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Mistero Antartide: un’oasi verde grande tre volte la Francia
Come mai l’Antartide ha una temperatura incredibilmente inferiore a quella artica? Essendo ai due poli, le due zone avrebbero dovuto avere identiche temperature. La spiegazione ufficiale sarebbe che il Polo Nord è riscaldato dalla cosiddetta Corrente del Golfo, che mitigherebbe le temperature. Per quanto non mi avesse mai convinto come spiegazione, la prendevo per buona. Una cosa che non riuscivo a spiegarmi però erano le scoperte dell’ammiraglio Byrd. Tutti i libri che parlavano dell’Antartico, facevano inevitabilmente riferimento alla scoperta, da parte di questo ammiraglio, negli anni ‘50, di una zona temperata vicino al Polo Sud, in cui la temperatura era mite, le acque fluivano regolarmente e il verde era lussureggiante. La scoperta era stata fatta nell’ambito di una spedizione militare finanziata dagli Usa, e a causa della notorietà dell’ammiraglio, nonchè del numero dei partecipanti ad essa, la cosa non potè essere messa sotto silenzio. Ma sia la stampa dell’epoca che quella successiva dedicarono solo poche righe a questa scoperta. E mi domandavo come mai non si facessero spedizioni per cercare questa terra misteriosa e approfondire la questione.Ricordo un libro di Peter Kolosimo che parlava della scoperta di questa terra straordinaria da parte dei nazisti, confermata poi dalle successive spedizioni di Byrd. Ma si sa, all’epoca Peter Kolosimo era considerato una specie di antesignano del moderno complottismo ed era snobbato a livello ufficiale. Nella mia mente di bambino mi dicevo che forse la questione non era stata mai approfondita perché c’erano troppi pericoli ad effettuare altre spedizioni e abbandonai la cosa lì. Oggi però la questione dell’Antartide torna alla ribalta nella mia vita in merito alla questione della Terra piatta. E ho deciso di dare una risposta ai miei dubbi di bambino. Tutti i “terrapiattisti”, senza eccezione, fanno riferimento a questa scoperta (in rete si vedono anche i video originali delle interviste effettuate dalla tv americana all’ammiraglio Byrd). E inevitabilmente si citano i diari di bordo dell’ammiraglio, in cui egli parla di un incontro con una razza diversa dalla nostra. La questione a questo punto diventa interessante. Ora, se tali diari siano veri o no, non posso saperlo. Mi limito a prendere atto che finora nessuno ne ha smentito l’autenticità.Tuttavia la storia di questi diari è abbastanza affascinante e quindi faccio una sorta di controprova. Vado a scovare alcuni dei libri che leggevo alle medie e al liceo (stiamo quindi parlando degli anni ‘70-80) per verificare cosa dicono di questo argomento. A quell’epoca non si parlava ancora di Terra piatta, non c’era Internet, e quindi la posizione attorno a questo argomento era meno fideistica e meno suscettibile di alterazioni. E allora, leggendo questi libri, le cose non tornano più. Infatti si citano le scoperte di Byrd, ma le si liquidano in poche righe. Prendiamo ad esempio il libro di Silvio Zavatti, dal titolo “L’esplorazione dell’Antartide” (Mursia). Il libro è del 1974. Zavatti è uno studioso che, nella sua vita, si è occupato solo di esplorazioni artiche e antartiche. Nel suo libro dedica diverse pagine all’ammiraglio Byrd e, quando arriva al momento di citare la sua scoperta, la liquida in due righe. Byrd – dice il libro – avrebbe scoperto una vasta zona verdeggiante, ove il clima era temperato, probabilmente per un fenomeno di vulcanismo secondario o per la particolare inclinazione dei raggi del sole (sic!). Fine della questione.Oppure prendiamo la voce dedicata all’ammiraglio Byrd dell’enciclopedia Treccani (un’opera certamente non sospettabile di complottismo, ma in genere molto precisa nelle nozioni che fornisce). Ecco cosa c’è scritto: «La grandiosa spedizione (cfr. la relazione dello stesso Byrd, in “National Geographic Magazine”, Washington, ottobre 1947) scoprì montagne alte oltre 6.000 metri (Monti del Comitato Esecutivo, nella Terra di Maria Byrd) e inoltre anche un’ampia “oasi” interna libera da ghiacci». Fine della questione. Un’ampia oasi interna libera da ghiacci. Questo è tutto quello che troviamo su Byrd!!! Una cosa simile succede se cerchiamo, sempre nella stessa enciclopedia Treccani, la voce Antartide. Ecco quello che troviamo, con riferimento alle esplorazioni antartiche. Cito testualmente: «Una quarta, imponente (1946), durante la quale fu ancora sorvolato il Polo Sud, rilevò centinaia di chilometri di coste, scoprendo, fra l’altro, una specie di oasi alle spalle della Terra della Regina Maria, libera dai ghiacci, rivestita di prateria e cosparsa di laghi dalle acque verdi o azzurre; nel complesso furono rilevati almeno 1.600.000 km2 di nuovi territori».Sì. Avete letto bene: una vasta terra, grande quanto una nazione, non con un piccolo laghetto, o fiumiciattolo, ma addirittura “cosparsa di laghi dalle acque verdi, o azzurre”. Ricordo che stiamo parlando dell’enciclopedia Treccani, non di un sito complottista pronto a fare del sensazionalismo ad ogni costo. A questo punto alcune considerazioni logiche si impongono. E’ impossibile che la scoperta di una zona temperata all’interno dell’Antartico non abbia destato interesse. Così come è impossibile che, con i mezzi moderni che abbiamo oggi, nessuno abbia avuto anche solo l’idea di sorvolare quella zona, per fotografarla e studiarla. Ammesso e non concesso che la temperatura antartica sia troppo proibitiva per i mezzi di Terra, oggi con gli aerei moderni si potrebbe sorvolare la zona, eventualmente paracadutando degli scienziati che potrebbero studiare quella zona in tutta sicurezza e senza gli inconvenienti e i pericoli che c’erano negli anni ‘50. Rimangono quindi queste domande: perché nessuno sembra essere interessato all’esplorazione di questa zona? Forse delle spedizioni ci sono state e i risultati sono stati mantenuti segreti?In Antartide esistono circa 70 basi, di diverse nazionalità da ogni parte del mondo. Settanta!!! In queste basi studiano la composizione del ghiaccio, analizzano i fenomeni atmosferici, la composizione dell’acqua e finanche la dentatura delle foche ivi presenti, per poi rapportarla con l’analisi delle feci, ma pare che a nessuno interessi andare a visitare le terre scoperte da Byrd. Leggendo in rete qua e là questa questione della Terra piatta, per quello che ho potuto capire, la maggior parte delle persone che si occupano di queste problematiche sono in buona fede. Mi spiego. Pochi hanno davvero interesse a mantenere segrete certe informazioni. La maggior parte dei ricercatori, degli scienziati, o dei semplici appassionati, semplicemente, non vedono proprio il problema. La nostra mente infatti tende a focalizzarsi solo su ciò che sa, senza considerare ciò che le è ignoto. Il fenomeno è noto in psicologia come percezione selettiva. Si tratta di quel fenomeno per cui solo dopo che abbiamo deciso di acquistare un determinato modello di auto, lo vediamo spesso in circolazione; in precedenza, non l’avevamo mai notato. Solo dopo che uno conosce il simbolismo, inizia a notarlo sui luoghi del delitto; prima, non ci aveva mai fatto caso. Eccetera.A fronte quindi di una notizia come questa, di una terra verde all’interno del Polo Sud, la maggior parte delle persone, semplicemente, non la considera interessante né meritevole di approfondimento. Proprio l’esempio del libro che ho citato prima è emblematico in tal senso. Un ricercatore come Zavatti è chiaramente in buona fede, perché se avesse voluto nascondere la notizia, semplicemente non l’avrebbe data. Invece, al contrario, ha dato la notizia ma, molto, altrettanto sorprendentemente, non l’ha considerata degna di approfondimento. In altre parole: un ricercatore che dell’esplorazione dei poli ha fatto il centro della sua vita, non ritiene interessante approfondire proprio quella che, se fosse confermata, sarebbe la scoperta più straordinaria mai effettuata sul pianeta, dopo la scoperta dell’America. Né può essere tacciato di malafede l’autore che ha compilato la voce dell’enciclopedia Treccani, il quale, in perfetta buona fede e senza neanche accorgersi dell’enormità di quello che ha scritto, ha citato la scoperta di Byrd, affermando che furono scoperti circa 1.600.000 km quadrati di territorio (un territorio cioè pari a tre volte la grandezza della Francia, per intenderci). Eppure, la cosa passa nel più totale silenzio. Perché?(Paolo Franceschetti, estratto dal post “Il mistero antartico”, pubblicato sul blog “Petali di Loto” il 10 settembre 2018).Come mai l’Antartide ha una temperatura incredibilmente inferiore a quella artica? Essendo ai due poli, le due zone avrebbero dovuto avere identiche temperature. La spiegazione ufficiale sarebbe che il Polo Nord è riscaldato dalla cosiddetta Corrente del Golfo, che mitigherebbe le temperature. Per quanto non mi avesse mai convinto come spiegazione, la prendevo per buona. Una cosa che non riuscivo a spiegarmi però erano le scoperte dell’ammiraglio Byrd. Tutti i libri che parlavano dell’Antartico, facevano inevitabilmente riferimento alla scoperta, da parte di questo ammiraglio, negli anni ‘50, di una zona temperata vicino al Polo Sud, in cui la temperatura era mite, le acque fluivano regolarmente e il verde era lussureggiante. La scoperta era stata fatta nell’ambito di una spedizione militare finanziata dagli Usa, e a causa della notorietà dell’ammiraglio, nonchè del numero dei partecipanti ad essa, la cosa non poté essere messa sotto silenzio. Ma sia la stampa dell’epoca che quella successiva dedicarono solo poche righe a questa scoperta. E mi domandavo come mai non si facessero spedizioni per cercare questa terra misteriosa e approfondire la questione.
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Il gas non era nervino, il bimbo non era migrante: scrivetelo
Il gas in Siria non era nervino, e il bimbo in lacrime non era un immigrato messicano. Foto-simbolo, veicolate dai media per attaccare Assad e Trump. Ma i giornalisti, si domanda Marcello Foa, non si scusano mai? Certo non con lui, che ha appena querelato “L’Espresso”: il settimanale del gruppo De Benedetti ha scritto che la cassa-fantasma della Lega sarebbe in Svizzera. L’articolo, firmato da Vittorio Malagutti, lascia intendere che proprio Foa, editorialista del “Giornale”, avrebbe avuto un ruolo-chiave in questa misteriosa e sofisticata operazione. «L’articolo è così bislacco e la tesi proposta talmente infondata nelle argomentazioni, nonché colma di fantasiose e diffamanti insinuazioni, da essere semplicemente ridicola», scrive Foa, sul suo blog nella versione online del quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. Protesta Foa: non è stato neppure interpellato dal giornalista de “L’Espresso” che l’ha citato, «violando le più elementari norme del giornalismo d’inchiesta». E questo, aggiunge Foa, «la dice lunga sulla serietà di una testata un tempo autorevole». Se Malagutti avesse telefonato a Foa, scrive l’interessato, «gli avrei detto che il pranzo a Lugano con Steve Bannon, citato nell’inchiesta come episodio fondamentale, era talmente segreto che si è svolto alla presenza, tra gli altri, di Roberto Antonini, un giornalista della televisione svizzera “Rsi” (il quale diede conto pubblicamente dell’evento) e di Danilo Taino del “Corriere della Sera”. Non c’è che dire, un tavolo di loschi congiurati».«Al solo pensiero che si possa fare un’inchiesta con questi criteri a me scappa davvero da ridere», aggiunge Foa. Il famoso articolo de “L’Espresso”? «Giornalisticamente rappresenta il nulla assoluto. Non c’è niente: non una notizia, non un’analisi. Solo illazioni e fantasiose connessioni per tentare di giustificare l’astrusità di un titolo sensazionalistico e intenzionalmente diffamatorio perché non circostanziato». In altre parole: «Giornalismo di bassa lega, robaccia. L’ennesimo sintomo del declino, anzi della decomposizione di una testata un tempo gloriosa», che ormai «si sta liquefacendo da sè, sconfessata dalla maggior parte dei lettori che non legge più “L’Espresso” da tempo». Per contro, secondo Foa, l’articolo «goffamente diffamatorio» del settimanale «evoca, ancora una volta, il concetto di “fake News”, soprattutto di quelle che la grande stampa mainstream diffonde ogni giorno, senza mai avere l’onestà di rettificare i propri errori». Ricordate l’attacco con armi chimiche a Douma, quello che suscitò le ire di Macron e che indusse Trump a sparare un po’ di missili sulla Siria? Nell’aprile scorso, alcuni osservatori – tra cui lo stesso Foa – sollevarono dubbi sull’attendibilità di quelle accuse. Ma quei dubbi «non trovarono spazio sulla stampa, che, in coro, grondava indignazione».Ebbene, la missione d’inchiesta dell’Opac, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, ha appena pubblicato un rapporto da cui risulta che non è stata trovata nessuna traccia di gas nervino a Douma. «Ma come al solito – sottolinea Foa, sul “Giornale” – a dare la notizia con la giusta evidenza sono stati solo blogger e siti alternativi. E come sempre, la grande stampa, salvo rare eccezioni, l’ha ignorata». Dalla Siria agli Stati Uniti: «Chi non si è commosso davanti alla foto straziante del bambino messicano che piange disperato dopo essere stato separato dai genitori? Quell’immagine – ricorda Foa – è diventata il simbolo della protesta contro le misure del governo Trump (e da quest’ultimo poi ritirate). Era troppo bella, troppo emozionante per non essere vera! Peccato che non lo fosse: in realtà è stata scattata durante una manifestazione di protesta a Dallas, il 10 giugno». Le sbarre? «Non erano di una prigione, ma di gabbie simboliche. E il bambino non è mai stato separato dai genitori. Recitava». Ai media, però, «è bastato prendere quello scatto e pubblicarlo decontestualizzato per scatenare l’indignazione internazionale. E ancora una volta solo in pochi hanno denunciato l’inganno, la grande stampa non ha mai rettificato».Proprio alla sistematica manipolazione dell’informazione, Marcello Foa ha dedicato il suo ultimo saggio, “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”. Un lavoro in linea con un altro ottimo lavoro, che Foa segnala: è il saggio Enrica Perucchietti “Fake News. Dalla manipolazione dell’opinione pubblica alla post-verità”, che Foa considera un complemento ai suoi studi, tanto da averne scritto l’introduzione. «Come tutti gli autori davvero controcorrente – dice Foa – l’autrice è affascinata da Orwell e dal suo capolavoro “1984”. In quest’opera tenta, a mio avviso con successo, di rileggere le dinamiche della nostra società alla luce di alcuni concetti fondamentali del grande autore britannico». Non si tratta ovviamente di una banale trasposizione, né di un’inutile e stantia ricostruzione a posteriori: non è una visita in un virtuale museo di Orwell, bensì «un viaggio palpitante e preoccupato nella nostra realtà, che appare agli occhi dell’autrice come geneticamente modificata, mentre mai come ora – soprattutto per chi fa il giornalista – c’è bisogno di autenticità, di aderenza alla realtà, di onestà intellettuale. E il libro della Perucchietti – conclude Foa – rappresenta un ottimo antidoto ai veleni che difformano l’informazione quotidiana».Il gas in Siria non era nervino, e il bimbo in lacrime non era un immigrato messicano “intrappolato” dal governo Usa. Foto-simbolo, veicolate dai media per attaccare Assad e Trump. Ma i giornalisti, si domanda Marcello Foa, non si scusano mai? Certo non con lui, che ha appena querelato “L’Espresso”: il settimanale del gruppo De Benedetti ha scritto che la cassa-fantasma della Lega sarebbe in Svizzera. L’articolo, firmato da Vittorio Malagutti, lascia intendere che proprio Foa, editorialista del “Giornale”, avrebbe avuto un ruolo-chiave in questa misteriosa e sofisticata operazione. «L’articolo è così bislacco e la tesi proposta talmente infondata nelle argomentazioni, nonché colma di fantasiose e diffamanti insinuazioni, da essere semplicemente ridicola», scrive Foa, sul suo blog nella versione online del quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. Foa non è stato neppure interpellato dal giornalista de “L’Espresso” che l’ha citato, «violando le più elementari norme del giornalismo d’inchiesta». E questo, aggiunge, «la dice lunga sulla serietà di una testata un tempo autorevole». Se Malagutti gli avesse telefonato, scrive Foa, «gli avrei detto che il pranzo a Lugano con Steve Bannon, citato nell’inchiesta come episodio fondamentale, era talmente segreto che si è svolto alla presenza, tra gli altri, di Roberto Antonini, un giornalista della televisione svizzera “Rsi” (il quale diede conto pubblicamente dell’evento) e di Danilo Taino del “Corriere della Sera”. Non c’è che dire, un tavolo di loschi congiurati».
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Ragazzi senza futuro, vietato stupirsi se minacciano il prof
Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.Anche se non certo in via esclusiva, molti degli episodi narrati dai media hanno avuto come contesto istituti tecnico-professionali. Può darsi che il rapporto con i docenti sia più difficile nelle famiglie dove l’istruzione gode di minor considerazione o dove il disagio socio-economico si fa sentire di più. Tuttavia, una spiegazione di questo tipo appare assai parziale e soprattutto astratta. Una ragione più immediata del disagio è che, nelle scuole “razionalizzate” (ovvero “amputate”) dalle riforme degli ultimi vent’anni, ci sono troppi alunni per classe, insegnanti molto soli e demotivati, troppo anziani, non abbastanza formati e non abbastanza sostenuti nella fatica di ogni giorno; c’è una pressione costante a nascondere la dispersione scolastica e lo scadimento costante del livello degli apprendimenti dietro al buonismo obbligatorio delle promozioni regalate anche a fronte di gravi lacune; c’è un taglio progressivo e drammatico delle ore di lezione e dei contenuti; c’è la mancanza di un autentico e lungimirante spirito riformatore, che faccia della scuola un luogo di produzione di sapere e di cultura, vero cuore pulsante del paese e oggetto di cura e attenzione da parte delle istituzioni e dei cittadini.Ad un livello più profondo, c’è l’abdicazione dei genitori al loro ruolo educativo e la completa delega alla scuola della responsabilità di dire di no ai pargoli superprotetti e nel contempo la svalutazione e il discredito del ruolo educativo degli insegnanti, ai quali viene riservata la considerazione di cui godono dei proletari sottopagati, invece del prestigio di cui dovrebbero godere dei professionisti ai quali si affida il futuro delle nuove generazioni. Alla scuola si chiede continuamente di sopperire a tutte le lacune e ai mali profondi della società, senza però dotarla di mezzi, di competenze, di prestigio e di considerazione sociale. Se la scuola italiana ha retto tutto sommato miracolosamente fino ad ora, lo si deve allo spirito di abnegazione di quegli insegnanti (non tutti, certamente) che tengono duro nonostante venga scavato loro ogni giorno il terreno sotto i piedi. La fuga dalla responsabilità è il male sociale che ci affligge. A cominciare dal vertice, due decenni di cialtroneria politica, di zuffe mediatiche fondate sulla legge del più forte (quanto a volume di voce, non di argomenti), di demeritocrazia, ovvero di gestione delle cariche pubbliche pressoché totalmente svincolata dal merito, di autoreferenzialità della casta rispetto alle proprie scelte dannose, delle quali di fatto non si assume mai la responsabilità, hanno inciso profondamente sulla coscienza degli italiani.Si è imbarbarito il linguaggio del dibattito pubblico e, per il notissimo principio dell’apprendimento per imitazione, la violenza verbale rappresentata ogni giorno nei media è stata sdoganata. Con quale autorevolezza possono insegnare ai ragazzi il rispetto, l’empatia, il dialogo democratico degli insegnanti continuamente vilipesi e disprezzati sui media come categoria di nullafacenti privilegiati, in una società che offre a tutti i livelli la tracotante indifferenza a questi valori? Come possono far apprezzare lo studio e il sapere, quando ogni giorno i modelli vincenti proposti dagli adulti sembrano prescindere dalla cultura, dalla competenza e dall’impegno? A livello educativo, questa mancanza di responsabilità assume la forma di assenza di autorevolezza. I ragazzi, a tutte le età, hanno un bisogno assoluto di riferimenti autorevoli. Un adulto autorevole sa dare regole e controllare, ma sa anche ascoltare e proteggere quando serve. Sa prendersi la responsabilità di dire di no, senza essere un tiranno. I “no” aiutano a crescere e strutturano una personalità equilibrata, capace di sopportare le inevitabili frustrazioni della vita. Molti genitori (non tutti, per fortuna) non sembrano più in grado di offrire ai propri figli un modello di questo genere. Troppo faticoso, in una società dove il tempo da dedicare ai figli è scarso e dove spesso si è fagocitati dal lavoro e dalle preoccupazioni. È più facile lasciar perdere e salvare la pace familiare.Purtroppo, a volte nemmeno gli insegnanti ci riescono. Insegnare non è un lavoro per tutti e con ragazzi che arrivano da famiglie così permissive o prive di struttura lo è ancora meno. Gli insegnanti tormentati dagli allievi non di rado sono deboli e poco autorevoli. È come se i ragazzi indirettamente chiedessero loro di far sentire da che parte sta il potere nella relazione educativa (che per sua natura deve essere asimmetrica). A casa non lo imparano dagli adulti e di conseguenza non sanno che cosa sia la responsabilità; perciò vanno in escandescenze quando incontrano i primi ostacoli in classe. Per loro l’adulto non ha alcuna autorità; è un fratello maggiore al quale nulla è dovuto. Li conosco, questi genitori: sono quelli che arrivano infastiditi al colloquio con il docente quando il figlio prende un’insufficienza con l’argomento che il pargolo deve avere 6, perché non hanno tempo di occuparsene. Non sempre sono di bassa condizione sociale, anzi… La mancanza di riferimenti autorevoli produce principini narcisisti e onnipotenti, ai quali i genitori, schiacciati dal senso di colpa per la scarsa disponibilità verso i bisogni autentici dei figli, lasciano decidere tutto fin dalla tenera età. Fragili e privi di limiti, questi figli narcisi non vedono più in là dei confini del proprio ego e dei suoi impulsi immediati.E veniamo a loro, ai ragazzi. Questi ragazzi (parlo degli adolescenti, perché ci lavoro insieme da oltre trent’anni) sono in molti casi soli. Passano troppo tempo sui dispositivi digitali (per parecchi lo smartphone è oggetto di un vero attaccamento affettivo) e da un’età troppo precoce, con tutti i danni che ne derivano e che sono stati illustrati molto bene dal neuropsichiatra Manfred Spitzer nel suo libro “Demenza digitale” (Corbaccio): dipendenza, danno da campi elettromagnetici, sottrazione di tempo alla lettura e all’interazione faccia a faccia, danni cognitivi, rischi per la privacy, aumento dell’aggressività (specie per l’utilizzo dei videogiochi) e diminuzione dell’empatia. Spesso le bravate a danno dei docenti raccontate sui giornali sono state pensate nella prospettiva della diffusione sui social network e nelle chat. Sono messe in scena per un pubblico di pari, in cambio di una fragile popolarità che li faccia sentire esistenti. A questi ragazzi la scuola non dice molto e appare per lo più come una spiacevole interruzione delle loro attività digitali. La lettura è attività rara perfino al liceo. Il sapere appreso sui banchi appare vuoto e inutile e si aspettano la promozione per il solo fatto di andare a scuola.Questo non significa che la scuola debba inseguirli sul terreno tecnologico, ma che deve trasmettere e costruire con loro un sapere vitale, in grado di coinvolgerli. Perché possa riuscirci, occorrono insegnanti altamente selezionati e formati, dirigenti all’altezza, un’alleanza educativa con le famiglie, una maggiore considerazione del valore della scuola e del sapere a livello sociale (l’Italia, non dimentichiamolo, ha un numero enorme di analfabeti funzionali, circa il 70% della popolazione adulta), un senso di responsabilità condiviso. E così torniamo all’inizio. Siamo in un circolo vizioso. Questa scuola povera, svuotata, imbelle e irrilevante è il risultato di due decenni di logoramento progressivo e sistematico, ad opera di tutti i governi. Invece di essere riformata, la scuola italiana è stata smantellata. Mentre gli altri comparti della pubblica amministrazione hanno subito tagli lineari del 2%, la scuola si è vista sottrarre il 20% delle risorse. È un miracolo che esista ancora, benché compromessa. Ma non è colpa della scuola se i ragazzi sono violenti e privi di autocontrollo.Semmai, sia l’istruzione pubblica piegata alle esigenze del mercato, per il quale contano più le competenze delle conoscenze e più la ripetizione di nozioni del senso critico, sia l’individualismo sfrenato e l’ignoranza arrogante e soddisfatta di sé diffuse in una società che sta perdendo i valori fondanti della solidarietà, del bene comune, dell’impegno e della cultura sono il frutto malato di quella vera perversione della natura umana che è l’ideologia neoliberista. L’uomo è un essere intimamente sociale e predisposto all’empatia. Quando si insegna per decenni attraverso la parola e l’esempio che l’avversario è un nemico, che per affermare se stessi occorre competere, che i servizi pubblici sono uno spreco, che tutto si misura in termini economici, che con la cultura non si mangia e che i diritti sono sacrificabili sull’altare del profitto; quando si riduce l’istruzione al minimo, si riducono i salari e le tutele e si sdoganano a tutti i livelli la sopraffazione, l’arbitrio, la violazione delle regole, siamo di fronte ad una patologia individuale e sociale.I sociologi la chiamano “anomia”; gli psicologi possono scomodare etichette diagnostiche che vanno dal narcisismo alla psicopatia. Un popolo disgregato, al quale manca il senso di appartenenza ad una comunità, è facilmente manipolabile, oltre che infelice. Divide et impera, dividi e comanda. E così, con gli adulti affannati nella sopravvivenza quotidiana, i figli trattati come polli in batteria a cui dare il meno possibile perché non pensino ad altro che ai propri bisogni immediati e i docenti privati di prestigio e di credibilità, come la cultura di cui sono obsoleti portatori, al posto di una democrazia partecipativa, fondata sulla consapevolezza dei diritti e sulla responsabilità, stiamo imboccando il tunnel di una democratura, fondata sulla rinuncia inconsapevole ai diritti e sull’irresponsabilità. Non credo che se ne possa uscire né cambiando solo la scuola né limitandosi a punire gli studenti violenti. Certo, le azioni penalmente rilevanti vanno sanzionate anche penalmente. La responsabilità si impara pagando il prezzo delle proprie azioni; perciò l’indulgenza zuccherosa dei docenti che lasciano correre è deleteria almeno quanto il lassismo o l’arroganza dei genitori mai cresciuti che ne sono la causa prossima.Per uscire da un degrado così profondo, occorre guarire la malattia che lo ha provocato. Servono un futuro da costruire (questi ragazzi non ce l’hanno), la scoperta di un senso nella vita e un vero salto evolutivo della coscienza. Viviamo in mondo inquinato sul piano fisico da infinite sostanze tossiche, sul piano mentale da pensieri fuorvianti e dalla distrazione di massa, sul piano spirituale dalle catene della dipendenza dall’avere. Ci servono un paradigma diverso da quello neoliberista e un nuovo umanesimo, pragmatico, ma fondato sulla cooperazione e sull’empatia. Non sembra davvero facile, dato il livello del disfacimento sociale, ma nemmeno impossibile. Accanto ad una minoranza di ragazzi violenti e maleducati (ed anche fra loro) ci sono molti coetanei pieni di energie che devono solo trovare uno sbocco costruttivo. A questi uomini di domani servono uno scopo e dei maestri, altrimenti avranno solo dei capi-branco e dei dittatori. Siamo in grado di offrirglieli?(Patrizia Scanu, “Violenza in classe, come ci siamo arrivati?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 28 aprile 2018).Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.
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I Protocolli dei Savi di Sion: mistero indicibile, profezie vere
L’archetipo della lettura complottista: i “Protocolli dei Savi di Sion”. Un libro maledetto su cui molto è stato scritto e molto resta ancora da scrivere. Pubblicati per la prima volta nel 1905, i “Protocolli” furono accolti dall’opinione pubblica internazionale in modo ambivalente. Da un lato si fa notare che tutte le profezie in essi contenute si sono puntualmente avverate; e ciò dimostrerebbe la veridicità della congiura ebraica e massonica. Dall’altro si punta il dito sul fatto che quella congiura è in realtà il frutto della fantasia di Maurice Joly, che nel 1864 pubblicò un pamphlet, di cui i “Protocolli” sono un plagio evidente; e ciò dimostrerebbe la non-autenticità dell’opera. A mio avviso un’analisi serena e obiettiva del libro dovrebbe incentrarsi su questa inspiegabile contraddizione: come può un documento palesemente falso affermare fatti veri e verificabili? Poiché dei “Protocolli dei Savi di Sion” si fece immediatamente un uso politico, questo interrogativo fu messo da parte e i termini del discorso furono spostati dal problema non-autenticità/veridicità verso una strada sdrucciolevole: quello della verità trascendente. In Germania, dove la congiura ebraico-massonica fu ritenuta reale, i “Protocolli” furono usati dai nazionalsocialisti come una “licenza per un genocidio”, per usare le parole dell’israelita inglese Norman Cohn.In Russia, dove gli ebrei costituivano il 90% del governo bolscevico, bastava il solo possesso del libro per condannare il possessore alla fucilazione immediata, senza processo. Tra i due estremi si collocano i paesi cosiddetti democratici. In Inghilterra e negli Stati Uniti fin dal lontano 1920 la stampa sionista si batté per propagandare la tesi del complotto antisemita, usando l’argomento della non autenticità. In Svizzera si tenne un processo che dimostrò una verità processuale: ossia che ciò che non è autentico non può essere definito vero in aula di tribunale e quindi è una calunnia. Anche la sentenza fu però oggetto di speculazioni politiche, perché la verità processuale contraddiceva la verità dei fatti storici. A questo punto la parola dovrebbe passare proprio agli storici, ma pure costoro si sono lasciati manipolare dalla politica: poiché la storia si fa sui documenti e quelli in questione non sono autentici, gli storici hanno battuto la via a senso unico di indagare chi e perché compose i falsi “Protocolli”. Ancora una volta restava inevasa la questione della veridicità: come facevano questi malvagi calunniatori e falsari a predire con sbalorditiva esattezza tutti gli avvenimenti più importanti del Ventesimo secolo? Possedevano forse una sfera di cristallo?Ammettiamo per un attimo che qualcuno, conosciuto da tutti come un bugiardo, vi dica che possedete due braccia e due gambe: egli non ha forse detto, almeno per una volta, la verità? O la verità ha forse cessato di essere tale in bocca a un bugiardo (o presunto tale)? Crederete dunque di avere sei braccia come il dio Shiva solo perché tutti vogliono convincervi che colui che vi ha detto il contrario è un bugiardo? Ho posto queste domande retoriche per spiegare al lettore la molla che mi ha spinto a compiere ricerche più approfondite: quanto segue è il risultato dei miei studi. Per quanto è dato sapere, i Protocolli furono pubblicati per la prima volta in Russia da Sergey Nilus nel 1905 in appendice al libro “Il piccolo nel grande”. In realtà singole parti dei “Protocolli” iniziarono a circolare in forma privata già a partire dal 1897: l’anno del Primo Congresso Sionista a Basilea. In un primo momento Nilus affermò che i “Protocolli” erano il verbale delle riunioni segrete del congresso. Quando gli fu fatto notare che il congresso si tenne a porte aperte e che non tutti gli ebrei vi avevano partecipato, egli cadde nel tranello e cambiò versione. Nilus, insomma, mentiva e ciò bastò agli storici per parlare di un complotto politico. A nessuno venne in mente un’altra ipotesi: che Nilus, semplicemente, non conoscesse l’origine di quei documenti e che li avesse considerati autentici in virtù della loro veridicità.I due termini, come ho dimostrato, non hanno lo stesso significato; ma procediamo oltre. I primi protocolli furono pubblicati in forma non integrale su un giornale russo a partire dal 1903. Essi si basavano, come detto, su documenti che iniziarono a circolare privatamente dal 1897 e che provenivano dalla Francia. A Parigi operava in quel momento una sezione della polizia segreta zarista, la Okhrana, diretta dal noto antisemita Pyotr Ivanovich Rachkovsky. Una delle spie zariste a Parigi era Matvei Vasilyevich Golovinski, amico del figlio di Joly, che copiò (con minime differenze) interi passi del “Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu” confezionando così i “Protocolli dei Savi di Sion”. Secondo gli storici il capo dell’Okhrana Rachkovsky e il ministro degli esteri, conte De Witte, si sarebbero serviti dei falsi documenti per contrastare la diffusione di idee liberali, anarchiche, socialiste e nichiliste. I “Protocolli”, quindi, avrebbero proposto un’interpretazione artificiosa delle dinamiche storiche: avrebbero semplificato i fatti fino a distorcerli, facendo leva su pregiudizi anti-semiti e anti-massonici che erano largamente diffusi nella società europea.Storici e giornalisti si sono fermati qui, paghi di aver dimostrato la tesi del complotto antisemita. Io invece non mi ritengo soddisfatto, dal momento che nessuno parla mai di Maurice Joly, il vero ispiratore – suo malgrado – dei “Protocolli”. Questo silenzio è quantomeno sospetto. I “Dialoghi all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu” non contengono alcuna accusa contro gli ebrei. Si tratta invece di un pamphlet satirico contro Napoleone III. L’opera mette a raffronto due modi di agire in politica: quello del diritto, identificato con Montesquieu, e quello del potere e cioè il tradimento, l’inganno, la corruzione e la violenza. Erano questi i sistemi raccomandati da Machiavelli al principe ideale, che per Maurice Joly era proprio Napoleone. L’autore dei “Dialoghi” era un socialista utopico e un massone affiliato alla loggia La Clémente Amitié: non sorprende perciò la sua avversione per i circoli cattolici e nazionalisti che sostenevano l’imperatore. Completiamo questa sommaria biografia ricordando che il principale finanziatore del giornale di Joly, Le Palais, era Crémiuex. Di trent’anni più vecchio, questo scaltro uomo politico israelita fu per lui un vero e proprio mentore.Adolphe Isaac Crémieux fu il fondatore dell’Alleanza Israelitica Universale, una organizzazione politica e culturale che sintetizza i principi massonici della Rivoluzione Francese con l’ebraismo. Cremiuex fu inizialmente un seguace dell’imperatore. La sua ambizione si spingeva fino a sognare di diventare primo ministro ed era sostenuta dai generosi finanziamenti del barone De Rothschild. Quando però Napoleone III si orientò sui servizi di un altro banchiere ebreo, questo importante uomo politico divenne un oppositore e tale rimase fino alla caduta della monarchia. Infatti nel 1871 troviamo proprio lui al fianco del barone De Rothschild a trattare la pace con il cancelliere Bismarck dopo la guerra franco-prussiana, che era costata il trono all’imperatore. Crémieux fu anche gran maestro del Rito Scozzese e membro dell’Ordine di Memphis e Mizraim, due Riti del Grand Orient de France: la massoneria più anticlericale d’Europa. A testimonianza del suo odio per i gentili citerò un aneddoto. In occasione dell’omicidio rituale di padre Tommaso a Damasco, un episodio che nel 1848 fece inorridire i salotti della borghesia europea, Crémieux usò tutta la sua influenza per ottenere la liberazione dell’assassino (ebreo) del missionario.Ora la faccenda appare molto diversa da come ci è stata raccontata: sebbene i “Protocolli dei Savi di Sion” siano un falso, la loro fonte principale, che è il “Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu”, fu realmente composta in ambito ebraico, socialista e massonico. Proprio per questo il filo conduttore dei “Protocolli” è tipicamente massonico: il sovvertimento della società cristiana per affermare un nuovo ordine sociale – ordo ab chao è il motto dei massoni. Inoltre lo stesso mondo ebraico a cui alludono i “Protocolli” ha le sembianze di un ordine segreto gerarchicamente organizzato, con a capo un gruppo di iniziati: i Savi di Sion. Infine i “Protocolli”, ricopiando i “Dialoghi”, rilanciano l’archetipo della congiura segreta contro l’umanità, che era proprio delle leggende nere che circolavano sui gesuiti negli ambienti anticlericali. Forse non è azzardo ipotizzare che Golovinski, inventando la congiura giudeo-massonica, tentasse di dare un nome agli interessi che Joly serviva, sfiorando la verità senza riuscire a catturarla in tutte le sue infinite sfaccettature.E’ importante comprendere che tutti i protagonisti di questa vicenda sono individui opachi e difficilmente etichettabili, come spesso si incontrano nel mondo dello spionaggio. Per esempio Rachkovsky, il famigerato antisemita a capo dell’Okhrana, era stato in precedenza un agitatore studentesco e aveva persino diretto un giornale ebraico: “L’Ebreo russo”. Non meno sorprendente è sapere che egli favorì la carriera, in seno alla polizia segreta zarista, di un terrorista ebreo di nome Abraham Hackelman. Che dire poi del suo agente Golovinski, che passò al servizio dei bolscevichi dopo la Rivoluzione del 1917? Forse è meglio usare cautela prima di attribuire intenzioni politiche a soggetti che sono mossi dall’avidità, dalla sete di potere e dall’amore per intrigo piuttosto che dalle ideologie. Per queste ragioni non mi sento di affermare con certezza che i “Protocolli dei Savi di Sion” siano stati creati con l’unico scopo di fomentare l’antisemitismo: chi può dirlo con certezza?Curiosamente Rachkovsky e il conte De Witte risposero alle accuse di essere gli istigatori dei “Protocolli”, attribuendone la paternità al grande illuminato Gérard Encausse detto Papus, il fondatore dell’Ordine Martinista. Infatti costui, già prima della pubblicazione dei “Protocolli”, aveva scritto di una congiura segreta che costringeva i governi delle nazioni a fare le guerre e a dettava i termini dei trattati di pace per il profitto del “sindacato della finanza” e cioè dell’oligarchia finanziaria internazionale. La congiura, a suo dire, mirava a favorire la fortuna di pochi uomini: i promotori della congiura. Perché mai Papus lanciò un’accusa tanto ardita? Perché egli aveva conosciuto lo zar Nicola II e si era guadagnato la sua fiducia. Per conservarla e per sfruttarla a vantaggio degli interessi che serviva, Papus inviò alla corte di San Pietroburgo il suo maestro Nizier Anthelme Philippe, alias Maître Philippe da Lione. Quest’ultimo usò i poteri taumaturgici di cui si diceva investito per proteggere la famiglia imperiale e iniziò lo zar al martinismo. Secondo gli storici dell’esoterismo, Maître Philippe mise in piedi le logge martiniste in Russia, nelle quali attirò ricchi aristocratici e potenti burocrati.A capo della massoneria martinista russa si pose Nicola II in persona. Le accuse di Rachkovsky e del conte De Witte (un cugino della Blavatsky) contro Papus si devono quindi contestualizzare in una faida interna alla corte di San Pietroburgo, che si concluse con l’allontanamento di Maître Philippe e l’ingresso in scena del mistico Rasputin. Se le rivelazioni di Papus arrivarono all’orecchio dello zar, la sua reazione potrebbe aver spinto l’Okhrana ad agire, utilizzando il testo di Joly per fini che a questo punto non sono affatto chiari. Accenno appena al fatto che nel 1905 (o poco prima) la polizia segreta zarista aveva stretto un’alleanza inconfessabile con la Grand Lodge de France per portare avanti un progetto politico che resta tuttora avvolto nel mistero. Questa, però, è una storia che ci porterebbe molto lontano: meglio fermarsi qui, per il momento. Con questo articolo credo di aver svelato l’identità di coloro che si nascondono dietro l’espressione “Savi di Sion”: gli alti dignitari della massoneria del Rito di Memphis e Mizraim e dell’Alleanza Israelitica Universale, patrocinate dal denaro dei Rothschild. L’esistenza di questo centro di potere occulto rimase celato dietro l’ipotesi di una generica congiura dell’intera razza ebraica: in altre parole i “Protocolli dei Savi di Sion” fabbricarono una copertura perfetta per i veri congiurati.Se ciò sia stato intenzionale o meno non posso affermarlo con certezza. Quando però l’industriale israelita Walter Rathenau rivelò alla stampa l’esistenza di un complotto di «trecento persone che si conoscono tra loro» e si sono autonominate padrone dell’Europa, il vaso di Pandora fu finalmente scoperchiato. Rathenau divenne nel 1922 ministro degli esteri della Repubblica di Weimar e a quel punto si trovò nella posizione di rivelare importanti retroscena della congiura – quella vera, intendo – ai governi europei. Bisognava richiudere il vaso di Pandora prima che fosse troppo tardi: quattro mesi dopo la sua nomina, Rathenau fu ucciso da terroristi di estrema destra. Così nessuno più si domandò chi fossero i membri del “Comitato dei Trecento”: il mondo pianse invece l’ennesima vittima dell’antisemitismo agitato dal libro maledetto, i “Protocolli dei Savi di Sion”. Riassumendo: 1) i “Protocolli” non sono documenti autentici, ma il loro contenuto è in gran parte vero e verificabile; infatti 2) la fonte principale a cui attingono i “Protocolli” è un pamphlet scritto in ambito massonico ed ebraico; e infine 3) l’idea di una generica congiura ebraica e massonica (o viceversa di un complotto antisemita) ha finora occultato l’esistenza di una reale congiura, che da oltre un secolo viene condotta dal casato dei Rothschild e dai suoi agenti.(Enrico Montermini, “I Protocolli dei Savi di Sion: un segreto indicibile!, dal blog di Montermini del 6 novembre 2017).L’archetipo della lettura complottista: i “Protocolli dei Savi di Sion”. Un libro maledetto su cui molto è stato scritto e molto resta ancora da scrivere. Pubblicati per la prima volta nel 1905, i “Protocolli” furono accolti dall’opinione pubblica internazionale in modo ambivalente. Da un lato si fa notare che tutte le profezie in essi contenute si sono puntualmente avverate; e ciò dimostrerebbe la veridicità della congiura ebraica e massonica. Dall’altro si punta il dito sul fatto che quella congiura è in realtà il frutto della fantasia di Maurice Joly, che nel 1864 pubblicò un pamphlet, di cui i “Protocolli” sono un plagio evidente; e ciò dimostrerebbe la non-autenticità dell’opera. A mio avviso un’analisi serena e obiettiva del libro dovrebbe incentrarsi su questa inspiegabile contraddizione: come può un documento palesemente falso affermare fatti veri e verificabili? Poiché dei “Protocolli dei Savi di Sion” si fece immediatamente un uso politico, questo interrogativo fu messo da parte e i termini del discorso furono spostati dal problema non-autenticità/veridicità verso una strada sdrucciolevole: quello della verità trascendente. In Germania, dove la congiura ebraico-massonica fu ritenuta reale, i “Protocolli” furono usati dai nazionalsocialisti come una “licenza per un genocidio”, per usare le parole dell’israelita inglese Norman Cohn.
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Michelangelo Florio Crollalanza, in arte William Shakespeare
La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.La teoria dell’origine messinese del grande drammaturgo, scrive Principiato, era stata avanzata anche in sede universitaria, nel 1950, dalla cattedra di storia del diritto italiano dell’ateneo di Palermo, dal professor Enrico Besta. Molto più recentemente, Martino Iuvara da Ispica (Ragusa), pubblicò nel 2002 un volume intitolato “Shakespeare era italiano”, in cui riprese le varie tesi esposte nel tempo, arricchendole con alcuni particolari inediti frutto di sue ricerche. «In particolare – precisa Principiato – avrebbe chiarito il mistero del nome italiano del Bardo che, secondo lo studioso ispicese, era Michelangelo Florio, figlio di un medico e di una nobile siciliana, Guglielma Crollalanza, da cui la traduzione inglese di William Shakespeare». La notizia fu «una ghiottoneria per tutti gli organi di stampa, non solo italiani». Lo stesso “Times”, in articolo di Richard Owen, «uscì sulla vicenda con toni sorprendentemente accondiscendenti verso la tesi di Iuvara», secondo cui il vero Shakespeare, cioè Michelangelo Florio, nacque a Messina il 23 aprile 1564 da Giovanni Florio, medico e pastore calvinista di origine palermitana, e dalla nobile Guglielma Crollalanza.Il piccolo Michelangelo, cioè il futuro William, si rivelò subito un bambino prodigio, dotato di grande genialità e appassionato della lettura. A 16 anni conseguì il diploma del Gimnasium in latino, greco e storia. Giovanissimo, a conferma delle sue doti, scrisse una commedia in dialetto dal titolo “Tantu trafficu ppi nenti”. «A causa delle credenze religiose del padre, Michelangelo (o Shakespeare, se preferite), non più al sicuro a causa dell’Inquisizione, venne prima mandato in Valtellina e poi a Milano, Padova, Verona, Faenza e Venezia. Ebbe anche il tempo di tornare a Messina, ma la sua permanenza nella città dello stretto durò poco», continua Principiato. A 21 anni Michelangelo iniziò il suo personale “giro del mondo”: soggiornò prima ad Atene, dove fu insegnante, poi in Danimarca, Austria, Francia e Spagna. «Tornato ancora una volta in Italia, precisamente a Tresivio, s’innamorò di Giulietta». Ma la storia tra i due «finì in tragedia con il rapimento, per cause religiose, e la successiva morte di quest’ultima». Sconvolto per la morte dell’amata, Michelangelo si trasferì a Venezia ma, dopo che anche il padre per le stesse ragioni fu trucidato, decise di mettersi in salvo trasferendosi a Londra. «È qui che Michelangelo Florio cambia identità e diventa il famoso William Shakespeare».«Lasciatosi alle spalle tutte le paure e i dolori precedenti», “Shakespeare” ebbe finalmente modo di dedicarsi a scrivere per il teatro, continua Principiato. «Le rappresentazioni dei suoi testi ebbero grande consenso tra il pubblico. Ma grande merito del successo andava al dotto e letterato cugino che lo aiutò nelle traduzioni dall’italiano all’inglese e alla moglie, sposata quando il drammaturgo aveva 28 anni, e di 8 anni più grande di lui». Superate le iniziali difficoltà legate al problema della lingua, “Shakespeare” «si impadronì perfettamente dell’inglese, coniando addirittura migliaia di nuovi vocaboli e arricchendo in maniera straordinaria la propria produzione letteraria». Divenne ricco e famoso, e le sue opere molto apprezzate. Morì a Londra il 23 aprile 1616, sempre secondo lo Iuvara. Sicché, “Molto rumore per nulla” sarebbe la versione italiana di “Tantu trafficu ppi nenti”, che Michelangelo Florio di Crollalanza scrisse a Messina intorno al 1579 (manoscritto andato perduto). Ma sono davvero tante le argomentazioni sulla presunta messinesità di Shakespeare, a cominciare da “Amleto”, in cui compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guildenstern, che frequentarono l’università di Padova e che Michelangelo Florio aveva conoscciuto. Nella stessa opera si trovano poi molti proverbi, pubblicati da Florio, senza pseudonimi, nel volumetto “I secondi frutti”.L’origine italiana di Shakespeare, continua Principiato, forse può spiegare i molti luoghi, presenti nelle sue opere, che caratterizzano l’Italia e i nomi italiani: “Romeo e Giulietta”, “Otello”, “Due signori di Verona”, “Sogno di una notte di mezza estate” e “Il mercante di Venezia”, oltre a “Molto rumore per nulla”. Poi “La bisbetica domata”, che è di Padova. E ancora: “Misura per misura”, “Giulio Cesare”, “Il racconto dell’inverno” e “La tempesta”, che inizia a Milano. «Più di un terzo (ben 15) dei suoi 37 drammi sono ambientati in Italia». «Nel “Mercante di Venezia” il colore locale è stupefacente: esatte espressioni marinaresche sono poste in bocca a Salanio e Salerio, si parla del traghetto che unisce Venezia alla terraferma e si dà l’esatta Belmont (cioè Montebello, un sobborgo di Venezia) e Padova, che deve essere percorsa da Porzia e Nerissa». Proprio nel “Mercante”, il Bardo «rivela una approfondita conoscenza della legislazione veneziana del tempo, completamente diversa da quella vigente in Inghilterra e che nessun inglese del tempo conosce così bene». E c’è di più: «Il maestro Bellario, citato nel testo, adombra un personaggio realmente esistito e molto famoso nell’ambiente giuridico padovano, il professor Ottonello Discalzio». La gran parte delle opere firmate Shakespeare rivela una conoscenza diretta dei luoghi che Michelangelo Florio ha visitato durante la sua giovinezza girovaga. E “Giulietta e Romeo” appare chiaramente come una trasfigurazione artistica della storia d’amore vissuta durante la giovinezza.Nei registri della scuola secondaria di Stratford, la “Grammar School”, non compare il nome di nessun William Shakespeare, annota Principiato. Si sa che l’artista frequentasse a Londra un “Club In”. In quel club, però, non risulta registrato fra i soci nessuno “Shakespeare”, mentre vi risulta registrato Michelangelo Florio. «E’ noto che la sciattezza della biografia di Shakespeare, raffrontata alla grande mole della sua opera teatrale, ha fatto negare a molti studiosi l’autenticità della sua esistenza, e ritenere essere egli il prestanome di personaggi più famosi». I drammi di Shakespeare, poi, «rivelano una straordinaria esperienza secolare». Aveva ad esempio una buona conoscenza della legge, e fece largo uso di termini e precedenti legali: nel 1860 John Bucknill scriveva di lui dicendo che conosceva a fondo la medicina. Lo stesso si può dire delle sue nozioni di caccia, falconeria e altri sport, come pure dell’etichetta di corte. Lo storico John Mitchell lo definisce «lo scrittore che sapeva tutto». Un uomo di lettere? Il padre di William, John, (quello inglese) era un guantaio, commerciava in lana e forse faceva il macellaio. Era proveniente da una famiglia di contadini e piccoli proprietari terrieri (yeomen) del Warwickshire: un suddito rispettato, ma illetterato.E’ noto che “Shakespeare” conoscesse bene anche la storia romana: sapeva anche che Pompeo aveva soggiornato a Messina, nel 36 a.C. Nella Commedia “Antonio e Cleopatra”, infatti, conoscendo questi fatti storici, parla della casa di Pompeo che è a Messina e proprio lì ambienta l’atto II, scena I: “Messina. In casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Menas, in assetto di guerra”». In “Molto rumore per nulla”, commedia degli equivoci, «sono riscontrabili modi di dire e doppi sensi propri della parlata messinese», addirittura “Mìzzeca, eccellenza!” (Atto V scena I). Osserva Principiato: “crollare”, in italiano antico, significava “scrollare”, dimenare qua e là; quindi “crollalanza” è traducente perfetto di “shakespeare”. «L’atto da cui deriva il cognome risale alla “Germania” di Tacito: “Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt. Honoratissimum adsensus genus est armis laudare», (capitolo 11). Traduzione: “Se il parere non è piaciuto, [I germanici in assemblea] lo respingono mormorando; se invece è piaciuto [s]crollano le lance. È il modo più onorevole d’approvazione, lodare con le armi”. E la voce “crollare”, nell’autorevolissimo Tommaseo-Bellini, «dimostra indubitabilmente l’accezione antica di “crollare” che equivale al “concutio” tacitiano e allo “shake” scespiriano».I biografi, aggiunge Principiato, ipotizzano che Shakespeare abbia maturato la sua vasta conoscenza della legge e la sua accurata familiarità con i modi, il gergo e i costumi degli avvocati dopo essere stato lui stesso, per poco tempo, il cancelliere del tribunale di Stratford. Ipotesi ben poco credibile. E poi: chi conservò i manoscritti di Shakespeare? Attorno a Stratford non ve n’era traccia. «Un religioso del XVIII secolo controllò tutte le biblioteche private nel raggio di 80 chilometri da Stratford-on-Avon senza trovare un solo volume che fosse appartenuto a Shakespeare». E i manoscritti dei drammi, aggiunge Principiato, costituiscono un problema ancora maggiore: «Non risulta che sia stato preservato nessuno degli originali. Trentasei drammi furono pubblicati nel primo in-folio del 1623, sette anni dopo la morte di Shakespeare. E’ da ritenere che tutte le opere fossero in mano ai Florio, che non potevano ufficialmente giustificarne la provenienza». Tutto questo, nonostante tenga ancora banco – ufficialmente – la vulgata della nazionalità britannica del grande artista.L’opinione maggioritaria tra gli studiosi identifica infatti il drammaturgo con il William Shakespeare nato a Stratford-on-Avon nel 1564, trasferitosi a Londra e diventato attore e contitolare della compagnia teatrale chiamata “Lord Chamberlain’s Men”, proprietaria del Globe Theatre a Londra. Quest’uomo divise la propria vita tra Londra e Stratford, dove si ritirò nel 1613 e dove sarebbe poi morto nel 1616. Di lui possediamo la data di battesimo, il 26 aprile 1564. Oltre ad alcuni particolari sui genitori di Shakespeare, gli storici sono inoltre in possesso del certificato di matrimonio di William – datato 27 novembre 1582 – e dei certificati di battesimo dei suoi tre figli. «La visione scettica afferma invece che lo Shakespeare di Stratford fu semplicemente il prestanome di un altro drammaturgo non rivelatosi». Argomenti a sostegno di questa tesi: «Le ambiguità e le informazioni mancanti nella visione tradizionale e l’affermazione che le opere teatrali di Shakespeare richiedevano un livello culturale (compresa la conoscenza per le lingue straniere) maggiore di quello che si suppone Shakespeare avesse». In più, svariati indizi «suggeriscono che l’autore sia deceduto mentre lo Shakespeare di Stratford era ancora in vita: i dubbi sulla sua paternità espressi da suoi contemporanei».Gli “stratfordiani” sostengono che Shakespeare avrebbe potuto frequentare la The King’s School di Stratford fino all’età di quattordici anni, dove avrebbe studiato i poeti latini e le opere teatrali di autori come Plauto e Ovidio. Ma si tratta di semplici congetture, obietta Principiato, perché «non esistono registri di ammissione o di frequenza che parlino di lui in alcuna scuola secondaria, college o università». Molti “anti-stratfordiani”, poi, si interrogano sul trattino che spesso appare nel nome, spezzanmdolo in due (“Shake-speare”): secondo loro indica che si tratti di uno pseudonimo. Quel trattino, ad esempio, appare sul frontespizio dei “Sonetti” del 1609. Uno studioso di Oxford come Charlton Ogburn fa notare che, fra le 32 edizioni delle opere di Shakespeare pubblicate prima del “First Folio” del 1623 in cui l’autore veniva menzionato, il nome conteneva il trattino in ben 15 casi, quasi la metà. «Ciò è molto significativo, poiché rafforza la tesi del cognome composto: scrolla = shake, lanza/lancia=speare». Altre stranezze, infine, sulla sua morte: nel 1700 Richard Davies scrisse che morì da cattolico, «frase che forse potrebbe confermare la circostanza che egli fosse in precedenza calvinista, come Michelangelo Florio, per poi convertirsi al cattolicesimo». Ma soprattutto: «Quando muore, il 23 aprile 1616, nessuna commozione né lutto nazionale si registrano in Inghilterra, quasi fosse uno straniero».La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce da varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.
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Le truffe della “spiritualità” e il Manuale del Partigiano Zen
Ti si sono aperti tutti i chakra e stai fluendo in sincronia perfetta con l’esistenza? Senti l’amore cosmico che ti fa salire la kundalini? Sei certo di essere a un passo dall’illuminazione? Senti energeticamente, dici che tutto è Uno, vedi le vite passate, hai preso 23 livelli di Reiki e hai 5 nomi sannyasin? Sei convinto che il mondo sia un’illusione e te ne freghi di tutto? O hai davvero qualcosa da insegnarci, o com’è più probabile, ci sei davvero dentro fin sopra il collo. Sei infettato dall’ego spirituale, un altro astuto nemico sulla strada verso la vittoria. L’ego spirituale è una delle più astute maschere dell’Io. È l’uso e il consumo di tutto ciò che è “spirituale” per la gratificazione dell’ego. È il nuovo vestito di quel vecchio ego che prima faceva classifiche mondane e misurava chi era il più figo, ma ora vuole accumulare cose nel mondo dello spirito. Però la puzza dell’ego è sempre la stessa. Solo che adesso vuole farsi bello con conquiste interiori, cambiamenti metafisici, seminari che danno i superpoteri, terapie che guariscono da tutti i problemi, ricette belle e fatte sulla felicità permanente.L’ego spirituale non guarda in faccia a nessuno, anche se spesso le sue prede preferite sono le persone sensibili, idealiste, sognatrici. L’ego spirituale è subdolo e pericoloso, perché meno visibile, molto astuto e più difficile da smascherare. Cerca di pompare la tua presunta intelligenza e la tua cosiddetta saggezza spacciandoli per verità e alla fine ci caschi anche tu. Le persone in preda all’ego spirituale sono in genere anime belle che cercano rifugio dal loro disagio in quello che ritengono il mondo dello spirito. Non bisogna dimenticare che la stragrande maggioranza delle persone arriva a un percorso “spirituale” perché avverte sofferenza e disagio, perché è in crisi, perché è confusa; e questo è sacrosanto, naturale. Essere in crisi è la porta di accesso al cambiamento e all’evoluzione, e tutti, prima o poi, passiamo di lì. Ma a volte ci si attacca forzatamente anche alle nostre presunte conquiste interiori per paura di restare vuoti e senza appigli. Dopo che hai sofferto trovi un insegnamento o qualcosa che ti fa stare bene: pensi di essere arrivato, di aver trovato la chiave, “the secret”, e ti dici: finalmente, ora ho capito! Così rischi di cristallizzarti in una nuova identità spirituale.Dietro c’è il bisogno di considerazione e di approvazione, e la voglia di fuggire dalle cose che non hai risolto. Indossare il nuovo vestito spirituale è una nuova bellissima e illusoria sicurezza: ti senti maggiormente accettato, ti piace avere un certo tipo di potere (io ti posso guarire!), di conoscenza, di amicizie, o un nuovo nome spirituale; senti che puoi avere le risposte, ti senti più utile, figo, sicuro, protetto, arrivato. Non c’è niente di male, ma è sempre il giochino dell’ego che prima o poi si romperà, e tu dovrai fare i conti con quelle cose che ti hanno legato all’ego spirituale: la ricerca di sicurezza, di potere, la paura di non essere accettato, il bisogno d’amore, la mancanza di senso, il dolore e l’angoscia, il desiderio di essere visto. Ecco che il mondo spirituale ti offre una meravigliosa occasione: prendi otto iniziazioni, fai diecimila corsi diversi cercando di risolverti, vuoi l’illuminazione in tre giorni, cerchi nelle presunte coincidenze la conferma a una tua credenza, leggi 10.000 frasi spirituali senza metterne in pratica nemmeno una. Vuoi diventare qualcuno nel mondo dello Spirito, ma attento, perché se incontri un vero Maestro diventerai Nessuno.Il grande pericolo di tutte le esperienze mistiche – esperienze di illuminazione, liberazione, e così via – è che verranno utilizzate dall’ego e trasformate in materiale usato dall’ego per i suoi fini. Quando il contesto della vita di un individuo è l’auto-referenzialità egoica – vale a dire che l’identificazione è con l’ego come unità separata – le esperienze mistiche, i momenti di illuminazione, le credenziali spirituali, diventano tutti beni potenzialmente pericolosi. La “valuta” della verità può essere velocemente scambiata per la valuta dell’ego, e tali esperienze ben presto diventano un altro ancora dei mezzi dell’ego per rafforzare il suo potere nella sua lotta contro la vera liberazione. L’ego può tentare e tenterà di trasformare tutto a suo beneficio. Ecco perché l’ambito delle esperienze mistiche e di illuminazione è così pericoloso. È proprio perché il loro valore è così alto per il sé essenziale che tali esperienze sono così interessanti, e anche minacciose, per l’ego.L’ego vuole fortificarsi, e vuole anche bloccare efficacemente la liberazione che percepisce come la propria fine. Perciò, diventare un “ego spirituale” è un travestimento geniale attraverso cui infiltrarsi nella vita spirituale sincera dell’individuo e sedurre la sua attenzione distogliendola dalla Verità o da Dio (M. Caplan). Anche l’esperienza della cosiddetta illuminazione (così ambita dall’ego spirituale) è sostanzialmente un’illusione egoica. Non che non esista l’illuminazione, ma l’ego non si può illuminare, quindi da questo punto di vista tu in quanto identità non ti illuminerai mai. Il tuo ego vuole una cosa per la quale è necessaria la sua morte e quindi volersi illuminare è una contraddizione in termini. La parola “spirituale” è una parola molto pericolosa, che ha creato spesso divisioni e fraintendimenti, e che io a questo punto abolirei e la sostituirei con naturale. Ecco, non mi diventare spirituale, diventa naturale! Scopri il tuo essere vero, autentico, selvaggio, musicale, libero, incondizionato, ignoto. Non ti atteggiare da quello che ci ha capito qualcosa. Lo sappiamo tutti che non sai niente! Sii quel niente!Una autentica ricerca spirituale ti mostra l’illusione dell’identità personale, ma allora come farai a far cadere la tua identità spirituale? Se sei un praticante spirituale, un maestro di meditazione, un grande ricercatore della via, un terapeuta dello spirito, un facilitatore olistico, un sannyasin o un religioso fervente, sei potenzialmente più nei casini che se fossi uno spazzino o un pizzaiolo. A un certo punto il giudice interiore ti romperà le scatole dicendoti: ma sono anni che ti occupi di queste cose, e guarda: non ti sei illuminato, ogni tanto stai da culo, a volte non sai che pesci pigliare, dio non sai dove sta di casa, e pretendi di aiutare gli altri e di mostrare loro la via? Oppure sarai così su di giri al pensiero di essere su un percorso spirituale da pompare l’ego finché non scoppia come un palloncino. Spesso si fugge dal dolore e dalla sofferenza attraverso qualcosa di spirituale, ma a volte proprio il dolore e la sofferenza sono “spirituali’’, nel senso che possono essere preziosi strumenti per comprendere, evolvere, amare. Stare con quello che c’è non è facile, ma è prezioso, disarmante, ed è la chiave del vero cambiamento.Se smettiamo di cercare, cosa ci resta? Ci resta ciò che è sempre stato qui, al centro. Dietro alla ricerca c’è l’angoscia, c’è il disagio. Quando lo capiamo, vediamo che il punto non è la ricerca, ma l’angoscia e il disagio che spingono a cercare. Capire che cercare all’esterno non è la via, è un momento magico. Ci rendiamo conto che qualunque cosa cerchiamo, saremo sempre delusi (C. Joko Beck). Se vai alla radice, se hai il coraggio di non prenderti per il culo, se vai a guardare come ti manipoli, se riconosci con coraggio come e quanto ti sei voluto ingannare, se lasci bruciare il tuo cuore in fiamme, se attraversi con pienezza quel dolore… allora diventi sempre più leggero e la luce inizia a filtrare. Io sono stato in India, ho fatto gruppi di terapia, ho conosciuto il mondo di Osho, ho conosciuto Maestri e persone meravigliose, mi hanno dato un nome spirituale, ho studiato tecniche di meditazione, ho girato in tondo come i sufi, ho recitato mantra, ho fatto viaggi sciamanici, e tante altre cose.Senza portare nessuna bandiera e senza sposare nessun credo, volevo e dovevo esplorare tutto questo perché in questa ricerca c’è sicuramente qualcosa che vale la pena. E ancora non ho finito. E quindi? Cosa ho compreso di essenziale? Quello che non ho mai perso e non potrò perdere. Questo semplice spazio di non sapere, questo cuore vulnerabile, questo lasciar andare quello che non sono. La Vita che spinge per riconoscere se stessa. Non c’è altro. E’ bellezza. E più comprendo e più non so. E’ tutto qui, per fortuna. L’unica Vera spiritualità è la totale autenticità verso ciò che sta accadendo nella tua Vita in questo momento. Alleluia.(“Ricerca spirituale a chi?! Cazzi e mazzi della ricerca spirituale”, estratto dal “Manuale del Partigiano Zen”, 22 agosto 2016).Ti si sono aperti tutti i chakra e stai fluendo in sincronia perfetta con l’esistenza? Senti l’amore cosmico che ti fa salire la kundalini? Sei certo di essere a un passo dall’illuminazione? Senti energeticamente, dici che tutto è Uno, vedi le vite passate, hai preso 23 livelli di Reiki e hai 5 nomi sannyasin? Sei convinto che il mondo sia un’illusione e te ne freghi di tutto? O hai davvero qualcosa da insegnarci, o com’è più probabile, ci sei davvero dentro fin sopra il collo. Sei infettato dall’ego spirituale, un altro astuto nemico sulla strada verso la vittoria. L’ego spirituale è una delle più astute maschere dell’Io. È l’uso e il consumo di tutto ciò che è “spirituale” per la gratificazione dell’ego. È il nuovo vestito di quel vecchio ego che prima faceva classifiche mondane e misurava chi era il più figo, ma ora vuole accumulare cose nel mondo dello spirito. Però la puzza dell’ego è sempre la stessa. Solo che adesso vuole farsi bello con conquiste interiori, cambiamenti metafisici, seminari che danno i superpoteri, terapie che guariscono da tutti i problemi, ricette belle e fatte sulla felicità permanente.
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Carpeoro: l’élite ricorre alle bombe perché adesso ha paura
Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.Questa la sintesi della posizione di Carpeoro, espressa durante un lungo intervento alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 29 marzo, condotta da Fabio Frabetti con la partecipazione di Paolo Franceschetti, indagatore di molti misteri irrisolti della cronaca italiana. Sul tappeto, l’analisi della situazione internazionale all’indomani dell’ultima ondata di attentati terroristici, da Bruxelles al Pakistan. «E’ evidente che il problema non è l’Isis, ma chi lo manovra», premette Carpeoro, che peraltro denuncia come “deliranti” le tante fantasie complottiste che inondano il web: «Assurdo perdere tempo a domandarsi se è autentico o meno il video di un attentato trasmesso in televisione: i morti sono reali, e nessuno si sforza di capire cosa c’è dietro all’organizzazione stragistica». Certo la colpa non è dell’Islam: «Per secoli, i musulmani hanno protetto ogni minoranza perseguitata, compresi gli ebrei». Siamo noi, colonialisti occidentali, che nell’ultimo scorcio storico abbiamo represso e depresso i popoli arabi, “coltivando” deliberatamente la disperazione di massa che oggi può produrre anche il fenomeno dei kamikaze. Ma bisogna sapere che si tratta di dinamiche accuratamente pilotate: non dal Califfo, ma da chi detiene il potere reale, economico e finanziario, in Occidente.Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi denuncia apertamente – per la prima volta – il ruolo criminoso di alcune superlogge segrete del vertice occulto internazionale, come ha “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, cui avrebbero aderito anche personaggi come Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan. Una macchina perfetta per attuare la strategia della tensione a livello geopolitico, dall’11 Settembre fino alla creazione dell’Isis per destabilizzare il Medio Oriente e imporre ovunque la logica della guerra. Dal canto suo, Carpeoro cita spesso un grande intellettuale come Francesco Saba Sardi, che nel saggio “Dominio” condanna la natura oppressiva del potere sorto all’epoca della prima civilizzazione: con la scoperta dell’agricoltura nasce la guerra per il possesso della terra, quindi lo sfruttamento del lavoro e l’istituzione religiosa per la manipolazione psicologica di soldati e lavoratori. Carpeoro segnala il progressivo e fatale deterioramento delle condizioni sociali, imposto da un potere che ricorre ad un pensiero di tipo “magico”: fa’ quello che ti dico e avrai un premio, l’importante è non ti chieda mai il vero perché delle cose.«Per sua natura, il potere tende sempre a degradarsi col passare del tempo: un vecchio boss mafioso non avrebbe mai seppellito scorie tossiche nel prato dove giocano i suoi figli». Un ragionamento che prende in prestito da Noam Chomsky una celebre riflessione sulla comunicazione mainstream, ispirata dal potere: il pubblico viene “astratto” dalla percezione del reale e rinchiuso in un “cerchio magico”, in cui vigono le regole del “mago”, il persuasore di massa, il cui obiettivo è sempre la manipolazione, quindi la neutralizzazione della coscienza critica di chi ascolta. «A questo scopo, viene regolarmente fabbricato un nemico da detestare». Quando questo nemico tramonta – esempio, Al-Qaeda – c’è già pronto il nuovo nemico, l’Isis. «L’importante è che noi odiamo il nemico di turno, senza collegare le cose e senza mai domandarci chi vi sta dietro, a chi serve tutto il male che viene creato a suon di bombe». E’ la legge della paura, per paralizzare la società: strategia della tensione, appunto.«L’intensità del terrorismo sta crescendo – sottolinea Carpeoro – perché, evidentemente, chi lo organizza pensa di non avere più altre chances per dominarci». A preoccupare i registi occulti del terrore, sempre secondo Carpeoro, sono le importanti defezioni che ormai si registrano in tutto l’Occidente, dall’Europa agli Usa, anche nel mondo massonico e finanziario, ma non solo: «Alle primarie americane un “socialista” dichiarato come Bernie Sanders si è imposto nello Stato di Washington: un segnale inequivocabile». Qualcosa si è incrinato, nell’élite di potere, e i vecchi “dominus” non si sentono più così al sicuro: temono di perdere l’attuale onnipotenza, che consente loro – attraverso la finanza – di fare e disfare popoli, guerre, crisi, esodi (e affari colossali, nell’impunità più assoluta). Ed ecco allora il crescere dell’instabilità, il ricorso sistematico al terrore. I grandi assenti? Manco a dirlo, siamo noi: serve una contro-politica, per imporre un nuovo sistema di valori, capace di farci uscire dal delirio crisi-guerra. Se scoppiano più bombe, dice Carpeoro, è perché chi comanda ha paura che si possa arrivare a un rovesciamento dell’attuale governance. Problema: «Ci vorrà molto tempo, e intanto la situazione peggiorerà ancora. Non possiamo restare a guardare, bisognerà pur fare qualcosa». E cioè: spingere la società a risvegliarsi, per rompere l’assedio dell’orrore, ormai sistematico e quotidiano.Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.
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Ovadia: il ‘900 è finito, infatti con Renzi torniamo all’800
Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.Alle europee prende il 40,8%? E’ un bravissimo comunicatore, si vende bene. Incarna la retorica del nuovismo contro chi è ancora ancorato al Novecento, peccato lui voglia tornare all’Ottocento dove si poteva licenziare arbitrariamente. Forse è più vecchio lui di quella folla che sabato scorso ha invaso Roma in difesa dei propri diritti. Vince perché altrove c’è il nulla. Grillo ha perso il treno. Poteva rappresentare un’interessante proposta ma ha sposato veementemente la retorica dell’urlo. Pur avendo ottimi parlamentari, questo va riconosciuto al M5S, hanno fallito, non sono riusciti a incidere e la novità dopo mesi annoia. Anche la destra è allo sfascio, Berlusconi è un uomo patetico. La sinistra, quella vera, avrebbe un vastissimo popolo e potrebbe arrivare anche al 20%. Ma è più presa a litigare e dal proprio narcisismo ombelicale che a fare politica. Ora è in attesa che l’ex sinistra del Pd le getti un osso. Così – tra paura, opportunismo e crisi – le persone optano per questo giovanotto tronfio, con uno stile dinamico e sbarazzino, il quale dice di voler cambiare e modernizzare il paese.Conosco gente, autenticamente di sinistra, che per mancanza di alternative alle europee l’ha votato. C’è un disperato bisogno di un’aggregazione del popolo di sinistra, lo dovrebbero auspicare anche le persone sinceramente democratiche. In tutta Europa esiste, tranne che in Italia. In Germania abbiamo la Linke, in Francia un fronte variegato intorno al 10, in Grecia l’esperienza trionfante di Syriza, in Spagna l’innovazione di Podemos. E da noi? Abbiamo bisogno di una vera sinistra capace di tutelare il mondo del lavoro, l’ambiente e arrestare razzismo e deriva ultraliberista. Senza, chi osteggerà il trattato europeo del Ttip? Chi si batterà per i beni comuni e contro le privatizzazioni? Non abbiamo l’ambizione di diventare il partito della nazione, ma una forza forte e dialogante con gli altri.Decine di operai di Terni vengono licenziati e con la disperazione nel cuore, con vite perse senza più un’occupazione, e magari con figli senza futuro, si riversano nella capitale per una manifestazione non violenta e che succede? Vengono caricati e manganellati. Ma siamo matti? In un’epoca di dramma sociale e aumento delle diseguaglianze, invece di parlare di solidarietà umana e primaria, si cancellano diritti e dignità dei lavoratori. Dubito che gli agenti l’abbiamo fatto di loro sponte, sarà giunto un comando dall’alto. Come succedeva in Gran Bretagna ai tempi della Thatcher, lì torniamo. I minatori inglesi sanno cosa hanno passato in termini di repressione per aver osato rivendicare salari dignitosi e tutele. Passatemi una battuta: il Papa sembra al momento l’unico leader di sinistra. Landini? Ha un potenziale enorme, un leader già pronto. Quando lo sento parlare in televisione, vedo l’autenticità di un uomo che la sua vita se l’è sudata. La schiettezza di un uomo senza doppi fini, che non vuole fregarti. E’ autenticamente indignato. Le sue sono parole pronunciate col cuore perché da anni vicino alla povera gente e ai deboli. La nostra Italia migliore. Altro che manganellate.(Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Se Renzi e il Pd sono di sinistra, io sono il Papa”, pubblicata da “Micromega” il 31 ottobre 2014).Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.