Archivio del Tag ‘Australia’
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Barnard: torniamo Italia, via da questa chemio-Eurozona
L’Italia deve uscire dall’Eurozona. L’Italia si deve ricordare come stavamo – sì, certo, con le nostre mafie, le mazzette, i politucoli puzzoni, le parrocchiette industriali – quello che volete, ma come stavamo prima di diventare un intero popolo di straccioni che spendono una moneta tedesca. Ma vi ricordate? Si lavorava, si compravano case e si risparmiava per i figli più di chiunque altro al mondo. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di un gruppo di ragazzetti stellati che vogliono farci tutti più onesti e corretti, ma che concordano in pieno col mantenere 60 milioni d’italiani annichiliti sotto la Chemioeconomia della moneta tedesca. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di non vedere più Rom e neri per strada, ma che invece ce ne faremmo tantissimo di avere un ‘duro con l’Europa’ che lo fosse davvero, e non un falsario cagasotto bulletto che ci ha ingannati perché tira proprio lui a diventare un Vip proprio in quell’Europa.L’Italia deve, prima di tutto, raccontare ai suoi cittadini cosa devono e dovranno pagare per tornare italiani, proprio i prezzi uno dopo l’altro, con precisione di somme e di tempi, e chiedersi: siamo disposti a pagarli per pochi anni, o forse solo mesi, per poi però tornare italiani? Rispondete sì o no. L’Italia deve allo stesso tempo raccontare ai suoi cittadini, anzi, ricordargli, quali sono i premi che dopo la burrasca gli pioveranno addosso se molliamo la moneta tedesca della Chemioeconomia. E che premi. Questo è un paese che solo-solo accettasse i prezzi della sfida all’abominio della moneta tedesca, poi diventa il Paradiso, e allora sì che andranno fatti i muri alle frontiere, ma non contro i Rom e i neri, contro australiani, tedeschi, olandesi, americani, belgi, russi…Non ci vuole molto. Basta stare compatti e stretti gli uni agli altri per il poco tempo della tempesta. Poi, mentre ci piovono addosso quei premi, ricordarsi sempre di questa regola al ministero del Tesoro: con moneta sovrana italiana, la spesa pubblica sarà maggiore delle tasse, e si scrive deficit senza nessun riguardo per le %, per tutto il tempo necessario fino a che l’ultimo disoccupato sarà stato assunto, fino a che i pensionati poveri saranno solo un brutto ricordo, fino a che le parole malattia e liste d’attesa saranno introvabili su Google Italia. L’Italia deve tornare Italia, e questa è la via. L’Italia deve.(Paolo Barnard, “L’Italia deve”, dal blog di Barnard del 6 dicembre 2018).L’Italia deve uscire dall’Eurozona. L’Italia si deve ricordare come stavamo – sì, certo, con le nostre mafie, le mazzette, i politucoli puzzoni, le parrocchiette industriali – quello che volete, ma come stavamo prima di diventare un intero popolo di straccioni che spendono una moneta tedesca. Ma vi ricordate? Si lavorava, si compravano case e si risparmiava per i figli più di chiunque altro al mondo. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di un gruppo di ragazzetti stellati che vogliono farci tutti più onesti e corretti, ma che concordano in pieno col mantenere 60 milioni d’italiani annichiliti sotto la Chemioeconomia della moneta tedesca. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di non vedere più Rom e neri per strada, ma che invece ce ne faremmo tantissimo di avere un ‘duro con l’Europa’ che lo fosse davvero, e non un falsario cagasotto bulletto che ci ha ingannati perché tira proprio lui a diventare un Vip proprio in quell’Europa.
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Zibordi: deficit, una tempesta-bluff per appena 8 miliardi
Passano gli anni ma in Italia quando un governo deve fare una manovra economica tutto gira sempre intorno al debito pubblico. La Ue e i “mercati” vogliono essere rassicurati che lo Stato pagherà le rate e gli interessi sui Cct, Bot e Btp e l’intero governo impiega mesi a decidere se fare un deficit del 2,4% piuttosto che dell’1,8% del Pil: una differenza dello 0,6% del Pil – cioè 8 miliardi, alla fine. Ma questa differenza di 8 miliardi richiede trattative di settimane, agita i talk show e i giornali e marca la differenza tra un governo “responsabile”, bene accetto alla Ue e ai “mercati” (1,6% di deficit) e uno “populista” che fa esplodere lo “spread” e avviato al default (2,4% di deficit). Se lasci perdere la retorica e ti metti a leggere tabelle e numeri, scrive il trader finanziario Giovanni Zibordi, ti rendi conto che non ha senso, sapendo che di solito si sfora sempre: la Ue voleva un 1,8% al massimo e Tria cercava di tenerlo a questa percentuale, pensando che poi alla fine a consuntivo si arrivava sul 2,2% o 2,4%. Con un Def che indica un 2,4% di deficit come “impegno”, si suppone invece che si arrivi, alla fine, ad un 2,8% di deficit. «Resta che è una differenza di 8 miliardi l’anno e sembra diventi la fine del mondo. E se fosse tutto un bluff?».Ci dicono che “l’Italia ha 2.350 miliardi di debito”, per cui basta ora poco per scivolare giù per la china: le percezioni del resto del mondo (Ue e “mercati”) sono negative, per cui questi poteri vanno accontentati e rassicurati, altrimenti Bruxelles “boccia” la manovra, le agenzie di rating “abbassano” l’Italia e il mercato “ci attacca”. «In pratica ti dicono che se, per la prima volta nella storia, lo Stato italiano non riduce il deficit a zero, ci sarà un patatrac. Ma se guardi la storia anche solo degli ultimi dieci anni – scrive Zibordi, sul blog “Cobraf” – vedi che con deficit maggiori e sempre intorno al 3% di media non è successo niente». Per scoprire che questo discorso non ha senso, Zibordi fa notare che anche se il debito pubblico è sui 2.350 miliardi, i titoli sul mercato sono molti meno (1.800 miliardi) e sono questi di cui preoccuparsi – tra parentesi, Bce e Bankitalia ne hanno comprati 360 miliardi (con soldi “stampati”). «Quindi il totale dei titoli di Stato di cui preoccuparsi è sui 1.500 miliardi». Parlare, come fanno quasi tutti, di “quasi 2.400 miliardi di debito pubblico”, è molto diverso che citare i 1.450 miliardi di titoli da rifinanziare sul mercato. «Supponiamo allora che il governo italiano ignori Ue e mercati e “tiri dritto”, come dice Salvini. Dopo un poco di caos iniziale probabilmente non succede niente di grave. Ha senso, tutta questa messinscena, per 8 miliardi di differenza? Il buon senso dice di no».Tutto quello che può fare l’Ue, scrive Zibordi, è imporre una multa di 3 miliardi. Una misura finora mai applicata, «nemmeno a Stati che hanno violato i limiti del 3% facendo deficit del 10% come Irlanda, Portogallo e Spagna». Per cui, se si colpisse l’Italia per via del suo 2,4%, la sanzione «verrebbe contestata dal governo italiano in sede legale». E le agenzie di rating? Se “abbassano” l’Italia danno la spinta ai mercati per vendere ancora i Btp? «Sicuro, ma ricordatevi che i mercati hanno fatto oscillare i Btp infinite volte, negli ultimi 25 anni, e alla fine lo Stato italiano ha sempre pagato tutto: ha pagato la bellezza di circa 3.000 miliardi di interessi dal 1990». La conseguenza della “turbolenza” dei mercati, aggiunge Zibordi, è che il rendimento può salire ancora, dal 3,3% attuale al 4% o forse anche di più, magari fino al 5%. Ma, tralasciando i titoli dei giornali, l’analista propone di ragionare sui numeri. In Germania, con l’inflazione al 2%, i titoli di Stato «rendono meno di zero, -0,5% sulle scadenze brevi e al massimo 0,4% sui decennali». Quindi, in sostanza, «hai il povero risparmiatore germanico che perde ogni anno 1% o 2% l’anno». In Italia con inflazione più bassa (1,2%, oggi), «il risparmiatore italico godrebbe di un guadagno del 3% al netto dell’inflazione se i Btp salissero oltre il 4% di rendimento». In pratica, «avresti che un tedesco perde sul 2% l’anno sui suoi soldi in titoli di Stato, e l’italiano che guadagna un 2 o 3% l’anno. Una differenza del 4 o 5% per noi».Ma il famoso rischio-Italia? Lo spettro del default? «Discorsi catastrofici simili sono stati fatti nel 2011, quando appunto il rendimento dei Btp salì al 5%». Risultato: chi comprò allora i Btp alla data di oggi, tra cedole e apprezzamento ha guadagnato oltre il 50% cumulativo. «Se vai più indietro, al 2008, negli ultimi dieci anni i Btp avevano resto un totale cumulativo del 70% fino a quando non sono arrivati Salvini e Di Maio. Adesso, anche conteggiando una perdita media intorno al 10% da maggio, il rendimento cumulativo resta intorno al 60%». Nel mondo di oggi, scrive Zibordi, tutto il reddito fisso sta facendo perdere soldi: da inizio anno, i bond globali hanno perso in media il 2%. «Oggi abbiamo i tassi di interesse più bassi della storia dell’umanità», sottolinea l’analista. Tutti i paesi importanti «pagano tra meno di zero e il 3% massimo» (gli Usa, l’Australia o la Cina). E quando pagano il 3%, come gli Usa, «poi hanno anche inflazione al 3%», per cui «il rendimento reale è sempre zero». Attenzione: «L’Italia in pratica è l’unico paese Ocse, ora, che paga rendimenti sui titoli di Stato superiori all’inflazione!».Se dunque un paese come l’Italia, che ha un surplus estero del 2,5% del Pil e un enorme risparmio privato, offrisse rendimenti del 4-5%, di fatto «arriverebbero fondi da tutto il mondo». E pian piano anche i risparmiatori italiani che ora «stanno soffrendo perdite su tutti i loro fondi, gestioni e polizze che le banche hanno loro rifilato», capirebbero che i titoli di Stato sono estremamente più sicuri della cosiddetta “industria del risparmio gestito”. Tradotto: «Se stai perdendo un -3% medio su tutti i prodotti del risparmio gestito della banca, perché ti deve fare schifo un 2-3% dei titoli di Stato?». La manovra di Di Maio e Salvini? Può darsi che non faccia abbastanza per la crescita, «perché troppo infarcita di sussidi e trasferimenti e senza riduzione di tasse vere o investimenti», però – avverte Zibordi – è una manovra «che aumenta il deficit di soli 8 miliardi, alla fine». E tutto il polverone mediatico sul “disastro” in arrivo «è probabilmente il solito bluff del mondo finanziario, che sui titoli di Stato da decenni specula», cioè gioca al ribasso per poi comprare a poco prezzo, al fine di incassare «grasse cedole».La finanziaria del governo gialloverde «non fa molto per i giovani, le imprese e gli investimenti», ma resta «una manovra di entità modesta, che non scassa nessun bilancio pubblico». Salvini? Fa bene a dire che “tira dritto”, denunciando il bluff dell’Ue per ora. «Il difetto della manovra è invece che non sostiene abbastanza l’economia, la quale sta rallentando, e non contiene misure alternative. Ma in termini puramente finanziari c’è tanta retorica, da entrambe le parti, che copre una realtà modesta», insiste Zibordi. «La verità è che alla Ue odiano Salvini per via dell’immigrazione: se la stessa manovra l’avesse fatta il Pd ci sarebbe stata qualche discussione dietro le quinte e poi sarebbe passata con questo famoso 2,4% accampando qualche scusa. Dato che Salvini minaccia tutto l’impianto culturale e sociale della Ue, che punta all’immigrazione di massa dal terzo mondo in Europa, qualunque piccola deviazione dai “parametri” viene amplificata per cercare di indebolirlo». Di qui il terribile can can terribile contro il governo “spendaccione, irresponsabile, venezuelano”, mentre in realtà, se uno guarda i semplici numeri, scopre che la manovra è così modesta che non può portare a nessun default.«Se sfori dello 0,6% del Pil rispetto a quello che voleva la Ue, si parla di 8 miliardi», tutto qui. «E lo Stato non smetterà di pagare interessi, visto che incassa 760 miliardi di tasse». E a proposito di fisco: «La manovra non riduce neanche di 1 miliardo le tasse, alla fine». I soldi per ripagare i Btp, al governo, non mancano affatto: «Se il “mercato” vuole rendimenti più alti sulle nuove emissioni ora, bene… il governo spenderà 5, 6 o 7 miliardi in più l’anno prossimo per pagarli». Di questo però beneficia chi compra le nuove emissioni oggi, «perchè i soldi che lo Stato paga di interessi non si volatilizzano, finiscono in tasca a qualcuno: e l’importante, ora, sarebbe che fosse italiano». Meglio per il risparmiatore italico, scrive Zibordi, che i Bpt renderessero di più. «E’ messo molto peggio quello tedesco, che perde un -1 o -2% l’anno quando compra titoli di Stato». Il “collega” italiano invece intasca un 2% netto reale, che diventa 3% se sale lo spread. I bond italiani «battono i rendimenti (reali) di chiunque altro, nel mondo avanzato». E’ perchè sono molto rischiosi? «La nostra economia è deludente fin che vuoi in termini di crescita, ma è stabile, nel senso che rimane nell’euro e non da default, visto che lo Stato preferisce continuare a tassare i suoi cittadini per pagare gli interessi invece che tentare misure alternative».Passano gli anni ma in Italia quando un governo deve fare una manovra economica tutto gira sempre intorno al debito pubblico. La Ue e i “mercati” vogliono essere rassicurati che lo Stato pagherà le rate e gli interessi sui Cct, Bot e Btp e l’intero governo impiega mesi a decidere se fare un deficit del 2,4% piuttosto che dell’1,8% del Pil: una differenza dello 0,6% del Pil – cioè 8 miliardi, alla fine. Ma questa differenza di 8 miliardi richiede trattative di settimane, agita i talk show e i giornali e marca la differenza tra un governo “responsabile”, bene accetto alla Ue e ai “mercati” (1,6% di deficit) e uno “populista” che fa esplodere lo “spread” e avviato al default (2,4% di deficit). Se lasci perdere la retorica e ti metti a leggere tabelle e numeri, scrive il trader finanziario Giovanni Zibordi, ti rendi conto che non ha senso, sapendo che di solito si sfora sempre: la Ue voleva un 1,8% al massimo e Tria cercava di tenerlo a questa percentuale, pensando che poi alla fine a consuntivo si arrivava sul 2,2% o 2,4%. Con un Def che indica un 2,4% di deficit come “impegno”, si suppone invece che si arrivi, alla fine, ad un 2,8% di deficit. «Resta che è una differenza di 8 miliardi l’anno e sembra diventi la fine del mondo. E se fosse tutto un bluff?».
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Orban, gattopardo neoliberista: stampella Ue con Salvini?
Viktor Orban e Matteo Salvini? Campioni, «eroi del nostro tempo liquido e fautori della tanto discussa “internazionale populista”, che raccatta tutta la galassia nazionalista a partire da Trump, Putin, fino al gruppo di Visegrad». Il politico ungherese e quello italiano «appaiono agli occhi del mondo come due pericolosi eversori degli equilibri europei, capaci di far deflagrare l’Ue con la facilità di due Boeing 767 lanciati a razzo contro le Twin Towers». Ma se fossimo in grado di aguzzare meglio la vista e l’ingegno, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, «potremmo scorgere dietro le vesti tigrate nazional populiste, due gattopardi collusi col sistema neoliberista, che hanno la precisa missione di salvare le élites della destra europea da se stesse». Con la loro insistenza ossessiva sul tema immigrazione, e per le loro critiche sovraniste alla “dittatura” finanziaria di Bruxelles, secondo la Spadini i due «gattoni pardati» si sono guadagnati il titolo di paladini della rivoluzione nazionalista. Ma in realtà, dietro la reputazione da ribelli alimentata dall’isteria della stampa “liberal”, si nascondono «due politici legati a doppio filo proprio con quel sistema di potere europeo che dicono di volere abbattere».
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Sos Disruption: entro 15 anni sparirà un mestiere su due
Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».Le nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence stanno cambiando davvero tutto: sarà la fine del mondo, così come l’abbiamo conosciuto. E nessuno, a quanto pare, se ne sta accorgendo. Parlano i numeri, già drammatici secondo tutte le proiezioni ufficiali: a livello globale, da 1 a 2 miliardi di lavoratori perderanno il posto entro il 2030, la maggioranza in Occidente. A farne le spese saranno impiegati contabili e amministrativi, aziende manifatturiere e manodopera produttiva, insieme a costruzioni ed estrazioni minerarie, ma anche avvocatura e giudici, lavori di installazione e manutenzione, operatori di gru e trattoristi, meccanici e riparatori. Spariranno posti di lavoro nelle arti e nel design, nell’intrattenimento, nello sport e nei media, insieme a molte mansioni nel settore turistico. In compenso, dalla rivoluzione tecnologica usciranno rafforzati business e finanza, manager, informatica e matematica, architettura e ingegneria, ma anche rappresentanti, camerieri, specialisti in istruzione e formazione, pensatori creativi e manager per la Disruption – nonché farmacisti, infermieri e operatori socio-sanitari.«Entro il 2030 si stima che fino a 375 milioni di posti di lavoro, globalmente, dovranno essere “reskilled”, cioè riqualificati», scrive Barnard nel suo blog. Ad esempio: nel settore manifatturiero, dicono gli esperti, cadranno mansioni nelle mani dell’Artificial Intelligence e della robotica, ma il lavoratore potrà essere re-impiegato in fasi diverse del lavoro, aumentando la produttività: gli servirà però un “reskilling”. Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce, ha calcolato che i suoi robot da magazzino risparmiano a ogni magazziniere almeno 50.000 mosse fisiche al giorno, riducendone molto lo stress fisico ma soprattutto liberandogli tempo per aumentarne la produttività ma senza prolungare l’orario di lavoro. Naturalmente, scrive Barnard, Alibaba i suoi dipendenti li ha “reskilled”. Quindi, «l’impresa del “reskilling” di milioni di italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci». Ma una nazione con vincoli di budget «al limite del sadismo sociale», per citare l’economista Giulio Sapelli, come diavolo farà a riqualificare sul lavoro due o tre milioni di persone?Oltretutto, il “reskilling” è ormai un ordine di scuderia a tappe forzate: «Lasciar languire nella terra di nessuno i lavoratori in transito significa perderli per strada, con danni economici enormi». Si domanda Barnard: «Come farà l’Italia, soffocata nei bilanci dall’Eurozona, quando tutti gli esperti mondiali invocano chiaramente interventi di governo?». Già ora la Disruption, nelle parole di 20.000 imprenditori europei di tutti i settori, «sta imponendo un aumento vertiginoso nella richiesta di alcune professioni, che si prestano per assorbire sia una quota di futuri licenziati (“reskilled”), che i giovani post-laurea». La rivoluzione in arrivo, dice Barnard, avrà bisogno di nuovissime figure professionali, come i rappresentanti di ultima generazione: «Occorrono disperatamente venditori che siano formati prima di tutto a spiegare quei prodotti, poi a venderli a privati e governi, ma anche per raggiungere nuove fasce di clienti». Poi gli analisti dei dati: «Non occorre un dottorato per questa mansione, ma di certo un buon “reskilling” anche in assenza di laurea». Le aziende, aggiunge Barnard, oggi sanno che Big Data è la scoperta “nucleare” del commercio di prodotti e servizi: bisogna quindi «saper analizzare e trarre conclusioni intelligenti dall’immane massa di dati che la Disruption mette a disposizione».«Il successo si gioca qui, nel terzo millennio: la richiesta di analisti dei dati è destinata a esplodere fra pochissimi anni». Per i laureati brillanti «c’è già ora spazio per ricoprire un ruolo dirigente richiestissimo nei maggiori settori di commercio e servizi, cioè il Manager della Disruption: è colui che si specializza nel guidare l’azienda (piccola, media, grande) ma anche il settore pubblico, nella tempesta di cambiamenti che l’era digitale porta ogni minuto». In generale, proprio grazie alla Disruption, entro il 2030 sono previste globalmente 130 milioni di nuove assunzioni in sanità generale e assistenza agli anziani, nonché 50 milioni nelle tecnologie e altri 20 milioni nel settore energetico. Le professioni del tutto nuove che si prevede nascano grazie alla Disruption, spiega Barnard, sono «gli specialisti intra-umani, cioè intelligenza emotiva, capacità di persuasione, gestori delle emozioni umane nel sociale, e i creatori di motivazione; i pensatori creativi in ogni settore, sia scientifico che industriale che amministrativo, poiché essere super-specializzati ma ottuse ‘scatole di dati’ non innova nulla in azienda». E ancora: serviranno «gli ottimizzatori delle energie rinnovabili e gli operatori nella lotta al cambiamento climatico».Ogni singolo esperto in “occupazione & Disruption”, aggiunge Barnard, “grida” sempre la medesima cosa, che la Consultancy McKinsey & Co. ha espresso nel dicembre 2017 con una frase lapidaria: «La moltiplicazione dei lavori potrebbe più che compensare le perdite a causa dell’automazione. Ma nulla accadrà per magia – richiederà che i governi e il business sappiano creare le opportunità». E qui esplode il problema-Italia: chi si farà carico della formazione permanente imposta dalla Disruption, dati gli attuali limiti drammatici imposti alla spesa pubblica? La scuola, scrive Barnard, deve avere una conoscenza avanzatissima della Disruption in continuo aggiornamento, perché è molto probabile che una parte delle competenze insegnate oggi saranno obsolete per il mondo del lavoro nel giro di 5-8 anni, in media. Con un ritardo di questo genere, nelle scuole e università, cosa farà l’Italia? Ha qualche idea in proposito, il governo gialloverde? Il Miur, ministero dell’istruzione, università e ricerca, ammette di essere in emergenza: i dati Ocse dicono che ogni quindicenne italiano usa il computer in classe molto al di sotto della media europea (molto meno dei greci, e quasi un terzo del tempo di un australiano).Sempre per l’Ocse, i docenti italiani sono in assoluto i meno preparati, in Europa, all’era digitale. Ancora: nel Digital Economy Index, l’Italia languisce al 25mo posto su 28 paesi, ha lacune dappertutto. E nella velocità di connessione alla Rete è in fondo alla classifica europea con un umiliante 9.2 Mbps, davanti solo a Grecia e Cipro. Nelle aule si soffre moltissimo, di questo:«Il processo di diffusione della scuola digitale negli ultimi anni è stato piuttosto lento», confessa il Miur, che denuncia «azioni spesso non incisive e non complessive». Aggiunge Barnard: «Sapere è lavoro, ma un buon lavoro – oggi, nella Disruption – significa sapere molto. E con una situazione del genere c’è da mettersi le mani nei capelli». Nessuna area italiana è inclusa tra gli “Innovator leaders” europei. Solo il Piemonte figura tra gli “Strong innovators”, mentre il resto della penisola è in terza posizione, tra i “Moderate innovators”, mentre la Sardegna è relegata tra i “Modest innovators” come Croazia, l’Estremadura, l’Est Europa più povero e arretrato. Una mappa impetosa: «L’Italia non solo sprofonda nell’economia tradizionale (a causa soprattutto dell’Eurozona), ma colpevolmente i suoi governi degli ultimi 15 anni l’hanno tenuta fuori dalla realtà, cioè dalla Disruption, e infatti siamo “gialli”, cioè quasi ultimi nell’innovazione, e dunque fra gli ultimi nelle prospettive di lavoro dei nostri figli».Generalmente, aggiunge Barnard, un paese moderno ospita oltre 900 mestieri. E dato che «una buona parte delle nuove tecnologie della Disruption stanno sbocciando in queste ore o sbocceranno appena domani», è impossibile essere precisi. Ma una cosa è più che evidente: a dettare legge sarà la tecnologia dell’intelligenza artificiale di Machine Learning, «perfetta per sostituire i lavori ripetitivi d’ufficio, per far funzionare la logistica aziendale, per far “pensare” i robot nelle industrie, ma anche per sostituirsi all’umano in compiti complessi all’interno di molti mestieri sofisticati». Giusto per dare al pubblico un’idea del grado di penetrazione del Machine Learning, cioè del fatto che davvero saranno pochissimi i lavori di domani che non avranno almeno in qualche segmento un’intelligenza artificiale a sostituire qualcosa o qualcuno, la Mit Initiative sull’economia digitale «afferma che il mestiere in assoluto più “blidato” contro la Disruption è il… massaggiatore». All’altro estremo, invece, figurano «le mansioni che sembrano davvero destinate a essere falcidiate», ovvero «gli impiegati, i contabili, gli amministrativi in generale».Se è scontato che fra i “colletti blu” (diplomati, ma senza laurea) tanto dovrà cambiare, «molti genitori e studenti ancora non comprendono purtroppo cosa accadrà alle professioni dei “colletti bianchi”, degli specializzati, che siano medici, avvocati, commercialisti, o persino ingegneri informatici (esempio estremo, ma anche fra loro cadranno teste con l’Artrificial Intelligence)». Parla da solo il caso americano: nei primi 15 anni di digitalizzazione dell’economia Usa, ricorda Barnard, le disparità di redditi fra “colletti blu” (licenza liceale) e “colletti bianchi” (lauree) schizzò in alto, perché i secondi – grazie alla formazione digitale universitaria – poterono approfittare dei nuovi lavori ben pagati, gli altri no e subirono in pieno l’impatto devastante del crash bancario del 2008. Addirittura, il fenomeno ha raggiunto un tale livello di gravità che fra i “colletti blu” in America c’è un’epidemia di suicidi per disperazione, descritti in uno studio del 2014 firmato da Anne Case insieme ad Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia. «Vero è che gli Stati Uniti sono un incubo d’abbandono sociale dei deboli, dove il welfare quasi non esiste», ammette Barnard. In compenso, l’Europa si sta auto-sabotando con i tagli sanguinosi al suo welfare.«I criminosi limiti di spesa pubblica che l’Ue impone agli Stati membri – dice Barnard – escludono in via categorica che i vari schemi di Reddito di Cittadinanza abbiano un potere di fuoco sufficiente a evitare al nostro paese un’apartheid fra inclusi ed esclusi nella Disruption». In altre parole: «Finché Eurozona sarà – insiste il giornalista, rivolto ai lettori – il realismo mi costringe a dirvi che l’unica arma che rimane ai vostri figli per difendersi dal destino denunciato da Angus Deaton e Anne Case è una formazione solidissima ai nuovi lavori della Disruption (che non sono solo tecnologia)». Dunque il messaggio per genitori e ragazzi è chiarissimo: «La seconda ondata di digitalizzazione in corso oggi con la Disruption porta soprattutto con sé il pericolo di un enorme divario nei redditi, oltre a una sostanziale dose di lavori perduti». Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, secondo Barnard c’è una sola arma concreta: per i giovanissimi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile, che li presenti al mondo del lavoro come appetibili, e per i già impiegati l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione “a vita”. Il rischio fatale, per l’Italia del lavoro, è di rimanere tragicamente indietro: «Significherebbe un prossimo secolo di arretratezza e bassa economia per tutti i nostri giovani e per i loro figli». Nel 2016 il World Economic Forum lo disse senza mezzi termini: «Chi non si prepara affronterà costi sociali ed economici enormi».Attenzione: qualcosa di analogo a quanto sta per accadere (e di cui nessuno parla) è già avvenuto, nella storia. Per dare un’idea della dimensione planetaria del problema, Barnard cita lo scozzese James Watt: «Nel 1775 diede vita alla più dirompente Disruption della storia con l’invenzione della macchina a vapore». Fece morire di colpo i vecchi mestieri, ma al tempo stesso fece esplodere lo sviluppo sociale umano, il che significa benessere e quindi possibilità democratiche. Per 9.700 anni filati, scrive Barnard, le condizioni di vita del popolo comune «rimasero sostanzialmente identiche, a un livello abominevole, spesso peggio degli animali selvatici». Poi arrivò la Disruption di Watt – e delle scienze post-Galileo con l’elettromagnetismo di Faraday e di Maxwell – e in Occidente tutto cambiò di colpo, perché cambiò il lavoro, aumentarono i redditi e con essi la rivendicazione dei diritti. «E’ vero che la Disruption di allora si portò dietro una buona dose di lacrime e sangue prima di darci la modernità del benessere, che tuttavia furono nulla in confronto a 9.700 anni di standard di vita abietti oltre l’immaginabile. Ma l’altra faccia, gloriosa, di quell’esplosione tecnologica fu di fornire alle lotte sociali mezzi tecnologici di diffusione, e quindi di successo, impensabili prima, fino appunto alla moderna civiltà».Oggi, sottolinea Barnard, la Disruption delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence «sta scatenando un’altra storica impennata dell’umanità, che è però di molto superiore a quella di Watt per l’enorme potere tecnologico odierno. E di nuovo, tutto si gioca su come cambierà il lavoro: non chissà quando, ma entro il 2030». Demis Hassabis, Ceo di Google DeepMind (azienda che sta al centro della galassia “Ai”), ha detto: «Il nostro goal è di conquistare l’intelligenza, poi di usarla per risolvere tutti gli altri problemi». Macchine intelligenti, al posto di esseri umani. Ed enorme disparità tra chi resterà al passo e chi sarà tagliato fuori. Lo confermano gli studi delle maggiori “Consultancies” del mondo: Pwc Uk, Deloitte, McKinsey, Accenture. Tutti d’accordo, insieme agli accademici: almeno nella prima fase, la Disruption fondata sull’intelligenza artificiale (robotica, nuove tecnologie), falcerà milioni di posti di lavoro. Ma la stessa Disruption, spiega Barnard, offre possibilità di recupero nella riqualificazione, nell’aumento di richiesta per certe professioni e nel fatto che nasceranno lavori che oggi non esistono.Tutto dipende da due fattori decisivi: la velocità dei governi nel legiferare misure per cavalcare la Disruption, favorendo la nascita dei nuovi lavori, e l’intelligenza dei datori di lavoro «nel capire che l’epoca dell’egoismo del profitto è morta, gli porterà solo fallimenti certi». Il futuro digitale «impone intelligenza», il che significa «coordinamento fra aziende, e fra di esse e lo Stato». Di fatto, avverte Barnard, con la Disruption «oggi saltano le politiche di creazione di lavoro, in Occidente, che i nostri padri e noi abbiamo conosciuto finora». Problema: «I contemporanei di un fenomeno epocale di cambiamento faticano sempre a svegliarsi di fronte al nuovo, e questo si traduce in drammi». Per dire: «Quanti italiani oggi leggono i giornali al mattino cercando ansiosamente notizie sulle politiche del lavoro del ministro Di Maio per la Disruption? Nessuno. Eppure la leadership mondiale non ha più dubbi sul fatto che essa ribalterà, come mai prima nella storia, proprio l’occupazione di numeri impressionanti nel globo». Certo, i politici «hanno il vincolo del breve mandato e l’ossessione cieca del voto-subito entro il mandato, per cui non s’impegneranno mai in politiche e dibattiti che all’italiano medio sembrano fantascienza». Idem per i media: «Sanno che la Disruption è una news che oggi si può vendere agli italiani solo al 300esimo posto dopo la casta, la corruzione, il politici-ladri, gli immigrati, le polemiche Tv, e trattano il tema principalmente come folklore da futuristi. Risultato: non un singolo organo di stampa italiano sta davvero informando su come sarà stravolta l’economia, la politica e la fabbrica sociale di ogni paese moderno per mano della Disruption».E così si compie un circolo vizioso devastante per l’Italia, destinata ad arrancare come fanalino di coda «mentre Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Cina, Sud-Est Asiatico e ovviamente gli Usa si saranno già spartiti l’immensa torta del lavoro e del Pil da Disruption». Risultato: «I giovani italiani nel precariato, in preda alla disoccupazione e ancora disperatamente dipendenti da quel rivolo che gli rimane del risparmio di nonni e genitori degli anni 70’-90’», prigionieri di un paese sempre più confinato tra i “Pigs” con Portogallo, Grecia e Spagna – non più Piigs, annota Barnard, «perché invece l’Irlanda sta capendo e cavalcando la Disruption, è ha già preso il volo da quell’acronimo infame». Ma non è destino degli dèi che debba davvero andare così, aggiunge il giornalista: a sta a noi capire la Disruption per sapere come inciderà sul Pil e sull’occupazione. Ma non c’è tempo da perdere: «La velocità di sviluppo delle nuove tecnologie per il lavoro è talmente forsennata che è già stato calcolato che diversi “skills” – così si chiamano le competenze centrali per la Disruption – che vengono insegnati agli studenti oggi, tempo che gli studenti si presenteranno ai colloqui di lavoro in aziende saranno già obsoleti».In parole semplici: «Mentre tu studi intensamente un’applicazione di Machine Learning per l’edilizia, Machine Learning ne ha scovata una migliore, tu ti presenti al colloquio di lavoro e il datore se ne fa poco, di te». Scrive il Mit di Boston: le tecnologie cambiano i modelli di business e molto spesso questi si traducono in uno sconvolgimento simultaneo del set di “skills” che le aziende richiedono, e questo già oggi crea difficoltà nell’assumere personale. Velocità: «Sarà un problema enorme proprio sul mercato del lavoro dei giovani, e altrettanto enorme per eventuali programmi di apprendistato, che rischiano di diventare degli autogoal con sprechi di finanziamenti enormi», osserva Barnard. Attenzione, però: le stesse tecnologie di Big Data possono dare al governo «un inimmaginabile potere di efficiente governanace». La stessa “cloud” potrà essere usata da tutto il sistema produttivo italiano di beni e servizi in un dialogo diretto, in tempo reale, col ministero dell’istruzione. Pubblico e privato potrebbero scambiarsi informazioni istantanee su «come sta cambiando la natura degli “skills” dentro le aziende, gli ospedali e le varie istituzioni». Lo stesso Miur, come sollecitano gli esperti internazionali, «dovrà avere l’elasticità e la prontezza di riflessi di trasmettere immediatamente a scuola e università il messaggio dei datori di lavoro», per armonizzare domanda e offerta in base ai nuovi parametri in costante evoluzione.Fantascienza? Non ci sono alternative, par di capire. «Questo è il tipo di ambizioso progetto che un paese oggi deve essere in grado d’intraprendere se davvero è serio sulla difesa del lavoro», sostiene Barnard, auspucando «un salto innovativo, in linea con gli attori vincenti nella Disruption». Scrive McKinsey Global: «I governi devono totalmente riconsiderare i modelli scolastici odierni. La questione è urgente, e devono mostrare una leadership di grande coraggio nel riscrivere i curricula. E’ un’elasticità che da decenni il mondo del lavoro attende». Oggi, infatti, il “reskilling” è sulla bocca di tutti gli operatori economici. Per Barnard, a salvare il sistema-Italia sarà un “reskilling” (o “upskilling”) dei lavoratori, da condurre a vita, per ogni settore del Pil italiano. «Dovrà essere intelligente, il che significa innanzi tutto che va fatto in partnership con il settore privato dell’Italia, il quale deve saper dimostrare una “vision” ben oltre la sua tradizionale e provinciale parcellizzazione». Soprattutto, le tecnologie di Big Data «dovranno essere usate da governo e datori di lavoro per “better forecasting data and planning metrics”, cioè saper prevedere le svolte e pianificare con largo anticipo la richiesta dei talenti, su cui poi appunto lanciare in tutto il paese programmi di “reskilling” (o di “upskilling”) con chirurgica precisione».Dunque, secondo Barnard, l’Italia è alla storica sfida dell’occupazione nell’era della Disruption. «Il potere globale di quest’ultima è senza limiti, ma gli Stati possono governarla per tutelare l’impiego nella colossale tempesta dei cambiamenti». In questo sforzo, aggiunge, il governo deve comprendere un aspetto cruciale che distingue le tecnologie della Disruption: si dividono infatti in due rami, quelle di tipo Enabling e quelle di tipo Replacing. «La Disruption porterà sia una richiesta di lavori già esistenti riformulati in nuove versioni, che nuove professioni che oggi non esistono». In questo caso, nella versione Enabling, aprirà vasti bacini di posti di lavoro ma, al tempo stesso, spazzerà via schiere di mestieri perché le macchine “pensanti” li rimpiazzeranno (Replacing, appunto). Ne consegue una scelta politica di orizzonte: «E’ totalmente futile ed economicamente distruttivo continuare a spendere sia fondi pubblici che fondi privati (delle famiglie) per formare giovani, o per incoraggiare lavori, destinati alla categoria dove le tecnologie saranno di tipo Replacing, poiché significa destinare esseri umani a un suicidio lavorativo certo».Per Barnard, l’Italia dovrà quindi «investire massicciamente nell’adozione del maggior numero di tecnologie Enabling per ovvi motivi di creazione di lavoro», ma dovrà anche «essere scaltra nell’incoraggiare quelle che si adattano meglio alla struttura sociale, alla conformazione territoriale e produttiva del nostro paese». Un esempio concreto? «Siamo uno dei popoli più longevi del mondo, perciò la cura extra-ospedaliera dei nostri anziani arricchita dalle nuove tecnologie Enabling del settore è garanzia di creazione d’innumerevoli mansioni a ogni livello di complessità (settore del Personal Care). Sono mansioni che saranno utili a nuovi impieghi sia per i cittadini meno “skilled” che per gli specialisti. La medesima strategia va applicata alla nostra struttura architettonica, geografica, energetica, sempre per generare ampio impiego». Al problema della Disruption, in questi mesi, Barnard ha dedicato il massimo impegno, lavorando in solitudine, convinto che l’umanità sia ormai di fronte «al più dirompente cambiamento occupazionale dal 1775 a oggi», dai tempi della macchina a vapore. «Continuo a ripeterlo: le soluzioni a problemi sistemici devono essere sistemiche, il resto sono truffe vendute da politici cinici a un pubblico stupido, i cui figli poi piangeranno per generazioni».Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».
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Scie in aumento, Mini: la guerra climatica ormai è realtà
La frequenza delle scie nei nostri cieli (scie di varie forme, dimensioni e colori) si è intensificata. Molti ormai le chiamano “scie chimiche”, ma l’ufficialità continua a negare la loro esistenza. Militari dell’aeronautica e grande stampa, servizi meteo, scienziati e ministri ripetono che si tratta di un fenomeno “normale”, giustificato dal traffico aereo intensificato. Non la pensa così il generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo. Per l’alto ufficiale, il fenomeno è anomalo: durante la guerra in Kosovo – ricorda Mini – la manipolazione delle nubi aveva un’importanza strategica ed è stata attuata. «Si possono creare o dissolvere artificialmente e rappresentano uno strumento di guerra», riassume il sito “Ereticamente”, riportando recenti interviste rilasciare dal generale. «Si usano sostanze chimiche (sodio, bario, alluminio, polimeri) che vengono impiegate per le deviazioni delle onde elettromagnetiche». Fabio Mini esorta i cittadini a pretendere la verifica, l’ammissione da parte delle autorità, facendo pressioni per ottenere accertamenti e informazioni ufficiali rilasciate da autorità competenti e di responsabilità: sanità e difesa, aeronautica, ministero dell’agricoltura e della ricerca scientifica. Obiettivo: verificare l’esistenza di prove dettagliate e inconfutabili.«Riguardo alla questione della geoingegneria – avverte Dane Wigington sul sito “NoGeoingegneria” – le porte di tutti i rappresentanti del governo e di tutte le agenzie governative sono state sbarrate. I responsabili delle operazioni di irrorazione proteggono questi programmi negli ultimi decenni. Le agenzie governative che si occupano di qualità dell’aria e dell’acqua sono state strutturate in modo tale da mascherare la montagna di composti tossici originati dai programmi di modificazione climatica e meteorologica». Come Mini, anche Wigington esorta a «fornire dati credibili e inattaccabili per poi metterli nelle mani di autorità competenti e spingerle ad occuparsene attivamente». La lista di possibili interlocutori è infinita, aggiunge “Ereticamente”: «Si passa da chi si occupa di questioni ambientali, cibo biologico, malati di Alzheimer, autismo e Adhd a settori quali l’allevamento, la forestale, il giornalismo». In una recente intervista con Enzo Pennetta, lo stesso Mini ricorda che ormai «la guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento».Una caratteristica delle guerre moderne, aggiunge Mini, è anche la perdita di consapevolezza sulla verità: e in questo, la tecnologia sa fare miracoli. «Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime». Secondo il professor Pennetta, il cinema americano prepara lo spettatore ad “abituarsi” alla guerra climatica, attraverso immagini più o meno subliminali, dal 1959. Oggi, il “Weather Channel” allarma sui disastri naturali milioni di spettatori su schermi flat e smartphone, come “previsto” (saputo in anticipo?) dalla propaganda militare di Disney nel 1959 con il film “Eyes in Outer Space”, prodotto in collaborazione col Pentagono. «Il film usa musica e animazioni per speculare sull’uso della tecnologia dei satelliti militari lanciati nello spazio, insieme ad una rete di difesa coordinata ed a certi strumenti per modificare il clima. Il controllo del clima, la guerra che minaccia l’ambiente, appunto. Quel film ritrae un ordine futuristico di satelliti e armi spaziali che fanno parte di un sistema di totale controllo climatico militare indirizzato dal presidente Kennedy. E’ stato previsto che satelliti in grado di tracciare il clima avrebbero permesso alle forze militari statunitensi di predire i modelli climatici per progettare attacchi coordinati contro fenomeni naturali nefasti anticipandoli di mesi».Il mondo attuale, che “copre” certi progetti di geoingegneria, armi chimiche, elettromagnetiche e spaziali – conclude “Eticamente”, citando Pennetta – è stato anticipato dal film di Walt Disney in stretta collaborazione con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Ci dà una prospettiva storica di come la propaganda statale venga usata per condizionare una deviazione culturale programmata in supporto all’uso della tecnologia militare come le armi usate contro il mondo naturale». Inutile stupirsi se le “scie chimiche” non trovano cittadinanza sui media, se non per il facile sarcasmo delle cosiddette “bufale”. «Siamo in piena guerra dell’informazione da cui, di riflesso, scaturiscono tutte le altre guerre», sintetizza “Ereticamente”. «Una guerra a colpi di mezze verità, bufale, bufale su verità, verità su bufale con tutti i vari incroci ed intrecci che ne derivano». Secondo il blog, «il diavolo si diverte da sempre a mischiare le carte in tavola con grandi verità condite da grandi porcate e grandi menzogne che, tra le righe, nascondono verità». Del gioco fa parte anche il fantastico “algoritmo anti-bufale” messo a punto da Google, «che in sostanza ci dice: le bufale le decido io, tutto il resto è la verità».In questo clima di guerra all’ultimo scoop e bombardamento mediatico propagandista, spunta un tema che sta a cuore a tutti, di cui ci si preoccupa o di cui si ride: «Le scie chimiche, il clima impazzito, la guerra climatica o ambientale innaffiata ogni giorno dalla guerra della disinformazione». Aggiunge “Ereticamente”: «Le scie chimiche associate al clima impazzito ed a fenomeni di manipolazione di disastri naturali come terremoti, tsunami, cataclismi e siccità non sono più materia di ‘bufale’». Una vera e propria guerra ambientale è già in atto, afferma il generale Mini: «E’ guerra climatica, clima modificato con agenti chimici». Il protocollo ha un nome evocativo: “Owning the Wheather”, possedere il clima. Dal 2007, il generale affronta la delicata questione delle armi di nuova generazione, destinate a provocare disastri solo apparentemente naturali. «Ha osservato che le scie chimiche che segnano i nostri cieli non sono affatto “di condensa”, chiarendo ogni dubbio in merito». Mini spiega che c’è qualcosa di più della classica disinformazione dei media: in ambito militare esiste una pratica chiamata “denial of service”, «in base alla quale non solo occorre negare l’evidenza, la verità e la realtà, ma bisogna negare anche l’informazione». E sottolinea: «Negare l’informazione è già, di per sé, un atto di guerra».Tradotto: «Le persone e interi paesi non devono essere informati», A volte, questa regola «porta a vere catastrofi, come nel caso dello tsunami in Indonesia», riassume “Ereticamente”, citando Mini: «Si poteva avvertire quella gente, ma si sono verificate interruzioni nella trasmissione delle informazioni per via di anelli mal funzionanti o volutamente non funzionanti che hanno impedito la comunicazione». Si torna al punto di partenza: la guerra dell’informazione a tutti i livelli. La nuova arma di distruzione di massa? E’ la “bomba climatica”: «Si sta lavorando a quest’arma di distruzione in segreto, per ottenere vantaggi inimmaginabili su scala mondiale», dichiara il generale. «Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi». Uno scenario orwelliano, purtroppo non fantapolitico. «E’ il risultato reale di certe progettazioni in materia di tecnologie militari che la gente non può e non deve conoscere», scrive “Ereticamente”. In campo militare non esiste una moralità che impedisca di varcare un certo limite. «Ciò che si può fare si fa», ammette il generale: per ottenere un vantaggio, si usano tecnologie «senza fare test sufficienti», pur di sperimentarne gli effetti direttamente sul campo.La capacità di condizionare l’ambiente sarebbe ormai una realtà, in ambito militare: potrebbe provocare tornado, terremoti, tsunami, uragani. «Si controlla il clima, lo spazio atmosferico, e si conducono operazioni belliche in sicurezza. S’irrorano le nubi con ioduro d’argento, polimeri e altre sostanze chimiche per spostarle o dissolverle», scrive “Ereticamente”. Il generale Mini racconta del “Progetto Seal” avviato con fondi americani e inglesi nel 1946 per indurre piccoli tsunami. Lo scienziato che conduceva gli esperimenti in Australia, Thomas Leech, si spaventò e bloccò il lavoro, ma sicuramente quegli esperimenti furono ripresi e perfezionati in seguito. Con un articolo pubblicato dalla rivista di geopolitica “Limes”, Mini ha divulgato il progetto dell’aeronautica militare statunitense risalente al 1995. Scie chimiche? Un reporter come Gianni Lannes sostiene che l’Italia si oppose a certi sorvoli già ai tempi di Pertini, per poi autorizzarli a partire dal 2001, in piena era Bush. In Sicilia la popolazione si è opposta alle maxi-antenne dell’installazione strategica Muos di Niscemi, collegata al sistema Haarp per il controllo militare mediante onde radio che “rimbalzerebbero” sulla ionosfera, utilizzando un “microfilm” in sospensione – diffuso dalle scie degli aerei? Tante ipotesi, ma nessuno ha ancora spiegato ufficialmente che cosa sono, quelle scie bianche che da meno di vent’anni “infestano” i nostri cieli.La frequenza delle scie nei nostri cieli (scie di varie forme, dimensioni e colori) si è intensificata. Molti ormai le chiamano “scie chimiche”, ma l’ufficialità continua a negare la loro esistenza. Militari dell’aeronautica e grande stampa, servizi meteo, scienziati e ministri ripetono che si tratta di un fenomeno “normale”, giustificato dal traffico aereo intensificato. Non la pensa così il generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo. Per l’alto ufficiale, il fenomeno è anomalo: durante la guerra in Kosovo – ricorda Mini – la manipolazione delle nubi aveva un’importanza strategica ed è stata attuata. «Si possono creare o dissolvere artificialmente e rappresentano uno strumento di guerra», riassume il sito “Ereticamente”, riportando recenti interviste rilasciare dal generale. «Si usano sostanze chimiche (sodio, bario, alluminio, polimeri) che vengono impiegate per le deviazioni delle onde elettromagnetiche». Fabio Mini esorta i cittadini a pretendere la verifica, l’ammissione da parte delle autorità, facendo pressioni per ottenere accertamenti e informazioni ufficiali rilasciate da autorità competenti e di responsabilità: sanità e difesa, aeronautica, ministero dell’agricoltura e della ricerca scientifica. Obiettivo: verificare l’esistenza di prove dettagliate e inconfutabili.
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Sapelli: dalle macerie italiane risorge il popolo degli abissi
No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».Il terzo male, per Sapelli, è l’inerzia delle parti sociali, «che vedono spogliare questa nazione delle sue risorse e nulla fanno come le borghesie commerciali “sudamericane”». E i sindacati, pur essendo «l’ultima istituzione che tiene», di fatto «rinunciano alle battaglie sui punti fondamentali». E questo, ovviamente, implica il fatto di «correre il pericolo del nazionalismo della povera gente e della classe media in discesa, con i fantasmi fascisti che ritornano». Proprio le fasce più deboli sono quelle più esposte al “quarto male” a cui gli elettori avrebbero detto basta, cioè «l’immigrazione incontrollata e non gestita con l’intelligenza della sicurezza e del rispetto della persona, non solo dei migranti, ma anche dei poveri e degli anziani che si trascinano una vita di stenti e non ne possono più di forti giovanotti con cellulare e venti euro in saccoccia: gli esempi australiani e tedeschi di accoglienza sono lì, ma noi nulla facciamo». Per l’economista, letteralmente, «si è disgregato lo Stato». Ed è quindi inevitabile che forze come i 5 Stelle e la Lega di Salvini si presentino come alternative al sistema.Da anni, Sapelli rileva l’inversione della tradizionale rappresentanza partitica: «I ricchi votano la loro sinistra, ossia Pd, Pisapia, Bonino, eccetera, mentre i poveri votano a destra, come sta accadendo in tutto il vecchio mondo neo-industriale. Non c’è bisogno di scomodare Trump, basta guardare alla Germania e alla Francia. Lì non votano e Macron viene eletto dal 23% degli aventi diritto». In Italia la partecipazione elettorale è ancora alta, ma travolge il vecchio schema destra-sinistra. Beninteso: «Sinistra, destra e centro sono ben presenti nel sociale e nell’universo simbolico del “popolo degli abissi”, ma quel popolo ha già compreso che le vecchie casacche vestono i morti: “Le mort saisit le vif”, diceva il filosofo di Treviri». A parte Marx, secondo Sapelli non bisogna «perdere la speranza che i nuovi universi simbolici siano educati dalle istituzioni e da una rinascita del ruolo degli intellettuali, che ora pasolinianamente al popolo si avvicinino senza più tradirlo». Quello del 4 marzo, insomma, «è un voto di speranza e di trasformazione».No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».
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Borsa nera, come in guerra, dopo l’abolizione del contante
In un paper pubblicato lo scorso marzo, Alexei Kireyev del Fondo Monetario Internazionale consiglia di abolire il denaro contante senza informare i cittadini. Inizialmente bisognerebbe ritirare dalla circolazione le banconote di grosso taglio, quindi devono essere imposti i limiti sulle transazioni in contanti, poi il sistema finanziario mondiale deve essere informatizzato e messe sotto controllo le transazioni internazionali in contanti e, infine, le imprese private devono essere incoraggiate ad evitare operazioni in contanti. Kireyev si basa sulle idee dell’ex capo del Fmi Kenneth Rogoff. Nel suo libro del 2016 “The Curse of Money”, raccomanda l’abolizione del contante, perché, a suo parere, ciò contribuirebbe alla lotta contro la criminalità, l’evasione fiscale e la riduzione del settore sommerso. La Bce lo ha subito sostenuto e ha promesso di non stampare la banconota da 500 euro dopo il 2018. Il governo dell’India ha fatto la stessa cosa: nel novembre 2016 ha inaspettatamente messo fuori corso, da un giorno all’altro, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie – un bel colpo contro l’economia in nero e la corruzione! Il giorno seguente, sulle strade dell’India regnava il caos – folle di persone davanti a banche, sportelli bancomat vuoti – tutti volevano ritirare i propri soldi, scambiare le vecchie rupie con quelle nuove e valide, e ci sono state anche delle vittime.Gli altri governi hanno subito seguito con entusiasmo le idee dei grandi guru dell’economia, senza curarsi di ciò che stava accadendo nelle strade indiane: l’Australia vuole ritirare dalla circolazione le sue banconote da 100, e il Venezuela ha già abolito la banconota da 100 bolivar. Francia, Italia, Spagna e Grecia hanno già dei limiti massimi per i prelievi di contante e in Germania è attualmente in discussione un tetto di Eur 5000. In alcuni paesi, l’abolizione del contante sta diventando un mezzo di lotta politica. In Polonia, il primo ministro Mateusz Morawiecki ha introdotto i pagamenti cashless al servizio postale pubblico. Presto sarà anche possibile pagare le multe direttamente alla pattuglia della polizia. Probabilmente, non tutti i politici polacchi vanno pazzi per l’idea che i funzionari non entrino in contatto con denaro contante – ad esempio il capo della Banca nazionale polacca Adam Glapiński, che ha contemporaneamente introdotto la nuova banconota da 500 zloty. L’abolizione del contante è solo un passo sulla strada verso una follia ancora peggiore: Kenneth Rogoff ha altre insane idee da vendere. La più assurda: ha raccomandato ai politici europei gli interessi negativi, sulla base del fatto che si renderanno comunque necessari quando verrà la prossima crisi.Ricordiamo al lettore che il tasso di interesse negativo trova il suo limite nel contante. Se l’interesse diventa troppo negativo, i risparmiatori si rifugeranno nel contante. Quali conseguenze avrebbe la sua idea se fosse implementata? Cosa accadrebbe se fossero introdotti tassi di interesse negativi? I risparmi dai conti correnti confluirebbero verso beni tangibili, specialmente gioielli, lingotti d’oro e altri metalli preziosi. I loro prezzi salirebbero a livelli senza precedenti, così come l’inflazione guidata dalla speculazione. A ciò si aggiungerebbe l’aumento dei prezzi degli immobili, in quanto le persone preferiscono investire nelle case piuttosto che in inutili carte di credito. Il baratto e il mercato nero prospererebbero come in tempo di guerra: si otterrebbe l’opposto di ciò che si desidera. E i criminali e i politici corrotti troverebbero certamente un altro mezzo di scambio per condurre i loro affari – è noto che i commercianti di armi e i gruppi terroristici pagano con diamanti.L’abolizione del contante e l’introduzione del tasso di interesse negativo colpirebbero solo i cittadini ordinari, rendendoli in qualsiasi momento completamente trasparenti di fronte alle autorità – dopotutto, è più facile controllare e influenzare persone assolutamente trasparenti, la cui intera vita può essere tracciata da un estratto conto. I famosi economisti, banchieri e uomini di governo dimenticano che il contante non può essere abolito, solo la moneta stampata dalle banche centrali può essere abolita. Fanno i conti nelle loro torri d’avorio senza considerare l’oste, i cittadini ordinari. I cittadini si indigneranno e scenderanno in piazza, come hanno fatto dopo l’abolizione delle banconote in India. Alla fine troveranno delle valute alternative per condurre i loro affari, liberi dall’interferenza del governo. Ma ai guru economici non interessa – l’esperimento sulla popolazione è l’unica cosa che conta per loro, anche a costo di mietere vittime.(“Cittadini trasparenti, tassi di interesse negativi e altre folli idee degli ‘esperti’ in economia”, da Gifra.org del 15 dicembre 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).In un paper pubblicato lo scorso marzo, Alexei Kireyev del Fondo Monetario Internazionale consiglia di abolire il denaro contante senza informare i cittadini. Inizialmente bisognerebbe ritirare dalla circolazione le banconote di grosso taglio, quindi devono essere imposti i limiti sulle transazioni in contanti, poi il sistema finanziario mondiale deve essere informatizzato e messe sotto controllo le transazioni internazionali in contanti e, infine, le imprese private devono essere incoraggiate ad evitare operazioni in contanti. Kireyev si basa sulle idee dell’ex capo del Fmi Kenneth Rogoff. Nel suo libro del 2016 “The Curse of Money”, raccomanda l’abolizione del contante, perché, a suo parere, ciò contribuirebbe alla lotta contro la criminalità, l’evasione fiscale e la riduzione del settore sommerso. La Bce lo ha subito sostenuto e ha promesso di non stampare la banconota da 500 euro dopo il 2018. Il governo dell’India ha fatto la stessa cosa: nel novembre 2016 ha inaspettatamente messo fuori corso, da un giorno all’altro, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie – un bel colpo contro l’economia in nero e la corruzione! Il giorno seguente, sulle strade dell’India regnava il caos – folle di persone davanti a banche, sportelli bancomat vuoti – tutti volevano ritirare i propri soldi, scambiare le vecchie rupie con quelle nuove e valide, e ci sono state anche delle vittime.
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Sudditi: la verità che nessuno vuole. E buone elezioni a tutti
Gli slogan elettorali nell’Italia del 2018? Piccoli corvi, che banchettano sui resti di un cadavere. «Voi ora vivete in uno Stato che non esiste più, avete delle leggi che non contano più niente: la vostra sovranità economica non esiste più». La voce sembra quella del vecchio marinaio di Coleridge, che insiste nel raccontare una storia atroce, che nessuno vuole ascoltare: la storia di un naufragio che si trasforma in catastrofe, dove ciascuno tenta disperatamente di sopravvivere a spese degli altri. E’ inaccettabile, il racconto del superstite. Troppo duro da digerire: «Nell’arco di pochi decenni, sono riusciti ad ammazzare la cittadinanza occidentale: eravamo persone capaci di cambiare la propria storia. L’Italia, con un solo partito e una sola televisione, ha fatto divorzio e aborto: eravamo figli del Vaticano ma siamo riusciti a ribaltare il paese». Dov’è finita quell’Italia? Davanti al televisore, ad ascoltare le amenità di Renzi e Grasso, Berlusconi e Di Maio. Di loro si occupano i giornalisti, gli stessi che ignorano l’altro giornalista, quello vero. Il vecchio marinaio. Il folle, l’eretico. L’ostinato reduce che insiste nel raccontare la verità che nessuno vuole sentire. Verità semplice e drammatica: c’è solo una politica in campo, quella del vero potere. E’ il potere antico, quello dei Re. E si è ripreso tutto. Distruggendo cittadini, leggi e Stati.
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Microchip sottopelle per pagare il treno, se viaggi in Svezia
Niente più biglietti o sms, per viaggiare sui treni svedesi basta un microchip sottopelle. La compagnia ferroviaria di Stato svedese “Sj” ha cominciato ad accettare biglietti caricati su microchip impiantati nella mano dei viaggiatori, annuncia il “Corriere della Sera”. Basta solo essere iscritti al programma di fedeltà e avere già il microchip impiantato nel proprio corpo. «In Svezia sono circa già 3.000 le persone dotate del microchip (che usa la tecnologia Nfc Near Field Communication, quella delle carte di credito) e passate quindi allo stadio di cyborg, cioè organismi cibernetici composti da corpo naturale e uno o più elementi artificiali». Niente di così diverso, in teoria, dai pazienti cardiaci che da decenni vivono con un pacemaker o un defibrillatore impiantato nel torace e collegato al cuore, scrive Stefano Montefiori sul “Corriere”. «Quelle però sono tecnologie avanzate e costose destinate a salvare la vita del malato, mentre nel caso svedese si tratta di un piccolo congegno grande quanto un chicco di riso, del costo di circa 150 euro, che serve per rendere più facili alcune operazioni della vita quotidiana». I passeggeri svedesi lo utilizzano per viaggiare: possono comprare il biglietto sul web o sull’applicazione “Sj” e, una volta connessi con il loro numero di “programma fedeltà”, il titolo di trasporto viene caricato sul microchip.Sui treni svedesi, il controllore avvicina il lettore alla mano del passeggero e appaiono tutti i dati del biglietto. «Qualcuno ha sollevato dubbi sulla privacy – dice un portavoce della compagnia – ed è una questione che prendiamo molto sul serio. Ma se davvero la paura è di essere tracciati, allora sono più preoccupanti smartphone e carte di credito». Dopo gli orologi connessi che monitorano il sonno e il battito cardiaco o il riconoscimento facciale usato per fare acquisti o il check-in agli aereoporti (lo usa la Finnair), i microchip simili a quelli usati da anni sugli animali «vengono impiantati nell’uomo per aprire e chiudere le porte degli uffici senza bisogno di digitare un codice, accendere e spegnere le luci, pagare il caffé alla macchinetta e adesso, appunto, mostrare il biglietto al controllore delle ferrovie di Stato svedesi», aggiunge Montefiori. I circa 3.000 microchip già in uso in Svezia, spiega il giornalista, hanno cominciato a essere impiantati tra il pollice e l’indice della mano all’inizio del 2015 dalla start-up Epicenter, a Stoccolma, che propone ai dipendenti di usarli per entrare nell’azienda, fare funzionare le stampanti o comprare una bottiglietta d’acqua ai distributori automatici. «Impiantare qualcosa di elettronico nel corpo è stato un passo importante anche per me – dice Patrick Mesterton, capo di Epicenter – ma poi diventa naturale e molto comodo».Altre aziende, in Belgio e negli Usa, hanno seguito l’esempio svedese. In Australia, scrive ancora il “Corriere”, centinaia di persone hanno già fatto ricorso al servizio “Chip My Life”, fondato da Shanti Korporaal. «Ma è la prima volta che il microchip viene usato in un’azienda rivolta al grande pubblico come le ferrovie svedesi». La tendenza di incorporare la tecnologia nell’uomo fa immaginare a Elon Musk (Tesla, Space X, Neuralink) un futuro prossimo in cui i nostri cervelli saranno collegati a Internet: «Le persone non capiscono che già adesso sono dei cyborg. Se ti dimentichi il cellulare ti senti come se ti mancasse un braccio. Ci stiamo già fondendo con i telefonini e la tecnologia». Tra i non entusiasti si segnala Massimo Mazzucco, inorridito dall’ennesima inquietante innovazione tecnologica di massa introdotta dal paese scandinavo: «Più passa il tempo, più mi convinco che la Svezia sia stata scelta come laboratorio umano per far passare le successive “rivoluzioni” del nuovo ordine mondiale», scrive Mazzucco su “Luogo Comune”.«Prima c’è stata la rivoluzione cash-free, nella quale un popolo di beoti ha accettato con entusiasmo l’idea di abolire progressivamente il contante, fino ad arrivare ad una moneta esclusivamente elettronica, mettendosi interamente nelle mani di un qualunque banchiere, che può decidere da un giorno all’altro di azzerare tutto quello che hanno». In seguito, continua Mazzucco, «gli svedesi si sono vantati di essere i primi ad aver sperimentato il microchip sottopelle per pagare il biglietto del treno». Fa impressione guardare con quale orgoglio i “testimonial” dei video promozionali raccontano di aver fatto parte di questo esperimento. «Naturalmente, una volta impiantato, quel microchip tornerà utile per metterci mille altre cose: il problema principale era quello di farlo accettare, e a quanto pare i “controllori del treno” ci sono riusciti in pieno».Infine, gli svedesi «stanno studiando una “rivoluzione” nel campo sessuale», eliminando la spontainetà nei rapporti. E’ infatti in preparazione una legge secondo la quale «gli adulti svedesi potrebbero essere condannati per violenza sessuale a meno di ricevere un segnale verbale o non verbale di consenso dal loro partner, durante ogni passaggio dell’incontro sessuale». In altre parole, scrive Mazzucco, uno svedese dovrebbe chiedere alla sua ragazza “ti posso baciare?” prima di baciarla, “ti posso toccare?” prima di toccarla, “ti posso penetrare?” prima di penetrarla. «Altrimenti rischia di finire in prigione. E a quanto pare sono tutti convinti che questo sia “il progresso”». Conclude Mazzucco: «Poveri svedesi, una volta erano considerati all’avanguardia per quel che riguarda la società civile e il diritto individuale, ora stanno passando all’avanguardia per quel che riguarda il processo di rincoglionimento globale».Niente più biglietti o sms, per viaggiare sui treni svedesi basta un microchip sottopelle. La compagnia ferroviaria di Stato svedese “Sj” ha cominciato ad accettare biglietti caricati su microchip impiantati nella mano dei viaggiatori, annuncia il “Corriere della Sera”. Basta solo essere iscritti al programma di fedeltà e avere già il microchip impiantato nel proprio corpo. «In Svezia sono circa già 3.000 le persone dotate del microchip (che usa la tecnologia Nfc Near Field Communication, quella delle carte di credito) e passate quindi allo stadio di cyborg, cioè organismi cibernetici composti da corpo naturale e uno o più elementi artificiali». Niente di così diverso, in teoria, dai pazienti cardiaci che da decenni vivono con un pacemaker o un defibrillatore impiantato nel torace e collegato al cuore, scrive Stefano Montefiori sul “Corriere”. «Quelle però sono tecnologie avanzate e costose destinate a salvare la vita del malato, mentre nel caso svedese si tratta di un piccolo congegno grande quanto un chicco di riso, del costo di circa 150 euro, che serve per rendere più facili alcune operazioni della vita quotidiana». I passeggeri svedesi lo utilizzano per viaggiare: possono comprare il biglietto sul web o sull’applicazione “Sj” e, una volta connessi con il loro numero di “programma fedeltà”, il titolo di trasporto viene caricato sul microchip.
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La Nato: trasporti veloci, in Europa, per attaccare la Russia
C’era una volta l’Unione Sovietica, che inviò i carri armati a spegnere nel sangue la rivolta liberale in Ungheria, nel dopoguerra, e poi quella socialista in Cecoslovacchia nel Sessantotto, minacciando infine anche la Polonia in tempi meno remoti, nel 1981: «Quando feci il colpo di Stato, a Varsavia – confessò il generale Jaruzelski in una memorabile intervista a Jas Gawronski – ero stato avvertito, dai sovietici: se non avessi dispiegato l’esercito polacco, l’Armata Rossa avrebbe invaso anche noi». Solo che poi, una volta estinto il Patto di Varsavia con la caduta del Muro del Berlino, è rimasto in piedi il suo antagonista storico: la Nato. Che oggi, ricorda Massimo Mazzucco, «ci chiede di rinforzare i ponti e le strade, per permettere il passaggio di carri armati e mezzi pesanti in caso di una guerra contro la Russia». Ma è difficile trovare accenti, nella politica italiana, che mettano in discussione il nuovo ruolo di questo pericoloso relitto storico: il fantasma della guerra, il vampiro inestinto che sopravvive a una storia morta e sepolta. A che serve, oggi, la Nato? A minacciare la Russia. E dunque che ci fa, l’Italia, nella Nato? Qualche partito ha mai chiesto, agli elettori italiani, se sono d’accordo sul fatto che l’esercito tricolore concorra a minacciare un paese amico come la Russia, di cui l’Italia è uno dei maggiori partner potenziali?Lo scherzetto delle sanzioni contro Mosca è già costato miliardi di euro, all’Italia – per la precisione 10 miliardi già nel 2016, in termini di mancate esportazioni, come denunciato dalla Coldiretti: per rispondere alle mosse occidentali, la Russia ha reagito «chiudendo le frontiere a verdura, formaggi, carne, salumi e pesce, provenienti da Ue, Usa, Canada, Norvegia ed Australia», ricorda Luigi Grassia sulla “Stampa”. La guerra commerciale «ha interrotto la crescita travolgente delle esportazioni agroalimentari italiane verso la Russia, che nei cinque anni precedenti il blocco erano più che raddoppiate in valore (+112%)». La Coldiretti osserva che il guaio, per l’Italia, è doppio: al mancato export si somma il danno provocato dalla diffusione sul mercato russo di prodotti di imitazione che non hanno nulla a che fare con il “made in Italy”. Passi che la cosa lasci insensibili i vertici della Nato, ma è bizzarro che la cosa non preoccupi il governo italiano. E non solo: la permanenza dell’Italia nella Nato (o almeno, le sue condizioni) non compaiono in evidenza nell’agenda politica di nessun partito. In generale, la politica estera italiana non esiste. Tantomeno il vassallaggio Nato, sempre più anacronistico e autolesionistico: per Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, la Russia ha ragione a temere il crescente dispiegamento militare Nato lungo i propri confini.Washington, ricorda spesso Craig Roberts, ha tradito la parola data a Gorbaciov alla fine degli anni ‘80: Reagan aveva solennemente promesso che la Nato, una volta disciolto il Patto di Varsavia, non sarebbe avanzata verso Est. Bush ha invece inlcuso nella Nato i paesi baltici nonché le altre nazioni del blocco ex sovietico, dalla Polonia alla Bulgaria, passando per Repubblica Ceca, Ungheria e Romania. Poi Obama ha dato il massimo contributo alla crescita della minaccia militare occidentale verso la Russia, coinvolgendo anche l’Italia. E la storia continua, di male in peggio, nel silenzio assordante della politica italiana. La portavoce della Nato, Oana Lungescu, ha da poco dichiarato che la Nato intende creare due nuove centrali di comando in Europa, perché «la capacità di dispiegare velocemente le forze dell’alleanza è importante per la difesa collettiva della Nato». E lo stesso segretario della Nato, Jens Stoltenberg, in un incontro con i ministri della difesa alleati, ha chiarito ancor meglio il concetto: «Una centrale di comando riguarderà l’Atlantico e servirà a rinforzare le nostre capacità di proteggere le vie del mare, che sono di fondamentale importanza per l’alleanza transatlantica»Per Stoltenberg, «dobbiamo essere in grado di spostare eserciti e truppe attraverso l’Atlantico, dal Nord America verso l’Europa». Ci sarà poi una seconda centrale di comando, «responsabile degli spostamenti delle truppe all’interno dell’Europa», cosa che è «ovviamente altrettanto importante». Sul blog “Luogo Comune”, Mazzucco riporta con attenzione le parole di Stoltenberg, specie dove il segretario della Nato si riferisce al territorio europeo, incluso quello italiano: «Dobbiamo anche assicurarci – dice – che le strade e i ponti siano abbastanza robusti da reggere il passaggio dei nostri veicoli più grossi, e che le reti ferroviarie possano supportare un rapido spostamento dei carri armati e dei mezzi pesanti». Trasporto veloce di mezzi pesanti? Nel rompicapo assoluto rappresentato dal controverso progetto Tav Torino-Lione, la cui utilità sfugge anche ai migliori esperti dell’università italiana, c’è chi si spinge a ipotizzare proprio la funzione strategica, militare e bellica dell’ipotetica futura linea: la Torino-Lione come asse veloce per trasportare carri armati dal Mediterrano al Baltico, destinati a portare la guerra in Russia esponendo l’Europa e l’Italia alla ritorsione (missilistica, atomica) di Mosca?Sotto questo aspetto, è possibile leggere in modo diverso le dichiarazioni dello stesso Stoltenberg, quando afferma: «La Nato ha dei requisiti militari rispetto alle infrastrutture civili, e queste vanno aggiornate per essere sicuri che le attuali necessità militari siano garantite». Ma, aggiunge: «Questo non è un lavoro che la Nato può svolgere da sola. Richiede uno stretto coordinamento con i governi nazionali e con l’industria privata». E specifica: «Anche l’Unione Europea gioca in questo caso un ruolo importante». Quindi, conclude Stoltemberg, «la Nato e l’Unione Europea devono continuare a lavorare spalla a spalla su questo argomento di vitale importanza». Di vitale importanza per chi? Non certo per l’export italiano, né per chi abbia a cuore la sicurezza dell’Europa: sempre secondo Craig Roberts, il complesso militare-industriale che domina la politica Usa sta esponendo i paesi europei a rischi serissimi, dato che continua a minacciare i russi. E, sempre nel silenzio dei partiti italiani, di governo e di opposizione, la Nato va oltre: «Gli alleati – rivela la portavoce, Oana Lungescu – stanno modificando le leggi nazionali per permettere agli equipaggiamenti militari di transitare più rapidamente attraverso le frontiere, e stanno lavorando per rafforzare le infrastrutture nazionali».C’era una volta l’Unione Sovietica, che inviò i carri armati a spegnere nel sangue la rivolta liberale in Ungheria, nel dopoguerra, e poi quella socialista in Cecoslovacchia nel Sessantotto, minacciando infine anche la Polonia in tempi meno remoti, nel 1981: «Quando feci il colpo di Stato, a Varsavia – confessò il generale Jaruzelski in una memorabile intervista a Jas Gawronski – ero stato avvertito, dai sovietici: se non avessi dispiegato l’esercito polacco, l’Armata Rossa avrebbe invaso anche noi». Solo che poi, una volta estinto il Patto di Varsavia con la caduta del Muro di Berlino, è rimasto in piedi il suo antagonista storico: la Nato. Che oggi, ricorda Massimo Mazzucco, «ci chiede di rinforzare i ponti e le strade, per permettere il passaggio di carri armati e mezzi pesanti in caso di una guerra contro la Russia». Ma è difficile trovare accenti, nella politica italiana, che mettano in discussione il nuovo ruolo di questo pericoloso relitto storico: il fantasma della guerra, il vampiro inestinto che sopravvive a una storia morta e sepolta. A che serve, oggi, la Nato? A minacciare la Russia. E dunque che ci fa, l’Italia, nella Nato? Qualche partito ha mai chiesto, agli elettori italiani, se sono d’accordo sul fatto che l’esercito tricolore concorra a minacciare un paese amico come la Russia, di cui l’Italia è uno dei maggiori partner potenziali?
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Zero crescita: peggio dell’Italia solo Grecia e Centrafrica
Nel mese di maggio, qui su “The Sounding Line”, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità. «L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo». L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così. Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (Pil) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale, tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca Mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di Stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono micro-Stati (Monaco, Andorra); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.Escludendo i paesi di cui sopra, la Grecia ha sperimentato la maggior riduzione assoluta del Pil reale rispetto a qualsiasi paese al mondo nel 21 ° secolo e (insieme con la Repubblica Centrafricana) il terzo peggior tasso di crescita economica di qualsiasi paese. Gli evidenti effetti negativi dell’appartenenza all’Eurozona non sono limitati alla Grecia. Subito dopo la Grecia e la Repubblica Centrafricana viene l’Italia, che ha visto la quarta più lenta crescita economica di tutto il mondo nel 21° secolo, una crescita a malapena dell’1% nel corso degli ultimi 16 anni. Non molto lontano, il Portogallo risulta la sesta economia più lenta al mondo, con una crescita negli ultimi 16 anni del 3%. Da notare che tra i 25 paesi con la crescita economica più lenta del mondo, sette sono paesi dell’Eurozona, tra cui la Germania (un po’ sorprendente), i Paesi Bassi, la Finlandia e la Francia. La Danimarca, che è nell’Ue, ma non nell’area dell’euro (però ha la moneta agganciata all’euro), è anche lei tra i 25 paesi con la crescita più lenta al mondo. Comunque possiamo congratularci con i leader economici dell’Eurozona per avere ridotto l’economia della Grecia meno (parlando di percentuali) di quanto ha fatto un dittatore di 93 anni come Robert Mugabe nello Zimbabwe e delle varie fazioni che governano lo Yemen lacerato dalla guerra.In altre parole, negli ultimi 17 anni la crescita economica greca, italiana e portoghese è stata peggiore rispetto a: Iraq (nonostante 15 estenuanti anni di guerra e insurrezione), Iran (nonostante gli anni di schiaccianti sanzioni internazionali), Ucraina (nonostante il suo conflitto con la Russia), Liberia (nonostante la guerra civile e migliaia di persone uccise da Ebola), Sudan (nonostante anni di genocidio, guerra civile e la divisione in due del paese) e di quasi tutti gli altri paesi del mondo. Naturalmente, mantenere elevati tassi di crescita è più difficile per le grandi economie sviluppate. Tuttavia, questa non è una scusa per la crescita negativa o vicina a zero osservata in Grecia, Italia e Portogallo. Tutte le grandi economie sviluppate al di fuori dell’Eurozona infatti sono cresciute notevolmente nello stesso periodo. Questo è particolarmente vero visto che anche l’economia – famigerata per la sua lentezza – del Giappone è cresciuta di un relativamente veloce 13%, la Svizzera del 31%, il Regno Unito del 32%, gli Stati Uniti del 33%, il Canada del 36%, l’Australia del 59%, la Russia del 71% e la Cina di un incredibile 325%. Sebbene la crescita economica non sia l’unica misura importante per giudicare un’economia, né garantisca che la ricchezza economica sia distribuita in modo equo, in assenza di crescita, semplicemente, non è possibile avere sostanziali miglioramenti economici per la popolazione di un paese.Ciò che sta succedendo in diverse economie dell’Eurozona non può essere attribuito a un rallentamento economico ciclico, né a un recupero lento dalla crisi finanziaria del 2008, né è semplicemente una conseguenza inevitabile per un’economia sviluppata. Lo smentiscono le prestazioni migliori di praticamente qualsiasi altro paese sulla Terra, dai più grandi paesi avanzati ai paesi del Terzo mondo che hanno affrontato guerre, genocidi, epidemie, corruzione e rivoluzioni. Grecia, Italia, Portogallo e alcuni altri paesi dell’Eurozona soffrono di profondi problemi strutturali (per esempio una moneta strutturalmente sopravvalutata) e di una gestione economica tra le più incapaci del mondo. Forse è giunto il momento di iniziare a considerare i leader economici dell’autodichiarata élite che gestisce l’eurozona responsabili dei risultati che hanno ottenuto. E, dato che la Grecia continua a lottare per sostenere il suo debito sovrano non ripagabile, vale la pena di notare che i sette paesi africani e centroamericani che hanno scelto di fare default sui propri debiti sovrani a partire dal 2000, sono tutti cresciuti più della Grecia (con la probabile eccezione del Venezuela). Forse la Grecia dovrebbe cogliere il suggerimento.(Taps Coogan, “Crescita economica mondiale 2000-2016: Grecia e Italia agli ultimissimi posti”, da “The Sounding Line”, dell’11 agosto 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Nel mese di maggio, qui su “The Sounding Line”, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità. «L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo». L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così. Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (Pil) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale, tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca Mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di Stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono micro-Stati (Monaco, Andorra); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.
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Cahill: abusi sui minori, 7 preti cattolici su 100 sono pedofili
Bergoglio continua a blaterare a vuoto, senza mai supportare le proprie parole con azioni che siano degne di queste parole. Ieri si è scagliato nuovamente – a parole – contro il «terribile peccato» della pedofilia. «Lo scandalo dell’abuso sessuale – ha dichiarato Bergoglio – è una rovina terribile per tutta l’umanità, che colpisce tanti bambini, giovani e adulti vulnerabili in tutti i paesi e in tutte le società. Per la Chiesa è stata un’esperienza molto dolorosa. Sentiamo vergogna per gli abusi commessi da ministri consacrati, che dovrebbero essere i più degni di fiducia». E poi ha aggiunto: «La Chiesa ha affrontato questi crimini in ritardo e anche un solo abuso basta a condanna senza appello». E no, caro Bergoglio, è qui che ti sbagli. La Chiesa non ha affrontato proprio nulla, durante il tuo pontificato. Ha solo “preso atto” – a parole, nuovamente – che il problema esiste, ma non ha fatto assolutamente nulla per cercare di risolverlo. Bergoglio infatti, per affrontare il problema, non avrebbe trovato di meglio che «cercare di prendere più gente che lavori nella classificazione dei processi, persone che studiano i dossier». Come se i dossier già esistenti non fossero sufficienti a capire le dimensioni e la portata del problema.Se davvero il Papa fosse interessato a fare qualcosa per combattere la pedofilia del clero, invece di “assumere più gente che lavori alla classificazione dei processi” potrebbe leggersi, ad esempio, questo rapporto pubblicato la scorsa settimana dal Centre for Global Research dell’Università di Melbourne, intitolato “Child sexual abuse in the Catholic Church: an interpretive review of the literature and public inquiry reports”. Scritto da un ex-prete cattolico, Des Cahill, e dal teologo Peter Wilkinson, il rapporto giunge all’agghiacciante conclusione che ben il 7% dell’intero clero cattolico ha abusato di bambini, in una forma o nell’altra, fra il 1950 e il 2000. Provate a scaricare il rapporto completo, e soltanto a leggere l’indice degli argomenti vi si rizzeranno i capelli in testa. La ragione principale di questa sistematica «devianza collettiva» – secondo il rapporto – è la cultura repressiva del celibato, imposta al clero dall’attuale dottrina cattolica, mescolata allo spirito di omertà e di segretezza che regna da sempre all’interno delle istituzioni cattoliche, dove i preti si trovano a stretto contatto con una popolazione di alunni esclusivamente maschile.Una formula esplosiva – in altre parole – fin dalla sua concezione, dove la negazione delle normali pulsioni eterosessuali si accoppia con la vasta «disponibilità» di ragazzini di sesso esclusivamente maschile. Altro che “prendere più persone che lavorino nella classificazione dei processi”. Se Bergoglio vuole davvero affrontare il problema alla radice, deve cominciare a guardare alla stessa dottrina cattolica, che impone appunto il celibato in maniera mortificante e non motivata. Ricordiamo che ai tempi dei Vangeli i vescovi (preti) potevano sposarsi regolarmente. Il celibato venne introdotto solo dopo l’anno mille, per motivi tutt’altro che spirituali: si trattava di “proteggere” i beni della chiesa, che sarebbero altrimenti finiti “in mani laiche” – a causa delle pratiche di successione – se i preti avessero potuto sposarsi). Chissà perchè nella Chiesa protestante, dove i preti possono sposarsi regolarmente, non si sente mai parlare di casi di pedofilia?(Massimo Mazzucco, “Chiesa e pedofilia, una soluzione ci sarebbe”, dal blog “Luogo Comune” del 21 settembre 2017).Bergoglio continua a blaterare a vuoto, senza mai supportare le proprie parole con azioni che siano degne di queste parole. Ieri si è scagliato nuovamente – a parole – contro il «terribile peccato» della pedofilia. «Lo scandalo dell’abuso sessuale – ha dichiarato Bergoglio – è una rovina terribile per tutta l’umanità, che colpisce tanti bambini, giovani e adulti vulnerabili in tutti i paesi e in tutte le società. Per la Chiesa è stata un’esperienza molto dolorosa. Sentiamo vergogna per gli abusi commessi da ministri consacrati, che dovrebbero essere i più degni di fiducia». E poi ha aggiunto: «La Chiesa ha affrontato questi crimini in ritardo e anche un solo abuso basta a condanna senza appello». E no, caro Bergoglio, è qui che ti sbagli. La Chiesa non ha affrontato proprio nulla, durante il tuo pontificato. Ha solo “preso atto” – a parole, nuovamente – che il problema esiste, ma non ha fatto assolutamente nulla per cercare di risolverlo. Bergoglio infatti, per affrontare il problema, non avrebbe trovato di meglio che «cercare di prendere più gente che lavori nella classificazione dei processi, persone che studiano i dossier». Come se i dossier già esistenti non fossero sufficienti a capire le dimensioni e la portata del problema.