Archivio del Tag ‘Baghdad’
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Mazzucco: gli Usa, Stato di polizia travestito da democrazia
Da 15 anni denuncio gli americani come burattinai del terrorismo internazionale. Credo di essere l’unica persona al mondo che ha fatto tre documentari diversi sull’11 Settembre, nei quali, in modo sistematico (implicitamente in due, esplicitamente in uno) accuso gli americani di essere i burattinai del terrorismo internazionale. Il mio antiamericanismo me lo sono cresciuto da solo, e molto prima di conoscere Giulietto Chiesa. Ho vissuto negli Stati Uniti per trent’anni, prima dieci anni a New York e poi vent’anni a Los Angeles. Ero andato a Los Angeles nel ‘94 pensando di trasferirmi in America definitivamente perché volevo fare cinema: non perché l’America mi piacesse in modo particolare, ma perché a Hollywood c’era l’ambiente che pensavo di trovare (poi invece la sorpresa è stata un’altra). Così, ho cominciato comunque a conoscere da vicino questa nazione. Intanto io non ce l’ho con gli americani. Si può dire solo in termini generici che io sarei antiamericano. Gli americani sono un popolo di persone sostanzialmente per bene, magari un po’ fessacchiotti e infantili: come nazione, li paragono a un quindicenne in piena esplosione ormonale. Ce l’ho in particolare con le élite che li controllano, e controllano mezzo mondo, o tre quarti del mondo.Una cosa che mi manca, degli Usa, è l’assenza di burocrazia: la facilità di fare business, se lo vuoi fare, senza impedimenti e senza pastoie. Mia moglie s’era messa a disegnare gioielli fatti a mano, che piacevano. Non ha avuto bisogno di nessuna partita Iva: è andata all’ufficio postale, ha complilato un semplice modulo con il suo codice fiscale, ha pagato 20 dollari e dopo mezz’ora aveva la licenza per vendere i suoi gioielli. Una facilità assoluta, nell’andare incontro alle persone, senza costringerle ad avvalersi del commercialista. Quando feci la mia prima patente di guida americana, avendo già la patente italiana dovevo sostenere solo l’esame scritto, senza guida. Superato il test, all’ufficio di New York pochi minuti dopo c’era già la mia patente pronta. Rimpiango dell’America questo non volerti mettere i bastoni tra le ruote, per tutto quello che è burocrazia: mi manca questa capacità di aiutare il cittadino, che in Italia è impensabile (e forse ha ragioni che risalgono a 500 anni fa). E’ chiaro che imporre uno Stato burocratico dà il potere a chi gestisce la burocrazia: se sei un burocrate che ha in mano tutte le carte, puoi favorire chi vuoi e sfavorire gli altri. Un’arma di ricatto, tant’è vero che in Italia, se hai bisogno di qualcosa, la prima domanda è sempre “non è che conosci qualcuno, al ministero?”.La cosa invece che sono felice di aver lasciato in America è quel fastidio sottile di sapere di vivere in uno Stato di polizia travestito da democrazia. In realtà, tanto apparente è la libertà di pensiero, la libertà di espressione, la cosiddetta libertà democratica che c’è in America, quanto invece è strisciante il ferreo controllo mentale sulle tue opinioni. Nel momento stesso in cui tu “sgarri” ed esci da pensiero mainstream, sei automaticamente considerato un paria. Adesso purtroppo la cosa è arrivata anche qui, perché noi seguiamo sempre di qualche anno quello che avviene negli Stati Uniti. Ma quando ho lasciato gli Usa, sei anni fa, avevo già questa sensazione: non potevi parlare con nessuno, liberamente. Qualunque cosa provassi a dire, di fronte cioè a qualunque argomento controverso, vedevi subito occhi sbarrati e persone che sparivano. E questo dovrebbe essere il grande paese della libertà di espressione? E’ un senso diffuso, quello di non potersi esprimere liberamente. Qui, bene o male, puoi ancora farlo. Se al bar ti metti a discutere sull’11 Settembre, non è che ti guardino per forza come un alieno: magari ti contrastano, ma una discussione puoi farla. La tua posizione è comunque accettata. Là invece scatta una sorta di orrore interiore: appena esci dal pensiero unico, sei automaticamente da cancellare dalla società. E questo è molto pesante, specialmente per uno come me, che la pensa diversamente su molti argomenti.Il mio non è un antiamericanismo a priori, le mie opinioni sono argomentate. Dal 2004, quando ho aperto il blog “Luogo Comune”, denuncio i crimini statunitensi: l’invasione americana dell’Iraq ha fatto più di un milione di morti, tra le vittime civili. Mi sembra di aver sempre giustificato, con i dati di fatto, le mie posizioni. Si dice che Qasem Soleimani non avrebbe combattuto l’Isis, e che anzi avrebbe contribuito a farlo crescere? Quando qualcuno ne porterà le prove, sarò ben felice di cambiare idea su Soleimani. Trump è stato incastrato e obbligato a mettere la firma sull’operazione Soleimani dopo che è avvenuta? Non c’è niente di irragionevole, in questa ipotesi. Queste operazioni possono essere giustificate da una impellenza immediata. Cioè: i militari possono tranquillamente aver fatto fuori Soleimani sensa avvisare Trump (cosa che io continuo a pensare che sia successo), mettendolo di fronte al fatto compiuto, dicendogli: si è presentata un’occasione irripetibile per ucciderlo, sulla via dell’aeroporto di Baghdad, senza massacrare civili innocenti. A quel punto, il presidente cosa fa? O denuncia i militari di averlo aggirato, perdendo così le prossime elezioni dimostrando di non essere capace di controllare il Pentagono, oppure abbozza e ci mette la firma.La prima reazione di Trump non è stato un tweet per rivendicare l’uccisione del “cattivo” Soleimani. Su Twitter ha solo pubblicato la foto di una bandiera americana, senza nessuna scritta e senza intestarsi niente. Strano, per uno che “cinguetta” così tanto. Secondo me, Trump stava ancora cercando di capire cosa fosse successo. Quando l’ha capito, non gli è rimasto altro da fare che fingere che l’avesse deciso lui. Uno può sposarla o meno, questa ipotesi, ma è tutt’altro che irragionevole. Apprezzo la reazione missilistica dell’Iran dopo l’omicidio di Soleimani: un atto dimostrativo, che conferma la capacità chirurgica dell’Iran di colpire le basi militari americane nella regione, ma in questo caso senza l’intenzione di provocare vittime. Il Boeing colpito nei cieli di Teheran? In attesa di sapere cosa sia accaduto veramente, dobbiamo intanto registrare le scuse solenni e ufficiali dell’Iran per quello che viene definito un tragico errore. Anche gli Usa abbatterono un volo civile, sotto Clinton, ma il Pentagono smentì le iniziali ammissioni del presidente. E dopo 40 anni aspettiamo ancora le scuse (e la verità) per Ustica.L’Iran sostiene che l’errore – imperdonabile – sia stato causato dallo stato di tensione innescato dagli Usa con l’omicidio del generale Soleimani. Attenzione, Soleimani era a Baghdad in missione diplomatica ufficiale: secondo l’ex primo ministro iracheno Mahdi, stava portando a Baghdad un accordo di de-escalation, quindi di pacificazione, fra l’Iran e l’Arabia Saudita, cioè i maggiori portavoce (sciita e sunnita) che si confrontano a distanza, in Medio Oriente, ovviamente con Israele che sta dalla parte dei sauditi contro l’Iran. Quindi Soleimani in quel momento era un diplomatico, in missione diplomatica. E se c’è una cosa che non si fa, in tutto il mondo, nonostante lo schifo delle guerre, è uccidere i diplomatici: è una regola che vale da sempre. Infatti, lo stesso Soleimani si era esposto alla possibilità di essere colpito: pensava che non avrebbero mai osato fare un’azione del genere. Era convinto di essere sotto immunità diplomatica: in questo sta la gravità dell’accaduto. Poi non so dire quanto fosse criminale, Soleimani, ma – a quel livello – nessuno è uno stinco di santo: non ci sono buoni e cattivi, si combattono guerre pesantissime da 30-40 anni, nella regione petrolifera, ma niente giustifica un atto del genere.Un senatore repubblicano ha protestato apertamente, in televisione, perché una commissione senatoriale americana non ha ottenuto risposte dal Pentagono sui motivi dell’uccisione di Soleimani. La commissione verifica l’azione dei militari e può quindi riferire al Parlamento, dunque ai cittadini, cosa succede. Lo scopo della commissione non è far rivelare al Pentagono i suoi segreti militari, ma è quello di verificare (a porte chiuse) quali sono i motivi che hanno spinto i militari a compiere una determinata operazione. Dopodiché, i senatori possono assicurare di aver ricevuto spiegazioni valide, sia pure non divulgabili per ovvie ragioni di sicurezza nazionale. Invece questo senatore, uscito dai lavori della commissione, ha detto: «Ci hanno dato solo 75 minuti di tempo». Il Pentagono aveva parlato di un “attacco imminente” progettato da Soleimani? Protesta il senatore: «Ogni volta che chiedevamo dov’era, questo attacco imminente, chi lo avrebbe dovuto compiere e contro quale obiettivo, non ci rispondevano. E in più – riferisce sempre il senatore – ci hanno hanno anche detto: “Non permettetevi mai più di dubitare delle nostre scelte militari per un futuro, eventuale attacco all’Iran”». E questo è un senatore repubblicano: non un democratico, che potrebbe avere interesse a contestare l’amministrazione Trump. Ribadisce: al Senato, il Pentagono non ha offerto alcuna giustificazione per l’omicidio del generale Soleimani.(Massimo Mazzucco, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Mazzucco Live” dell’11 gennaio 2020, su YouTube. Mazzucco è autore di documentari come “11 settembre 2001 – Inganno globale” uscito nel 2006, “Il nuovo secolo americano” del 2007 e “11 Settembre – La nuova Pearl Harbor”, del 2013).Da 15 anni denuncio gli americani come burattinai del terrorismo internazionale. Credo di essere l’unica persona al mondo che ha fatto tre documentari diversi sull’11 Settembre, nei quali, in modo sistematico (implicitamente in due, esplicitamente in uno) accuso gli americani di essere i burattinai del terrorismo internazionale. Il mio antiamericanismo me lo sono cresciuto da solo, e molto prima di conoscere Giulietto Chiesa. Ho vissuto negli Stati Uniti per trent’anni, prima dieci anni a New York e poi vent’anni a Los Angeles. Ero andato a Los Angeles nel ‘94 pensando di trasferirmi in America definitivamente perché volevo fare cinema: non perché l’America mi piacesse in modo particolare, ma perché a Hollywood c’era l’ambiente che pensavo di trovare (poi invece la sorpresa è stata un’altra). Così, ho cominciato comunque a conoscere da vicino questa nazione. Intanto io non ce l’ho con gli americani. Si può dire solo in termini generici che io sarei antiamericano. Gli americani sono un popolo di persone sostanzialmente per bene, magari un po’ fessacchiotti e infantili: come nazione, li paragono a un quindicenne in piena esplosione ormonale. Ce l’ho in particolare con le élite che li controllano, e controllano mezzo mondo, o tre quarti del mondo.
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Perché l’Occidente terrorista non sa tollerare l’Iran sovrano
Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.Arriva l’estate ed iniziano le operazioni chirurgiche in Iraq da parte dell’aviazione israeliana: è la prima volta che Tel Aviv estende il raggio d’azione al di fuori di Libano e Siria, una mossa altamente rischiosa. Gli aerei e i droni colpiscono basi militari, depositi di armi, neutralizzano figure chiave della resistenza irachena o del ramo locale di Hezbollah. L’intervento israeliano agisce in senso contrario a quello statunitense: la divisione interconfessionale cala di intensità, si compatta il fronte antiamericano, aumentano gli attacchi contro obiettivi statunitensi. Poi, il 31 dicembre, la svolta: un gruppo agguerrito di manifestanti circonda l’ambasciata statunitense di Baghdad, viene appiccato il fuoco. È una ritorsione per i raid statunitensi ed israeliani, sempre più frequenti e violenti, che nel periodo natalizio hanno lasciato a terra più di 30 uomini, per la maggior parte appartenenti all’Hezbollah locale e ai comitati di resistenza popolare. Il presidente Donald Trump accusa l’Iran di essere dietro l’assalto all’ambasciata e promette vendetta: il 2 gennaio firma il mandato d’uccisione di Qasem Soleimani, il più capace ed influente stratega militare al servizio di Teheran.La notte del 3 gennaio, in quel convoglio, si trova proprio Soleimani. Vengono lanciati dei missili, esplodono i veicoli, muoiono sette persone: il generale, il leader del comitato di mobilitazione popolare ed altri militari iraniani ed iracheni. Per anni si è vociferato che Soleimani fosse un “intoccabile”, protetto da un patto sottobanco siglato fra Russia e Iran. Indiscrezioni che sembrano trovare conferma in un fatto: le frequenti visite di Netanyahu e di esponenti della difesa israeliana a Mosca durante l’anno scorso. Sembra che il primo ministro israeliano volesse semaforo verde, perché ha fatto della guerra all’Iran il punto focale della sua intera agenda estera, ma che gli fosse stato negato. In questo contesto si inquadrebbero anche le schermaglie che da mesi dividono Israele e Russia: l’arresto di cittadini israeliani in Russia, condannati a pene detentive pesantissime rispetto ai reati commessi, i raid israeliani in Siria nonostante i moniti del Cremlino, la decisione russa di supportare l’economia iraniana attraverso l’Unione Economica Eurasiatica, la collaborazione nel nucleare civile e la recentissima esercitazione navale con la Cina.La linea rossa, però, alla fine è stata oltrepassata: protetto o meno da un “lodo Moro” in salsa asiatica, Soleimani è stato ucciso. La campagna di propaganda da parte della rete sovranista, a cui si è unito anche Matteo Salvini, è già iniziata: era un terrorista, una minaccia per la pace mondiale, un pericolo comparabile a Osama bin Laden e Al-Baghdadi, una ritorsione dovuta. Ciò che sfugge a giornalisti, politici ed analisti, veri o presunti tali, è che la neutralizzazione di Soleimani potrebbe essere benissimo, e giustamente, considerata come una dichiarazione di guerra. Non è stato ucciso un terrorista od un paramilitare, ma un soldato, un esponente di primo piano di forze armate regolari. È il diritto internazionale a parlare: se l’Iran volesse, potrebbe dichiarare guerra agli Stati Uniti perché vittima di un’aggressione ed esposto continuamente ad ingerenze nei propri affari interni. Ma il mondo è dominato dalla realpolitik: l’Iran non ha i mezzi per sostenere una guerra contro gli Stati Uniti, e neanche ha un’alleanza o dei partner su cui fare affidamento. Il casus belli c’è, ma l’Iran è consapevole che, alla luce della situazione economica interna e della presenza capillare di quinte colonne entro i propri confini, andrebbe incontro alla capitolazione o, comunque, ad uno scenario Afghanistan: guerra permanente, paese distrutto.Ciò che accadrà, con molta probabilità, è che la guerra a distanza fra l’asse Washington-Tel Aviv-Riyad e Teheran salga di livello: maggiore insurgenza a Gaza, maggiore ricorso ad Hezbollah in Libano, attentati contro obiettivi americani o israeliani all’estero – riportando lo scontro ai livelli degli anni ’90, quando Buenos Aires fu insanguinata da due attentati contro la comunità ebraica – maggiori pressioni su casa Sa’ud dallo Yemen e schermaglie nel Golfo Persico. Ciascuna di queste mosse, però, sarà al tempo stesso controbilanciata da reazioni sempre più sproporzionate, perché l’obiettivo degli Stati Uniti – non di Trump – è di spingere l’Iran al passo falso che potrebbe legittimare un intervento stile Iraq. Non ci sarà tregua finché il regime rivoluzionario khomeinista continuerà a guidare il paese, perché l’Iran è una di quelle nazioni che sono vittime della cosiddetta “maledizione della geografia” e perciò destinate ad un “contenimento infinito”.È strategicamente incardinato fra Medio Oriente, Asia centrale e meridionale, un punto di connessione fra le civiltà turcica, indiana, cinese ed islamica, è ricco di risorse naturali strategiche, come gas e petrolio, perciò non può essere consentito ad alcuna forza politica ideologicamente anti-imperialista ed anti-occidentale di monopolizzare il potere. Non è un caso che la storia contemporanea iraniana, dall’arrivo dei britannici ad oggi, sia intrisa di ingerenze straniere, rivoluzioni false e colpi di Stato. Ma l’approfondimento sarebbe incompleto senza una descrizione di Soleimani, che da ieri è dipinto come un terrorista e che perciò merita di essere difeso dalla campagna propagandistica in corso. Proveniente da una famiglia di umili origini, aveva scalato i gradi dell’esercito mostrando le proprie abilità sul campo, durante la guerra con l’Iraq, giungendo a ricoprire la prestigiosa carica di comandante della brigata Gerusalemme delle guardie della rivoluzione.Gli fu data l’importante responsabilità di guidare l’offensiva dell’Iran contro lo Stato Islamico in Iraq, all’apice della sua espansione, una missione che portò con successo a compimento, diventando un’icona popolare non solo in Iran, ma in tutto il mondo islamico. Soleimani, infatti, era apprezzatissimo anche fra gli oppositori anti-khomeinisti. Con la sua morte, l’Iran perde il suo stratega più abile e carismatico e l’asse della resistenza, con annesso il sogno di un corridoio sciita da Teheran a Beirut, si ritira bruscamente. La sua morte servirà a due scopi: spingere l’Iran a commettere un gesto eclatante, che possa giustificare un intervento militare, o a portarlo sul tavolo delle trattative per riscrivere l’accordo sul nucleare. Una cosa è certa: il Nuovo grande gioco per l’egemonia sull’Eurasia è entrato in una nuova fase e questa morte spettacolare, emblematicamente avvenuta ad inizio anno, simboleggia la direzione che prenderanno le relazioni internazionali nella nuova decade in cui siamo appena entrati.(Emanuel Pierobon, “Soleimani è morto, viva Soleimani”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 4 gennaio 2020).Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.
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Magaldi: la cinica verità del potere dietro alla crisi Usa-Iran
Non possono certo passare per i Guardiani della Rivoluzione Islamica le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, tantomeno all’alba del terzo millennio inaugurato dal mostruoso terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che l’11 settembre 2001 ha raso al suolo le Torri Gemelle. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, Gioele Magaldi non esita a denunciare una superloggia massonica – la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush – come incubatrice del neoterrorismo stragista concepito proprio negli Stati Uniti. Ma oggi avverte: non facciamo l’errore di trasformare in un martire innocente il generale di ferro Qasem Soleimani, grande nemico di quell’Isis che è stato partorito dalle stesse menti, non islamiche, che progettarono le imprese di Al-Qaeda. Assassinato dagli Usa a Baghdad in circostanze che Magaldi definisce «verminose», Soleimani – sostiene – non era esattamente una mammoletta: era stato infatti la mente della spietata operazione geopolitica, militare e d’intelligence, sviluppata per instaturare l’egemonia di Teheran sulla Mezzaluna Sciita, anche al prezzo di attentati, intimidazioni e uccisioni, destabilizzando una regione peraltro già ampiamente devastata, in partenza, dall’imperialismo americano nell’era Bush.Soleimani è stato determinante nel fermare l’Isis, cioè il terrorismo protetto dall’Occidente? Vero, ammette Magaldi: Obama avrebbe potuto stroncare sul nascere le orde di tagliagole che hanno seminato il terrore in Iraq e in Siria. Peggio: quelle bande erano state formate, armate, addestrate e protette da ambienti atlantici, attraverso servizi segreti infiltrati da elementi facenti capo, ancora e sempre, alla “Hathor Pentalpha”, cioè le menti occulte dell’11 Settembre. Ma attenzione, avverte Magaldi: il generale Soleimani agiva comunque per conto del concorrenziale oscurantismo autoritario di Teheran, un regime islamista che pratica ha Sharia e non rispetta i diritti umani. Non solo: lo stesso Soleimani era vicinissimo all’ala più tradizionalista e reazionaria del potere di Teheran, e con i suoi Pasdaran (che controllano direttamente una fetta dell’economia iraniana) aveva proposto di stroncare nel sangue le proteste degli studenti iraniani, scesi in piazza per rivendicare libertà di espressione. Secondo Magaldi, l’efferato omicidio del generale – effettuato in modo inaudito, in un paese tecnicamente neutrale come l’Iraq – rischia di far passare per vittima un regime teocratico che esercita in modo feroce il potere sui suoi “sudditi”.Quanto a ipocrisia, peraltro, gli Stati Uniti non si fanno mancare nulla: la monarchia saudita, grande alleata di Washington, rivaleggia con Teheran e forse – dice Magaldi – addirittura supera, in ferocia, il regime degli ayatollah. Ma Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, si sforza di esercitarsi in un’analisi lucidamente geopolitica: a che cosa servirebbe sgominare l’Isis, se poi l’intera regione cadesse sotto l’egemonia dei mullah? Magaldi, peraltro, non crede che l’assassinio di Soleimani possa spalancare le porte dell’inferno: la Terza Guerra Mondiale, assicura, non la vuole nessuno. Un invito? Leggere oltre le etichette e le bandiere: dare un nome preciso all’élite eversiva che ha manipolato gli Usa, riconoscere il carattere ambiguo della “democratura” di Putin e il segno autoritario della potente oligarchia cinese. Problema: veri e propri potentati politico-economici, assolutamente trasversali, si disputano cinicamente il pianeta in una sorta di Risiko, in cui nessuno dice la verità e nel quale ogni tanto muore qualche pezzo da novanta, come Qasem Soleimani. E il peggio è – chiosa Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – che a volte i nemici-carnefici sono soci occulti: in passato, i falchi di Tel Aviv e quelli di Teheran hanno concordato segretamente le rispettive mosse, sapendo che l’odio estremista agitato dalle opposte tifoserie avrebbe rafforzato il reciproco potere.Non possono certo passare per i Guardiani della Rivoluzione Islamica le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, tantomeno all’alba del terzo millennio inaugurato dal mostruoso terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che l’11 settembre 2001 ha raso al suolo le Torri Gemelle. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, Gioele Magaldi non esita a denunciare una superloggia massonica – la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush – come incubatrice del neoterrorismo stragista concepito proprio negli Stati Uniti. Ma oggi avverte: non facciamo l’errore di trasformare in un martire innocente il generale di ferro Qasem Soleimani, grande nemico di quell’Isis che è stato partorito dalle stesse menti, non islamiche, che progettarono le imprese di Al-Qaeda. Assassinato dagli Usa a Baghdad in circostanze che Magaldi definisce «verminose», Soleimani – sostiene – non era esattamente una mammoletta: era stato infatti la mente della spietata operazione geopolitica, militare e d’intelligence, sviluppata per instaurare l’egemonia di Teheran sulla Mezzaluna Sciita, anche al prezzo di attentati, intimidazioni e uccisioni, destabilizzando una regione peraltro già ampiamente devastata, in partenza, dall’imperialismo americano nell’era Bush.
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Salvini inguaia l’Italia: insulta l’Iran come l’ultimo dei servi
Il 3 gennaio 2020 è stato assassinato a Baghdad, da un missile lanciato da un drone statunitense, il generale maggiore iraniano Soleimani, considerato una delle massime autorità in Iran dopo la “guida suprema”. Un eroe di mille battaglie, per tutto il mondo sciita. Eroe di un paese, l’Iran, che – più o meno, unico al mondo – non ha mai attaccato militarmente altre nazioni. Basti pensare che Soleimani è stato uno degli artefici, insieme ai russi e all’esercito regolare siriano, della sconfitta dei tagliagole dell’Isis, in Siria. Vi ricordate quelle bestie che in Siria stupravano donne e tagliavano teste? Soleimani era uno degli eroi che contribuirno a sconfiggere quelle bestie, e adesso gli americani lo hanno ammazzato. E’ difficile immaginare una provocazione più grave di questa. Si tratta di una azione che rappresenta, a tutti gli effetti, un atto di guerra contro l’Iran. Immaginate ora i fatti a ruoli invertiti: provate a pensare cosa sarebbe successo se gli iraniani avessero assassinato il vicepresidente americano o il capo della Cia, in visita a un altro paese. Ma in realtà l’esempio non rende, perché Soleimani in Iran era molto più popolare di queste persone, negli Stati Uniti.La ritorsione iraniana è già stata annunciata, e sarà inevitabile. A quel punto, basterà un niente perché si scateni la Terza Guerra Mondiale. Anche perché l’assassinio di Soleimani è mirato esattamente a questo: a causare una reazione che produca un’escalation che conduca ad una grande guerra. L’Europa e l’Italia hanno reagito, e l’hanno fatto con la loro proverbiale codardia, tanto per cambiare. A questo ignobile atto di guerra statunitense hanno reagito guardandosi bene dal condannarlo esplicitamente. Tuttavia, al di là della codardia, per lo meno si scorge una certa insofferenza, racchiusa nell’espressione “grande preoccupazione” con cui quasi tutti i politicanti europei da quattro soldi si sono riempiti la bocca – bocche peraltro solo in grado di balbettare, in questa occasione. Andrebbe loro ricordato che non sono stati eletti per preoccuparsi quando, come dicono gli americani, “la merda colpisce il ventilatore”, bensì per agire nell’interesse dei paesi che rappresentano. E anziché balbettare, nei momenti di crisi dovrebbero invece condannare fermamente, e dissociarsi nel modo più netto dalle violazioni del diritto internazionale e dai crimini di guerra che vengono compiuti. Ma si tratta, appunto, di politicanti da quattro soldi. L’Europa non ha di meglio da offrire, e più della loro balbettante “grande preoccupazione” non c’è nulla da aspettarsi.Per la cronaca, Russia e Cina hanno giustamente condannato l’azione statunitense. L’Europa invece ha balbettato. Un balbettio che peraltro non è neppure andato bene, agli americani, che si aspettavano invece genuflessione totale. Il segretario di Stato americano Pompeo si è detto “deluso” dalla reazione europea, la quale – dice lui – non sarebbe stata di aiuto. Ovvero, si attendeva (e pretendeva) l’appoggio totale ed entusiastico, come d’altra parte si conviene a dei vassalli. Se almeno il politicume italiota avesse la decenza di confessare la verità innominabile, e cioè se dicesse chiaramente, una volta per tutte, “italiani, mettetevi l’anima in pace, noi qui al governo e in Parlamento siamo politici solo per finta, per esigenze di teatro; la realtà è che l’Italia è una colonia americana e noi prendiamo ordini, e obbediamo ciecamente, e i nostri lauti stipendi di politici sono dovuti solo al fatto che salviamo le apparenze, recitiamo il teatrino della democrazia”, be’, se lo confessassero ci farebbero una figura migliore, più dignitosa. Tuttavia, bisogna dire che si può fare di peggio. Si può fare di peggio, che balbettare di “grande preoccupazione”: si può fare come Matteo Salvini.Cioè, ci si può genuflettere totalmente al padrone, e abbaiare per lui (contro il nemico di turno del padrone), sperando di ricavarne alla fine un bell’osso succulento da sgranocchiare. E naturalmente, fare tutto ciò irriflessivamente, automaticamente, senza pensare, senza capire cosa stia succedendo e di cosa si stia parlando. E soprattutto: senza coscienza delle conseguenze inevitabili e irreversibili delle tue parole. Subito dopo l’assassinio del generale iraniano, Salvini twitta trionfante che bisogna ringraziare Trump e “la democrazia americana” per aver eliminato Soleimani, che Salvini definisce testualmente “uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico”. Terrorista islamico? Come si può definire così il “numero due” del potere iraniano, una figura leggendaria che si era guadagnata l’incondizionato rispetto popolare di tutto il mondo sciita combattendo contro il terrorismo? In Occidente, pochi sanno quanti attentati l’Iran abbia dovuto subire, nei decenni. Soleimani si era guadagnato meriti fin da quando, negli anni ‘80, si faceva le ossa combattendo contro l’invasore, l’Iraq di Saddam Hussein armato e appoggiato dall’Occidente, che aggredì l’Iran in una guerra terribile, che durò anni e costò milioni di morti. E poi, in tempi recentissimi, insieme ai siriani e ai russi, Soleimani combatté contro i terroristi tagliagole dell’Isis in Siria.Ebbene, definire così un personaggio del genere va molto oltre l’insulto imperdonabile: qui siamo nientemeno che al puro delirio. Rendiamoci quindi conto che Salvini si schiera apertamente a favore di un’azione che, secondo il diritto internazionale, è criminale: è un crimine internazionale. Si esprime a favore dell’omicidio di un quasi-capo di Stato, a favore di un atto terroristico compiuto in un paese sovrano. Ma soprattutto: si rende conto, Salvini, di aver dichiarato guerra all’Iran? Io non credo che se ne sia accorto. Ma con quelle parole, in pratica, ha dichiarato guerra all’Iran. Mi chiedo: cosa sarebbe accaduto se Salvini avesse pronunciato quelle parole quand’era ministro, o ancora peggio – Dio ce ne scampi – se fosse presidente del Consiglio? Saremmo in prima linea in una prossima guerra contro l’Iran, con le miglia di soldati italiani schierati in Medio Oriente immediatamente trasformati in bersagli preferenziali, contro il nostro interesse nazionale. Forse Salvini è abituato al fatto che in Italia le parole volano, e poi si dimenticano subito: per chiunque apra bocca in pubblico, ormai vige la “presunzione di quaquaraquà”, tutto va in vacca e la gente ci sghignazza sopra, magari con l’aiuto di una parodia di Crozza. Ma gli iraniani non dimenticheranno le sue parole infamanti: non le dimenticheranno mai. E neppure i russi le dimenticheranno, e neppure i cinesi.In effetti, nessun soggetto intelligente e razionale può dimenticare dichiarazioni del genere: perché, tragicamente, queste dichiarazioni mettono a nudo il livello del soggetto che le ha pronunciate. E cioè uno che, essenzialmente, non sa cosa dice. Un leone da tastiera, come si suol dire – nel caso specifico, un sovranista da tastiera: cioè, sovranista solo a parole. Con il suo tweet, infatti, Salvini si dimostra il politico più antisovranista d’Italia. Ovvero: candidare l’Italia a diventare carne da cannone per le guerre d’aggressione americane non corrisponde esattamente all’interesse nazionale. Inoltre, l’Italia era il primo partner commerciale dell’Iran: il primo. Ebbene, Salvini ha appena mandato affanculo tutte le aziende italiane che hanno stabilito questo primato. Un gran bel sovranismo, direi. Wow! L’Italia è già lo zerbino degli Stati Uniti, facciamocene pure una ragione. Ma Salvini insiste per scrivere, su quello zerbino, “welcome, calpestateci, fate di noi tutto quello che volete, ma per favore lasciatemi giocare a fare il Capitano, e prometto che sarò la migliore delle scimmie ammaestrate”. Il tragico è che, mentre lo dice, non se ne rende neanche conto. Così come non si rende conto che qualsiasi nuova guerra in Medio Oriente, cui lui adesso plaude, ci riempirà di milioni di nuovi rifugiati, che a lui parole aborrisce.Milioni di altri rifugiati: è questo per cui ha lavorato, scrivendo questo tweet. Cioè: fai tifo per la guerra e poi, quando arrivano i rifugiati dalla tua bella guerra, che fai? Non ci aveva pensato: non si rende proprio conto. Tutti quelli che in Italia, da tempo, gridano all’allarme-Salvini – presunto grande stratega populista, presunta minaccia per la democrazia, presunto restauratore del fascismo, presunto filo-russo e pupazzo di Putin, presunto sovranista di ferro, presunto uomo forte che fermerà l’immigrazione – dovranno adesso prendere atto di avere sempre preso lucciole per lanterne. Salvini non è mai stato pericoloso, nel senso che essi temevano. Care Sardine, soffrite di allucinazioni. E’ invece pericoloso per il motivo opposto: per il non essere ciò che pretende di essere. Nei fatti, Salvini non è un sovranista. Salvini plaude a Draghi presidente della Repubblica. E il suo ideale, lo abbiamo appena visto, è un’Italia totalmente prona all’America – l’America che bombarda, non quella del sogno americano. Proprio, lui non capisce il mondo. Non è uno stratega; piuttosto è un abile tattico, che naviga a vista, ma destinato a naufragare al primo tatticismo andato storto (per esempio, al primo tweet).E infatti, su Twitter e sugli altri social, è già montato un cosiddetto “shit storm”, una “tempesta di merda”, nei suoi confronti, da parte di tutti quelli che, diversamente da lui, hanno capito il significato (e le implicazioni) delle sue incredibili parole sull’assassinio di Soleimani – anche da parte degli stessi leghisti, e di intellettuali che in passato lo avevano sostenuto. Facciamo un esempio: Diego Fusaro, che un tempo lo apprezzava, lo ha definito “un servo”. L’influente filosofo russo Dugin, che un tempo lo apprezzava, in un post su Facebook ha sentenziato (in italiano) che Salvini “ha tradito se stesso”. L’uccisione di Soleimani, poi, è un crimine ancora più grave di quanto era inizialmente sembrato. Il grande giornalista Pepe Escobar ha riportato una dichiarazione attribuita al primo ministro iracheno, il quale ha raccontato che gli Stati Uniti avevano a lui una mediazione con l’Iran. Quindi il primo ministro iracheno avrebbe invitato Soleimani come mediatore: e, appena arrivato a Baghdad, gli americani lo hanno ammazzato. Il generale iraniano sarebbe quindi stato assassinato dagli americani mentre era in una missione diplomatica, di negoziazione, sollecitata dagli stessi americani.Commenta, al riguardo, Pepe Escobar, che «nessuna persona sana di mente crederà mai più a questi barbari (con l’eccezione dei loro barboncini)». A Salvini, a questo punto, devono esser fischiate le orecchie. E oltre a Soleimani, i missili americani hanno ucciso anche un importante capo dell’esercito iracheno: un altro crimine internazionale, che ha giustamente fatto arrabbiare moltissimo, a loro volta, anche gli iracheni, che quindi hanno trovato nel loro Parlamento l’unità necessaria per la decisione di espellere l’esercito americano dal paese. Questa seconda uccisione non era stata pianificata dagli statunitensi: pare che quel comandante non avrebbe dovuto trovarsi là. Gli americani non l’avrebbero previsto né voluto, visto che questo avrebbe compromesso i loro rapporti con gli iracheni. Così infatti è stato: in pratica, con il loro gesto, gli americani hanno finito per auto-espellersi dall’Iraq. Poi è tutto da dimostrare che se ne vadano davvero. Ma a quel punto, se rimanessero, sarebbero di nuovo una forza di occupazione illegale: le apparenze se ne andrebbero a quel paese.(Roberto Quaglia, estratto dal video-intervento “Trump è in trappola”, trasmesso da “Pandora Tv” il 7 gennaio 2020).Il 3 gennaio 2020 è stato assassinato a Baghdad, da un missile lanciato da un drone statunitense, il generale maggiore iraniano Soleimani, considerato una delle massime autorità in Iran dopo la “guida suprema”. Un eroe di mille battaglie, per tutto il mondo sciita. Eroe di un paese, l’Iran, che – più o meno, unico al mondo – non ha mai attaccato militarmente altre nazioni. Basti pensare che Soleimani è stato uno degli artefici, insieme ai russi e all’esercito regolare siriano, della sconfitta dei tagliagole dell’Isis, in Siria. Vi ricordate quelle bestie che in Siria stupravano donne e tagliavano teste? Soleimani era uno degli eroi che contribuirno a sconfiggere quelle bestie, e adesso gli americani lo hanno ammazzato. E’ difficile immaginare una provocazione più grave di questa. Si tratta di una azione che rappresenta, a tutti gli effetti, un atto di guerra contro l’Iran. Immaginate ora i fatti a ruoli invertiti: provate a pensare cosa sarebbe successo se gli iraniani avessero assassinato il vicepresidente americano o il capo della Cia, in visita a un altro paese. Ma in realtà l’esempio non rende, perché Soleimani in Iran era molto più popolare di queste persone, negli Stati Uniti.
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Soleimani: dalla lotta all’Isis alla difesa dei cristiani in Siria
L’ascesa della Mezzaluna Sciita è strettamente legata a una figura umile, misteriosa, non ordinaria. Il suo nome è Qassem Suleimani. Nacque l’11 marzo 1957 nella città di Qom (secondo il Dipartimento di Stato Usa) o nel villaggio di Rabord, vicino alle montagne afghane, nella provincia sud-orientale del Kerman (secondo le fonti persiane); ma quello che si sa per certo è che proviene da una famiglia di poveri contadini. La determinazione geografica dell’infanzia di Suleimani è importante: chi ha vissuto a contatto con il mondo agricolo non dimentica il debito dell’uomo verso la terra. A differenza di Qom, centro di scuole teologiche e città di pellegrinaggio, Rabord è un posto remoto e con una società organizzata in modo tribale. La conoscenza ottenuta vivendo a contatto con tale struttura sociale gli diede le capacità di coordinare in guerra le diverse tribù che popolano il Vicino e Medio Oriente. Sebbene non ci siano informazioni sulla famiglia di Qassem, il suo cognome lo riconduce alla tribù dei Suleimani, spostatasi nel Kerman dalla provincia Fars nel Settecento. Poiché la famiglia di Qassem aveva un debito verso il governo, si può immaginare che i genitori lavorassero come mezzadri. Per ripagare il debito, finite le scuole primarie nel 1970, Suleimani trovò qualche anno dopo lavoro come tecnico per la Kerman Water Organization.Dal 1976 subì l’influenza dei fermenti rivoluzionari attraverso le prediche che Hojjat al Eslam Reza Kamyab (assassinato del 1981) recitava durante il Ramadan a Kerman, anche se secondo diverse fonti non ebbe un ruolo preciso durante i sollevamenti del 1979. Si arruolò subito dopo nel neonato Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica (i Pasdaran) e nei primi quarantacinque giorni di addestramento diede prova di quelle abilità militari che solo un giovane di provincia, lontano dalle mollezze della città e abituato al lavoro può possedere a quella età; venne nominato istruttore e successivamente impiegato a Mahabad (una zona di confine con Iraq e Turchia) nella repressione di gruppi separatisti curdi, affidando con estrema intelligenza a un gruppo di combattenti irregolari di Kerman la protezione della città. Durante la guerra con l’Iraq partecipò a numerose operazioni militari, ottenendo, dal 1981 al 1988, numerosi successi. Tornato a Kerman eseguì l’ordine di combattere i traffici di droga in quella zona, una delle più instabili dell’Iran a causa della forte presenza sunnita (nella quale rientrano i Beluci) e del narcotraffico.Suleimani venne promosso Comandante della Brigata Gerusalemme (Quds Force, forza speciale dei Pasdaran che si occupa delle operazioni extraterritoriali), in un periodo di vulnerabilità della Repubblica islamica dell’Iran, la quale perdeva influenza in Afghanistan in seguito all’ascesa dei gruppi talebani, e giocò un ruolo chiave nell’agosto del 1998, quando i talebani sunniti occuparono l’ambasciata dell’Iran a Mazari Sharif, uccidendo un giornalista e nove diplomatici iraniani. La svolta della sua popolarità avvenne nel 2014, parallelamente alla nascita dello Stato Islamico. Nel corso di un diretta televisiva promise al popolo iraniano di sconfiggere il Califfato in soli tre anni. Quelle immagini diventarono virali sul web al punto che, prima ancora di partire in missione per conto di Allah, le botteghe già lo raffiguravano ovunque con la sua solita espressione sobria, incorniciato dalla divisa militare verde e la barba grigia. Suleimani non è un generale che passa il tempo dietro una carta geografica e, nelle poche immagini che lo immortalano, lo vediamo vicino ai suoi soldati, seduto per terra a bere tè, mangiare, pregare, con gli stivali sporchi di fango. Numerosi testimoni rimangono impressionati dalla sua presenza.Quando mi recai a Mashhad ebbi la fortuna di avere una conversazione con il comandante iraniano Sayyad Mohammad Yayavi, il quale partecipò alla riconquista di Aleppo nel dicembre 2016, al fianco del Generale Qassem Suleimani. «Era umile, calmo, faceva sentire tutti importanti». Allo stesso tempo però era inafferrabile, fugace, compariva e scompariva, nel solco della grande tradizione sciita della “parusia” e del Dodicesimo Imam. Qualche anno dopo, caduto lo Stato Islamico grazie alla ragnatela che silenziosamente aveva costruito nel tempo con Bashar al Assad e Hassan Nasrallah, in un momento in cui la Repubblica islamica dell’Iran era sotto pressione internazionale, molti lo invitarono a candidarsi alle elezioni successive. Aveva mantenuto una promessa militare, quella elettorale sarebbe stata una passeggiata. E invece scrisse una lettera ad Ali Khamenei, diventata di dominio pubblico, in cui diceva: «Sono nato soldato e morirò da soldato coi miei soldati».(Estratto dal libro “Mezzaluna sciita” di Sebastiano Caputo, pubblicato da “L’Intellettuale Dissidente” il 3 gennaio 2020 subito dopo la morte del generale Soleimani, assassinato dagli Usa all’aeroporto di Baghdad. Il libro di Caputo, sottotitolo “Dalla lotta al terrorismo alla difesa dei cristiani d’Oriente”, 188 pagine, è stato stampato da Gog nel 2018).L’ascesa della Mezzaluna Sciita è strettamente legata a una figura umile, misteriosa, non ordinaria. Il suo nome è Qassem Suleimani. Nacque l’11 marzo 1957 nella città di Qom (secondo il Dipartimento di Stato Usa) o nel villaggio di Rabord, vicino alle montagne afghane, nella provincia sud-orientale del Kerman (secondo le fonti persiane); ma quello che si sa per certo è che proviene da una famiglia di poveri contadini. La determinazione geografica dell’infanzia di Suleimani è importante: chi ha vissuto a contatto con il mondo agricolo non dimentica il debito dell’uomo verso la terra. A differenza di Qom, centro di scuole teologiche e città di pellegrinaggio, Rabord è un posto remoto e con una società organizzata in modo tribale. La conoscenza ottenuta vivendo a contatto con tale struttura sociale gli diede le capacità di coordinare in guerra le diverse tribù che popolano il Vicino e Medio Oriente. Sebbene non ci siano informazioni sulla famiglia di Qassem, il suo cognome lo riconduce alla tribù dei Suleimani, spostatasi nel Kerman dalla provincia Fars nel Settecento. Poiché la famiglia di Qassem aveva un debito verso il governo, si può immaginare che i genitori lavorassero come mezzadri. Per ripagare il debito, finite le scuole primarie nel 1970, Suleimani trovò qualche anno dopo lavoro come tecnico per la Kerman Water Organization.
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L’eroe Soleimani: una vita contro la droga e il terrorismo
Nell’ormai lunga storia dell’intervento iraniano in Siria e Iraq in opposizione all’avanzata dei gruppi jihadisti, Stato islamico in primis, la figura del generale Qasem Soleimani ha assunto sempre maggior rilevanza. Sessantuno anni, originario della povera provincia di Kerman, Soleimani ha vissuto da soldato e uomo d’armi sin dal 1980, quando l’Iran rivoluzionario dovette affrontare la sfida mortale lanciatagli dall’Iraq di Saddam Hussein e l’attuale generale, arruolatosi nei Guardiani della Rivoluzione l’anno precedente, dette prova del suo valore dapprima come comandante di compagnia e, in seguito, come leader di unità sempre più consistenti, ultima e più importante delle quali la leggendaria 41esima divisione Tharallah (Sarallah). Protagonista negli anni Novanta di una durissima campagna di repressione del narcotraffico ai confini con l’Afghanistan e vicino all’area politica più conservatrice, tanto da essere uno degli ufficiali dei Pasdaran che nel 1999 firmarono una lettera inviata al presidente Mohammad Khatami, chiedendogli di reprimere la rivoluzione degli studenti, minacciando in caso contrario di rovesciarne il governo, Soleimani fu nominato nel 1998 a capo della Forza Quds, l’unità di élite dei Pasdaran destinata alle operazioni speciali, che attualmente dirigeva. E alla testa della quale ha costruito il suo mito.L’ascesa dell’allora quarantenne generale dei Guardiani alla guida della Forza Quds anticipò di poco l’inizio della tempesta geopolitica che ha sconvolto il Medio Oriente a inizio millennio. Per le strategie iraniane, Soleimani è stato l’uomo giusto al posto giusto: in una fase cruciale per gli interessi del paese, si può affermare che il generale è stato l’uomo che più di ogni altro ha determinato le politiche concrete di Teheran sul campo. Nel 2013, Dexter Filkins ha rivelato sul “New Yorker” che poco dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 Ryan Crocker, del Dipartimento di Stato statunitense, si era recato a Ginevra per trattare con un gruppo di ufficiali iraniani guidato da Soleimani una collaborazione strumentale tra intelligence volta a accelerare la fine del regime dei talebani in Afghanistan, contro cui Teheran si era schierata a causa delle persecuzioni contro la locale minoranza sciita. Tale collaborazione ebbe vita breve e fu interrotta dalla svolta neoconservatrice dell’amministrazione Bush nel 2002, che portò l’ostilità iraniano-americana ai massimi storici. Dopo l’invasione statunitense dell’Iraq del 2003, Soleimani fornì supporto logistico all’insorgenza sciita e modellò la crescita dell’influenza iraniana sull’Iraq, testimoniata dal sostegno garantito all’elezione alla carica di primo ministro di Nuri al Maliki.L’impegno diretto più importante sul campo, per Soleimani, sarebbe tuttavia arrivato nel 2012, quando fu chiamato a garantire il decisivo sostegno dell’Iran al legittimo governo siriano impegnato nella guerra civile. Nella seconda metà del 2012 il regime di Assad è alle corde: colpito dall’isolamento internazionale e assediato dalle orde dei ribelli e dei jihadisti, si prepara a difendere la capitale Damasco da un assalto in grande stile. L’Iran, alleato geopolitico della Siria, interviene assieme alle milizie sciite libanesi di Hezbollah per sostenere le forze governative, e Soleimani ha un ruolo decisivo in questa operazione. Il generale iraniano stabilisce il suo comando a Damasco e porta i pasdaran ad addestrare, motivare ed equipaggiare le forze regolari siriane, a organizzare un sistema di monitoraggio continuo delle comunicazioni nemiche e a formare un corpo di milizie di sostegno denominato National Defence Force (Ndf). Bret Stephens del “Wall Street Journal” ha paragonato gli esiti dell’intervento della Forza Quds di Soleimani in Siria a quello, travolgente, seguito all’arrivo di Erwin Rommel in Africa nel 1942: nel 2013 la battaglia di Al Qusayr, organizzata da Soleimani e contraddistinta dall’intervento sul campo degli Hezbollah, sancì l’inizio della riscossa per il legittimo governo siriano.Dopo l’intervento russo nel 2015, la controffensiva amplificò il suo raggio d’azione. Nel settembre 2015 Soleimani fu più volte ospite dei vertici militari russi a Mosca per concordare l’azione congiunta aria-terra tra gli alleati pro-Assad. A partire dal 2016, essa si concentrò sulla regione di Aleppo: tra febbraio e dicembre 2016, gli iraniani giocarono un ruolo fondamentale nelle battaglie contro i jihadisti che aprirono la strada all’assalto diretto alla città, la cui liberazione ha rappresentato l’evento più importante della seconda fase del conflitto siriano. Nel dicembre 2016, degli scatti fotografici sembrano ritrarlo nella cittadella di Aleppo da poco liberata. Le foto sono contestate, perché Soleimani è praticamente irrintracciabile. Come scritto dall’”Intellettuale Dissidente”, «numerosi testimoni rimangono impressionati dalla sua calma presenza, incorniciata dalla divisa militare e dalla barba grigia. Allo stesso tempo è inafferrabile, fugace: compare e scompare, come fosse in un gioco per bambini. Leggenda narra che si permettesse di passeggiare senza guardie del corpo a Baghdad durante l’occupazione statunitense del paese».E proprio con l’Iraq Soleimani ha fatto più volte la spola negli anni passati, sostenendo l’azione delle milizie sciite intente a combattere l’Isis. Dapprima nel 2014, per rompere l’assedio di Amirli, poi, nel 2015, per completare la liberazione di Tikrit, in entrambi i casi alla guida delle tenaci e, non di rado, efferate milizie sciite denominate Forze di Mobilitazione Popolare. La guerra in Iraq e Siria è un conflitto brutale, senza pietà: la memoria dei 1.500 cadetti d’aviazione iracheni massacrati dalle bandiere nere a Camp Sepicher è viva nei liberatori della città natale di Saddam Hussein nel momento in cui questi, al termine di un aspro combattimento che ha visto l’inedito supporto dei raid aerei occidentali agli sciiti, cacciano l’Isis dai suoi sobborghi. Si parla di crimini di guerra, e non sarà l’unica volta dopo la cacciata dell’Isis dalle città irachene. Qasem Soleimani non ha mai nascosto la sua vicinanza all’ayatollah Khamenei e all’ala più conservatrice della politica iraniana. Da soldato tutto d’un pezzo, ha applicato al meglio le direttive politiche della presidenza Rouhani, ma è anche stato in grado di adattarsi ad esse plasticamente. Di fatto, Soleimani ha forgiato l’intera strategia regionale iraniana e rafforzato il sistema d’alleanze di Teheran nel paese.Ci si chiedeva spesso se il generale, che nel 2017 aveva guidato altre importanti offensive in Siria nella regione di Hama, potesse sfruttare la sua popolarità per un futuro in politica. I conservatori guardavano alla sua figura come all’ideale candidato alla presidenza capace di sfruttare una popolarità immensa, ma Soleimani ha sempre fatto del campo di battaglia il suo mondo ideale e raramente ha pronunciato parole di peso esclusivamente politico. Mentre tuttavia la nuova amministrazione repubblicana degli Usa rafforzava la sua ostilità verso Teheran, Soleimani ha compiuto due gesti importanti che hanno segnalato prese di posizione nette: nel dicembre 2017, sprezzante, ha rifiutato di rispondere a una lettera minacciosa del direttore della Cia Mike Pompeo e, più di recente, ha attaccato direttamente Donald Trump. «Vi stiamo addosso, arriviamo dove neanche vi potete immaginare. Noi siamo pronti. Se voi iniziate la guerra, saremo noi a finirla», ha dichiarato il generale ad Hamedan in risposta alle provocazioni Usa seguite al ripudio dell’accordo sul nucleare. Parole che segnano un cambio di registro nell’approccio pubblico del silenzioso, enigmatico Soleimani. Ma che sicuramente saranno suonate come musica a chi vedeva, in lui, il leader futuro di un Iran a guida conservatrice, fieramente anti americano.Nonostante le indiscrezioni su un possibile futuro politico, Soleimani continuò anche dopo il 2017 a dirigere sul campo le unità in Iraq, con la Quds Force schierata a fianco delle Forze di mobilitazione popolare di matrice sciita intente a spazzare via gli ultimi resti dell’Isis e a posizionarsi per la contesa politica per il futuro del paese. Pensatore strategico di ampio respiro, Soleimani riteneva infatti necessario per l’Iran consolidarsi nella regione di influenza superata la fase di aperta conflittualità, preservando i legami con i proxy regionali di Teheran. Di fatto, nel momento più acuto della ripresa degli screzi tra Usa e Iran Soleimani è parso quasi eclissarsi, eccezion fatta per alcuni battibecchi via social e stampa con i vertici di Washington, come a dare l’impressione di una sua assoluta concentrazione sugli affari geopolitici della Repubblica Islamica. Soleimani non ha mai voluto, di fatto, lo scontro a viso aperto con gli Usa, da lui ritenuto logorante e rovinoso. Tra il 2018 e il 2019 Soleimani fa a lungo la spola oltre il confine iraniano-iracheno su cui la sua carriera militare ha avuto, in gioventù, il battesimo del fuoco.Tra problemi politici e instabilità interna l’Iraq si contorce tra elezioni contese, influenze esterne e emersione di un polo trasversale di sciiti e sunniti oppositori dell’ingerenza esterna iraniana e irachena. Soleimani fece da consulente al governo iracheno quando nella seconda metà del 2019 le proteste contro il caro-vita, la corruzione e l’instabilità divamparono tra la capitale e il resto del paese, mentre le truppe a lui fedeli davano sempre maggior segno di irrequietezza. Sospetti non confermati individuano nei Kata’ib Hezbollah e nelle altre Fpm i principali responsabili della repressione delle proteste avvenuta tra settembre e ottobre 2019. Nel caos iracheno si sono inseriti gli Usa, colpendo Kata’ib Hezbollah nel suo quartier generale vicino Al Qa’im il 29 dicembre in risposta a un attacco a una base militare a Kirkuk. Soleimani è arrivato in Iraq a cavallo tra il 2019 e 2020, mentre a Baghdad gli iracheni assaltavano l’ambasciata americana, ma proprio nell’aeroporto della capitale irachena è stato sorpreso da un raid americano in cui ha perso la vita il 3 gennaio 2020.(Andrea Muratore, “Chi era il generale Qasem Soleimani”, ricostruzione aggiornata nell’inserto “InsideOver” del “Giornale” dopo l’omicidio dello stratega iraniano).Nell’ormai lunga storia dell’intervento iraniano in Siria e Iraq in opposizione all’avanzata dei gruppi jihadisti, Stato islamico in primis, la figura del generale Qasem Soleimani ha assunto sempre maggior rilevanza. Sessantuno anni, originario della povera provincia di Kerman, Soleimani ha vissuto da soldato e uomo d’armi sin dal 1980, quando l’Iran rivoluzionario dovette affrontare la sfida mortale lanciatagli dall’Iraq di Saddam Hussein e l’attuale generale, arruolatosi nei Guardiani della Rivoluzione l’anno precedente, dette prova del suo valore dapprima come comandante di compagnia e, in seguito, come leader di unità sempre più consistenti, ultima e più importante delle quali la leggendaria 41esima divisione Tharallah (Sarallah). Protagonista negli anni Novanta di una durissima campagna di repressione del narcotraffico ai confini con l’Afghanistan e vicino all’area politica più conservatrice, tanto da essere uno degli ufficiali dei Pasdaran che nel 1999 firmarono una lettera inviata al presidente Mohammad Khatami, chiedendogli di reprimere la rivoluzione degli studenti, minacciando in caso contrario di rovesciarne il governo, Soleimani fu nominato nel 1998 a capo della Forza Quds, l’unità di élite dei Pasdaran destinata alle operazioni speciali, che attualmente dirigeva. E alla testa della quale ha costruito il suo mito.
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Patto col diavolo: perché Trump ha ucciso il nemico dell’Isis
Un colpo al cerchio e uno alla botte: prima Al-Baghdadi, poi il maggiore nemico dell’Isis. Gianfranco Carpeoro accusa Donald Trump di aver ceduto ai veri sponsor del terrorismo islamico, nel decretare l’uccisione del generale Qasem Soleimani. Assassinando a Baghdad il leader iraniano, che aveva combattuto in modo determinante in Siria contro le milizie jihadiste, il capo della Casa Bianca ha provato a placare la rabbia degli azionisti occulti dell’Isis annidati nel Deep State americano, furibondi con Trump per la recente eliminazione del loro uomo, il “califfo” dello Stato Islamico. Lo stesso Carpeoro punta il dito contro la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, nella quale avrebbero segretamente militato sia Osama Bin Laden che Ibrāhīm al-Badrī, meglio noto come Abu Barkr Al-Baghdadi, estremista islamico stranamente rilasciato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca perché potesse poi assumere la guida del sanguinario Califfato. Sarebbe il caso che qualcuno spiegasse a Matteo Salvini, entusiasta dell’omicidio di Soleimani, che Trump ha fatto uccidere il nemico numero uno del terrorismo islamico, l’uomo più temuto dall’Isis. E l’ha fatto per garantirsi il supporto della peggior destra reazionaria americana, in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Il sangue di Soleimani allontanerà il pericolo di impeachment?Avvocato di lungo corso, Carpeoro (all’anagrafe, Pecoraro) è un eminente studioso di simbologia, autore di romanzi sui Rosa+Croce e di saggi particolamente scomodi. Nel libro “Il compasso, il fascio, la mitra” ha messo in luce i rapporti inconfessabili tra fascismo, massoneria e Vaticano, svelando retroscena inediti grazie ad archivi massonici riservati: per esempio, nel libro si spiega come l’omicidio Matteotti fu organizzato dal faccendiere massone Filippo Naldi, dopo che Matteotti (a sua volta massone) aveva scoperto, a Londra, che era stato il Re, Vittorio Emanuele III, il maggior beneficiario della maxi-tangente versata dalla Standard Oil dei Rockefeller per ottenere il monopolio delle forniture di petrolio per l’Italia fascista. In un altro saggio, “Dalla massoneria al terrorismo”, Carpeoro rivela il codice simbolico interamente massonico (e non islamico) nascosto dietro agli attentati dell’Isis in Europa, messi a segno con la copertura di servizi segreti compiacenti. Strategia della tensione: al vertice della sovragestione, osserva Carpeoro, c’è un’élite supermassonica reazionaria imbevuta di suprematismo, incluso quello riflesso nella teoria della “sinarchia” elaborata a fine ‘800 dal marchese francese Saint-Yves d’Alveydre, secondo cui solo un’oligarchia “illuminata” ha il diritto-dovere di decidere per il popolo, incapace di autogovernarsi in modo democratico.Questa “filosofia” è stata incarnata nel secondo ‘900 da potentissime superlogge come la “Three Eyes” di Kissinger, grande regista del golpe cileno contro Salvador Allende. Un quarto di secolo dopo, lo stesso giorno – l’11 settembre – sono crollate le Torri Gemelle: atto d’inizio della “guerra infinita” che, dopo la caduta dell’Urss, ha letteralmente terremotato il pianeta, e in particolare il Medio Oriente. In prima linea, tra gli sponsor del “neoterrorismo” ci sarebbe la superloggia “Hathor Pentalpha” fondata da Bush padre nel 1980, reclutando anche importanti politici europei come l’inglese Tony Blair (da cui le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam) e il francese Nicolas Sarkozy, protagonista della fine di Gheddafi. Nella “Hathor” militerebbe anche il turco Erdogan, fino a ieri grande protettore dell’Isis in Siria, tra i massimi padrini di Al-Baghdadi. E sarebbe stata proprio la “Hathor”, secondo Carpeoro, a premere su Trump dopo l’uccisione del “califfo”, per eliminare il prestigioso generale Soleimani, eroe nazionale dell’Iran e bestia nera dei terroristi islamici. In cambio, i boss della “Hathor” avrebbero garantito a Trump il loro appoggio, a partire dalle incognite dell’impeachment al Senato. Una mossa determinante, quindi, che permetterebbe a Trump di incassare anche l’appoggio dell’inflente “lobby ebraica”, che spinge da sempre per ridimensionare l’Iran.Secondo Carpeoro, i poteri opachi che agiscono all’ombra della Casa Bianca e controllano gangli vitali della politica statunitense starebbero riorganizzando e rifinanziando l’Isis, dopo la pesante sconfitta che il terrorismo ha subito in Siria a opera della Russia e delle forze speciali iraniane del generale Soleimani. Prima o poi, sostiene sempre Carpeoro, verranno allo scoperto le prove del fatto che la medesima cupola di potere, incarnata dalla “Hathor Pentalpha”, ha direttamente organizzato il maxi-attentato dell’11 Settembre. Ma il momento della verità sembra rinviato, e nel frattempo tornano a moltiplicarsi gli attentati-kamikaze, per ora su scala ridotta. Alla vigilia di capodanno, è stato Trump ad avvertire i russi di un maxi-attentato in preparazione a San Pietroburgo, che avrebbe potuto provocare una strage di vaste proporzioni. Lo stesso Trump, che si è vantato dell’eliminazione di Al-Baghdadi, è però “costretto” oggi a rivendicare anche l’uccisione di Soleimani, che gli sarebbe stata imposta proprio da quel Deep State che, a quanto pare, ha ancora intenzione di utilizzare il terrorismo “false flag” targato Isis per i suoi inconfessabili obiettivi geopolitici e affaristici. La “Hathor” avrebbe dunque il potere di piegare all’occorenza anche la Casa Bianca, contando comunque sul cinico opportunismo di Trump: è un patto col diavolo, quello che lo scodinzolante Salvini finge di scambiare per fermezza.Un colpo al cerchio e uno alla botte: prima Al-Baghdadi, poi il maggiore nemico dell’Isis. Gianfranco Carpeoro accusa Donald Trump di aver ceduto ai veri sponsor del terrorismo islamico, nel decretare l’uccisione del generale Qasem Soleimani. Assassinando a Baghdad il leader iraniano, che aveva combattuto in modo determinante in Siria contro le milizie jihadiste, il capo della Casa Bianca ha provato a placare la rabbia degli azionisti occulti dell’Isis annidati nel Deep State americano, furibondi con Trump per la recente eliminazione del loro uomo, il “califfo” dello Stato Islamico. Lo stesso Carpeoro punta il dito contro la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, nella quale avrebbero segretamente militato sia Osama Bin Laden che Ibrāhīm al-Badrī, meglio noto come Abu Barkr Al-Baghdadi, estremista islamico stranamente rilasciato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca perché potesse poi assumere la guida del sanguinario Califfato. Sarebbe il caso che qualcuno spiegasse a Matteo Salvini, entusiasta dell’omicidio di Soleimani, che Trump ha fatto uccidere il nemico numero uno del terrorismo islamico, l’uomo più temuto dall’Isis. E l’ha fatto per garantirsi il supporto della peggior destra reazionaria americana, in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Il sangue di Soleimani allontanerà il pericolo di impeachment?
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Al-Baghdadi, Us Navy, baby-schiavi liberati e guerre stellari
Non sono ancora notizie vere e proprie, ma sono teoricamente enormi: difficili persino da commentare. «Vere? Non saprei. Ma, se lo fossero, potremmo assistere – addirittura nei prossimi giorni – a fatti clamorosi e inattesi, a livello geopolitico, per una volta di segno positivo anziché negativo». La “profezia” di Tom Bosco, redattore dell’edizione italiana della rivista australiana “Nexus”, è datata 22 ottobre. Appena cinque giorni dopo, nel mondo è rimbalzata la notizia delle notizie: l’uccisione del capo dell’Isis, Abu Bakr Al-Baghdadi, nei dintorni di Idlib, in una Siria ampiamente liberata dalla poderosa operazione militare avviata a fine 2016 dalla Russia di Putin. Autori dell’accerchiamento finale di Al-Baghdadi: gli Usa, sotto la regia di Trump. E le “notizie enormi” evocate da Bosco appena cinque giorni prima, a “Border Nights”? Devastanti: una raccapricciante, l’altra fantascientifica. La prima: forze della Us Navy – la stessa arma che ha appena ammesso l’esistenza degli Ufo – circa venti giorni fa avrebbero «liberato 2.1000 bambini detenuti in stato di schiavitù in bunker sotterranei, in California». La seconda “notizia”, di fonte tedesca: nei giorni seguenti, precisamente tra il 19 e il 21 ottobre, si sarebbe svolta nei nostri cieli una decisiva battaglia aerospaziale, con astronavi gigantesche. Esito: i “buoni” avrebbero sconfitto i “cattivi”. Di qui la deduzione di Bosco: se queste voci fossero veritiere, potremmo assistere a eventi geopolitici sbalorditivi in senso positivo.
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Dezzani: guerre per procura, dietro la retorica sui curdi
Il 10 ottobre la Turchia ha infine lanciato l’invasione del Nord della Siria, per debellare le milizie curde alleate degli Usa e scongiurare la nascita di un qualsiasi soggetto autonomo a ridosso dei propri confini: termina dunque così il tentativo delle potenze marittime anglosassoni (cui si somma ovviamente lo Stato di Israele), avviato nel lontano 2011, di alimentare ulteriormente la balcanizzazione della regione mediorientale, introducendo almeno due nuove entità: un Kurdistan e un Sunnistan monopolizzato dall’Isis. Ciò che ci interessa, infatti, è soprattutto leggere i recenti avvenimenti in chiave geopolitica: dove per geopolitica non si intende “rapporti internazionali”, bensì rivalità tra potenze marittime e potenze continentali, tra cui va annoverata a buon diritto (per geografia e quindi “weltanschauung”) anche la Turchia. Non che la condotta di Ankara sia stata sempre lineare: sia ben chiaro. Facendo leva sull’atavico interesse per i territori siriani (la battaglia di Aleppo del 1918 decreta la disfatta militare dell’Impero Ottomano), gli angloamericani attraggono in un primo momento la Turchia nello schieramento delle forze “destabilizzanti”: c’è comunque da dire che Ankara ne accetta pienamente le conseguenze, ospitando sul proprio territorio circa tre milioni di profughi.La manipolazione della Turchia tocca il proprio apice nel novembre 2015, quando l’aviazione turca, contando sull’appoggio della Nato, abbatte il celebre Su-24 nei cieli siriani. Ankara capisce allora che gli angloamericani non hanno nessuna intenzione di impegnarsi militarmente in nuovo conflitto mediorientale: lavorano soltanto per la destabilizzazione a buon mercato della regione, destabilizzazione che, presto o tardi, colpirà anche la Turchia, attraverso la nascita di un Kurdistan filo-occidentale. Inizia così il progressivo avvicinamento dei turchi alla Russia, fonte di non pochi scossoni: primo fra tutti il tentato golpe dell’estate 2016 ed il successivo assassinio dell’ambasciatore Karlov. La reazione scomposta degli angloamericani denota la chiara percezione di rischi insiti nell’alleanza turco-russa: come portare avanti la balcanizzazione della regione, se i russi bombardano l’Isis e i turchi passano nel campo avversario? Operazione impossibile: è dunque sul finire del 2016 che va collocato il punto di svolta nella “guerra per procura” che le grandi potenze potenze combattono in Siria.Neppure l’accanimento della speculazione sulla lira turca riesce a impedire la rielezione del presidente Erdogan nel giugno 2018, né a modificarne la politica estera di tacito sganciamento dalla Nato: le milizie curde dello Sdf e Ypg, che controllano la zona siriana (peraltro scarsamente popolata) a Nord-Est dell’Eufrate sono ormai spacciate, perchè la loro liquidazione è solo questione di tempo. Le potenze angloamericane se ne sono servite (inondando i media occidentali con la propaganda sulle “amazzoni curde” e sull’eroica resistenza di Kobane) promettendo loro uno Stato autonomo, esteso anche al nord dell’Iraq: ma come difenderle, se l’intera manovra iniziata nel 2011 (e costata centinaia di migliaia di morti, specie tra le antichissime comunità cristiane) è fallita? Significherebbe per le potenze marittime proteggere e rifornire (con un ponte aereo?) le roccaforti curde nel cuore della Mesopotamia, un’impresa che gli strateghi angloamericani non prendono neppure in considerazione. Quindi, Donald Trump fa ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro inquilino della Casa Bianca: abbandona i curdi al loro destino, dando luce verde all’invasione turca.Si noti, però: con o non senza il placet di Washington, i turchi si sarebbero comunque messi in azione, perché ciò che ormai conta è la coordinazione con la Russia, che “supervisiona” le mosse di Ankara, Teheran, Baghdad e Damasco. Attualmente Ankara si è impegnata a non estendere la sua fascia d’occupazione oltre i trenta chilometri dalla frontiera, ma non è escludibile che in prospettiva questa sia allargata a tutto il “cuneo” siriano a est dell’Eufrate, tra Turchia e Iraq: una zona a maggioranza curda su cui il governo siriano non esercita più nessun controllo da anni. Una politica estera russa moderatamente aggressiva potrebbe sostenere il dinamismo turco verso sud, in cambio, in primis, di un riassetto del Caucaso. Russia e Turchia sono due grandi Stati continentali, che nel corso del Novecento sono stati troppo compressi delle potenze marittime: un’alleanza di ampio respiro apporterebbe vantaggi a entrambe.(Federico Dezzani, “Operazione ‘Fonte di Pace’: l’Heartland si muove”, dal blog di Dezzani dell’11 ottobre 2019).Il 10 ottobre la Turchia ha infine lanciato l’invasione del Nord della Siria, per debellare le milizie curde alleate degli Usa e scongiurare la nascita di un qualsiasi soggetto autonomo a ridosso dei propri confini: termina dunque così il tentativo delle potenze marittime anglosassoni (cui si somma ovviamente lo Stato di Israele), avviato nel lontano 2011, di alimentare ulteriormente la balcanizzazione della regione mediorientale, introducendo almeno due nuove entità: un Kurdistan e un Sunnistan monopolizzato dall’Isis. Ciò che ci interessa, infatti, è soprattutto leggere i recenti avvenimenti in chiave geopolitica: dove per geopolitica non si intende “rapporti internazionali”, bensì rivalità tra potenze marittime e potenze continentali, tra cui va annoverata a buon diritto (per geografia e quindi “weltanschauung”) anche la Turchia. Non che la condotta di Ankara sia stata sempre lineare: sia ben chiaro. Facendo leva sull’atavico interesse per i territori siriani (la battaglia di Aleppo del 1918 decreta la disfatta militare dell’Impero Ottomano), gli angloamericani attraggono in un primo momento la Turchia nello schieramento delle forze “destabilizzanti”: c’è comunque da dire che Ankara ne accetta pienamente le conseguenze, ospitando sul proprio territorio circa tre milioni di profughi.
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La droga gestita della Cia, uno strumento di politica globale
Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.La droga figurava come il business più remunerativo tra quelli più noti. La natura criminale del business dettava quindi le regole del gioco. Mentre alcuni dei guadagni erano effettivamente utilizzati a supporto di operazioni sotto copertura, altri erano deviati verso l’arricchimento personale di agenti e dirigenti dell’agenzia, oppure rimanevano nelle mani di gruppi finanziari con potere di lobby nell’amministrazione statunitense. Di conseguenza, la complicità nel business della droga iniziò a diffondersi verso il livello più alto dell’establishment nordamericano… Il primo caso rappresentante le connessioni tra la Cia e il business della droga risalgono al 1947, anno in cui Washington, preoccupata dell’ascesa del movimento comunista nella Francia post-bellica, si associò con la nota e spietata mafia corsa nella lotta contro la sinistra. Dal momento che il denaro non poteva essere riversato nella sgradevole alleanza attraverso canali ufficiali, una grossa fabbrica di eroina venne istituita a Marsiglia con l’assistenza della Cia, che alimentava l’affare. L’iniziativa imprenditoriale impiegava abitanti del posto, mentre la Cia organizzava il ciclo degli approvvigionamenti, ed il terrore fisico e psicologico contro i comunisti in Francia alfine impedì loro di raggiungere il potere.Successivamente lo schema adottato è stato replicato nel mondo. All’inizio degli anni ’50 la Cia dirigeva un network di fabbriche di eroina nel Sud Est Asiatico e con parte dei guadagni sosteneva Chiang Kai-shek, che combatteva contro la Cina comunista. La Cia iniziò quindi a patrocinare il regime militare in Laos, rafforzando i propri legami nella regione del Triangolo d’Oro comprendente Laos, Thailandia e Birmania, paesi che hanno contribuito per il 70% della fornitura globale di oppio. La maggior parte della merce era diretta a Marsiglia e in Sicilia per il trattamento effettuato dalle fabbriche gestite dalla mafia corsa e siciliana. In Sicilia, l’associazione criminale che gestiva diverse fabbriche di droga era stata fondata da Lucky Luciano, un gangster americano nato in Italia e rideportatovi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le informazioni non classificate non lasciano alcun dubbio circa il lavoro che Luciano svolgeva per l’intelligence americana. L’uomo è stato, senza grosse motivazioni, rilasciato dalla prigione americana nel 1946 prima di aver scontato la sua condanna; l’associazione criminale italiana che operava sotto il controllo statunitense condivideva i guadagni con i patroni americani, i quali utilizzavano il denaro per portare avanti una guerra segreta contro il partito comunista italiano.La Cia continuò a prelevare denaro dal Triangolo d’Oro durante la Guerra del Vietnam. La droga proveniente da questa regione veniva trafficata illegalmente negli Stati Uniti e distribuita a basi militari americane all’estero. Ne deriva che molti dei veterani della Guerra del Vietnam sono rimasti segnati non solo dalla guerra, ma anche dall’uso di narcotici. Le attività legate al traffico della droga portate avanti dalla Cia dovevano rimanere segrete, ma evitare di venire a conoscenza di azioni così gravi era difficile. Uno scandalo enorme scoppiò infatti negli anni ’80 coinvolgendo la banca Nugan Hand di Sydney, con filiali registrate alle isole Cayman, e il precedente direttore della Cia William Colby avente funzione di consigliere legale. La Cia ha utilizzato la suddetta banca per operazioni di riciclaggio di denaro sporco nella gestione dei proventi derivanti dal traffico di droga e armi in Indocina. La geografia dei traffici di droga appoggiati dalla Cia si ampliò costantemente. Negli anni ’80, lo scambio “armi per droga” è stato replicato per finanziare i Contras del Nicaragua; ma dopo essere stato scoperto, il Comitato delle relazioni estere del Senato americano ha dovuto aprire un’inchiesta. Una frase del rapporto del Senato sul famoso accadimento affermava: «I decisori statunitensi non erano immuni all’idea che i soldi della droga fossero una soluzione ideale al problema del finanziamento del Contras».Questa dichiarazione, in linea generale, potrebbe dimostrare che le attività della Cia erano strettamente collegate alla politica estera americana. Il business della Cia nel narcotraffico si è diffuso senza precedenti quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica entrarono indirettamente in conflitto in Afghanistan. La comunità dell’intelligence americana finanziò generosamente i Mujahiddin, in parte con i soldi derivanti dal narcotraffico. Gli aerei statunitensi che consegnavano armi alla nazione rientravano carichi di eroina. Secondo giudizi indipendenti, all’epoca, circa il 50% del consumo di eroina negli Stati Uniti proveniva dall’Afghanistan. “La mafia, la Cia e George Bush” di Pete Brewton (New York: S.P.I. Books, 1992) offre una serie di dati concreti che provano i legami esistenti tra il direttore della Cia e il presidente americano Bush e la mafia. Lo stesso presidente, in certe fasi della sua carriera, combinò la propria funzione pubblica con la politica e il business della droga. L’establishment americano ha concluso che la droga, oltre ad essere stata impiegata per circostanze politiche, potrebbe tornare utile nel raggiungimento di obiettivi geopolitici di lungo termine.Quando Paul Brenner divenne capo di Baghdad con un’autorità che nemmeno Saddam Hussein si sognava, non fece alcun tentativo per innalzare una barriera contro l’ondata del narcotraffico che travolse l’Iraq. Inoltre è importate notare che il business della droga, durante il governo di Saddam, era un problema inesistente nel paese. «Questa è la panacea di ogni rivolta. Drogateli, rendeteli dipendenti come pesci affamati. In seguito, dopo aver preso il controllo della loro radio e televisione, storditeli con la propaganda». Baghdad, la città che non aveva mai visto l’eroina fino a marzo del 2003, ora è sommersa di stupefacenti, inclusa l’eroina. Secondo un rapporto pubblicato dal giornale “The Indipendent” di Londra, i cittadini di Baghdad si lamentavano che la droga, come l’eroina e la cocaina, erano smerciate per le strade delle metropoli irachene. «Alcune relazioni suggeriscono che il traffico di droga e armi era sostenuto dalla Cia, al fine di finanziare le sue operazioni segrete internazionali», scrive Brenda Stardom. Nel suo rapporto, un abitante di Baghdad spiegava: «Saresti stato impiccato, per il traffico di droga. Ma ora si può ottenere eroina, cocaina, qualsiasi cosa». I civili tossicodipendenti non hanno nessuna volontà di resistere, mentre la trionfante Washington, che ottenne le risorse del paese, è incurante del fatto che questa gente è condannata all’estinzione.L’operazione anti-terroristica lanciata immediatamente dopo il dramma dell’11 Settembre è giunta a conclusione in Afghanistan 11 anni dopo. Washington tratta la questione come un successo, ma evitare l’opinione pubblica genera gravi effetti collaterali. L’Afghanistan è stato abbandonato in uno stato di distruzione, con interi villaggi annientati, migliaia di persone decedute, prigionieri, campi di concentramento e rifugiati in tutto il paese. Sconfiggere il business della droga era l’obiettivo più pubblicizzato dell’intera “guerra al terrore” americana, ma il risultato e gli obiettivi della campagna erano completamente diversi. Nelle mani della coalizione occidentale, l’Afghanistan si è trasformato nel principale produttore mondiale di droga. Gli Usa e il business della droga si sono intrecciati sin dalla fine del secondo conflitto mondiale. Per Washington, la droga è stata a lungo un elemento strutturale della politica estera, oltre all’enorme mercato nero mondiale che alimenta l’economia “legittima” dell’Occidente… Un dollaro destinato al commercio della droga rende fino a 12.000 dollari, nella migliore delle ipotesi. Il costo dell’eroina afghana aumenta nettamente man mano che ci si sposta a nord del paese – in Pakistan ammonta a circa 650 dollari al chilo, 1.200 in Kyrgyzstan, raggiungendo i 70 dollari al grammo nella città di Mosca. Un chilo di eroina equivale a 200.000 dosi, e una dipendenza disperata inizia dopo 3 o 4 dosi.Il capitale “legittimo” sarebbe temporaneamente insostenibile senza il trascinante mercato nero globale. Entrambi i componenti dell’economia mondiale sono incentrati sugli Stati Uniti. Washington è consapevole che la produzione di droga può essere messa in atto solo dopo aver soddisfatto il requisito principale, cioè che gli utili finali non creino un effetto a cascata sul produttore. Diversamente, il mercato nero si sgretolerebbe all’istante. La mafia che gestisce il traffico di droga “in linea” riesce ad ottenere il 90% dei ricavi dall’eroina. Accanto ad altri soggetti coinvolti nel traffico, coloro che lavorano la materia prima ricevono il 2% del guadagno, gli agricoltori di papavero il 6% e i commercianti di oppio il 2%. La produttività del mercato nero utilizza anche aree coltivate a prezzi marginali. Promuovere un conflitto armato nella zona agricola è il modo più semplice per attenuare i costi richiesti dagli agricoltori, considerando che le armi sono la merce con più alto valore equivalente. La formula è che più sanguinoso è il conflitto e più alti sono i ricavi dalle vendite di armi e droga. L’instabilità, associata al controllo del disordine, rappresenta il motore del mercato nero. I due fattori armonizzano la domanda e l’offerta, tuttavia per assottigliare i costi e non avere difficoltà occorre diffondere aspirazioni separatiste. Il comandante della situazione dovrebbe impegnarsi con gruppi etnici, clan o fazioni religiose piuttosto che con enti statali.L’Afghanistan ha distribuito un totale di circa 50 tonnellate di oppio durante la metà degli anni ’80, ma la cifra è balzata a 600 tonnellate entro il 1990, un anno dopo il ritiro dei sovietici. Dopo aver sequestrato il 90% del territorio afgano e preso controllo della coltivazione di papavero locale, i Talebani si sono scrollati di dosso la presa della Cia e del Dipartimento di Stato americano, causando la perdita della quota statunitense dei circa 130 miliardi di dollari di profitto che la mafia poteva ottenere se le forniture venivano incanalate con successo in Asia centrale. Riprendere il controllo della produzione di eroina dal potere dei Talebani era l’obiettivo fondamentale dietro la campagna statunitense in Afghanistan. Al momento la missione è compiuta, gran parte dell’eroina viene acquistata e trasmessa dalla Cia e dal Pentagono ad altri paesi. Dopo aver costruito le basi militari in Kyrgyzstan, Uzbekistan e Tagikistan e insediato il governo di Hamid Karzai, Washington ha aperto nuove rotte di approvvigionamento, eliminando i concorrenti e facendo sì che la capacità degli stabilimenti di trasformazione dell’oppio in eroina non siano mai privi di lavoro. Al momento, l’Afghanistan rappresenta il 75% del mercato globale di eroina, l’80% del mercato europeo e il 35% del mercato statunitense. Circa il 65% del rifornimento di droga dell’Afghanistan attraversa l’Asia centrale post-sovietica, e anche se questa disposizione sarà leggermente modificata, il traffico persisterà anche dopo il ritiro della coalizione occidentale dall’Afghanistan.L’alleanza criminale tra la Cia e i Talebani è un fatto noto e non svanirà. Attualmente, i gruppi criminali albanesi del Kosovo possiedono un ruolo di primo piano nel commercio internazionale della droga. L’indipendenza del Kosovo dalla Serbia ha permesso agli Stati Uniti di pianificare un nuovo punto di appoggio per il business della droga, con particolare riguardo all’Europa. Oltre un milione di albanesi risiedono in Europa occidentale e la maggior parte di loro sopravvive grazie a diversi affari illegali, soprattutto quello della droga. Senza dubbio, gli Stati Uniti hanno deliberatamente presentato all’Europa un problema che d’ora in poi aumenterà. Secondo l’agenzia anti-narcotici russa, circa 100.000 persone in tutto il mondo – più di quante uccise dall’esplosione nucleare che distrusse Hiroshima – muoiono ogni anno a causa degli stupefacenti provenienti dall’Afghanistan. In questo contesto, in Russia, il bilancio è di circa 30.000 vittime. L’agenzia russa sul controllo della droga afferma che la produttività è raddoppiata negli ultimi dieci anni e ad oggi il 90% delle dosi di droga consumate globalmente – un totale di 7 miliardi – rappresentano eroina. La tossicodipendenza sta invadendo l’odierna Russia e nel mix con l’abuso di alcool sta mettendo in pericolo l’esistenza stessa della nazione.La Russia è molto attiva nell’incoraggiare la lotta internazionale contro la droga – il ministro degli esteri Sergej Lavrov, per esempio, ha ricordato al forum anti-droga 2010 che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite osserva il problema della droga come una minaccia alla pace e alla sicurezza globale. Il suo punto di vista era che il mandato della coalizione in Afghanistan dovrebbe essere aggiornato per includere delle misure ben più robuste, incluso lo sradicamento dei campi di oppio e lo smantellamento delle fabbriche di droga. I passi per contrastare la produzione di stupefacenti in Afghanistan dovrebbero essere altrettanto decisi di quelli scattati in America Latina contro il traffico di cocaina, afferma Lavrov, sottolineando anche che un coordinamento in tempo reale tra la Russia e la Nato, lungo il confine con l’Afghanistan, potrebbe essere di grande aiuto. Mosca ha mandato per anni segnali in merito, ma l’atteggiamento della Nato sembra essere impassibile. Il capo dell’agenzia russa del controllo della droga Viktor Ivanov ha affermato nel 2010 che la Russia ha fornito delle informazioni riservate agli Stati Uniti e all’amministrazione afghana riguardo 175 stabilimenti di droga in Afghanistan, eppure nessuno di questi è stato smantellato. I fondi continuano quindi ad accumularsi sui conti bancari di coloro che gestiscono questi traffici ed è chiaro che questa condizione richiede un fronte anti-narcotico molto più ampio. Mosca perderà solo tempo e vedrà sempre più russi morire se attende una mossa dell’Occidente per sottoscrivere tali iniziative. È giunto il momento di adottare misure drastiche contro coloro che diffondono la morte confezionata in dosi.(“La droga, uno strumento di politica globale”, da “La Crepa nel Muro” del 9 aprile 2019).Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.
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Vietato svelare la verità: con Assange muore il giornalismo
La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.Il caso del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (Doj) contro Assange è fragile, nel migliore dei casi. Tutto ha a che fare essenzialmente con la pubblicazione di informazioni classificate nel 2010: 90mila file militari in Afghanistan, 400mila file sull’Iraq e 250mila cablogrammi diplomatici diffusi su gran parte del pianeta. Assange è accusato di aver aiutato Chelsea Manning, l’ex analista dell’intelligence statunitense, ad ottenere questi documenti. Ma la faccenda diventa più complicata. È anche presumibilmente colpevole di “incoraggiare” Manning a raccogliere più informazioni. Non c’è altro modo di interpretarla. Ciò equivale, senza più alcuna esclusione di colpi, alla criminalizzazione totale della pratica giornalistica. Per il momento, Assange è accusato di “cospirazione volta a commettere intrusioni informatiche”. L’accusa sostiene che Assange ha aiutato Manning a decifrare una password memorizzata sui computer del Pentagono collegati al Secret Internet Protocol Network (SiprNet). Nei registri delle chat del marzo 2010 ottenuti dal governo Usa, Manning parla con qualcuno chiamato alternativamente “Ox” e “associazione di stampa”. Il Doj è convinto che questo interlocutore sia Assange. Ma devono dimostrarlo definitivamente.Manning e questa persona, presumibilmente Assange, si sono impegnati in “discussioni”. «Durante uno scambio, Manning disse ad Assange che ‘dopo questo upload, è tutto quello che mi è rimasto’. Al che Assange rispose: ‘degli occhi curiosi non sono mai rimasti all’asciutto nel corso della mia esperienza’». Tutto questo non regge. I grandi media privati statunitensi pubblicano regolarmente fughe illegali di informazioni classificate. Manning offrì i documenti che aveva già scaricato sia al “New York Times” che al “Washington Post” – e fu respinto. Solo allora si avvicinò a Wikileaks. L’accusa secondo cui Assange abbia cercato di aiutare a decifrare la password di un computer è in giro dal 2010. Il Dipartimento di Giustizia sotto Obama ha rifiutato di avallarla, consapevole di ciò che significherebbe in termini di potenziale messa al bando del giornalismo investigativo. Non c’è da stupirsi che i media privati statunitensi, spogliati di uno scoop della massima importanza, abbiano successivamente iniziato a denunciare WikiLeaks come agente russo.Il grande Daniel “Pentagon Papers” Ellsberg aveva già avvertito nel 2017: «Obama ha aperto la campagna legale contro la stampa andando alle radici dei rapporti investigativi sulla sicurezza nazionale – le fonti – e Trump andrà dietro agli stessi raccoglitori/giardinieri (e i loro capi, gli editori). Per cambiare metafora, un’accusa ad Assange è il “primo uso” dell’opzione nucleare contro la protezione che il Primo Emendamento assicura alla stampa libera». Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia – essenzialmente il furto di una password del computer – sono appena l’inizio della valanga. Almeno per ora, la pubblicazione non è un crimine. Eppure, qualora sia estradato, Assange potrebbe essere accusato anche di ulteriori cospirazioni e persino della violazione della Legge sullo Spionaggio del 1917. Quantunque debba ancora chiedere il consenso di Londra per avanzare ulteriori accuse, al Dipartimento di Giustizia non mancano gli avvocati in grado di applicare sofismi per evocare un crimine dal nulla.Jennifer Robinson, l’abilissimo avvocato di Assange, ha giustamente sottolineato che il suo arresto è «un problema di libertà di parola» perché «riguarda i modi in cui i giornalisti possono comunicare con le loro fonti». L’inestimabile Ray McGovern, che conosce una o due cose sulla comunità di spionaggio degli Stati Uniti, ha evocato un requiem del quarto potere. Il contesto completo dell’arresto di Assange viene alla luce una volta esaminato che risulta conseguente al fatto che Chelsea Manning ha trascorso un mese in isolamento in una prigione della Virginia per aver rifiutato di denunciare Assange di fronte a un gran giurì. Non c’è dubbio che la tattica del Dipartimento di Giustizia sia quella di spezzare Manning con ogni mezzo disponibile. Ecco cosa dice la squadra legale di Manning: «L’atto d’accusa contro Julian Assange, dissigillato oggi, è stato ottenuto un anno prima che Chelsea comparisse davanti al Gran Giurì e si fosse rifiutato di rendere testimonianza. Il fatto che questa incriminazione sia esistita da oltre un anno sottolinea quanto la squadra legale di Chelsea e la stessa Chelsea hanno detto da quando è stata emessa una citazione per comparire di fronte ad un Gran Giurì federale nel distretto orientale della Virginia: che convincere Chelsea a testimoniare avrebbe duplicato le prove già in possesso del Gran Giurì e questo non era necessario affinché gli avvocati statunitensi ottenessero un’accusa contro Assange.»La palla è ora presso un tribunale del Regno Unito. Assange rimarrà indubbiamente in prigione per alcuni mesi per evitare la cauzione mentre procede l’estradizione secondo il dossier statunitense. Il Dipartimento di Giustizia ha verosimilmente discusso con Londra su come un giudice “adatto” possa fornire il risultato desiderato. Assange è un editore. Di suo non ha fatto trapelare assolutamente nulla. Anche il “New York Times” e il “Guardian” hanno pubblicato ciò che Manning aveva scoperto. “Collateral Murder”, tra le decine di migliaia di prove, dovrebbe essere sempre in prima linea nell’intera discussione: si tratta di crimini di guerra commessi in Afghanistan e in Iraq. Quindi non c’è da meravigliarsi che lo Stato Profondo americano non perdonerà mai Manning e Assange, benché il “New York Times”, in un altro lampante esempio di due pesi e due misure, potrebbe ottenere un lasciapassare. Il dramma alla fine avrà bisogno di essere chiuso nell’Eastern District della Virginia perché la sicurezza nazionale e l’apparato dell’intelligence hanno lavorato per anni a questa sceneggiatura, a tempo pieno.In qualità di direttore della Cia, Mike Pompeo è andato dritto al punto: «È tempo di chiamare Wikileaks per quello che è realmente: un servizio di intelligence ostile non statale spesso favorito da attori statali come la Russia». Quel che di fatto equivale a una dichiarazione di guerra sottolinea quanto in realtà sia pericoloso Wikileaks, per il solo fatto di aver praticato del giornalismo investigativo. Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia non hanno assolutamente nulla a che fare con l’ormai demistificato Russiagate. Ma aspettatevi che il successivo calcio politico sia roboante. Il campo di Trump al momento è diviso. Assange è sia un eroe pop che combatte contro la palude dello Stato Profondo, sia un umile scagnozzo del Cremlino. Allo stesso tempo, Joe Manchin, un senatore democratico del Sud, gioisce, stando agli atti, come un proprietario di una piantagione del diciannovesimo secolo, sul fatto che Assange sia ora “nostra proprietà”. La strategia democratica sarà quella di usare Assange per arrivare a Trump. E poi c’è l’Unione Europea, di cui alla fine la Gran Bretagna potrebbe non far parte, più tardi piuttosto che più presto. L’Unione Europea sarà molto vigile sul fatto che Assange venga estradato nell’“America di Trump”, poiché lo Stato Profondo si assicura che i giornalisti di tutto il mondo abbiano effettivamente il diritto: di rimanere sempre in silenzio.(Pepe Escobar, “Hai il diritto di rimanere sempre in silenzio”, da “Asia Times” del 13 aprile 2019; articolo tradotto da Costantino Ceoldo per “Megachip”).La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.
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I 10 scandali rivelati da Assange su Bush, Obama e Hillary
Nei suoi quasi 15 anni di attività, Wikileaks ha diffuso oltre 10 milioni di documenti classificati. Tra questi, la maggior parte ha a che fare con piani segreti del governo degli Stati Uniti nei suoi programmi di intelligence, sicurezza e guerra. La fondazione guidata dal detenuto Julian Assange è stata l’avanguardia in termini di informazioni classificate per anni. Tanto che i suoi principali portavoce sono stati perseguitati da governi alleati con Washington come Svezia e Gran Bretagna. Assange stesso è stato rifugiato dal 2012 in una piccola stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, fino a quando il governo di Lenin Moreno ha smesso di concedergli questo status. 1. Gli archivi di Guantanamo. Nel 2007, hanno pubblicato migliaia di documenti sotto forma di manuali e informazioni sul carcere inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002 a Guantánamo Bay, a Cuba. Gli archivi sono pieni di dettagli sui prigionieri e sui metodi di tortura utilizzati quotidianamente contro di loro nell’ambito di un programma di procedure per il trattamento di persone sospettate di essere terroristi. La Croce Rossa ha confermato che non tutti i prigionieri di Guantanamo sono terroristi e le critiche al funzionamento di questa struttura sono aumentate nel corso degli anni.2. Notizie segrete sulle guerre all’Afghanistan e all’Iraq. War Diaries è stato lanciato nel 2010 con quasi 400 mila resoconti riguardanti la guerra in Iraq dal 2004 al 2009. Possiamo trovare tutto, dalle attrezzature militari utilizzate dall’esercito Usa in dettaglio, alle informazioni sugli obiettivi militari e civili uccisi, più abusi e torture di prigionieri di guerra nei rapporti. 3. Cablegate: una lente d’ingrandimento sulla diplomazia statunitense. Nel 2010, WikiLeaks ha lanciato milioni di cable diplomatici scritti tra il 1966 e il 2010 e pubblicati in diversi media internazionali che mostrano le opinioni dei capi della diplomazia di Washington (tra cui Henry Kissinger) e le istruzioni ai loro diplomatici per spiare politici stranieri, meglio noti come CableGate. I cable confermano la battuta: «Perché non ci sono golpe negli Stati Uniti? Perché non c’è un’ambasciata statunitense». 4. Collateral Murder. Gli archivi filtrati grazie a Chelsea Manning, nel 2010 WikiLeaks hanno portato alla luce un video dal titolo Collateral Murder che mostra come le forze armate statunitensi sparano dagli elicotteri Apache contro obiettivi civili a Baghdad (capitale dell’Iraq), tra cui un giornalista della Reuters, che cadono fulminati al suolo. La registrazione risale al 2007.5. I documenti di Stratfor. Tra il 2012 e il 2013, oltre 5 milioni di e-mail sono trapelate dall’intelligence statunitense Stratfor. I Global Intelligence Files hanno rilasciato numerosi documenti in cui abbiamo appreso alcuni dettagli della rete interna di sorveglianza di massa negli Stati Uniti con la Nsa come protagonista, nonché le operazioni segrete svolte da Washington in Siria, tutte tra il 2004 e il 2011, lasciando anche a nudo l’intimo legame che esiste tra l’intelligence americana e la comunità di sicurezza e alcune aziende che funzionano come carri armati e organizzazioni non governative al servizio delle loro élite. 6. Svelati Tpp, Ttip, Tisa. Dal 2013 al 2016, WikiLeaks ha pubblicato documenti successivi denunciando che il governo degli Stati Uniti stava segretamente negoziando accordi di libero scambio noti come Transpacific of Economic Cooperation (Tpp, il suo acronimo in inglese), Transatlantic Trade and Investment (Ttip, il suo acronimo in inglese) e l’Accordo sugli scambi di servizi (Tisa, il suo acronimo in inglese). Prima dell’ascesa di Donald Trump, Washington aveva come strategia un nuovo sistema economico e legale in cui persino i diritti civili sarebbero stati profondamente calpestati in quasi tutto il mondo, sulla base di quegli accordi che non furono mai annunciati fino a quando non ci furono i leak.7. Alcune corporation a nudo. Dalla sua fondazione nel 2006, WikiLeaks ha pubblicato diversi file declassificati di società multinazionali che contengono informazioni segrete, come le conseguenze della fuoriuscita tossica in Costa d’Avorio da parte della compagnia energetica Trafigura che ha colpito più di 100 mila persone; allo stesso tempo, è stato scoperto che i media britannici erano complici di ciò quando falsificavano gli eventi. Inoltre, le attività off-shore della banca svizzera Julius Bär Group e le connessioni con la Casa Bianca e il complesso industriale-militare della società giapponese Sony furono anch’esse soggette a fughe di notizie. Pertanto, la politica governativa, ma anche quella imprenditoriale, sono obiettivi della fondazione di Julian Assange. 8. Lo spionaggio globale come strumento geopolitico. Nel 2016, abbiamo appreso che l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (Nsa) ha intercettato i telefoni della cancelliera tedesca Angela Merkel e l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, rubato cables della diplomazia italiana per conoscere quanto detto dall’ex premier Silvio Berlusconi con il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu su Barack Obama, ha spiato le comunicazioni dei ministri dell’Unione Europea e del Giappone per apprendere in dettaglio i loro accordi per evitare «l’ingerenza degli Stati Uniti» nel loro relazioni internazionali, tutto con uno scopo: accumulare dati per utilizzarli a vantaggio dei loro interessi come potere geopolitico in tutto il mondo. Tutto questo e altro ancora puoi scrutarlo qui.9. La caduta di Hillary Clinton. Per tutto il 2016 sono state pubblicate circa 44.000 e-mail dal Comitato Nazionale del Partito Democratico, evidenziando la campagna di sabotaggio contro la candidatura di Bernie Sanders a favore di Hillary Clinton all’interno del partito. A loro volta, 30.000 di queste e-mail appartengono o sono state inviate a Clinton durante il suo mandato come Segretario di Stato, nell’era di Obama. Il suo ruolo nel golpe in Honduras nel 2009, gli affari corrotti della Fondazione Clinton ad Haiti, i suoi piani per intervenire segretamente nella guerra in Siria, i milioni di dollari che guadagna per dare lezioni a banche e compagnie americane, tutte queste informazioni hanno prodotto la caduta di Clinton durante la corsa contro Donald Trump per la Casa Bianca. Ancora molti analisti credono che il magnate sia stata l’opzione migliore. 10. La Cia cibernetica. Nel 2017 è stato pubblicato Vault 7, la più grande pubblicazione di documenti della Central Intelligence Agency (Cia, il suo acronimo in inglese) fino ad oggi. Potete leggere gli archivi di come la Cia possieda un immenso arsenale di computer hacking paragonabile a quello della Nsa. La cosa più importante è che gli appaltatori e i funzionari dell’agenzia hacker hanno estratto migliaia di strumenti per il loro lavoro come «malware, virus, trojan, attacchi zero-day, sistemi di controllo remoto del malware e documentazione associata». Tutti questi dati sono ora al servizio degli hacker, che potrebbero persino conoscere il tuo indirizzo Ip a causa della irresponsabilità della sicurezza della Cia.(“Le 10 rivelazioni di Assange che hanno cambiato il modo di vedere il potere”, da “L’Antidiplomatico” del 13 aprile 2019; il newsmagazine pubblica anche i link per approfondire ciascuno dei 10 argomenti citati).Nei suoi quasi 15 anni di attività, Wikileaks ha diffuso oltre 10 milioni di documenti classificati. Tra questi, la maggior parte ha a che fare con piani segreti del governo degli Stati Uniti nei suoi programmi di intelligence, sicurezza e guerra. La fondazione guidata dal detenuto Julian Assange è stata l’avanguardia in termini di informazioni classificate per anni. Tanto che i suoi principali portavoce sono stati perseguitati da governi alleati con Washington come Svezia e Gran Bretagna. Assange stesso è stato rifugiato dal 2012 in una piccola stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, fino a quando il governo di Lenin Moreno ha smesso di concedergli questo status. 1. Gli archivi di Guantanamo. Nel 2007, hanno pubblicato migliaia di documenti sotto forma di manuali e informazioni sul carcere inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002 a Guantánamo Bay, a Cuba. Gli archivi sono pieni di dettagli sui prigionieri e sui metodi di tortura utilizzati quotidianamente contro di loro nell’ambito di un programma di procedure per il trattamento di persone sospettate di essere terroristi. La Croce Rossa ha confermato che non tutti i prigionieri di Guantanamo sono terroristi e le critiche al funzionamento di questa struttura sono aumentate nel corso degli anni.