Archivio del Tag ‘BancoPosta’
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Boicottare Poste Italiane. E poi abbandonare questo paese
Abbandonare questa Italia: non è più solo una suggestione, un sentimento. Molti connazionali ci stanno pensando seriamente: Spagna e Baleari, Canarie, Istria, Regno Unito. Ovunque è meglio, sotto questo aspetto: Romania, Bulgaria, Florida. Dappertutto le restrizioni non mordono più, e non hanno mai tormentato troppo i cittadini. Svezia e Danimarca, Svizzera: va bene qualsiasi paese. Scrive “Repubblica”, citando il “New York Times”, che la governatrice dello Stato di New York, Kathy Hochul, sta per annunciare la rimozione di ogni obbligo – mascherine e pass “vaccinale” – per accedere ai luoghi al chiuso. Obblighi già caduti, per gli studenti, in altri Stati sempre a guida democratica, come New Jersey e Delaware. Le scelte degli Usa preludono dunque a un imminente rimbalzo “aperturista” anche nel Belpaese? Ora lo invocano anche i cialtroni del mainstream, fino a ieri favorevoli a lockdown, coprifuoco, colorazione delle Regioni e ridicoli distanziamenti.L’Italia sembra diventata una sorta di grande manicomio a cielo aperto: e questo, grazie anche a chi si è sottoposto ai sieri sperimentali, ben sapendo che – per molte categorie – erano imposti attraverso lo squallore del ricatto. Proprio questo cedimento civile (assecondare la campagna per il Tso, pur sapendola sospinta dall’autoritarismo e da una violenta propaganda menzognera) ha fatalmente indebolito la quota di “renitenti”, oggi sottoposti alla vessazione quasi generalizzata: mentre la Gran Bretagna abolisce il Tso per i sanitari, il governatorato italico lo estende imponendolo agli over 50, e senza che i titolari di Green Pass accennino a protestare. L’indignazione sta crescendo, a quanto pare, ma è ancora minoritaria. Per contro, la “gioiosa macchina da guerra” del governo Conte-Draghi-Speranza sembra essersi inceppata sulla temuta terza dose: milioni di italiani se ne sono finora sottratti, unendosi ai 7 milioni di cittadini che solo gli imbecilli, a reti unificate, osano ancora chiamare No-Vax.Non durerà per sempre, avverte Gianluigi Paragone: a breve, quando il rigore sanitario avrà ulteriormente devastato l’economia, c’è da temere seriamente la rabbia dei miti. Evidentemente a Palazzo Chigi se ne sono accorti, e forse si preparano davvero ad allentare il cappio. Illudendosi, magari, che la popolazione applauda. Popolazione cui oggi è impedito il libero accesso ai trasporti, a molti negozi e agli uffici pubblici, agli sportelli bancari e persino alle Poste. A proposito: coliamole a picco, le Poste Italiane. Lo propone lo storico Nicola Bizzi, lanciando un vero e proprio boicottaggio: esistono mille agenzie postali private, diffuse su tutto il territorio nazionale. Si possono tranquillamente bypassare, gli uffici postali. E, meglio ancora: si può cogliere l’occasione per chiudere l’eventuale conto corrente aperto presso BancoPosta, rititrando immediatamente il proprio denaro. Insiste Bizzi: diamo una lezione a Poste Italiane, facciamogli vedere chi siamo. Facciamolo, magari, prima di lasciare questo paese ormai cupo e spaventoso, reso invivibile dalla disgustosa indifferenza della maggioranza, che oggi sembra una massa ottusa composta quasi solo da pericolosi ignoranti.Abbandonare questa Italia: non è più solo una suggestione, un sentimento. Molti connazionali ci stanno pensando seriamente: Spagna e Baleari, Canarie, Istria, Regno Unito. Ovunque è meglio, sotto questo aspetto: Romania, Bulgaria, Florida. Dappertutto le restrizioni non mordono più, e non hanno mai tormentato troppo i cittadini. Svezia e Danimarca, Svizzera: va bene qualsiasi paese. Scrive “Repubblica”, citando il “New York Times”, che la governatrice dello Stato di New York, Kathy Hochul, sta per annunciare la rimozione di ogni obbligo – mascherine e pass “vaccinale” – per accedere ai luoghi al chiuso. Obblighi già caduti, per gli studenti, in altri Stati sempre a guida democratica, come New Jersey e Delaware. Le scelte degli Usa preludono dunque a un imminente rimbalzo “aperturista” anche nel Belpaese? Ora lo invocano anche i cialtroni del mainstream, fino a ieri favorevoli a lockdown, coprifuoco, colorazione delle Regioni e ridicoli distanziamenti.
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Grossi: reinventare i Bot, e svanirà l’incubo dello spread
Come “smontare” il grande inganno e liberarsi del capestro del debito pubblico? Bastano 200 miliardi, “pescati” dall’enorme risparmio italiano, pari a 4.200 miliardi di euro (senza contare i 5.000 miliardi di patrimonio edilizio). Siamo un paese ancora ricchissimo: per questo ci stanno “rapinando”. Come uscirne? Recuperando il controllo della moneta. Ma la stretta del debito è risolvibile da subito: basta abilitare la Cassa Depositi e Prestiti. Obiettivo: offrire ai risparmiatori titoli-sicurezza, non speculativi, come ai tempi dei Bot. In pochi mesi, l’incubo dello spread sarebbe un ricordo. Lo Stato tornerebbe a finanziarsi con denaro italiano. Tutto ciò non accade per un solo motivo: manca la volontà politica. Se non potesse più “ricattare” lo Stato, un enorme sistema di potere finirebbe a gambe all’aria. Per questo non mollano, i boss della finanza che hanno “sequestrato” le nostre vite. Secondo Guido Grossi, ex manager Bnl, la politica ha rinunciato in modo folle al controllo della moneta. Prima, il cittadino portava i risparmi in una banca pubblica e quei soldi venivano investiti nell’economia reale, creando lavoro: lo Stato li usava per fare spesa pubblica. Oggi invece le banche private fanno solo speculazione, e i cittadini non possono più finanziare lo Stato, mentre gli interessi sempre più alti fanno salire l’indebitamento.Ci hanno messo un cappio al collo, sostiene Grossi, intervistato da Ignazio Dessì su “Tiscali Notizie”. Una trappola: lo spread, il rating, il meccanismo perverso che porta lo Stato a svendere i beni pubblici, fino al caso drammatico della Grecia. La canzone è nota anche in Italia: abbassare il debito pubblico, chiedendo “sacrifici” ai cittadini, pena l’imminente disastro. Diventa un caso persino l’esiguo 2,4% di deficit nel Def gialloverde, per finanziare reddito di cittadinanza, Flat Tax e riforma della legge Fornero. Ma perché rastrellare soldi in prestito sul mercato finanziario estero, quando in Italia c’è una massa enorme di liquidità? Proprio l’internazionalizzazione del debito pubblico ha messo un cappio al collo agli Stati e impedisce loro di impostare liberamente le politiche economiche e sociali. Per questo, quello del debito pubblico è un grande inganno: Usa e Giappone hanno debiti record, eppure scoppiano di salute. Certo, americani e giapponesi sono sovrani: possono fare deficit per aumentare il Pil e non devono far approvare i bilanci a Bruxelles. Ma persino noi, sotto le forche caudine dell’Eurozona, potremmo uscire dal tunnel anche subito.«L’obiettivo finale – sostiene Grossi – è riportare l’emissione monetaria sotto il controllo pubblico, sotto la politica. Ma la cosa da fare subito è smetterla di farci prestare i soldi dagli investitori istituzionali. Non ne abbiamo alcun bisogno». Oggi, un risparmiatore non compra più Bot o Cct. Non conviene. Gli unici che li comprano sono le banche centrali, i fondi di investimento. «Bisogna trasformare le emissioni», dice Grossi. «Negli anni ’70, Bot e Cct erano comprati dal sistema-Italia, dalle famiglie, dalle aziende e dalle banche italiane». Quando si è passati a chiedere i soldi agli “investitori istituzionali”, i titoli sono stati trasformati «sia nel modo in cui vengono offerti sul mercato, sia nella struttura del titolo stesso». Prima, i Btp erano una eccezione. «Erano nati per andare incontro alle esigenze degli speculatori: una durata lunga con un tasso fisso più alto dell’inflazione va bene sia a un “cassettista” (li compro, li tengo da parte, aspetto la scadenza e intanto guadagno più dell’inflazione), sia a uno speculatore o a un trader che continuamente compra e vende». La durata del Btp è lunga, e il prezzo si muove ogni volta che il tasso di mercato cambia. «Gli speculatori ci vanno a nozze». I risparmiatori, invece, chiedono semplicemente sicurezza: quella che avevano, quando lo Stato controllava la moneta e investiva sull’economia, prima che arrivasse l’Ue a impedirglielo, frenando i deficit.Secondo Grossi bisogna tornare ai titoli di Stato di durata breve: al cittadino (che non fa speculazione) i soldi risparmiati possono servire da un momento all’altro. Un tempo c’erano i Bot a 3 mesi, comodissimi e sicuri. «Invece il Btp a 7 anni, che ho pagato 100, se lo rivendo dopo un anno può darsi valga 90. Il rischio in questo caso è molto più consistente. E magari, a me cittadino, correre quel rischio non interessa». Il Btp è solo «uno strumento per speculare sui tassi», adatto quindi alle grandi banche e ai fondi d’investimento. «Serve solo a chi vuol fare soldi con i soldi», e quindi «va gradualmente eliminato». Riassumendo: abbiamo “fabbricato” titoli su misura per gli speculatori, ai quali lasciamo anche il controllo dei meccanismi d’asta. Spiega Grossi: «Se io mi sono messo nella condizione di farmi prestare soldi dai mercati finanziari, è chiaro che quando faccio l’asta sto chiedendo sostanzialmente a loro di decidere le condizioni. E se di quei soldi non posso più farne a meno, è evidente che le condizioni man mano si adatteranno alle loro esigenze: quelle di guadagnare il più possibile».Si può fare il contrario? Certo, basta volerlo. Sapendo che in Italia c’è ancora una massa enorme di liquidità (4.200 miliardi di risparmi) lo Stato può dire: cari cittadini italiani, vi offro l’1 o il 2% per un certo tempo, portate quello che volete. «Con quanto arriva mi ci vado a ricomprare i Btp sul mercato. Faccio crollare lo spread. Basta che arrivino 200 miliardi e noi gli investitori internazionali li salutiamo. Gli restituiamo i loro soldi, ma gli diciamo basta». Siamo in grado di farlo? Guido Grossi ne è certo. In Italia, spiega, si finisce col pagare 4 quello che avremmo potuto pagare 2. Funziona così: se mi scadono 30 miliardi di Btp, li devo andare a rinnovare. In un anno bisogna rinnovare circa 2-300 miliardi di euro (ogni mese, da 20 a 40 miliardi). «Per raccogliere tali cifre, cosa ci vuole a offrire ai cittadini un titolo adatto alle loro esigenze?». I nostri oltre 4.000 miliardi sono costituiti da depositi, fondi, assicurazioni e azioni. Senza contare gli immobili: un patrimonio da 5.000 miliardi. «Per questo siamo un paese ricco, e quei risparmi fanno gola a molti».Oggi, quando i cittadini hanno risparmi vanno in banca o alla posta, dove c’è chi consiglia cosa comprare. Ma scatta un conflitto di interessi: «Chi ci consiglia e ci vende un Bot o un Cct guadagna una piccolissima commissione. Se ci vende invece un prodotto di investimento, più rischioso, guadagna molto di più. Per forza allora ci venderà quel prodotto lì, di cui non abbiamo bisogno. Qualcuno guadagna e magari noi ci rimettiamo, e in più evitiamo di finanziare lo Stato, come potremmo». Siamo arrivati a questo, spiega Grossi, perché il sistema finanziario e bancario è diventato privato. «Io ho lavorato alla Bnl, che era la banca del Tesoro. Quando sono entrato mi pagavano lo stipendio per fare il mio dovere istituzionale, difendere e tutelare il risparmio da una parte, e selezionare gli investimenti dall’altra. Non mi pagavano per guadagnare, per fare un profitto: mi pagavano per svolgere una importantissima funzione di interesse generale. Questa è la mission di un ente pubblico». Poi la banca è diventata una Spa, ed è arrivato il concetto della migliore efficienza. «In realtà ci ha portato a cambiare completamente l’ottica: la mission non è più la qualità del servizio, ma il fare soldi. Le banche sono diventate sempre più private, sempre più straniere, e amen».Cosa si può fare? L’obiettivo fondamentale, per Grossi, è uno solo: «Recuperare tutto il controllo del sistema finanziario: è il nostro sistema vitale». Insiste: «Per una economia, per una sana società, è fondamentale. Può esserci sempre chi cerca di farci dei soldi, perché qualcuno ci toglierà sempre del sangue, ma bisogna che quel sistema sia messo sotto controllo in modo democratico e trasparente». Possiamo sempre imparare ad essere più efficienti? «Verissimo, ma comunque quel sistema era meglio di questo. Bisogna recuperare la distinzione tra prodotti di risparmio e di investimento». Negli anni Trenta, gli Stati Uniti guidati da Roosevelt uscirono dalla Grande Depressione – innescata dalla speculazione di Wall Street – proprio in quel modo: separando le banche d’affari dagli istituti di credito ordinario, non autorizzati a giocare in Borsa il risparmio di famiglie e aziende. A fare argine c’era una legge, il Glass-Steagall Act. La rimosse dopo mezzo secolo Bill Clinton, messo alle strette dallo scandalo Lewinsky. Proprio Clinton fece volare, di colpo, l’economia neoliberista basata sulla speculazione finanziaria senza più freni: quella che oggi sta strangolando l’economia reale, ulteriormente rallentata – in Europa – dagli assurdi limiti di spesa imposti dai trattati-capestro dell’Ue, che disabilitano la spesa pubblica lasciando campo libero alle privatizzioni selvagge.Ai cittadini, sostiene Guido Grossi, bisogna tornare innanzitutto a offrire prodotti di risparmio, anche attraverso aste differenziate. Il player giusto, in Italia? La Cassa Depositi e Prestiti, che all’80% è ancora posseduta dallo Stato. «Oggi viene utilizzata per finanziare grandi interventi. Viaggia con Bancoposta. Nessuna delle due è però una banca. Messe insieme, fanno la funzione della banca: perché Bancoposta raccoglie i risparmi e Cassa Depositi e Prestiti li investe. Entrambe però risentono dell’ottica privatistica». Bisognerebbe invece reindirizzarne il management e la “mission”, sostiene Grossi: «Se io oggi vado a Bancoposta, mi propongono né più né meno prodotti di investimento, come qualunque banca o assicurazione. In una banca pubblica mi devono invece proporre qualcosa di diverso: un deposito semplice, un titolo di Stato. Cassa Depositi e Prestiti invece può fare quegli investimenti pubblici di cui c’è enorme bisogno». Attenzione: la Germania sta già facendo, con la Bundesbank, quello che noi continuiamo a non fare con Bankitalia.«Quando ci sono le aste dei titoli (bund), il Tesoro tedesco cerca di orientare il prezzo: non lascia cioè i mercati liberi di fare ciò che vogliono». Berlino usa due strumenti: se non c’è domanda sufficiente per assorbire la quantità di titoli proposta, la parte invenduta viene parcheggiata presso la Bundesbank. Non che la banca centrale li compri, perché l’Ue glielo vieta. Quei titoli vengono “parcheggiati”, e al momento opportuno saranno collocati. «E’ come se si allungassero i tempi dell’asta: questa dura fino a quando il mercato capisce che non può avere più di quello che il Tesoro tedesco è disposto a pagare». In definitiva, in questo modo, «si aggira in definitiva l’articolo 123 del Trattato di Maastricht», che è palesemente iniquo. Poi c’è il secondo strumento, cioè l’utilizzo dell Kwf (Kreditanstalt für Wiederaufbau). E’ una grande banca pubblica, «non dissimile dalla nostra Cassa Depositi e Prestiti, perché utilizzata per i grandi investimenti».La Kfw, ricordava tempo fa Paolo Barnard, può intervenire nelle aste a comprare direttamente i titoli, grazie a un cavillo: è una banca ad azionariato pubblico, controllata dal governo, ma fornalmente resta un ente “di diritto privato”. Lo erano anche Bnl, Unicredit, Banca di Roma, Comit, San Paolo, Banco di Napoli e Banco di Sicilia. «Dopo, però, sono diventate tutte private, e la maggior parte straniere», ricorda Grossi. In ogni caso, adottando il sistema tedesco, ci basterebbe la Cassa Depositi e Prestiti: «Potrebbe comprare in Italia l’invenduto». Tradotto: «Se sto facendo un’asta marginale e vedo che il prezzo sale troppo, può interviene la Cassa e comprarne una parte, poi rivenderla nei giorni successivi sul mercato, come fa la Kfw. E come fanno anche in Francia con la Bpi, la banca pubblica per gli investimenti. Ed è giusto». Sottolinea Grossi: «Non c’è bisogno di chiedere il permesso a nessuno, per questi interventi: nessuna norma nazionale o internazionale li vieta. Non è che sbagliano loro a farlo, sbagliamo noi a non farlo». Che cosa stiamo aspettando?Come “smontare” il grande inganno e liberarsi del capestro del debito pubblico? Bastano 200 miliardi, “pescati” dall’enorme risparmio italiano, pari a 4.200 miliardi di euro (senza contare i 5.000 miliardi di patrimonio edilizio). Siamo un paese ancora ricchissimo: per questo ci stanno “rapinando”. Come uscirne? Recuperando il controllo della moneta. Ma la stretta del debito è risolvibile da subito: basta abilitare la Cassa Depositi e Prestiti. Obiettivo: offrire ai risparmiatori titoli-sicurezza, non speculativi, come ai tempi dei Bot. In pochi mesi, l’incubo dello spread sarebbe un ricordo. Lo Stato tornerebbe a finanziarsi con denaro italiano. Tutto ciò non accade per un solo motivo: manca la volontà politica. Se non potesse più “ricattare” lo Stato, un enorme sistema di potere finirebbe a gambe all’aria. Per questo non mollano, i boss della finanza che hanno “sequestrato” le nostre vite. Secondo Guido Grossi, ex manager Bnl, la politica ha rinunciato in modo folle al controllo della moneta. Prima, il cittadino portava i risparmi in una banca pubblica e quei soldi venivano investiti nell’economia reale, creando lavoro: lo Stato li usava per fare spesa pubblica. Oggi invece le banche private fanno solo speculazione, e i cittadini non possono più finanziare lo Stato, mentre gli interessi sempre più alti fanno salire l’indebitamento.
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La povertà è il più grosso business inventato dai ricchi
La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».Dopo il funesto 2011, in cui il mainstream ha ripetuto in modo martellante il “mantra del debito”, visto come problema e colpa sociale, «si è poi scoperto che il governo Monti non soltanto non ha ridotto il debito pubblico, ma lo ha aumentato», annota “Comidad”, in un post ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”. «Il cosiddetto spread si è rivelato così una tassa sulla povertà, un’elemosina dei poveri nei confronti dei ricchi». E intanto ha fatto passi da gigante «l’addestramento dei poveri all’uso degli strumenti finanziari». Lo stesso governo Monti rilanciò la Social Card di tremontiana memoria: viste le cifre in ballo per quella carta prepagata, il vantaggio per le famiglie è apparso subito «pressoché inesistente». Semmai a incassare sarebbe stato il gestore finanziario, BancoPosta. Lo scopo della Social Card, in realtà, era quello di «allargare il target dei servizi finanziari», tanto per cambiare sul modello degli Usa, dove «anche lì in via sperimentale, la Social Security Card si è diffusa a macchia d’olio», arrivando nel 2013 a dieci milioni di utenti.«I paesi anglosassoni stanno dimostrando che i poveri costituiscono un target inesauribile per l’offerta di servizi finanziari», sottolinea “Comidad”. «Non soltanto la carta di credito viene oggi concessa anche ai disoccupati, ma questi sono anche fatti oggetto di un vero e proprio allettamento per dotarsi di questo “servizio” finanziario. Il fatto è comprensibile, se si considera che disoccupati e precari possono essere ridotti ad un livello assoluto di dipendenza da questi strumenti finanziari; cosa che non sarebbe possibile nei confronti di chi disponesse di fonti regolari di reddito». Se i prestiti ai poveri fossero ancora in contanti, allora i rischi di insolvenza «sarebbero mortali per un business del genere». Ma oggi c’è il denaro elettronico, e quindi «le banche non devono compromettere la propria liquidità per concedere carte di credito». I poveri tendono ancora a servirsi soprattutto di contanti, «ma le banche intendono sollevare le masse da questa condizione primitiva, attraverso quello che chiamano un programma di “inclusione finanziaria”».Aggiunge “Comidad”: «Il suono nobile e commovente della parola “inclusione” serve a nascondere il fatto che si tratta di un programma a basso rischio d’impresa per lo sfruttamento delle possibilità di indebitamento delle masse più povere». Il blog ricorda che già nel 2007 il governo britannico elaborò un piano di inclusione finanziaria «per salvare le masse di “unbanked” dal loro misero destino e per metterle a disposizione dell’amorevole offerta di servizi bancari». Lo stesso governo britannico «ha ritenuto di porre una deroga ai limiti della sua “spending review” pur di stanziare dei fondi per questo piano umanitario». Anche la Banca d’Italia «ha impostato un piano analogo, in attuazione delle indicazioni del G-20 a riguardo». A quanto pare, continua “Comidad”, «il denaro elettronico ha un club di supporter piuttosto nutrito». La Banca Mondiale, nella sua veste di agenzia specializzata dell’Onu, rappresenta l’avanguardia in questo progetto di “soccorso mondiale agli unbanked”. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale sino al 2011, ha profuso più di tutti il suo personale impegno nella “financial inclusion”.«Zoellick costituisce il prototipo del perfetto “bombanchiere”: proviene da Goldman Sachs e, nel periodo in cui ha fatto parte dell’amministrazione Bush, è stato uno dei promotori più zelanti dell’aggressione all’Iraq. Zoellick è anche un ospite d’onore, pressoché fisso, del Consiglio Atlantico della Nato». Le banche hanno ormai una pessima reputazione e, spesso, persino una pessima stampa. «Ma le denunce possono rimanere sul vago, mentre, come si dice, il diavolo si annida nei dettagli. C’è qualche prestigioso commentatore che auspica addirittura un passaggio completo al denaro elettronico, con l’abbandono definitivo del contante; ciò in nome della lotta all’evasione fiscale, come se l’elettronica fosse intrinsecamente onesta, e fosse in grado solo di “tracciare” e non potesse anche sviare». Per “Comidad”, l’unico risultato certo dell’adozione integrale del denaro elettronico «sarebbe invece quello di rendere definitiva la “financial inclusion”, cioè di non porre più limiti alle possibilità per le banche di impoverire e sfruttare i popoli».La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».