Archivio del Tag ‘arroganza’
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Paragone: Trump, una dura lezione per Merkel e Juncker
Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.Stiamo facendo di tutto per scrollarci di dosso le catene tedesche e vogliamo già indossare di nuovo la giubba americana? E perché? La crisi europea si sta producendo perché i cittadini non hanno più voglia di essere qualcosa d’altro rispetto a quello che sono. L’elemento centrale della disgregazione eurocratica è il senso di identità, il senso di appartenenza. La nostra cultura è ancora pregna di civiltà mediterranea, cioè di un luogo stupendo dove il tempo si è evoluto in storia e la storia è diventata adulta. Quel Mediterraneo è il nostro orgoglio, il nostro punto d’appoggio dove ripartire, è il nostro fulcro dove piazzare la leva e scardinare quanto di stupido questa eurofollia ha materializzato con l’aiuto di imbroglioni travestiti da analisti, esperti o, peggio, da sognatori. L’Europa non sarà mai la nostra casa fintanto che non torna a Canossa, cioè nel suo mar Mediterraneo, crocevia di imbroglioni e geni.Lo scrivo da troppo tempo per poter adesso crogiolarmi nella vittoria di uno che resta lontano anni luce da me. Spero per gli americani che faccia quel bene che ha promesso loro (ho dei dubbi…) ma Trump non è un modello che posso permettermi per ricostruire. Avevamo bisogno del superbowl elettorale per intuire che il ceto medio è in profonda difficoltà? Avevamo bisogno del successo del candidato repubblicano per certificare l’arroganza dell’establishment? O che la gente si è rotta dei politici? Stiamo freschi se così fosse. La crisi del ceto medio è colpa del modello di sviluppo esportato dagli americani, un modello a debito. Noi non siamo gli americani; meno male, aggiungo. Noi siamo qua, in un’altra parte del globo che è un mondo a parte. Un mondo che resta centrale. Che guarda alla sponda americana ma non può fare a meno di escludere il Nordafrica o quel Medio Oriente i cui codici fanno parte della nostra storia (Palermo, Venezia, Ravenna…). E non può fare a meno di intrecciare alleanze con la Russia, più vicina di quanto pensiamo.Noi insomma dovremmo imparare a ributtare lo sguardo su noi stessi. La vittoria di Trump è una occasione d’oro perché indebolisce i burocrati di Bruxelles, la Merkel, toglie alla Francia gauchista quell’alleato stupido che ha incasinato il Maghreb, Libia in testa. Trump rafforza l’asse naturale con la Gran Bretagna così che i britannici post Brexit avranno un mercato privilegiato da opporre ai ricattini di Juncker. Insomma, Trump è il perfetto inciampo che può rimettere in ordine le caselle. E’ quell’impazzimento della politica che rende possibile persino l’impossibile rovesciamento della prima legge dell’entropia.Ma da qui a definirci trumpiani no.(Gianluigi Paragone, “Trump presidente Usa, con il cavolo che mi sento trumpiano!”, dal “Fatto Quotidiano” del 14 novembre 2016).Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.
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Questo è un golpe di fatto, e va fermato con il nostro No
Mentre Obama sbaracca, la pacchiana cena di propaganda alla Casa Bianca conclude la sua disastrosa presidenza su una nota particolarmente squallida. Come Verdini e Alfano anche Obama sostiene la riforma renziana. L’appoggio del Supercazzaro degli Stati Uniti uscente, anzi ormai quasi uscito, potrebbe però essere controproducente per il sì almeno quanto quelli della Merkel, e della finanza internazionale. La riforma renziana, che sapeva chiaramente di sóla fin dall’inizio, adesso ha la stessa credibilità d’un farmaco consigliato da una ditta di pompe funebri. Non ci sono più dubbi su chi siano i mandanti di Renzi: abbiamo le rivendicazioni. Anche il fronte opposto ha purtroppo qualche Captain Boomerang, Monti, D’Alema, Brunetta, la Suicide Squad del no: un gruppo di bastardi costretti dalle circostanze a combattere dalla parte giusta, contro un bastardo ancora peggiore. Per quanto sia difficile immaginarsi Giorgia Meloni nei panni di Harley Quinn, la vittoria del no rimane comunque più che mai necessaria.L’endorsement di Obama al sì di Renzi è infatti direttamente condizionato all’impegno militare italiano in Libia e in Lettonia. Il no alla truffaldina riforma renziana è quindi anche un indispensabile no alla dissennata deriva neocoloniale. Un no alla guerra. Non a caso una delle modifiche, della quale il governo non parla, riguarda proprio l’articolo 78, che cambierebbe così: «Art. 78. – La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari». Con l’Italicum, il partito che vince il ballottaggio ottiene automaticamente la maggioranza assoluta alla Camera, quindi sia il governo, che il potere esclusivo di dichiarare guerra indisturbato come un monarca assoluto. Questo è un golpe di fatto, e deve essere fermato.Per la prima volta da anni un nostro voto potrà davvero fare la differenza. E non certo per merito dell’attuale classe dirigente, è la Costituzione che vuole rottamare a prevedere questo obbligatorio passaggio referendario, un fail safe che Renzi non è riuscito ad aggirare, benché ci abbia provato col Patto del Nazareno. Per la prima, e probabilmente ultima volta abbiamo l’occasione di scaraventare la Boschituzione – Costituzione Boschi – nel cassonetto dell’indifferenziata al quale appartiene, e liberarci d’un governo di cazzari arroganti, incapaci, guerrafondai, completamente asserviti alla finanza internazionale e all’industria bellica, che è diventato anche fisicamente pericoloso. Perdere questa occasione per noi sarebbe il vero suicidio.(Alessandra Daniele, “Sbarack Oboomerang”, da “Megachip” del 23 ottobre 2016)Mentre Obama sbaracca, la pacchiana cena di propaganda alla Casa Bianca conclude la sua disastrosa presidenza su una nota particolarmente squallida. Come Verdini e Alfano anche Obama sostiene la riforma renziana. L’appoggio del Supercazzaro degli Stati Uniti uscente, anzi ormai quasi uscito, potrebbe però essere controproducente per il sì almeno quanto quelli della Merkel, e della finanza internazionale. La riforma renziana, che sapeva chiaramente di sóla fin dall’inizio, adesso ha la stessa credibilità d’un farmaco consigliato da una ditta di pompe funebri. Non ci sono più dubbi su chi siano i mandanti di Renzi: abbiamo le rivendicazioni. Anche il fronte opposto ha purtroppo qualche Captain Boomerang, Monti, D’Alema, Brunetta, la Suicide Squad del no: un gruppo di bastardi costretti dalle circostanze a combattere dalla parte giusta, contro un bastardo ancora peggiore. Per quanto sia difficile immaginarsi Giorgia Meloni nei panni di Harley Quinn, la vittoria del no rimane comunque più che mai necessaria.
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Craig Roberts: Hillary tutela l’1% che lucra sulla guerra
Hillary è il candidato dell’1% e Trump quello del 99%, che l’oligarchia vuole distruggere attraverso i media. Se pure vincesse Trump, poco potrebbe contro questo 1% affamato di potere che controlla i posti chiave a Washington e su cui né il popolo americano né gli alleati esteri, diventati ormai vassalli, esercitano più alcun controllo. Su “Counterpunch”, Paul Craig Roberts evidenzia l’assurdità della campagna presidenziale americana, che discute delle tasse di Trump invece della minaccia sempre più inevitabile di una guerra con la Russia scatenata dall’oligarchia al potere. «Cosa deve pensare il mondo guardando la campagna presidenziale americana? Nel corso del tempo le campagne politiche americane sono diventate più irreali e meno legate alle preoccupazioni degli elettori, ma quella attuale è così irreale da essere assurda», afferma Craig Roberts, già viceministro di Reagan. «La delocalizzazione dei posti di lavoro americani da parte delle multinazionali e la deregolamentazione del sistema finanziario degli Stati Uniti hanno portato al fallimento economico dell’America. Si potrebbe pensare che questo sia un argomento da campagna presidenziale».L’ideologia neo-conservatrice dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti li sta portando con i loro vassalli ad un conflitto con la Russia e la Cina, scrive Craig Roberts, in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. «I rischi di una guerra nucleare sono più alti che in qualsiasi altro momento nella storia». Questo sì, è «un argomento da campagna presidenziale». Invece, «i problemi sono l’uso legale delle leggi fiscali da parte di Trump e il suo atteggiamento non ostile verso il presidente russo Putin», al punto che «si potrebbe pensare che il problema sia l’atteggiamento estremamente ostile di Hillary verso Putin (“il nuovo Hitler”), che promette un conflitto con una grande potenza nucleare». Per quanto riguarda il giovarsi delle leggi fiscali, Pat Buchanan ha sottolineato che Hillary «ha utilizzato a suo vantaggio una deduzione grande quasi come quella di Trump». Durante gli anni in Arkansas, la Clinton «si è anche avvalsa di una detrazione fiscale su una lista di indumenti usati donati a un ente di beneficenza, tra cui 2 dollari per un paio di mutande usate da Bill».Il “dibattito” tra i vice-presidenti, poi, ha rivelato che il candidato del Partito Democratico «è così ignorante da pensare che Putin, che è democraticamente eletto e ha un enorme sostegno pubblico, è un dittatore». Questo, continua Craig Roberts, è quello che sappiamo sui due candidati alla presidenza. «Hillary ha una lunga lista di scandali, da Whitewater e Vince Foster a Bengasi e alla violazione dei protocolli per la sicurezza nazionale». La candidata democratica «è stata comprata e pagata dagli oligarchi di Wall Street, delle mega-banche e del complesso militare industriale, nonché da interessi stranieri». Prova ne sono «i 120 milioni di dollari del patrimonio personale dei Clinton e i 1.600 milioni di dollari della loro fondazione». In altre parole, «Goldman Sachs non ha pagato 675.000 dollari a Hillary per tre discorsi di 20 minuti per la saggezza che contenevano». Al contrario, «quello che sappiamo in merito a Trump è che l’oligarchia non lo sopporta e ha ordinato al Ministero della Propaganda, cioè i media statunitensi, di distruggerlo».Chiaramente, continua Craig Roberts, «Hillary è il candidato dell’1%, e Trump è il candidato del resto di noi». Purtroppo, però, «circa la metà del 99% è troppo stupida per conoscere tutto questo». Inoltre, «se Trump dovesse finire alla Casa Bianca, non significa che potrebbe prevalere sull’oligarchia», che infatti «è radicata a Washington e controlla cariche di politica economica ed estera, think tank e altri gruppi di lobbisti, e i media». Il popolo? «Non controlla nulla». E oggi, «cosa pensa il mondo quando vede condannare Donald Trump perché non vuole la guerra con la Russia o la delocalizzazione dell’economia americana?». E i “vassalli” di Washington – britannici, canadesi, australiani, giapponesi – dove vedono nella politica americana una leadership degna del sacrificio della loro sovranità e dell’indipendenza della loro politica estera? «Dove vedono anche solo un briciolo di intelligenza?». E ancora: «Perché il mondo guarda al governo più stupido, vigliacco, arrogante, corrotto e criminale del pianeta come una guida? La guerra è l’unica destinazione a cui Washington può condurre».Hillary è il candidato dell’1% e Trump quello del 99%, che l’oligarchia vuole distruggere attraverso i media. Se pure vincesse Trump, poco potrebbe contro questo 1% affamato di potere che controlla i posti chiave a Washington e su cui né il popolo americano né gli alleati esteri, diventati ormai vassalli, esercitano più alcun controllo. Su “Counterpunch”, Paul Craig Roberts evidenzia l’assurdità della campagna presidenziale americana, che discute delle tasse di Trump invece della minaccia sempre più inevitabile di una guerra con la Russia scatenata dall’oligarchia al potere. «Cosa deve pensare il mondo guardando la campagna presidenziale americana? Nel corso del tempo le campagne politiche americane sono diventate più irreali e meno legate alle preoccupazioni degli elettori, ma quella attuale è così irreale da essere assurda», afferma Craig Roberts, già viceministro di Reagan. «La delocalizzazione dei posti di lavoro americani da parte delle multinazionali e la deregolamentazione del sistema finanziario degli Stati Uniti hanno portato al fallimento economico dell’America. Si potrebbe pensare che questo sia un argomento da campagna presidenziale».
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Francia in tumulto: si prepara a minacciare l’uscita dall’Ue
Sei francesi su dieci voterebbero per uscire dall’Unione Europea. Lo dicono i sondaggi, all’indomani del Brexit, in una Francia devastata dall’opaco terrorismo targato Isis. Protefa in patria, il professor François Heisbourg, presidente dell’istituto di studi strategici di Parigi, in un saggio di tre anni fa anticipò “La Fine del Sogno Europeo”. Sosteneva che il «cancro dell’euro» dovesse essere estirpato per salvare quel che resta del progetto europeo: «Il sogno è diventato un incubo. Non ci basterà negare la realtà per evitarlo, e Dio sa quanto la negazione sia stato il modo di operare delle istituzioni europee per lungo tempo». Heisbourg è stato ignorato, rileva Ambrose Evans-Pritchard, ma gli eventi si stanno svolgendo esattamente come lui temeva. Nel centrodestra, Sarkozy annuncia una grande svolta anti-Ue con la quale spera di contendere voti a Marine Le Pen. E dal centrosinistra, l’ex ministro Montebourg sfida apertamente Hollande, dichiarando che ormai i trattati europei sono da considerarsi carta straccia: la Francia non può più continuare a prendere ordini da Bruxelles.La lunga crisi economica in cui è sprofondata la Francia sta per riscuotere il suo tributo, politicamente parlando: «Ha mandato in pezzi prima il centrodestra e poi il centrosinistra francese, e ora minaccia la stessa Quinta Repubblica», scrive Evans-Pritchard sul “Telegraph”, in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. L’ex presidente gollista Nicolas Sarkozy è tornato alla ribalta mediatica «lanciando la scommessa del proprio ritorno sulla scena con la proposta di un pacchetto di politiche di ultra-destra mai viste in tempi recenti nelle democrazie europee occidentali». Ma il tumulto nella sinistra è altrettanto rivelatore: Arnaud Montebourg, l’enfant terrible del partito socialista, ha lanciato la propria sfida contro il governo Hollande, definito «regime politico da destra tedesca». Nel mirino, Bruxelles: «Penso che l’Unione Europea sia arrivata a fine corsa, e la Francia non ha più alcun interesse a farvi parte. L’Unione Europea ci ha lasciati impantanati in una crisi anche molto tempo dopo che il resto del mondo ne era uscito». Montebourg chiede una sospensione unilaterale delle leggi europee sul lavoro: «Per quanto mi riguarda, gli attuali trattati sono scaduti». E annuncia uno “sciopero” contro l’Ue: «Non possiamo più accettare questa Europa».In altre parole, spiega Evans-Pritchard, Montebourg «se ne vuole andare da dentro – come stanno già facendo la Polonia e l’Ungheria – cioè senza sollevare nessuna clausola tecnica o legale». E la sua accusa contro Hollande è devastante: le politiche di rigore hanno inevitabilmente portato a milioni di persone disoccupate. «Non si sono mai smossi dal loro catechismo e dalle loro false certezze», dice Montebourg. I socialisti hanno pagato un prezzo salato per la loro cieca arroganza: hanno ottenuto solo il 15% dei voti dalla classe lavoratrice nelle recenti elezioni, mentre il Front National di Marine Le Pen ha mietuto il 55%. La doppia contrazione – fiscale e monetaria – ha gettato la già prostrata economia dell’Eurozona in una seconda recessione, osserva Evans-Pritchard. «Tutto ciò è stato aggravato da una stretta fiscale che è andata ben oltre qualsiasi possibile dose terapeutica, ed è stata imposta da un ministro delle finanze tedesco accecato da un’ideologia pre-moderna», il terribile Wolfgang Shaeuble, «e seguita servilmente da tutti gli altri». Ed ecco il punto: «La Francia avrebbe forse potuto mobilitare una maggioranza di paesi europei per bloccare questa follia, ma né Sarkozy né Hollande sono stati disposti ad affrontare Berlino».Entrambi i presidenti francesi «sono rimasti legati religiosamente all’accordo franco-tedesco, o almeno alla sua illusione totemica». Il risultato? «Un decennio perduto, e una retrocessione del lavoro che ridurrà le prospettive di crescita dell’Eurozona per molti anni ancora». Osserva ancora il giornalista economico inglese: «Non sapremo mai se la disoccupazione giovanile di massa nei quartieri nordafricani delle città francesi ha avuto un ruolo nella diffusione della metastasi jihadista lo scorso anno, ma certamente è stato uno degli ingredienti». Per contro, la tendenza anti-Ue che ormai investe trasversalmente la Francia dimostra che, se la “regia occulta” del terrorismo mirava a ottenere la rassegnazione dei francesi anche rispetto alle misure più impopolari dettate dall’élite finanziaria, come la Loi Travail, il Jobs Act transalpino, i francesi non ci stanno. Anche perché l’analisi della situazione è deprimente: «L’austerità fiscale è terminata, ma l’economia francese non è ancora abbastanza forte da risolvere le patologie sociali che tormentano il paese. Nel secondo trimestre la crescita è ritornata a zero».Per Evans-Pritchard, «il grande danno politico, comunque, si è già consumato: non serve aggiungere che la Francia ha anche una serie di problemi economici che non c’entrano con l’Ue. Il modello sociale è basato su tasse punitive sull’occupazione e crea uno dei peggiori cunei fiscali al mondo. Appena un quarto dei francesi tra i 60 e i 64 anni lavorano, rispetto al 40% della media Ocse. Questo è dovuto a incentivi per il pensionamento precoce. Lo Stato spende il 56% del Pil, cioè l’equivalente dei paesi nordici, senza però avere la flessibilità del lavoro che c’è nei paesi nordici». E ancora: «Ci sono 360 diverse tasse, alcune delle quali in vigore da prima della Rivoluzione Francese. I sindacati hanno per legge un presidio in tutte le aziende oltre i 50 dipendenti, eppure hanno un tasso di partecipazione di appena il 7%». Per Brigitte Granville, economista alla Queen Mary University di Londra, «è un inferno che purtroppo non ha nemmeno la poesia di Dante». Di fatto, «si è tergiversato per tutti gli anni del boom dell’euro e ora è troppo tardi. Ora la Francia è intrappolata nella camicia di forza dell’unione monetaria». Secondo il Fmi, il tasso di cambio reale è sopravvalutato del 9% (e rispetto alla Germania del 16%). «L’unico modo pratico con cui la Francia può riguadagnare competitività è tramite una profonda deflazione rispetto al resto dell’Eurozona, ma questo prolungherebbe la crisi e sarebbe devastante per il Pil e la dinamica del debito. Sarebbe autolesionista».Per Evans-Pritchard, Montebourg ha ragione a concludere che la Francia sarà paralizzata fino a che non riprenderà gli strumenti della propria sovranità. Quanto a Sarkozy, sta «aggirando questo elemento essenziale». Il suo manifesto-shock «chiede la fine del primato legale Ue rispetto alla legge francese e chiede l’abrogazione del Trattato di Lisbona, quello stesso trattato che lui, Sarkozy, aveva introdotto con prepotenza al Parlamento francese dopo che era stato respinto dagli elettori francesi in un referendum sotto la guisa di “Costituzione Europea”». Ma il suo maggior ardore, continua Evans-Pritchard, è riservato alla guerra culturale e alla “riduzione drastica” del numero degli stranieri. «Sarkozy promette di porre sotto controllo l’Islam in Francia, con gli imam che dovrebbero riferire le proprie attività al ministero degli interni». L’appello di Sarkozy alla “identità francese” punta direttamente al Front National, «e questo dice molto sulla devastazione dello scenario politico dopo anni di depressione».Marine Le Pen è davanti a Sarkozy nei sondaggi, con un sostegno dell’elettorato vicino al 30% grazie a un impetuoso mix di ricette economiche di sinistra e nazionalismo di destra, con un richiamo diretto agli anni ’30. Ha promesso di «far finire l’incubo dell’Unione Europea». Un sondaggio Pew risalente a giugno svela il 61% degli elettori francesi ha un’opinione “sfavorevole” dell’Ue, un dato addirittura più alto che in Gran Bretagna. Il professor Thomas Guénolé della “Sciences Po” di Parigi avverte: «Per quanto possa sembrare incredibile, un referendum sul ‘Frexit’ verrebbe probabilmente perso dalla fazione europea. Come nel Regno Unito, il ‘leave’ vincerebbe». Per “Le Figaro”, il Brexit ha cambiato profondamente la situazione: «I sostenitori della costruzione europea avevano preso l’abitudine di difendere l’Europa con argomenti catastrofisti, con l’idea che l’uscita avrebbe provocato nuove guerre o collassi economici. Ma ora la Gran Bretagna sta uscendo ed è evidente che non avverrà nessun cataclisma economico e nessuna grossa crisi geopolitica».Sei francesi su dieci voterebbero per uscire dall’Unione Europea. Lo dicono i sondaggi, all’indomani del Brexit, in una Francia devastata dall’opaco terrorismo targato Isis. Protefa in patria, il professor François Heisbourg, presidente dell’istituto di studi strategici di Parigi, in un saggio di tre anni fa anticipò “La Fine del Sogno Europeo”. Sosteneva che il «cancro dell’euro» dovesse essere estirpato per salvare quel che resta del progetto europeo: «Il sogno è diventato un incubo. Non ci basterà negare la realtà per evitarlo, e Dio sa quanto la negazione sia stato il modo di operare delle istituzioni europee per lungo tempo». Heisbourg è stato ignorato, rileva Ambrose Evans-Pritchard, ma gli eventi si stanno svolgendo esattamente come lui temeva. Nel centrodestra, Sarkozy annuncia una grande svolta anti-Ue con la quale spera di contendere voti a Marine Le Pen. E dal centrosinistra, l’ex ministro Montebourg sfida apertamente Hollande, dichiarando che ormai i trattati europei sono da considerarsi carta straccia: la Francia non può più continuare a prendere ordini da Bruxelles.
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Ce l’hai con Matteo? Ti spezzano le gambe, su Internet
Bene, ora lo sappiamo: Matteo Renzi e Filippo Sensi possono contare su un esercito invisibile. Che c’è per loro ma non c’è per il pubblico. Un esercito composto da un numero imprecisato di blogger incaricato di battere il web per sostenere le posizioni del premier e denigrare quelle degli oppositori. Il tutto sotto mentite spoglie. Già perché i guerrieri del web , ma sarebbe meglio chiamarli i “picchiatori del web”, mica dichiarano la propria appartenenza politica. Si presentano come normali internauti, appassionati di politica che passano ore su Facebook, su Twitter, sui blog a duellare con foga, per creare l’onda pro Renzi o spezzare quella anti Renzi. Roba da professionisti. La notizia del “Fatto Quotidiano” di qualche giorno fa, in cui si narra che Filippo Sensi ha invitato a “menare Di Battista sulla Libia” non è un fatto di colore, non è un colpo di sole estivo come è stato trattato dai giornali, che hanno evidenziato come il portavoce si sia sbagliato di chat, scrivendo il messaggio su quella usata per mandare comunicati ufficiali ai giornalisti. E’ ben più grave.Benché Sensi si sia premurato di fornire una spiegazione, che peraltro non ha convinto nessuno, è evidente che pensava di scrivere su un’altra chat, molto riservata, molto verosimilmente quella in cui i finti blogger aspettano il messaggio del giorno per poi colpire sul web. Costruire ma soprattutto distruggere. Senza pietà. Idee, ma anche persone. In questo caso Di Battista. Fino a pochi mesi fa Casaleggio. Da sempre Salvini. E occasionalmente Berlusconi. In ogni caso chi si oppone alla volontà del Narciso di Rignano. Dirige il Maestro Sensi. Ma come, penserete voi, il portavoce di un primo ministro fa queste cose? Non dovrebbe rappresentare tutti gli italiani, nel rispetto di un mandato che è comunque istituzionale? Certo che dovrebbe. Ma quando ci sono di mezzo gli spin doctor tutto diventa relativo e opinabile. Quel che conta è l’obiettivo, che va raggiunto ad ogni costo. Sia chiaro: lo fanno anche altrove, in Francia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, paesi imbevuti di spin, ma dove si cerca di salvaguardare le apparenze, anche solo per tutelare il presidente o il premier.A occuparsi di queste utilissime ma poco presentabili attività non è mai direttamente il portavoce del presidente o del premier, bensì qualcuno che fa da filtro e che, nell’improbabile ipotesi che la stampa se ne accorga, possa essere sacrificato. Quel che colpisce di Renzi e del suo spin doctor Sensi è l’arroganza, è la sfacciataggine, è la certezza di non essere denunciati dai giornalisti. Altrove nessun premier si permetterebbe di minacciare direttori di giornali con frasi del tipo “ti spezzo le gambe”, di inviare sms intimidatori, di occupare la Rai per spegnere qualunque voce di dissenso e, a quanto pare, persino la libertà di satira. Nessun portavoce riuscirebbe a rimediare alla gaffe della chat con una battuta, peraltro poco riuscita e per nulla credibile. In Italia, nell’Italia di Renzi, invece è pratica corrente. Sanno, Matteuccio e il suo abile propagandista, che la maggior parte dei giornalisti, con poche lodevoli eccezioni, preferirà tacere, per convenienza, anziché battere i pugni sul tavolo. Solo dopo, solo quando Renzi, nonostante l’overdose di spin, sarà finito, tuoneranno. Dopo, quando non c’è nulla da rischiare.(Marcello Foa, “Renzi e i picchiatori del web, una verità imbarazzante”, dal blog “Il cuore del mondo” su “Il Giornale” dell’11 agosto 2016).Bene, ora lo sappiamo: Matteo Renzi e Filippo Sensi possono contare su un esercito invisibile. Che c’è per loro ma non c’è per il pubblico. Un esercito composto da un numero imprecisato di blogger incaricato di battere il web per sostenere le posizioni del premier e denigrare quelle degli oppositori. Il tutto sotto mentite spoglie. Già perché i guerrieri del web , ma sarebbe meglio chiamarli i “picchiatori del web”, mica dichiarano la propria appartenenza politica. Si presentano come normali internauti, appassionati di politica che passano ore su Facebook, su Twitter, sui blog a duellare con foga, per creare l’onda pro Renzi o spezzare quella anti Renzi. Roba da professionisti. La notizia del “Fatto Quotidiano” di qualche giorno fa, in cui si narra che Filippo Sensi ha invitato a “menare Di Battista sulla Libia” non è un fatto di colore, non è un colpo di sole estivo come è stato trattato dai giornali, che hanno evidenziato come il portavoce si sia sbagliato di chat, scrivendo il messaggio su quella usata per mandare comunicati ufficiali ai giornalisti. E’ ben più grave.
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Lo spettro dei Balcani e la rivoluzione da fare contro l’Ue
“L’inglese se n’è gghiuto e soli n’ha lasciati”. Non credevo nella Brexit, pensavo che solo un popolo di ubriachi poteva decidere una simile autolesionistica catastrofe. Dimenticavo che gli inglesi sono per l’appunto un popolo di ubriachi. Scherzo, naturalmente, dato che non credo nell’esistenza dei popoli. Ma credo nella lotta di classe, e la decisione degli operai inglesi di affondare definitivamente l’Unione Europea è un atto di disperazione che consegue alla violenza dell’attacco finanzista che da anni impoverisce i lavoratori di tutto il continente e anche di quell’isola del cazzo. La City si preparava a festeggiare l’ennesima vittoria della finanza, e invece l’hanno spuntata i proletari resi nazionalisti dalla disperazione (e dalla patetica arroganza imperialista bianca). Ma non possiamo liquidare come fasciste le motivazioni di coloro che vogliono uscire dalla trappola europea, visto che è ormai dimostratissimo che l’Unione Europea non è (e non è mai stato) altro che un dispositivo di impoverimento della società, precarizzazione del lavoro e concentrazione del potere nelle mani del sistema bancario.Gran parte di quelle motivazioni sono comprensibili, tant’è vero che la maggior parte dei “leave” proviene dalle aree operaie mentre le forze del finanzismo davano per certa la vittoria alla faccia di chi in nome dei “valori europei” si fa derubare il salario. Ma il problema non sta nelle motivazioni, il problema sta nelle conseguenze. L’Unione Europea non esiste più da tempo, almeno dal luglio del 2015, quando Syriza è stata umiliata e il popolo greco definitivamente sottomesso. Ci occorre forse un’Europa più politica come dicono ritualmente le sinistre al servizio delle banche? Sono anni che crediamo nella favoletta dell’Europa che deve diventare più politica e più democratica. Ci siamo caduti anche noi, mi spiace dirlo, ma non è mai stato vero. L’Unione europea è una trappola finanzista da Maastricht in poi.Un articolo di Paolo Rumiz (“Come i Balcani”) uscito il 23 su “La Repubblica” dice una cosa che a me pareva chiara da tempo: il futuro d’Europa è la Yugoslavia del 1992. Rumiz lo dice bene, solo che dimentica il ruolo che la Deutsche Bank svolse nello spingere gli yugoslavi verso la guerra civile (e Wojtyla fece la sua parte). Ora credo che dobbiamo dirlo senza tanti giri di parole: il futuro d’Europa è la guerra. Il suo presente è già la guerra contro i migranti che già è costata decine di migliaia di morti e innumerevoli violenze. Forse suona un po’ antico, ma per me resta vero che il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta. Cosa si fa in questi casi? Si ferma la guerra, si impongono gli interessi della società contro quelli della finanza? Naturalmente sì, quando questo è possibile. Ma oggi fermare la guerra non è più possibile perché la guerra è già in corso, anche se per il momento a morire sono centinaia di migliaia di migranti in un Mediterraneo in cui l’acqua salata ha sostituito lo Zyklon-B.I movimenti sono stati distrutti uno dopo l’altro. E allora?, allora si passa all’altra parte dell’adagio leniniano (segnalo per chi avesse qualche dubbio che non sono mai stato leninista e non intendo diventarlo). Si trasforma la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Cosa vuol dire? Non lo so, e nessuno può saperlo, oggi. Ma nei prossimi anni credo che dovremo ragionare solo su questo. Non su come salvare l’Unione Europea, che il diavolo se la porti. Non su come salvare la democrazia che non è mai esistita. Ma su come trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Pacifica e senz’armi, se possibile. Guerra dei saperi autonomi contro il comando e la privatizzazione. Ma insomma, non porto il lutto perché gli inglesi se ne vanno. Ho portato il lutto quando i greci sono stati costretti a rimanere a quelle condizioni (e adesso che ne sarà di loro?). Cent’anni dopo l’Ottobre, mi sembra che il nostro compito sia chiederci: cosa vuol dire Ottobre nell’epoca di Internet, del lavoro cognitivo e precario? Il precipizio che ci attende è il luogo in cui dobbiamo ragionare su questo.(Franco “Bifo” Berardi, “L’inglese se n’è gghiuto”, da “Alfabeta 2” del 28 giugno 2016).“L’inglese se n’è gghiuto e soli n’ha lasciati”. Non credevo nella Brexit, pensavo che solo un popolo di ubriachi poteva decidere una simile autolesionistica catastrofe. Dimenticavo che gli inglesi sono per l’appunto un popolo di ubriachi. Scherzo, naturalmente, dato che non credo nell’esistenza dei popoli. Ma credo nella lotta di classe, e la decisione degli operai inglesi di affondare definitivamente l’Unione Europea è un atto di disperazione che consegue alla violenza dell’attacco finanzista che da anni impoverisce i lavoratori di tutto il continente e anche di quell’isola del cazzo. La City si preparava a festeggiare l’ennesima vittoria della finanza, e invece l’hanno spuntata i proletari resi nazionalisti dalla disperazione (e dalla patetica arroganza imperialista bianca). Ma non possiamo liquidare come fasciste le motivazioni di coloro che vogliono uscire dalla trappola europea, visto che è ormai dimostratissimo che l’Unione Europea non è (e non è mai stato) altro che un dispositivo di impoverimento della società, precarizzazione del lavoro e concentrazione del potere nelle mani del sistema bancario.
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Ciao Usa, meglio la Cina: ecco il Brexit. L’Ue? E’ già finita
«Nessuno sembra capire le conseguenze della decisione britannica di lasciare l’Unione Europea: la separazione dei britannici dalla Ue non si farà affatto lentamente, perché l’Unione crollerà più velocemente rispetto al tempo necessario alle trattative burocratiche per l’uscita della Gran Bretagna». Così la vede il giornalista Thierry Meyssan, analista internazionale. Tesi: al netto del chiasso dei “populismi” alla Farage, il voto inglese è stato voluto da chi comanda a Londra, che ha ormai capito che il tempo del dominio Usa – di cui Bruxelles è una succursale – è ormai al tramonto. Meglio allora sbaraccare, tenendosi le mani libere per essere i primi, in Europa, a chiudere un accordo strategico col nuovo vincitore, la Cina. La posta in gioco non ha nulla a che fare con le polemiche sull’immigrazione: «Il divario tra la realtà e il discorso politico-mediatico illustra la malattia di cui soffrono le élites occidentali: la loro incompetenza». Ancora nel 1989, il Pcus non “vedeva” il crollo del Muro di Berlino. Poi vennero la fine del Comecon e del Patto di Varsavia, il collasso dell’Urss. «In un futuro assai prossimo assisteremo in modo identico alla dissoluzione dell’Unione Europea e della Nato e – se non staranno abbastanza attenti – allo smantellamento degli Stati Uniti».A differenza delle spacconate di Nigel Farage, l’Ukip non è all’origine del referendum che ha appena vinto, scrive Meyssan su “Megachip”. «Questa decisione è stata imposta a David Cameron da membri del partito conservatore: per loro, la politica di Londra deve essere un adattamento pragmatico al mondo che cambia. Questa “nazione di bottegai”, come la definiva Napoleone, osserva che gli Stati Uniti non sono più né la più grande economia del mondo, né la prima potenza militare. Non hanno dunque più motivo di essere i loro partner privilegiati». Proprio come Margaret Thatcher non ha esitato a distruggere l’industria britannica per trasformare il suo paese in un centro finanziario globale, continua Meyssan, allo stesso modo «questi conservatori non hanno esitato ad aprire la via all’indipendenza della Scozia e dell’Irlanda del Nord, e quindi alla perdita del petrolio del Mare del Nord, per fare della City il primo centro finanziario “off shore” dello yuan».La campagna per il Brexit è stata ampiamente sostenuta dalla Gentry e da Buckingham Palace, che hanno mobilitato la stampa popolare per fare appello a ritornare all’indipendenza. E, contrariamente a quanto spiega la stampa europea, la separazione dei britannici da Bruxelles avverrà alla velocità della luce, cioè prima che possa crollare la stessa Unione Europea. Meyssan insiste con il paragone con l’Urss, che si afflosciò in un amen, una volta iniziato il movimento centrifugo. «Gli Stati membri della Ue che si aggrappano ai rami e continuano a salvare quel che resta dell’Unione non riusciranno ad adattarsi alla nuova situazione, con il rischio di sperimentare le convulsioni dolorose dei primi anni della nuova Russia: caduta vertiginosa del livello di vita e della speranza di vita». E ancora: «Tutti credono, a torto, che il Brexit apra una breccia in cui gli euroscettici andranno a introdursi». Ma il Brexit è solo «una risposta al declino degli Stati Uniti».Il Pentagono, che prepara il vertice Nato a Varsavia, «non ha capito che non era più in grado di imporre ai suoi alleati di sviluppare il loro bilancio della difesa e di sostenere le sue avventure militari». Il dominio di Washington nel mondo è terminato? «Quel che abbiamo è un cambiamento d’epoca».La caduta del blocco sovietico, continua Meyssan, è stata dapprima la morte di una visione del mondo: i sovietici e i loro alleati volevano costruire una società solidale in cui si mettessero quante più cose possibili in comune. Ma hanno avuto «una burocrazia titanica e dei dirigenti necrotizzati». Il Muro di Berlino? «Non è stato abbattuto da anti-comunisti, ma da una coalizione di giovani comunisti e di Chiese luterane. Intendevano rifondare l’ideale comunista liberato dalla tutela sovietica, dalla polizia politica e dalla burocrazia. Sono stati traditi dalle loro élites che, dopo aver servito gli interessi dei sovietici si sono precipitate con tanto ardore a servire quelli degli statunitensi». Oggi, gli elettori del Brexit più impegnati cercano in primo luogo di riguadagnare la loro sovranità nazionale e di far pagare ai leader dell’Europa occidentale l’arroganza di cui hanno dato ampia prova con l’imposizione del Trattato di Lisbona dopo il rifiuto popolare della Costituzione europea (2004- 07). Potrebbero anche essere delusi da ciò che seguirà, sostiene Meyssan. «Il Brexit segna la fine della dominazione ideologica degli Stati Uniti, quella della democrazia al ribasso delle “quattro libertà”», indicate da Roosevelt nel 1941: libertà di parola e di espressione, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura di un’aggressione straniera. «Se gli inglesi risaliranno alle loro tradizioni, gli europei continentali ritroveranno gli interrogativi delle rivoluzioni francese e russa sulla legittimità del potere, e rovesceranno le loro istituzioni a rischio di veder risorgere il conflitto franco-tedesco».Qualcosa di tellurico sta già avvenendo in Francia, dove i sindacati rifiutano il disegno di legge sul lavoro redatto dal governo Valls sulla base di un rapporto dell’Unione Europea, a sua volta ispirato dalle istruzioni del Dipartimento di Stato Usa. «Se la mobilitazione della Cgt ha permesso ai francesi di scoprire il ruolo dell’Ue in questo caso, non hanno ancora colto in cosa consista l’articolazione Ue-Usa. Hanno capito che invertendo le norme e mettendo i contratti aziendali al di sopra dei contratti di settore, il governo rimetteva in realtà in questione la preminenza della legge sul contratto, ma ignorano la strategia di Joseph Korbel e dei suoi due figli, la sua figlia naturale democratica Madeleine Albright e la sua figlia adottiva repubblicana Condoleezza Rice. Il professor Korbel affermava che, per dominare il mondo, era sufficiente che Washington imponesse una riscrittura delle relazioni internazionali secondo termini giuridici anglosassoni. In effetti, nel porre il contratto al di sopra della legge, il diritto anglosassone privilegia nel lungo periodo i ricchi e i potenti in rapporto ai poveri e ai miserabili».È probabile che i francesi, gli olandesi, i danesi e altri ancora cercheranno di rompere con l’Unione europea, continua Meyssan. «Dovranno per tutto ciò affrontare la loro classe dirigente. Se la durata di questa lotta è imprevedibile, il risultato non lascia più dubbi». Quanto alla Gran Bretagna, potrebbe essere Boris Johnson a gestire la transizione, che sarà rapidissima: «Il Regno Unito non aspetterà la sua uscita definitiva dalla Ue per gestire la propria politica. A cominciare dal dissociarsi dalle sanzioni prese contro la Russia e la Siria». A differenza di quel che scrive la stampa europea, la City di Londra non è direttamente influenzata dal Brexit: «Dato il suo status speciale di Stato indipendente sotto l’autorità della Corona, non ha mai fatto parte dell’Unione Europea». E così «potrà utilizzare la sovranità di Londra per sviluppare il mercato dello yuan». Già ad aprile, annota Meyssan, la City ha ottenuto i privilegi necessari firmando un accordo con la Banca centrale della Cina. «Inoltre, dovrebbe sviluppare le sue attività di paradiso fiscale per gli europei».Se il Brexit disorganizzerà temporaneamente l’economia britannica in attesa di nuove regole, è probabile che il Regno Unito – o almeno l’Inghilterra – si riorganizzerà rapidamente ottenendo il massimo profitto. «La domanda è se chi ha concepito questo terremoto avrà la saggezza di far arrivare dei benefici al proprio popolo: il Brexit è un ritorno alla sovranità nazionale, non garantisce la sovranità popolare», conclude Meyssan. «Il panorama internazionale può evolvere in modi molto diversi a seconda delle reazioni che seguiranno. Anche se questo dovesse andare male per alcune persone, è sempre meglio attenersi alla realtà come fanno i britannici, anziché persistere a stare in un sogno fino a quando questo non va in pezzi».«Nessuno sembra capire le conseguenze della decisione britannica di lasciare l’Unione Europea: la separazione dei britannici dalla Ue non si farà affatto lentamente, perché l’Unione crollerà più velocemente rispetto al tempo necessario alle trattative burocratiche per l’uscita della Gran Bretagna». Così la vede il giornalista Thierry Meyssan, analista internazionale. Tesi: al netto del chiasso dei “populismi” alla Farage, il voto inglese è stato voluto da chi comanda a Londra, che ha ormai capito che il tempo del dominio Usa – di cui Bruxelles è una succursale – è ormai al tramonto. Meglio allora sbaraccare, tenendosi le mani libere per essere i primi, in Europa, a chiudere un accordo strategico col nuovo vincitore, la Cina. La posta in gioco non ha nulla a che fare con le polemiche sull’immigrazione: «Il divario tra la realtà e il discorso politico-mediatico illustra la malattia di cui soffrono le élites occidentali: la loro incompetenza». Ancora nel 1989, il Pcus non “vedeva” il crollo del Muro di Berlino. Poi vennero la fine del Comecon e del Patto di Varsavia, il collasso dell’Urss. «In un futuro assai prossimo assisteremo in modo identico alla dissoluzione dell’Unione Europea e della Nato e – se non staranno abbastanza attenti – allo smantellamento degli Stati Uniti».
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Matteo stai sereno, stanno già arrivando i titoli di coda
La coppia presidenziale Boschi-Renzi ha stufato? Avevano cercato di far apparire l’appuntamento amministrativo di giugno come un insignificante stretching, prima della sfida all’O.K. Corral referendario di ottobre. La possibilità di iniziare già da ora a spedire un chiaro messaggio al duo rampante, rispondendo per le rime alle loro evidenti propensioni alla presa per i fondelli dei cittadini, è stata irresistibile; riuscendo perfino nel miracolo di interrompere per una volta il trend al non-voto, tanto da riportare alle urne in alcune città un numero superiore di aventi diritto rispetto alle occasioni precedenti. Ora possono dire quello che vogliono, questi pervicaci manipolatori del pensiero, che di volta in volta – e a seconda di quanto conviene loro – pretendono di stabilire se un dato elettorale ha una qualche valenza generale o meno. Le europee 2014 (drogate dalla paghetta degli 80 euro, che per molti si è rivelata soltanto un prestito truffaldino pro tempore) venivano proclamate un test estremamente rilevante; le consultazioni di domenica un semplice appuntamento localistico.Solo perché gli scricchiolii nei consensi stavano a indicare un pericoloso risveglio dall’incantamento, nei confronti di chi ha monopolizzato la scena pubblica con un’opera sistematica di colonizzazione degli immaginari; intasandoli di sogni infondati quanto apparentemente rassicuranti. Dalle erogazioni a sorpresa (ossia con la clausola mimetizzata – come nelle obbligazioni di Banca Etruria – per la loro restituzione a valore maggiorato; tipo l’abbattimento di tasse nazionali a fronte di incrementi locali) alle riforme bidone, il cui sapore rancido veniva mascherato dagli abbondanti inzuccheramenti lessicali: la “buona” scuola, il “buon” lavoro e così via. Difatti la dark lady in tailleur da fata turchina Boschi, forse avvisata dalle proprie antenne sensibilissime alle questioni di potere (come dimostrò alle elezioni per il sindaco di Firenze, mollando per tempo il candidato dalemiano Michele Ventura di cui era portavoce, per imbarcarsi sul carro renziano), già da qualche giorno si era premurata di mutare registro: dal trionfalismo al terrorismo.Difatti ora passa dal cinguettio molesto sui “partigiani buoni” al sibilo del «se vince il no si apriranno scenari di instabilità». Staremo a vedere cosa si inventerà il suo partner dai pantaloni a tubo di stufa, che solitamente funziona meglio quando può giocare all’attacco in chiave di seduzione; mentre le bugie difensive gli vengono peggio, perché tradiscono la sua cinica arroganza. Do you remember “stai sereno”? Certo, l’esito delle consultazioni domenicali è ancora aperto. Ma già emettono due messaggi importanti. Il primo è che in questo Paese, dove la condiscendenza al potere e ai potenti è un tratto caratteriale estremamente diffuso, alla fine ci si stufa del fenomeno di turno. E Renzi presumibilmente sta per essere investito da un effetto disaffezione che ricorda la metafora del “marziano a Roma” di Ennio Flaiano: l’alieno Knut atterrato nella capitale che, esaurito il primo effetto sorpresa, viene liquidato dal millenario scetticismo capitolino con un beffardo “ancora qui?”.La seconda questione è se dallo scombussolamento prenderà corpo una qualche proposta di governo credibile, che smentisca l’argomentazione (ricattatoria) che “a Renzi non ci sono alternative”. Oltre il (più che legittimo) voto punitivo che ha caratterizzato in larga misura gli esiti (liberatori) che abbiamo sotto gli occhi. Visto che oggi ci è data l’opportunità di meditare su una grande verità che Flaiano faceva pronunciare al suo “marziano”: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia».(Pierfranco Pellizzetti, “Elezioni amministrative 2016, dopo un po’ Renzi stufa”, da “Il Fatto Quotidiano” del 6 giugno 2016).La coppia presidenziale Boschi-Renzi ha stufato? Avevano cercato di far apparire l’appuntamento amministrativo di giugno come un insignificante stretching, prima della sfida all’O.K. Corral referendario di ottobre. La possibilità di iniziare già da ora a spedire un chiaro messaggio al duo rampante, rispondendo per le rime alle loro evidenti propensioni alla presa per i fondelli dei cittadini, è stata irresistibile; riuscendo perfino nel miracolo di interrompere per una volta il trend al non-voto, tanto da riportare alle urne in alcune città un numero superiore di aventi diritto rispetto alle occasioni precedenti. Ora possono dire quello che vogliono, questi pervicaci manipolatori del pensiero, che di volta in volta – e a seconda di quanto conviene loro – pretendono di stabilire se un dato elettorale ha una qualche valenza generale o meno. Le europee 2014 (drogate dalla paghetta degli 80 euro, che per molti si è rivelata soltanto un prestito truffaldino pro tempore) venivano proclamate un test estremamente rilevante; le consultazioni di domenica un semplice appuntamento localistico.
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Referendum, tutti contro Renzi: se perde, dovrà andarsene
Questo articolo potrebbe ridursi a pochissime parole: Renzi ha la maggioranza relativa dei simpatizzanti, ma la maggioranza assoluta degli odiatori. Non c’è dubbio che, fra i politici attualmente in corsa, Renzi sia quello che conta il maggior numero di simpatizzanti, magari non più il mitico 41% delle europee di due anni fa, ma, comunque, è al di là del 30%, un livello che non raggiunge nessun altro esponente politico attuale. Però è anche molto odiato da tutti gli altri. Dai sostenitori del M5s a quelli della Lega, da quelli di Sel e Rifondazione a quelli di Forza Italia e raccoglie una nutrita schiera di antipatizzanti anche nell’area di chi non vota. Detto così potrebbe essere un’ affermazione ovvia: ogni uomo politico raccoglie il maggior numero dei suoi simpatizzanti fra gli elettori del suo partito, mentre ha più numerosi antipatizzanti fra quelli che votano per gli altri partiti. Ma non si tratta di questo: Renzi è un caso particolare, come lo fu Berlusconi (quando ancora era vivo). Il fiorentino non suscita solo ovvi dissensi, freddezza o semplici antipatie come qualsiasi altro politico, lui accende ostilità feroci.Fra gli elettori di altri partiti, uno come Veltroni, Bersani, Franceschini può attirare antipatie, ma anche molta indifferenza, freddezza, forse anche una vaga commiserazione, mentre Renzi non risulta mai indifferente: è detestato. Neppure D’Alema è mai riuscito a riscuotere tanta avversione. A rendere il fiorentino tanto inviso sono la sua arroganza, rozzezza, maleducazione, la sua incapacità di trattare in modo civile con chi non è un suo fan, la cialtroneria nel vantare successi inesistenti o non suoi, lo stile da telepromozioni commerciali dei suoi discorsi, la sua andatura pavoneggiante, ma, più di tutto, il suo sfrenato narcisismo. Renzi si sente bravo, è convinto di essere meglio di Napoleone, Cavour e De Gaulle messi insieme. E questo può costargli molto. In qualche modo è quello che spiega la “maledizione del secondo turno” per il il Pd: di solito, vince quando vince al primo turno, mentre al secondo spesso perde anche con avversari che partono da 20 o 25 punti in meno.Il segreto è questo: gli elettori della sinistra preferiscono astenersi o votare M5s piuttosto che votare Pd. Gli elettori della destra preferiscono il M5s o l’astensione ma non votano mai per il Pd. Quello del M5s preferiscono l’astensione, più raramente la destra e quasi mai il Pd. Al secondo turno l’elettorato dei partiti che non sono arrivati al ballottaggio non votano per qualcuno, ma contro l’altro, quello più odiato. Ed il Pd, con l’immagine di Renzi è il più odiato. La cosa divertente è che il doppio turno è sempre stato il sistema preferito ad Pci-Pds-Pd sino all’Italicum. Dicevamo che questo può costare molto a Renzi e c’è già un’occasione in cui verificarlo: il referendum di ottobre sulla riforma istituzionale. Sul merito del referendum scriveremo ad hoc, qui ci limitiamo ad affermate che Renzi parte in forte vantaggio: stante il tasso di spoliticizzazione della gente, il sentire comune degli elettori è dalla parte sua perché la gente capisce solo che Renzi vuol tagliare le spese per la politica ed, in qualche modo, dare un ceffone alla casta e questo suscita simpatie.Stare a spiegare il progetto autoritario che c’è dietro per il combinato disposto con l’infame legge elettorale (la Boschi-Acerbo) è cosa complicata e da specialisti, per cui affrontare il referendum su quel fianco (come propongono gli ottuagenari costituzionalisti della sinistra) significa perderlo con sicurezza. E sai che novità: l’unica cosa che la sinistra sa fare con stile e competenza è perdere. Dunque, per il presidente del Consiglio potrebbe essere una partita di tutto riposo, da affrontare in scioltezza, ma il “fiorentino spirito buzzurro” ha vellicato il suo imbattibile narcisismo suggerendogli di trasformare il referendum in un plebiscito sulla sua augusta persona, in modo che la vittoria lo incoroni Re d’Italia a vita. Dopo pochi mesi andremmo a votare e, con un successo referendario alle spalle, per lui sarebbe un gioco da ragazzi: la destra sarebbe impreparata (e temo lo sarebbe anche il M5s che sarebbe comunque dalla parte degli sconfitti ai referendum anche lui), nel partito nessuno oserebbe fare un bliz e lui potrebbe massacrare la sinistra uomo per uomo (e questo sarebbe l’unico dato positivo) e poi andare a vincere le elezioni in tutta tranquillità. Per di più, se si votasse nel 2017 si scanserebbe anche il giudizio della Corte Costituzionale sull’Italicum.Il punto è che fare il referendum non sulla riforma ma su Renzi è, per il valente statista, l’unico modo serio di rischiare di perdere. La sua sfida va raccolta e nel referendum bisogna parlare poco del merito della riforma e molto dei disastri combinati da questo governo, delle sue mirabolanti promesse e dei sui desolanti risultati, delle figuracce internazionali, ecc. Ai giovano precari ed ai lavoratori bisogna parlare del job act, agli insegnanti ed agli studenti della legge sulla buona scuola, ai risparmiatori ed ai piccoli azionisti delle banche degli scandali bancari e delle strane riforme sulle popolari e le Bcc, e così via. Poi gli eruditi giuristi della sinistra intrattengano pure le signore bene, all’ora del the, con le loro dotte disquisizioni: va bene, servono anche quei quattro voti. Dobbiamo accontentalo: Renzi deve essere il centro della campagna referendaria. Slogan centrale: “Renzi ha detto che se perde se ne va: un’occasione da non perdere!”.(Aldo Giannuli, “Il referendum di ottobre: il punto debole di Renzi”, dal blog di Giannuli del 14 marzo 2016).Questo articolo potrebbe ridursi a pochissime parole: Renzi ha la maggioranza relativa dei simpatizzanti, ma la maggioranza assoluta degli odiatori. Non c’è dubbio che, fra i politici attualmente in corsa, Renzi sia quello che conta il maggior numero di simpatizzanti, magari non più il mitico 41% delle europee di due anni fa, ma, comunque, è al di là del 30%, un livello che non raggiunge nessun altro esponente politico attuale. Però è anche molto odiato da tutti gli altri. Dai sostenitori del M5s a quelli della Lega, da quelli di Sel e Rifondazione a quelli di Forza Italia e raccoglie una nutrita schiera di antipatizzanti anche nell’area di chi non vota. Detto così potrebbe essere un’ affermazione ovvia: ogni uomo politico raccoglie il maggior numero dei suoi simpatizzanti fra gli elettori del suo partito, mentre ha più numerosi antipatizzanti fra quelli che votano per gli altri partiti. Ma non si tratta di questo: Renzi è un caso particolare, come lo fu Berlusconi (quando ancora era vivo). Il fiorentino non suscita solo ovvi dissensi, freddezza o semplici antipatie come qualsiasi altro politico, lui accende ostilità feroci.
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Game over, l’orrida Europa non digerisce il pessimo Renzi
Prosegue imperterrita la “danza degli schiaffoni” fra Renzi e l’Unione Europea. In prima linea ci sono i popolari, ma il silenzio sprezzante dei socialisti pesa ancora di più. Quel povero diavolo di Pittella (per sua sfortuna capogruppo socialista a Strasburgo) cerca di sostenere il suo signore e padrone italiano, giungendo a minacciare la crisi dell’accordo popolari-socialisti che regge la Commissione, mentre i suoi compagni di gruppo francesi, tedeschi e olandesi lo guardano come lo scemo del villaggio con l’aria di pensare “Ma che stai dicendo?”. Da dove nasce questa inedita replica della Cavalleria Rusticana? I punti veri di dissenso sono due: l’applicazione del bail-in e la riduzione delle tasse. Renzi ha bisogno di margini di flessibilità molto più ampi (e usa l’emergenza rifugiati) perché vuol fare un taglio di tasse prima delle elezioni. Sul primo punto, Renzi, che non aveva mosso paglia contro la formazione della direttiva sul bail-in e neppure sulla sua immediata applicazione dal 1° gennaio 2016, aveva pensato di cavarsela con qualche furbata all’italiana (tipo il “salvabanche”), ma gli “europei” non glielo permettono, dando della direttiva l’interpretazione più restrittiva possibile (e ci vuol, poco perché la lettera è già più che sufficiente a bloccare il giullare).E questa rigidezza dipende dal fatto che i nostri valenti alleati tedeschi e francesi hanno già forchette in pugno e tovagliolo al collo per banchettare suo beni italiani. Sul secondo punto, Renzi ha bisogno di fare qualcosa sul fisco per non arrivare alle elezioni con un bilancio fatto solo di promesse mancate. Magari, poi le tasse le raddoppierebbe un minuto dopo la vittoria elettorale. Ma anche qui gli europei non mollano: “Niente tagli fiscali, devi pagare gli interessi sul debito e non puoi fare altro disavanzo”. Ma perché tanta indisponibilità, mentre all’Inghilterra è stato concesso tutto o quasi? I soci di maggioranza della Ue non vogliono perdere Londra che (sbagliando) ritengono un punto di forza dell’alleanza, mentre non hanno alcuna particolare propensione a tenersi Roma che (ricordiamolo sempre) è il terzo debito pubblico mondiale. Se a minacciare un referendum sull’uscita dalla Ue fosse il governo italiano, a fare la campagna elettorale a favore dell’uscita, giungerebbe in Italia Juncker.In secondo luogo, proprio perché all’Uk è stato concesso tutto, poi non si può dare niente all’Italia, pena un assalto alla diligenza di tutti gli altri. L’Italia non è la Grecia, è uno dei 4 principali contraenti il patto e, dal punto di vista di Strasburgo ed Amburgo, sta dando un pessimo esempio agli altri. Se non si dà una lezione all’Italia, poi verranno la Spagna, il Portogallo, l’Estonia, Cipro, magari di nuovo la Grecia. In breve la Ue sarebbe solo una marmellata, mentre qui gli “alleati” intendono ribadire che nella Ue c’è chi comanda (la Germania), chi è capo in seconda (la Francia), chi ha diritto a privilegi (l’Inghilterra) e tutti gli altri che devono obbedire. Questo ordine interno non deve essere turbato per nessuna ragione e Renzi deve piantarla. Questo è il modo di vedere dei nostri ineffabili alleati. Beninteso: l’Italia se lo merita. Non si può mandare in giro per il mondo rappresentanti impresentabili come Berlusconi e Renzi, proni come Monti o Letta o deboli come Prodi e pretendere che gli altri ti prendano sul serio. O vigliamo parlare dei ministri degli esteri che abbiamo espresso?Lo scontro fra Renzi e la Commissione Europea è uno scontro fra un branco di squali feroci ed uno squalo scemo, impossibile fare il tifo per nessuno dei due. D’altro canto, ho l’impressione che l’elenco dei nemici di Renzi sia già molto lungo e cresce di giorno in giorno: la magistratura, le grandi banche italiane, ora la Farnesina, la tecnocrazia europea, il Consiglio di Stato, infine buona parte del mondo ecclesiale inviperito per la legge sulle unioni civili… E molto è dovuto all’arroganza personale dell’uomo, splendido esempio del “fiorentino spirito bizzarro” andato a male. Forse sono troppo ottimista ma ho l’impressione che, per Renzi, il cronometro della Ue abbia già iniziato a scorrere verso l’ora zero.(Aldo Giannuli, “Perché l’Europa non digerisce Renzi”, dal blog di Giannuli del 10 febbraio 2016).Prosegue imperterrita la “danza degli schiaffoni” fra Renzi e l’Unione Europea. In prima linea ci sono i popolari, ma il silenzio sprezzante dei socialisti pesa ancora di più. Quel povero diavolo di Pittella (per sua sfortuna capogruppo socialista a Strasburgo) cerca di sostenere il suo signore e padrone italiano, giungendo a minacciare la crisi dell’accordo popolari-socialisti che regge la Commissione, mentre i suoi compagni di gruppo francesi, tedeschi e olandesi lo guardano come lo scemo del villaggio con l’aria di pensare “Ma che stai dicendo?”. Da dove nasce questa inedita replica della Cavalleria Rusticana? I punti veri di dissenso sono due: l’applicazione del bail-in e la riduzione delle tasse. Renzi ha bisogno di margini di flessibilità molto più ampi (e usa l’emergenza rifugiati) perché vuol fare un taglio di tasse prima delle elezioni. Sul primo punto, Renzi, che non aveva mosso paglia contro la formazione della direttiva sul bail-in e neppure sulla sua immediata applicazione dal 1° gennaio 2016, aveva pensato di cavarsela con qualche furbata all’italiana (tipo il “salvabanche”), ma gli “europei” non glielo permettono, dando della direttiva l’interpretazione più restrittiva possibile (e ci vuol, poco perché la lettera è già più che sufficiente a bloccare il giullare).
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Craig Roberts: sono pazzi, vogliono una guerra atomica
Il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 ha dato vita ad una pericolosa ideologia statunitense chiamata neoconservatorismo. L’Unione Sovietica era servita fino ad allora come vincolo alle azioni unilaterali da parte degli Usa. Con la rimozione di questo vincolo su Washington, i neoconservatori hanno intrapreso il loro piano di egemonia statunitense sul mondo. Gli Usa erano improvvisamente diventati “l’unica superpotenza”, “l’unico potere”, che avrebbe potuto agire “senza limiti, ovunque nel mondo”. Il giornalista neoconservatore del “Wahington Post” Charles Krauthammer ha riassunto la “nuova realtà” come segue: «Abbiamo uno schiacciante potere a livello mondiale. Siamo i custodi designati dalla storia del sistema internazionale. Quando l’Unione Sovietica è caduta, è nato qualcosa di nuovo, qualcosa di totalmente nuovo – un mondo unipolare dominato da una sola superpotenza scevra dal controllo di rivali e con possibilità di raggiungere ogni angolo del globo. Questo è uno sconvolgente sviluppo nella storia, mai visto dai tempi della caduta di Roma. Persino Roma non può essere presa a modello di quello che rappresentano gli Usa oggi».L’incredibile potere unipolare che la storia ha dato a Washington deve essere protetto ad ogni costo. Nel 1992 uno dei massimi ufficiali del Pentagono, il sottosegretario Paul Wolfowitz, ha scritto la Dottrina Wolfowitz, la quale è diventata la base della politica estera degli Usa. La Dottrina Wolfowitz sentenzia che il “primo obiettivo” della politica estera e militare degli Stati Uniti è «prevenire il riemergere di un nuovo rivale, sia sul territorio dell’ex Unione Sovietica o da qualche altra parte, che possa creare minaccia [alle azioni unilaterali degli Stati Uniti] nell’ordine di quella creata precedentemente dall’Unione Sovietica. Questa considerazione è fondamentale per sottolineare la nuova strategia di difesa regionale e richiede uno sforzo atto a prevenire che qualsivoglia potenza ostile possa controllare una regione, le cui risorse potrebbero, se sfruttate a dovere, essere sufficienti a generare un potere globale». (Una “potenza ostile” è una nazione abbastanza forte da avere una politica estera indipendente dai dettami di Washington).La dichiarazione unilaterale del potere statunitense è iniziata seriamente durante l’amministrazione Clinton, con l’intervento in Yugoslavia, Serbia, Kosovo e la “no-fly zone” imposta sull’Iraq. Nel 1997 i neoconservatori hanno stilato il “Progetto per un nuovo secolo statunitense”. Nel 1998, tre anni prima dell’11 Settembre, i neocon hanno inviato una lettera al presidente Clinton chiedendo un cambio di regime in Iraq e «la rimozione di Saddam Hussein dal potere». I neoconservatori hanno preparato un programma per rimuovere sette governi in cinque anni. Gli eventi dell’11 Settembre 2001 sono considerati dalla gente informata come “la nuova Pearl Harbor”, che i neocon hanno definito come necessari per iniziare le loro guerre di conquista in Medio Oriente. Paul O’Neil, il primo segretario del Tesoro del presidente George W. Bush, ha dichiarato pubblicamente che il programma del primo meeting con il suo gabinetto riguardava l’invasione dell’Iraq. Questa invasione era stata pianificata prima dell’11 Settembre. Dall’11 Settembre Washington ha distrutto in toto o in parte 8 nazioni e ora si oppone alla Russia sia in Siria sia in Ucraina.La Russia non può permettere che un Califfato jihadista si stabilisca nell’area tra Siria e Iraq, perché sarebbe la base per esportare le destabilizzazioni nella parte musulmana della Federazione Russa. Henry Kissinger stesso lo ha detto ed è abbastanza chiaro ad ogni persona dotata di buon senso. Comunque i neocon, fanatici e impazziti per il potere, che hanno controllato le amministrazioni Clinton, Bush e ora controllano l’amministrazione Obama, sono così presi dalla loro stessa arroganza che per pungolare la Russa sono stati disposti a far abbattere un aereo russo da un loro burattino, la Turchia, e a rovesciare un governo eletto democraticamente in Ucraina, il quale era in buoni rapporti con la Russia, sostituendolo con un governo fantoccio, controllato dagli Usa. Con questo background, possiamo capire che la situazione pericolosa a cui si affaccia il mondo è il prodotto delle arroganti politiche dei neoconservatori di egemonia statunitense sul mondo. La mancanza di giudizio e i pericoli nei conflitti siriano e ucraino sono conseguenze stesse dell’ideologia neoconservatrice.Per perpetuare l’egemonia, i neocon hanno gettato al vento le garanzie che Washington aveva dato a Gorbachev che la Nato non si sarebbe spinta nemmeno di un centimetro verso est. Questi hanno fatto in modo che gli Usa si tirassero fuori dal Trattato anti-missili balistici (Abm), il quale specificava che né Usa né Russia avrebbero sviluppato o dispiegato missili anti-balistici. I neocon hanno riscritto la dottrina militare statunitense e innalzato le armi nucleari dal loro ruolo di minaccia a forza di attacco preventiva. Hanno iniziato a posizionare basi Abm ai confini russi, sostenendo che le basi servivano per difendere l’Europa da inesistenti missili balistici intercontinentali (Icbm) iraniani. La Russia e il suo presidente Putin sono stati demonizzati dai neocon e dai loro burattini del governo e dei media. Per esempio, Hillary Clinton, un candidato presidente del Partito Democratico, ha definito Putin “il nuovo Hitler”. Un ex ufficiale della Cia ha inneggiato all’omicidio di Putin. I candidati alle presidenziali di entrambi gli schieramenti litigano per chi sarebbe più aggressivo nei confronti della Russia e il più scurrile contro il presidente russo.L’effetto è stato la distruzione della fiducia tra potenze nucleari. Il governo russo ha imparato che Washington non rispetta le proprie stesse leggi, men che meno il diritto internazionale, e che non può essere considerata affidabile nel rispettare gli accordi. Questa mancanza di fiducia, unita alle aggressioni contro la Russia vomitate da Washington e dai media prostituiti, ripetuti a pappagallo nelle capitali europee, hanno preparato il terreno per una guerra nucleare. Dato che la Nato (di base gli Usa) non ha la possibilità di sconfiggere la Russia in una guerra convenzionale, ancor meno in caso di alleanza Russia-Cina, la guerra sarebbe nucleare. Per evitare la guerra, Putin evita le rappresaglie e mantiene un basso livello quando risponde alle provocazioni occidentali. Il comportamento responsabile di Putin, comunque, è mal interpretato dai neocon come segno di debolezza e paura. Questi suggeriscono al presidente Obama di mantenere la pressione sulla Russia, per farla arrendere. Putin, tuttavia, ha dichiarato chiaramente che non intende mollare.Il messaggio è stato mandato in più occasioni. Per esempio il 28 settembre 2015, al settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, Putin ha affermato che la Russia non può più tollerare la situazione a livello mondiale. Due giorni dopo Putin ha preso il comando della guerra contro l’Isis in Siria. I governi europei, specialmente Germania e Regno Unito, sono complici del declino verso una guerra nucleare. Questi due stati vassalli degli Usa spingono l’aggressione senza sosta da parte di Washington contro la Russia, ripetendone la propaganda e supportandone le sanzioni e gli interventi militari contro altri paesi. Fino a che l’Europa non sarà altro che un’appendice di Washington, la prospettiva dell’Apocalisse sarà sempre più concreta. A questo punto della storia una guerra nucleare può essere evitata solo in due modi. Uno è che Russia e Cina si arrendano ed accettino l’egemonia di Washington. L’altro è che un leader indipendente in Germania, Regno Unito o Francia decida di abbandonare la Nato. Ciò scatenerebbe un fuggi-fuggi dalla Nato, la quale è il primo mezzo che Washington possiede per creare conflitto con la Russia e, dunque, è la forza più pericolosa sulla faccia della Terra per qualsiasi nazione europea e per l’intero globo. Se la Nato continuerà ad esistere, questa e l’ideologia neoconservatrice di egemonia statunitense renderanno la guerra nucleare inevitabile.(Paul Craig Roberts, “Perché la Terza Guerra Mondiale si profila all’orizzonte”, da “Information Clearing House” del 29 dicembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 ha dato vita ad una pericolosa ideologia statunitense chiamata neoconservatorismo. L’Unione Sovietica era servita fino ad allora come vincolo alle azioni unilaterali da parte degli Usa. Con la rimozione di questo vincolo su Washington, i neoconservatori hanno intrapreso il loro piano di egemonia statunitense sul mondo. Gli Usa erano improvvisamente diventati “l’unica superpotenza”, “l’unico potere”, che avrebbe potuto agire “senza limiti, ovunque nel mondo”. Il giornalista neoconservatore del “Wahington Post” Charles Krauthammer ha riassunto la “nuova realtà” come segue: «Abbiamo uno schiacciante potere a livello mondiale. Siamo i custodi designati dalla storia del sistema internazionale. Quando l’Unione Sovietica è caduta, è nato qualcosa di nuovo, qualcosa di totalmente nuovo – un mondo unipolare dominato da una sola superpotenza scevra dal controllo di rivali e con possibilità di raggiungere ogni angolo del globo. Questo è uno sconvolgente sviluppo nella storia, mai visto dai tempi della caduta di Roma. Persino Roma non può essere presa a modello di quello che rappresentano gli Usa oggi».
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In Turchia, se indaghi sull’Isis finisci impiccato nella toilette
Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.Le vittime sono diventate imputati, in sostanza, come in altri episodi assai meno gravi ma diffusi, sotto la tirannia di Erdogan: dopo l’attentato, costui ebbe l’insolenza di dichiarare che si trattava di un atto “contro l’unità del paese”, lo stesso stucchevole, ma pericolosissimo, ritornello usato contro i partiti curdi. Tutto, in un clima di crescente intolleranza verso chi la pensava diversamente dal capo, verso magistrati che si permettevano di mettere il naso negli affari di famiglia, verso alti militari giudicati pericolosi per il potere del capo, e così via. Impressionante, la serie di chiusure di giornali e di siti internet, gli arresti e le pesanti condanne detentive di giornalisti, le intimidazioni d’ogni genere verso chi non è del partito del capo o verso chi si azzarda a esprimere, anche in modo sommesso, una critica: di questo passo in Turchia, la Turchia che vorrebbe aderire all’Ue, neppure lo ius murmurandi sarà più concesso. L’attentato contro il corteo di giovani che chiedevano la pace, ossia la fine delle azioni militari del governo contro i curdi, essenzialmente, fu un episodio che colpì enormemente l’opinione pubblica internazionale, in qualche modo evocatore della strage dei giovani socialisti norvegesi da parte del neonazista Andres Breivik, nell’estate 2011.Ma quali furono gli atti della “comunità internazionale” volti a chiedere conto dell’accaduto a Erdogan e al suo governo? E che dire della brutale eliminazione, degna di un poliziesco, della giornalista e attivista britannica Jacky Sutton, all’interno dell’aeroporto Ataturk di Istanbul? Con tanto di suicidio inscenato, per impiccagione, nella toilette… La Sutton indagava sui possibili nessi tra governo turco e Is, guarda caso. Anche in questo caso non risultano inchieste serie all’interno, né proteste “vigorose” della solita comunità internazionale, a cominciare da quella europea. Ogni volta, insomma, Erdogan alza l’asticella, e ogni volta, regolarmente, incontra acquiescenza, connivenza, al massimo imbarazzati silenzi. E stupisce anche l’assenza della stampa di inchiesta su un caso che, anche con lo sguardo cinico del professionista della comunicazione, è dannatamente “interessante”. E il rullo compressore erdoganiano procede, schiacciando tutto ciò che incontra sul proprio cammino.Nel disegno politico di colui che si considera il nuovo Ataturk, Racep Erdogan appunto, la “sua” Turchia – sua in senso proprio, proprietario, si direbbe – deve diventare potenza egemone nell’area mediorientale, per poi sedere al banchetto dei “grandi”, forte di un esercito potentissimo, e di una crescita economica che finora ha sostenuto le sorti governative; finora, ma le cose stanno cambiando. Per raggiungere lo scopo, Erdogan non ha esitato a stabilire rapporti, più o meno coperti, con Daesh, mentre conservava e rafforzava i suoi legami con Usa e Nato: non buoni invece quelli con l’Unione Europea, che stenta ad accogliere uno Stato come questo nel suo seno (con notevole ipocrisia, d’altronde). E, soprattutto, Erdogan, con straordinario cinismo, stabilisce e rompe intese ed alleanze: il suo attacco alla Russia (l’abbattimento di un aereo della Federazione impegnato in azioni contro l’Isis è stata una dichiarazione di guerra, evidentemente compiuta con l’assenso della Nato e degli Usa) e l’eliminazione dell’avvocato Tahir Elci, uno dei più noti difensori della causa del popolo curdo, è stata un’altra dichiarazione di guerra, contro un intero popolo, la cui esistenza in Turchia neppure viene riconosciuta (i curdi sono chiamati “turchi del Nord”!). Un vero e proprio “caso Matteotti” in salsa turca.Ci si sarebbe aspettato una generale levata di scudi, specie dopo aver visionato il video dell’azione: gli assassini scappano verso gli agenti di polizia che sparano verso di loro senza mai colpirli, al punto che vien da pensare che le loro armi fossero caricate a salve. “L’uccisione rimarrà un mistero”, si è subito bofonchiato. Lo rimarrà perché le autorità vogliono che nulla trapeli della verità, perché esse sono implicate direttamente nell’omicidio, che con la solita faccia tosta Erdogan ha attribuito al Pkk ossia il partito curdo di sinistra estrema, che Elci difendeva sia in tribunale, nelle tante cause in corso, sia nelle pubbliche occasioni, in una delle quali era egli stesso incappato nell’accusa di tradimento e quant’altro, ed era stato arrestato. Ma un altro video è da guardare, con estrema attenzione, quello dei suoi funerali. Esso costituisce un bellissimo quanto dolente omaggio al combattente caduto, che è anche una dimostrazione di coraggio per chi vi ha partecipato, e una lezione per chi, nelle nostre tepide case, lo guarda, ammirato della sua grandiosa semplicità, e della sua forza.Ma il potere di Erdogan e del suo cerchio magico non si lascia condizionare, come non lo aveva smosso l’ondata di proteste dello scorso anno di piazza Taksim in difesa del Gezi Park, ma in realtà di quel poco di libertà che ancora rimaneva nel paese. Proteste represse, come le precedenti e le successive, con durezza estrema dalla polizia: feriti, morti, e centinaia di arresti. Tutto ciò, ribadisco, nella silenziosa acquiescenza delle “democrazie occidentali”, che si stanno rendendo complici del tiranno. L’odio per i “comunisti” (del Pkk), da un canto, la russofobia dall’altro giocano sempre un ruolo importante. La democratica Europa tace. La democratica Italia, balbetta. I democraticissimi Stati Uniti, invece, si schierano a fianco del tiranno. E così costui, nel suo megagalattico palazzo presidenziale da 1200 stanze – il più gigantesco del mondo – una reggia fortificata, per giunta edificata in zona vietata (il diritto che nasce dalla forza, non viceversa…), sogna come “Il Grande Dittatore”, aggirandosi per saloni, corridoi, scale, parco… Sogna di avere, nelle sue avide mani adunche prima il Medio Oriente, e poi?La sua corsa tuttavia rischia di fargli fare passi falsi: colpire con un missile un aereo russo è stato un gesto a dir poco spregiudicato, volto a far schierare tutto l’Occidente al suo fianco, in nome dell’antica paura e odio per i russi; l’arroganza con cui Erdogan ha, con toni truculenti, rivendicato il “diritto” della Turchia a “difendere i propri confini”, perché un aereo che in teoria combatte dalla stessa parte turca contro l’Is, aveva sconfinato (per 27 secondi, ossia, 2,7 km), è apparso quasi grave quanto quel missile. Ma quando preso ormai da una sorta di delirio di onnipotenza, Erdogan ha sentenziato: «La Russia scherza col fuoco», allora l’inquietudine è cresciuta. Non v’è dubbio che oggi, vi sia un solo soggetto politico-militare che possa fermare Erdogan: la Federazione Russa di Vladimir Putin: piaccia o non piaccia. Così come è chiaro che soltanto la Russia oggi sta combattendo l’Is, seriamente, al di là delle motivazioni, e che solo la Russia può impedire alla Turchia di impadronirsi di un quarto del territorio siriano, di un quinto di quello iracheno e così via. Solo la Russia, in definitiva, può impedire la Terza Guerra Mondiale, verso la quale, invece, la Turchia di Erdogan sembra voler trascinare il mondo.(Angelo d’Orsi, “Crimini e misfatti, la Turchia di Erdogan”, da “Micromega” del 2 dicembre 2015).Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.