti entro il 2020, «ma la politica non si applica ai prodotti di carne bovina trasformati o congelati». Il che significa che «solo circa metà della distribuzione di carni bovine Carrefour in Brasile è coperta dalla sua politica di “deforestazione zero”». Secondo la “Chain Reaction Research”, appena il 35% delle carni bovine del campione Carrefour esaminato «proveniva da macelli situati all’interno dell’Amazzonia legale». Parla francese anche il gruppo Casino, con marchi come Géant Casino, Casino Supermarchés, Hyper Casino, Le Petit Casino, Casino Shop, Monoprix, Naturalia, Franprix, Leader Price, Spar, Vival, Cdiscount, Sherpa e Easydis. Gigante transalpino del supermercato, Casino vede premiata la sua reputazione per la sostenibilità. «Ma in quanto seconda catena di supermercati in Brasile, continua ad acquistare da Cargill, Bunge e dai principali fornitori di bestiame brasiliano». Sempre in Francia è basata Leclerc, catena di negozi con oltre 600 sedi in patria e più di 120 negozi all’estero. La sua politica ecologica è un colabrodo, secondo “Sherpa”, “France Nature Environment” e “Mighty Earth”: «Leclerc ha fallito nelle misure di sostenibilità della soia a tutti i livelli».La società – aggiunge “Shorthand” – rifiuta di aderire alle chiamate del settore per proteggere il Cerrado in via di estinzione. In più, non ha adempiuto agli obblighi legali di tracciatura dei prodotti in origine, non menzionando neppure il fantasma della deforestazione. «L’ultimo rapporto sulla sostenibilità di Leclerc non cita alcun impegno in materia di approvvigionamento di carne o di altre materie prime, tranne l’olio di palma». Chiude la lista del disonore l’americana Walmart, con sede in Arkansas: è la più grande azienda al mondo per fatturato e anche il più grande datore di lavoro privato. Walmart ha anche una presenza importante nel Regno Unito, attraverso la sua controllata Asda. Politica dichiarata: «Come membro del Consumer Goods Forum, abbiamo supportato la risoluzione per raggiungere la “deforestazione zero” nella nostra catena di approvvigionamento entro il 2020». L’azienda acquista carne di manzo, soia e olio di palma. Dice di «incoraggiare i produttori a lavorare prodotti d’origine realizzati senza deforestazione», per proteggere le foreste vergini e tutelare l’ambiente sudamericano. «Tuttavia – precisa “Shorthand” – Walmart ha condotto affari con Jbs per un valore di 1,68 miliardi di dollari nel 2018 e rimane un cliente leader di carni Cargill».L’incendio dell’Amazzonia e l’oscuramento dei cieli da San Paolo in Brasile e a Santa Cruz in Bolivia hanno catturato la coscienza del mondo. «Gran parte della colpa degli incendi è giustamente caduta sul presidente brasiliano Jair Bolsonaro per aver incoraggiato direttamente l’incendio delle foreste e il sequestro delle terre delle popolazioni indigene». Ma l’incentivo alla distruzione proviene da grandi aziende internazionali di carne e soia come Jbs e Cargill, e dai marchi globali come Stop & Shop, Costco, McDonald’s, Walmart, Asda e Sysco, che acquistano da loro e vendono al pubblico. «Sono queste aziende che stanno creando la domanda internazionale che finanzia gli incendi e la deforestazione». Lo scrive “Shorthand”, piattaforma internazionale no-profit di giornalisti impegnati su temi etici, sociali ed ecologici. In pratica, sottolinea “Shorthand” in un post tradotto da “Coscienze in Rete”, siamo noi – indirettamente, al supermercato – ad alimentare la devastazione criminale delle foreste. E la distruzione non è limitata al Brasile: «Appena oltre il confine, nell’Amazzonia boliviana, in poche settimane sono bruciati un milione di ettari, in gran parte per liberare la terra per nuove piantagioni di bestiame e di soia. E il Paraguay sta vivendo una simile strage». Lo confermano i recenti rapporti di una Ong che sta monitorando il fenomeno, “Mighty Earth”: i peggiori in campo sono due colossi come Jbs e Cargill.
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Scandalosi Clinton: 50 testimoni morti, Epstein è l’ultimo
Sabato scorso, il miliardario Jeffrey Epstein, il detenuto di più alto profilo in custodia negli Stati Uniti, è stato trovato morto nella sua cella di Manhattan. Questo è avvenuto il giorno dopo che erano state rese pubbliche duemila pagine di documenti giudiziari, precedentemente secretati, riguardanti il procedimento contro Jeffrey Epstein per atti di violenza sessuale su minori. I documenti descrivevano come Bill Clinton avesse partecipato a feste private sull’isola del pedofilo Jeffrey Epstein. Clinton aveva volato almeno 27 volte sull’aereo privato di Jeffrey Epstein. Nella maggior parte di quei voli era stato accompagnato da ragazze minorenni. Nonostante un precedente tentativo, appena tre settimane fa, di togliersi la vita, le guardie carcerarie, la notte di venerdì, avevano saltato i controlli previsti ogni 30 minuti alla cella di Epstein. Nelle prime ore del mattino lo avevano trovato morto. Jeffrey Epstein è l’ultimo di un lungo elenco di collaboratori e frequentatori della famiglia Clinton che sono morti misteriosamente o si sono suicidati prima della loro testimonianza pubblica. Nel 2016 la “Cbs” di Las Vegas aveva pubblicato un elenco degli associati Bill e Hillary Clinton che sarebbero morti in circostanze misteriose. Ecco quella lista.1. James McDougal – Il socio dei Clinton condannato per il caso Whitewater era morto per un apparente attacco cardiaco mentre si trovava in isolamento. Era un testimone chiave nelle indagini di Ken Starr. 2. Mary Mahoney – Una ex stagista della Casa Bianca, era stata assassinata nel luglio 1997 in una caffetteria Starbucks a Georgetown. L’omicidio era avvenuto subito prima che rendesse di pubblico dominio il fatto di avere subito molestie sessuali alla Casa Bianca. 3. Vince Foster – Ex consigliere della Casa Bianca e collega di Hillary Clinton presso lo studio legale Rose di Little Rock. Era morto per una ferita da arma da fuoco alla testa, risolta come suicidio. 4. Ron Brown – Segretario al Commercio ed ex presidente del Dnc [Comitato Nazionale Democratico]. La causa ufficiale della morte era stata impatto da incidente aereo. Un patologo che aveva partecipato alle indagini aveva riferito che c’era un buco nella parte superiore del cranio di Brown molto simile ad un ferita da arma da fuoco. Al momento della sua morte, Brown era sotto indagine e non aveva fatto segreto della sua volontà di concludere un accordo con gli inquirenti. Erano morti anche tutti gli altri passeggeri dell’aereo. Pochi giorni dopo, il controllore del traffico aereo si era suicidato.5. C. Victor Raiser, II – Raiser, uno dei principali responsabili dell’organizzazione per la raccolta fondi dei Clinton, era morto nella caduta di un aereo privato, nel luglio 1992. 6. Paul Tulley – Direttore politico del Comitato Nazionale Democratico era stato trovato morto in una stanza d’albergo a Little Rock, nel settembre 1992. Descritto dai Clinton come “caro amico e consigliere fidato”. 7. Ed Willey – Responsabile della raccolta fondi per i Clinton, era stato trovato morto nel novembre 1993 in un bosco della Virginia, con una ferita da arma da fuoco alla testa. Risolto come suicidio. Ed Willey era morto lo stesso giorno in cui sua moglie, Kathleen Willey, aveva affermato che Bill Clinton l’aveva palpeggiata nello Studio Ovale della Casa Bianca. Ed Willey era stato coinvolto in numerosi eventi di raccolta fondi per i Clinton. 8. Jerry Parks – Capo della squadra di sicurezza governativa di Clinton a Little Rock. Ucciso con un’arma da fuoco mentre era in macchina in un incrocio deserto fuori Little Rock. Il figlio di Parks aveva riferito che il padre stava allestendo un dossier su Clinton. Aveva presumibilmente minacciato di rendere pubbliche queste informazioni. Dopo la sua morte, i documenti erano misteriosamente spariti dalla sua abitazione.9. James Bunch – Deceduto per suicidio da arma da fuoco. Sembra possedesse un “libro nero” contenente i nomi di persone influenti che frequentavano prostitute in Texas ed Arkansas. 10. James Wilson – Era stato trovato morto nel maggio 1993, apparentemente si era suicidato impiccandosi. Sembra avesse legami con il caso Whitewater. 11. Kathy Ferguson – Ex moglie del poliziotto dell’Arkansas Danny Ferguson, era stata trovata morta nel maggio 1994 nel salotto di casa sua, uccisa con un colpo di pistola alla testa. Era stato considerato un suicidio, anche se c’erano diverse valigie piene, come se la donna fosse stata in procinto di recarsi altrove. Danny Ferguson era un co-imputato, insieme a Bill Clinton, nella causa intentata da Paula Jones. Kathy Ferguson era una possibile testimone a favore di Paula Jones. 12. Bill Shelton – Agente della polizia di Stato dell’Arkansas e fidanzato di Kathy Ferguson. Scettico sul suicidio della sua fidanzata, era stato trovato morto nel giugno 1994 per una ferita da arma da fuoco e si era stabilito che si era suicidato sulla tomba della sua fidanzata. 13. Gandy Baugh – Avvocato dell’amico di Clinton, Dan Lassater, era morto nel gennaio 1994 lanciandosi da una finestra di un alto edificio. Il suo cliente era un distributore di droga già condannato.14. Florence Martin – Ragioniera e subappaltatrice per la Cia, era legata al caso Barry Seal, Mena, Arkansas, un caso di traffico di droga all’aeroporto. Era morta per tre ferite da arma da fuoco. 15. Suzanne Coleman – Secondo quanto riferito, aveva avuto una relazione con Clinton quando quest’ultimo era procuratore generale dell’Arkansas. Era morta per una ferita da arma da fuoco alla nuca, risolta come suicidio. Al momento della morte era incinta. 16. Paula Grober – Traduttrice simultanea di Clinton per i non udenti, dal 1978 fino alla sua morte, il 9 dicembre 1992. Era morta in un incidente automobilistico. 17. Danny Casolaro – giornalista investigativo, indagava sull’aeroporto di Mena e sull’organo per il finanziamento dello sviluppo dell’Arkansas. Si era tagliato i polsi, apparentemente nel bel mezzo della sua indagine. 18. Paul Wilcher – L’avvocato che indagava sulla corruzione all’aeroporto di Mena con Casolaro e sula “sorpresa di ottobre” del 1980, era stato trovato morto in bagno, il 22 giugno 1993, nel suo appartamento di Washington Dc. Aveva consegnato un rapporto a Janet Reno tre settimane prima della sua morte.19. Jon Parnell Walker – Investigatore del caso Whitewater per la Resolution Trust Corporation. Era morto gettandosi dal balcone del suo appartamento di Arlington, in Virginia, il 15 agosto 1993. Stava indagando sullo scandalo Morgan Guaranty. 20. Barbara Wise – Collaboratrice del Dipartimento del Commercio. Aveva lavorato a stretto contatto con Ron Brown e John Huang. Causa del decesso: sconosciuta. Era morta il 29 novembre 1996. Il suo corpo nudo e pieno di lividi era stato trovato chiuso a chiave nel suo ufficio, presso il Dipartimento del Commercio. 21. Charles Meissner – Sottosegretario al Commercio, che aveva concesso a John Huang il nulla osta di sicurezza, era morto poco dopo in un incidente aereo. 22. Dr. Stanley Heard – Presidente del Comitato Consultivo Nazionale per la Terapia Chiropratica era morto con il suo avvocato, Steve Dickson, in un incidente aereo. Il dottor Heard, oltre a prestare servizio nel consiglio consultivo dei Clinton, aveva curato personalmente la madre, il patrigno e il fratello di Clinton. 23. Barry Seal – Un pilota della Twa che contrabbandava droga dall’aereoporto di Mena, Arkansas, la sua morte non è stata casuale [assassinato il 19 febbraio 1986].24. Johnny Lawhorn, Jr. – Meccanico, aveva trovato un assegno intestato a Bill Clinton nel bagagliaio di un’auto lasciata nella sua officina. Era stato trovato morto dopo che la sua macchina aveva colpito un palo della luce. 25. Stanley Huggins – Indagava sulla Madison Guaranty Savings and Loan Association. La sua morte era stata dichiarata un presunto suicidio e il suo rapporto non era mai stato pubblicato. 26. Hershell Friday – Avvocatessa e responsabile della raccolta fondi per Clinton, era morta il 1° marzo 1994, quando il suo aereo era esploso. 27. Kevin Ives e Don Henry – Noto come il caso dei “ragazzi che avevano trovato una pista”. I rapporti dicono che due i ragazzi potrebbero essersi imbattuti nel traffico di droga dell’aeroporto di Mena, Arkansas. Un caso controverso, secondo il rapporto iniziale della morte, i due ragazzi si sarebbero addormentati sui binari della ferrovia. Rapporti successivi avevano stabilito che i due giovani erano stati uccisi prima di essere messi sulle rotaie. Molte persone legate al caso erano morte prima che la loro testimonianze potessero arrivare davanti al Gran Giurì.Queste persone avevano informazioni sul caso Ives/Henry: 28 – Keith Coney: era morto quando, con la sua moto, aveva tamponato un camion, luglio 1988. 29 – Keith McMaskle: deceduto, pugnalato 113 volte, novembre 1988. 30 – Gregory Collins: morto per una ferita da arma da fuoco nel gennaio 1989. 31 – Jeff Rhodes: ucciso con un’arma da fuoco, mutilato e trovato bruciato in una discarica nell’aprile 1989. 32 – James Milan: trovato decapitato. Tuttavia, il medico legale aveva stabilito che la sua morte era dovuta a “cause naturali”. 34 – Richard Winters: uno dei sospettati nelle morti di Ives/Henry. Ucciso in una rapina organizzata nel luglio 1989. Anche queste guardie del corpo di Clinton sono morte: 35 – Maggiore William S. Barkley, Jr. 36 – Capitano Scott J. Reynolds. 37 – Sergente Brian Hanley. 38 – Sergente Tim Sabel. 39 – Maggiore Generale William Robertson. 40 – Colonnello William Densberger. 41 – Colonnello Robert Kelly. 42 – Specialista Gary Rhodes. 43 – Steve Willis. 44 – Robert Williams. 45 – Conway LeBleu. 46 – Todd McKeehan. E il più recente, Seth Rich, il collaboratore del Comitato Democratico, assassinato e “derubato” (di niente) il 10 luglio 2016. Il fondatore di Wikileaks, Assange, afferma che Rich era in possesso di informazioni sullo scandalo della posta elettronica del Dnc. In questa lista non sono inclusi i 4 eroi uccisi a Bengasi. Ed ora potete aggiungere all’elenco il multimilionario Jeffrey Epstein…(Jim Hoft, “L’elenco completo delle persone collegate ai Clinton morte in circostanze misteriose o ‘suicidatesi’ prima di testimoniare”, da “Gateway Pundit” dell’11 agosto 2019, post tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Sabato scorso, il miliardario Jeffrey Epstein, il detenuto di più alto profilo in custodia negli Stati Uniti, è stato trovato morto nella sua cella di Manhattan. Questo è avvenuto il giorno dopo che erano state rese pubbliche duemila pagine di documenti giudiziari, precedentemente secretati, riguardanti il procedimento contro Jeffrey Epstein per atti di violenza sessuale su minori. I documenti descrivevano come Bill Clinton avesse partecipato a feste private sull’isola del pedofilo Jeffrey Epstein. Clinton aveva volato almeno 27 volte sull’aereo privato di Jeffrey Epstein. Nella maggior parte di quei voli era stato accompagnato da ragazze minorenni. Nonostante un precedente tentativo, appena tre settimane fa, di togliersi la vita, le guardie carcerarie, la notte di venerdì, avevano saltato i controlli previsti ogni 30 minuti alla cella di Epstein. Nelle prime ore del mattino lo avevano trovato morto. Jeffrey Epstein è l’ultimo di un lungo elenco di collaboratori e frequentatori della famiglia Clinton che sono morti misteriosamente o si sono suicidati prima della loro testimonianza pubblica. Nel 2016 la “Cbs” di Las Vegas aveva pubblicato un elenco degli associati Bill e Hillary Clinton che sarebbero morti in circostanze misteriose. Ecco quella lista.
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Barnard: ma i padroni di Hillary temono la guerra atomica
Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».Il punto non è assolutamente se la Clinton sia più guerrafondaia di Trump, insiste Barnard nel suo blog: «La questione è quale candidato americano assillato dal crollo dell’impero resisterà più tempo prima di una dichiarazione di guerra mondiale». E la risposta fra Trump e Clinton «è senza dubbio la Clinton, perché Hillary almeno pensa», e in più «deve rispondere ai suoi padroni», mentre Trump «non pensa e risponde solo agli sbalzi di serotonina del suo cervello da mucca pazza». Sulla Clinton, ovviamente, nessuna illusione: «Sappiamo con certezza, fin dai tempi della giovane coppia Clinton in Arkansas, chi governa e possiede quella coppia di criminali internazionali. Ne conosciamo nomi cognomi e soprattutto gli interessi, che oggi si sono spostati da quelli delle lobby agricole e immobiliari degli anni ’90, a quelli di Wall Street». E qui, per Barnard, viene il punto cruciale, se si teme la Terza Guerra Mondiale: «L’ultima cosa al mondo che la finanza vuole è una guerra nucleare, semplicemente perché non esiste modello algoritmico, statistico, o tendenza di Borsa che racconti all’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Manhattan o a Francoforte cosa accadrebbe alla finanza in caso di guerra nucleare. Non esiste, non ce l’hanno. E gente che oggi ha in mano assets per oltre 30 volte il Pil mondiale, non rischia il culo su un modello che non conosce».Al contrario, continua Barnard, i super-potenti dell’élite finanziaria «sanno benissimo che bottoni premere, dove investire, che profitti si fanno in caso di guerra convenzionale», ma appunto, «non in caso di guerra atomica». Sicché, «la Clinton dovrà guardarli tutti in faccia prima di schiacciare il bottone rosso e non lo farà mai per prima». Al contrario, continua Barnard, Trump sarebbe completamente solo di fronte a quattro fattori ad altissimo rischio: l’espansionismo Nato alle soglie di Mosca, le nuove mini-atomiche americane, l’esplosivo derby Israele-Iran e il dilagare delle basi militari Usa. Il pericolo è motivato da ragioni drasticamente concrete: «Qualsiasi candidato alla Casa Bianca potrebbe scatenare una Terza Guerra da un giorno all’altro, perché dovrà preservare l’Impero per la sopravvivenza di 350 milioni di americani nel loro stile di vita, che non verrà mai messo in discussione, mai». Lo dimostra il fatto che persino Bernie Sanders appoggia le guerre “utili”, infatti «ha speso parole mielose per “i nostri migliori e valorosi americani”, cioè le truppe Usa in guerra, e mai ha pronunciato una singola parola per lo smantellamento totale della finanza speculativa».L’espansionismo Nato, ricorda Barnard, nasce ben prima di Trump e Clinton: fu Ronald Reagan che, «con la faccia come il culo», tradì le promesse fatte a Gorbaciov negli anni ’80 di non espandere la Nato di un metro a Est. «Oggi la Nato è letteralmente arrivata al confine con la Russia, e “deve” farlo, sempre per il solito motivo, cioè il controllo delle risorse materiali e finanziarie» del maggior numero possibile di nazioni, «e dei flussi di energia nell’interesse dell’Impero al crollo». Attenzione: Trump «non si oppone all’espansionismo, dice solo che lo devono pagare gli altri». In effetti, «non ha mai messo in programma il ritiro Nato a ovest della Polonia». Così, «la scintilla finale con Mosca rimarrà tale e quale, pronta a scoppiare, con Donald o con Hillary o con chiunque altro». E la donna «non è affatto peggio», sostiene Barnard. Sviluppi di crisi potrebbero avere tempi brevissimi, con l’impiego di armi micidiali come le mini-atomiche B-61 Model 12 per le quali Obama ha speso 1.000 miliardi di dollari. «Escluso che la Clinton possa prendere per prima una decisione atomica per i motivi detti sopra», cioè la necessità di consultare prima i suoi “padroni” di Wall Street, «la facilità dell’uso di una testata “mini” capace ad esempio di distruggere selettivamente un’area grande come 4 quartieri di Milano, si addice molto di più a un rantolo cerebrale di Trump se, poniamo, vi fosse un attentato Isis a Filadelfia con 100 morti».In assoluto, però, secondo Barnard il maggior pericolo di guerra atomica, il più realistico, «non risiede in una consolle di un bunker di Washington, ma a Tel Aviv». Norman Finkelstein definì Israele «uno Stato psicotico». Per Barnard, «i sionisti sono non solo dei criminali internazionali di comprovata devastante letalità, ma sono anche letteralmente dei pazzi». Finora, «l’unico fattore che ha impedito a Israele di usare l’atomica sull’Iran è stata la mano del “padrone” a Washington». Ora, Trump «vuole il disingaggio degli Stati Uniti soprattutto dal rapporto Iran-Usa-Israele, e l’ha detto: per prima cosa ripudierà l’accordo Obama-Rouhani sul nucleare». Questo, per Barnard, significa solo una cosa: che «verrà tolta la “sicura” dalla pistola dei pazzi genocidi sionisti», lasciando mano libera a Tel Aviv per «far partire le testate contro l’Iran», scatenando la guerra atomica. «Qui – insiste Barnard – dobbiamo scongiurare Dio di far vincere la Clinton, che invece la mano sugli psicopatici eredi di Theodor Herzl la terrà eccome».Quanto all’espansionsimo imperiale post-Urss inaugurato con Colin Powell, la “Lillypad expansion”, cioè l’espansione a foglia di ninfea delle basi Nato, se ieri era un’opzione oggi è un “obbligo assoluto” per puntellare l’impero declinante, «pena appunto la sua morte», cominciando con l’accerchiare la Via della Seta cinese in piena costruzione. «E stanno succedendo entrambe le cose contemporaneamente», con Pechino che «ha già piazzato 46 miliardi di dollari in Pakistan protetti da oltre 10.000 soldati con la mira al Golfo Persico», e intanto «sta costruendo piste di decollo per bombardieri in tutti i distretti del Sud-Est Asiatico che controlla», mentre gli Usa «stanno circondando i cinesi» com la “Lillypad expansion” «mirando proprio agli Stretti di Malacca da cui passa la gran parte dell’energia di cui necessita Pechino». Washington «semina basi e flotte, con l’aiuto dell’Australia, come ha recentemente rivelato il grande John Pilger». Dunque: «Avete voi sentito Trump parlare di un piano sensato per la distensione con la Cina?». Soprattutto: sarebbe capace, Trump, «di pensare a una cosa immensa come un piano di distensione fra potenze?». La Clinton, almeno, «non reagirà a una crisi dei missili nel Pacifico con lo sguardo demente sotto alla parrucca di un Trump».Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».
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Craig Roberts: Hillary tutela l’1% che lucra sulla guerra
Hillary è il candidato dell’1% e Trump quello del 99%, che l’oligarchia vuole distruggere attraverso i media. Se pure vincesse Trump, poco potrebbe contro questo 1% affamato di potere che controlla i posti chiave a Washington e su cui né il popolo americano né gli alleati esteri, diventati ormai vassalli, esercitano più alcun controllo. Su “Counterpunch”, Paul Craig Roberts evidenzia l’assurdità della campagna presidenziale americana, che discute delle tasse di Trump invece della minaccia sempre più inevitabile di una guerra con la Russia scatenata dall’oligarchia al potere. «Cosa deve pensare il mondo guardando la campagna presidenziale americana? Nel corso del tempo le campagne politiche americane sono diventate più irreali e meno legate alle preoccupazioni degli elettori, ma quella attuale è così irreale da essere assurda», afferma Craig Roberts, già viceministro di Reagan. «La delocalizzazione dei posti di lavoro americani da parte delle multinazionali e la deregolamentazione del sistema finanziario degli Stati Uniti hanno portato al fallimento economico dell’America. Si potrebbe pensare che questo sia un argomento da campagna presidenziale».L’ideologia neo-conservatrice dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti li sta portando con i loro vassalli ad un conflitto con la Russia e la Cina, scrive Craig Roberts, in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. «I rischi di una guerra nucleare sono più alti che in qualsiasi altro momento nella storia». Questo sì, è «un argomento da campagna presidenziale». Invece, «i problemi sono l’uso legale delle leggi fiscali da parte di Trump e il suo atteggiamento non ostile verso il presidente russo Putin», al punto che «si potrebbe pensare che il problema sia l’atteggiamento estremamente ostile di Hillary verso Putin (“il nuovo Hitler”), che promette un conflitto con una grande potenza nucleare». Per quanto riguarda il giovarsi delle leggi fiscali, Pat Buchanan ha sottolineato che Hillary «ha utilizzato a suo vantaggio una deduzione grande quasi come quella di Trump». Durante gli anni in Arkansas, la Clinton «si è anche avvalsa di una detrazione fiscale su una lista di indumenti usati donati a un ente di beneficenza, tra cui 2 dollari per un paio di mutande usate da Bill».Il “dibattito” tra i vice-presidenti, poi, ha rivelato che il candidato del Partito Democratico «è così ignorante da pensare che Putin, che è democraticamente eletto e ha un enorme sostegno pubblico, è un dittatore». Questo, continua Craig Roberts, è quello che sappiamo sui due candidati alla presidenza. «Hillary ha una lunga lista di scandali, da Whitewater e Vince Foster a Bengasi e alla violazione dei protocolli per la sicurezza nazionale». La candidata democratica «è stata comprata e pagata dagli oligarchi di Wall Street, delle mega-banche e del complesso militare industriale, nonché da interessi stranieri». Prova ne sono «i 120 milioni di dollari del patrimonio personale dei Clinton e i 1.600 milioni di dollari della loro fondazione». In altre parole, «Goldman Sachs non ha pagato 675.000 dollari a Hillary per tre discorsi di 20 minuti per la saggezza che contenevano». Al contrario, «quello che sappiamo in merito a Trump è che l’oligarchia non lo sopporta e ha ordinato al Ministero della Propaganda, cioè i media statunitensi, di distruggerlo».Chiaramente, continua Craig Roberts, «Hillary è il candidato dell’1%, e Trump è il candidato del resto di noi». Purtroppo, però, «circa la metà del 99% è troppo stupida per conoscere tutto questo». Inoltre, «se Trump dovesse finire alla Casa Bianca, non significa che potrebbe prevalere sull’oligarchia», che infatti «è radicata a Washington e controlla cariche di politica economica ed estera, think tank e altri gruppi di lobbisti, e i media». Il popolo? «Non controlla nulla». E oggi, «cosa pensa il mondo quando vede condannare Donald Trump perché non vuole la guerra con la Russia o la delocalizzazione dell’economia americana?». E i “vassalli” di Washington – britannici, canadesi, australiani, giapponesi – dove vedono nella politica americana una leadership degna del sacrificio della loro sovranità e dell’indipendenza della loro politica estera? «Dove vedono anche solo un briciolo di intelligenza?». E ancora: «Perché il mondo guarda al governo più stupido, vigliacco, arrogante, corrotto e criminale del pianeta come una guida? La guerra è l’unica destinazione a cui Washington può condurre».Hillary è il candidato dell’1% e Trump quello del 99%, che l’oligarchia vuole distruggere attraverso i media. Se pure vincesse Trump, poco potrebbe contro questo 1% affamato di potere che controlla i posti chiave a Washington e su cui né il popolo americano né gli alleati esteri, diventati ormai vassalli, esercitano più alcun controllo. Su “Counterpunch”, Paul Craig Roberts evidenzia l’assurdità della campagna presidenziale americana, che discute delle tasse di Trump invece della minaccia sempre più inevitabile di una guerra con la Russia scatenata dall’oligarchia al potere. «Cosa deve pensare il mondo guardando la campagna presidenziale americana? Nel corso del tempo le campagne politiche americane sono diventate più irreali e meno legate alle preoccupazioni degli elettori, ma quella attuale è così irreale da essere assurda», afferma Craig Roberts, già viceministro di Reagan. «La delocalizzazione dei posti di lavoro americani da parte delle multinazionali e la deregolamentazione del sistema finanziario degli Stati Uniti hanno portato al fallimento economico dell’America. Si potrebbe pensare che questo sia un argomento da campagna presidenziale».
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Usa, elezioni e soldi: chi si compra il futuro presidente
Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?In un’analisi pubblicata da “The AntiMedia” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, Anderson denuncia la pratica dilagante del ricorso ai “Super-Pac”, i nuovissimi “comitati di azione politica” costituiti da singoli, aziende e cartelli, con capacità di spesa praticamente illimitata e assolutamente non-trasparente: il candidato non è tenuto a tracciare pubblicamente il denaro ricevuto. «Inutile dire che si tratta di un’elezione in cui la maggior parte dei candidati sono alla ricerca di sostegno da parte dei donatori ricchi invece che dai cittadini che sarebbero chiamati a rappresentare», scrive Anderson. «Ci si sorprenderà nello scoprire chi è stato a donare soldi per il vostro candidato, e come tale contributo possa influenzare le posizioni politiche future». Guida la classifica Jeb Bush, che i sondaggi danno in calo perché “troppo moderato” per gli elettori repubblicani. L’ultimo rampollo della famigerata dinastia presidenziale super-guerrafondaia ha incassato 161 milioni di dollari dalla Golman Sachs, 65 da Neuberger Berman Llc, quasi 44 da Bank of America, 41,5 da Citigroup e quasi 40 da Tenet Healthcare.Secondo i reporter investigativi della Florida, per sostenere Jeb Bush si stanno attivando «signori texani del petrolio, banchieri d’investimento di New York, titolari di aziende sanitarie di Miami e perfino tre ex ambasciatori – due dei quali hanno servito sotto il fratello, l’ex presidente George W. Bush». Totale, 25 contributi da 1 milione di dollari ciascuno. Tre milioni invece sono arrivati da Mike Fernandez, miliardario cubano-americano fondatore di Coral Gables Mbf Healthcare Partners. Poi c’è Hushang Ansary, ambasciatore iraniano negli Stati Uniti dal 1967 al 1969, quindi Richard Kinder, boss della società di oleodotti e gasdotti Kinder Morgan. E Alfred Hoffman, ambasciatore statunitense in Portogallo dal 2005 al 2007, fondatore in Florida della società immobiliare Wci Community. Quindi NextEra Energy, società madre della Florida Power & Light, che fornisce il servizio elettrico a quasi la metà dello Stato. E Julian Robertson Jr., di New York, manager di fondi d’investimento (patrimonio personale di 3,4 miliardi, «ha fatto la sua fortuna investendo in campi da golf e vigneti in Nuova Zelanda»).A parte il corposo sostegno a Jeb, Wall Street pare schierata massicciamente dalla parte di Hillary, finora sempre sostenuta da Citigroup, Goldman Sachs, Dla Piper, Jp Morgan e Morgan Stanley. «Molti dicono che tali alleanze irrevocabilmente la incatenino a suddette istituzioni, rendendola incapace di regnare sopra la corruzione finanziaria di Wall Street», scrive Anderson. Tra gli attuali finanziatori figurano anche Morgan & Morgan, Sullivan & Cromwell, Akin, Gump, Yale University, Latham & Watkins. «E’ anche importante sottolineare che lo studio legale lobbista Akin, Gump, Strauss, Hauer & Feld, che impiega molti dipendenti di Hillary, ha preso le donazioni da due dei più grandi imprenditori delle carceri private, Corrections Corporation of America e Geo Group, con tasse incluse, per un totale di quasi 300.000 dollari». Si chiama “Priority Usa Action” il nuovissimo “Super-Pac” creato per sostenere la Clinton: 25 milioni di dollari in soli tre mesi. I più importanti super-donatori Pac sono George Soros e Steven Spielberg, ma la lista comprende 31 singoli donatori che hanno contribuito più di 200.000 dollari ciascuno. I progressisti contestano alla Clinton il ricorso ai miliardari, ma i sostenitori replicano che non c’è altra strada. Di recente, Hillary ha fatto notizia «abbracciando una tattica per rivelare pubblicamente – cosa che la nuova legge non richiede – i grandi donatori aziendali».Il terzo incomodo, Donald Trump, fa gara a sé: ha ribadito che sarà l’unico finanziatore della sua campagna elettorale e non accetterà donazioni. Secondo “Forbes”, il suo patrimonio ammonta a 4,5 miliardi. Trump assicura che si priverà di 100 milioni per auto-finanziarsi la campagna. Dovrà vedersela innanzitutto col super-finanziato Jeb Bush e gli altri due grandi sfidanti delle primarie, Marco Rubio e Ted Cruz, i cui cognomi ammiccano direttamente all’elettorato “latino”. Sostenuto dai “cubani”, Rubio ha finora raccolto quasi 32 milioni di dollari. Deve ringraziare Goldman Sachs, Steward Health Care, Titan Farms, Florida Cristalli e Oracle. Tra i supporter anche il miliardario Norman Braman e Laura Perlmutter, moglie di Isacco Perlmutter, Ceo di Marvel Entertainment. «La campagna gestita da Rubio è anche dotata di una notevole quantità di “denaro oscuro”», racconta Anderson. «La fonte è una norma su fondi senza scopo di lucro denominata Soluzioni Progettuali Conservatrici, che ha raccolto 15,8 milioni di dollari. Il no-profit, che naturalmente non è tenuto a rivelare i suoi donatori, ha lanciato una massiccia campagna pubblicitaria per attaccare l’accordo coll’Iran del presidente Obama».Altro outsider temibile, anche Ted Cruz ha contestato a Obama l’accordo con l’Iran. In più, si batte per tagliare i fondi a “Planned Parenthood”, i pro-abortisti ufficiali. Tra i suoi sponsor figurano la banca nazionale Woodforest, Morgan Lewis Llp, poi Gibson, Dunn & Crutcher, Pachulski e Stang, la Jennmar Corporation. «La campagna di Ted Cruz ha in realtà quattro “Super-Pac”, tutti finanziati da Robert Mercer, un magnate di Long Island (fondi d’investimento), negazionista del cambiamento climatico», spiega Anderson. «Insieme, hanno raccolto 31 milioni nelle prime quattro settimane della sua campagna». Hanno contribuito la rete politica dei fratelli Koch nonché i miliardari Farris e Dan Wilks, che devono la loro ricchezza al boom del fracking in Texas. Si rivolge invece agli elettori afroamericani il neurochirurgo Ben Carson, l’uomo nuovo dei repubblicani: «Ha sorpreso tutti suggerendo che se George W. Bush avesse iniziato un abbandono del petrolio sulla scia dell’11 Settembre, prendendo l’iniziativa diplomatica piuttosto che quella degli attacchi militari, la nazione poteva essersi evitata una guerra incredibilmente costosa contro il terrore».Con i suoi numeri da sondaggio in aumento, scrive Anderson, molti esperti si chiedono ora se Carson possa essere sfruttato come vicepresidente (di Jeb Bush, ovviamente). Carson è sostenuto da Coca-Cola, West Coast Venture Capital, Trailiner Corp, Ankom Tecnologia, Jea Senior Living. Il “dark money” proviene da “OneVote”, un “Super-Pac” guidato dallo stratega repubblicano Andy Yates, e da un altro cartello, “Run Ben Run”. Recentemente, Carson «ha raddoppiato la retorica anti-musulmana, che sembra aver portato le sue cifre raccolte ancora più in alto, innalzandole a 20 milioni in questo trimestre». Zero trasparenza sui fondi, ma non mancano informazioni indicative: pare che l’84% dei finanziamenti provenga da una folla di micro-donatori, assegni sotto i 500 dollari. Molto differenziato – ed estramamente “etico”, se paragonato agli altri – è il finanziamento di Bernie Sanders, l’unico democratico finora sceso in campo contro la Clinton. Socialista, capace di infiammare i progressisti, è finanziato quasi solo da sindacati, lavoratori, associazioni di categoria. Gli scettici temono che, come Obama, non avrebbe i muscoli necessari a opporsi al vero potere, Wall Street e il complesso militare-industriale.Oltre al libertario indipendente Rand Paul, con appena 3 milioni di dollari in tasca (e quindi ritenuto in procinto di abbandonare la gara), nelle retrovie repubblicane si muovo candidati minori, ancora in corsa, come Chris Christie, data all’1% nei sondaggi eppure forte di un budget di 11 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori figura la Winecup-Gamble, società del Nevada di proprietà dell’ex Ceo di Reebok, Paul Fireman, che ha dato al gruppo un milione di dollari. «Fireman, che vive vicino Boston, prevede un fantasmagorico profitto di 4,6 miliardi dai casinò a Jersey City se gli elettori dello Stato approveranno un emendamento costituzionale per permettere il gioco d’azzardo anche fuori Atlantic City». Altri supporter di Chris Christie sono Stephen Wynn, magnate dei casinò di Las Vegas, Steve Cohen (maganer di hedge funds), l’imperatrice del wrestlig Linda McMahon e la numero uno di Hewlett-Packard, Meg Whitman. Stesso budget (11 milioni) per John Kasich, governatore dell’Ohio, mentre è più povero il portafoglio di Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas (3 milioni), così come quello di Carly Fiorina (1,6 milioni); presidente di Hp ed esponente dell’ultra-destra, la Fiorina è sostenuta dall’ex finanziere d’assalto Tom Perkins nonché da vari campioni della Silicon Valley, come Paul Otellini (già Intel) e Jerry Perenchio (ex Ceo di Univision).«Come potete vedere – conclude Jake Anderson – le elezioni presidenziali 2016 sono, per la maggior parte, una guerra tra donatori aziendali a tutto campo». Secondo l’analista, è importante ricordare che molti di questi “totali” sono già obsoleti, giacchè i team dei candidati possono strategicamente nascondere le quantità donate, grazie alle nuove disposizioni di legge per proteggere la raccolta fondi da qualsiasi legittima curiosità. «Insomma, noi non conosciamo la reale portata del “denaro oscuro”», derivante dal cosiddetto “non profit” e da associazioni imprenditoriali. «Quello che sappiamo è che questa sarà l’elezione più costosa della storia. I fratelli Koch da soli hanno un budget di 889 milioni di dollari. Una volta aggiunto alla spesa prevista dai democratici e dai repubblicani, stiamo parlando di un ticket totale di circa 5 miliardi di dollari».Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?