Archivio del Tag ‘Benjamin Netanyahu’
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L’Onu: Israele collabora con l’Isis. Vuole il petrolio del Golan
Un colonnello israeliano catturato in Iraq con miliziani dell’Isis, e un dossier ufficiale dell’Onu che denuncia il ruolo di Israele nel supporto al Califfato. Motivo? Mettere le mani sul petrolio siriano, dopo che la società Genie Energy, in cui figura anche Dick Cheney, ha scoperto nel Golan un immenso giacimento. Ma nulla di tutto ciò affiora sui media mainstream, protesta il professor William Engdhal, consulente strategico e docente universitario negli Usa. Clamorosa la cattura dell’ufficiale israeliano, il colonnello Yusi Oulen Shahak, sorpreso “a brache calate assieme all’Isis” dall’esercito iracheno. Secondo l’agenzia iraniana “Fars”, l’ufficiale era legato al “Battaglione Golani” dell’Isis, insieme a cui l’ufficiale avrebbe «partecipato alle operazioni terroristiche della fazione takfirita» dei miliziani jihadisti. Dal 30 settembre, cioè «da quando sono iniziati gli efficaci bombardamenti russi», scrive Engdhal, sono emersi dettagli sempre più imbarazzanti sul «ruolo alquanto sporco» giocato da Washington, dalla Turchia di Erdogan e anche da Israele. Già a fine 2014 il “Jerusalem Post” aveva scoperto un rapporto delle Nazioni Unite «largamente ignorato e politicamente esplosivo», che descrive come l’esercito israeliano sia stato visto cooperare con i combattenti dell’Isis.La missione Undof, cioè la forza di peacekeeping dell’Onu stanziata al confini tra Israele e Siria presso le Alture del Golan dal 1974, ha rivelato che «Israele ha collaborato strettamente con le forze terroriste di opposizione siriane», incluso il fronte Al-Nusra (Al-Qaeda) e lo Stato Islamico, «mantenendo stretti contatti negli ultimi 18 mesi». In un servizio su “Journal-Neo” tradotto da “Come Don Chisciotte”, Engdhal scrive che diventa sempre più chiaro che almeno una fazione dell’amministrazione Obama ha “fabbricato” e usato l’Isis per cacciare Assad e demolire la Siria, riducendola come la Libia. Sulla lista nera, «i neocon che ruotano attorno all’ex direttore della Cia, nonché boia della resistenza irachena, il generale David Petraeus», e il generale John Allen, già inviato speciale di Obama per la coalizione anti-Isis, nonché l’ex segretario di Stato Hillary Clinton. Il generale Allen, sostenitore della “no-fly zone” tra Siria e Turchia (che Obama ha respinto) è stato significativamente rimosso il 23 ottobre, dopo l’avvio dei bombardamenti russi. Ma è altrettanto importante il ruolo di Israele: «E’ ormai consolidato che il Likud di Netanyahu e le forze armate israeliane lavorino a fianco ai guerrafondai neocon, così come lo è l’opposizione del primo ministro Benjamin Netanyahu all’accordo di Obama sul nucleare iraniano», scrive Engdhal.«Israele considera Hezbollah, il partito islamico sciita appoggiato dall’Iran, con sede nel Libano, come il nemico principale». Alleato dell’Iran (e di Hamas a Gaza), Hezbollah combatte a fianco all’esercito siriano contro l’Isis in Siria. Fino a ieri, il Califfato ha potuto espandere il suo controllo proprio grazie al generale Allen. E non solo: accanto all’Isis c’era sempre anche Israele. «Almeno dal 2013 – continua Engdhal – le forze armate israeliane hanno apertamente bombardato quelli che ritenevano fossero gli obiettivi di Hezbollah in Siria. Un’indagine ha infatti rivelato come Israele stesse colpendo le forze armate siriane e alcuni obiettivi di Hezbollah che stavano efficacemente contrastando l’Isis e altri gruppi terroristi. In questo modo Israele sta attualmente aiutando di fatto l’Isis», così come i bombardamenti anti-Isis del generale Allen, protratti per un anno. «Che una fazione del Pentagono abbia lavorato in segreto per addestrare, armare e finanziare quella che oggi chiamiamo Isis (o Is) in Siria, è oggi provato nero su bianco», spiega Engdhal. Nell’agosto del 2012, un documento del Pentagono classificato come “segreto”, poi successivamente desecretato sotto la pressione dell’Ong “Judicial Watch”, ha descritto con precisione la nascita di quello che è diventato in seguito l’Isis, sorto dallo Stato Islamico dell’Iraq, quindi affiliato ad Al-Qaeda.Il documento del Pentagono riportava che «c’è la possibilità di impiantare un’entità statale salafita nella Siria orientale (Hasaka e Der Zor), e questo è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione ad Assad, al fine di isolare il regime siriano, considerato l’avamposto strategico dell’espansione sciita». Sul banco degli imputati, insieme agli Usa, anche il Qatar, la Turchia, l’Arabia Saudita. E, dietro le quinte, Israele. «La creazione di “un’entità salafita nella Siria orientale,” oggi territorio dell’Isis, era nell’agenda di Petraeus, del generale Allen e di altri al fine di distruggere Assad», prosegue Engdhal. «E’ questo che porta l’amministrazione Obama in stallo con la Russia, la Cina e l’Iran, riguardo alla bizzarra richiesta Usa di rimuovere Assad prima che venga distrutto l’Isis». Questo gioco, continua l’analista, è oggi alla luce del sole. «E mostra al mondo la doppiezza di Washington nell’appoggiare quelli che la Russia definisce correttamente “terroristi moderati” contro un Assad regolarmente eletto». E lo Stato ebraico? «Che Israele si trovi inoltre in mezzo alla tana di ratti delle forze di opposizione terroristiche in Siria è stato confermato nel recente rapporto dell’Onu. Ciò che il rapporto non menzionava era invece il perché Israele avesse un interesse così forte per la Siria, specialmente per le alture del Golan»Già: perché Israele vuole rimuovere Assad? I documenti Onu, di cui il mainstream continua a non parlare, mostrano come le forze armate israeliane abbiano tenuto contatti regolari con membri del cosiddetto Stato Islamico fin dal maggio 2013. L’Idf, l’esercito israeliano, ha dichiarato che simili contatti ci sono stati “solo per fornire cure mediche a civili”, ma l’inganno «è stato svelato quando gli osservatori dell’Undof hanno accertato contatti diretti tra forze dell’Idf e soldati dell’Isis, fornendo anche assistenza medica a combattenti dello Stato Islamico». Il rapporto delle Nazioni Unite identifica ciò che i siriani hanno definito un “crocevia di movimenti di truppe tra l’Idf e l’Isis”, argomento che l’Undof – 1.200 osservatori sul campo – ha portato davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A partire dal 2013 e dall’escalation di attacchi israeliani contro la Siria lungo le Alture, ufficialmente per ricercare “terroristi di Hezbollah”, la stessa Undof è soggetta a massicci attacchi da parte dei terroristi dell’Isis e di Al-Nusra. Si registrano anche rapimenti, omicidi, furti di materiale e munizioni Onu, di veicoli e di altri beni, nonché il saccheggio e la distruzione delle varie strutture.Il Golan – ricco di giaciementi di petrolio – pare sia l’obiettivo a cui punta Netanyahu, che ha chiesto a Obama «di riconsiderare il fatto che Israele ha illegalmente occupato una parte delle alture», a partire dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e i paesi arabi. Il 9 novembre Nethanyahu ha chiesto a Obama, apparentemente senza successo, di appoggiare formalmente l’annessione israeliana delle Alture del Golan illegalmente occupate, sostenendo che l’assenza di un governo siriano funzionante “dà luogo a diverse valutazioni” riguardo al futuro di quell’area così strategicamente importante. «Certamente – aggiunge Engdhal – Netanyahu non ha dato nessuna spiegazione plausibile sul fatto che le forze israeliane, assieme ad altre, sono state responsabili dell’assenza di un governo siriano funzionante a causa del loro supporto all’Isis ed al fronte qaedista Al-Nusra». Quando l’Undof ha iniziato a documentare nel 2013 i contatti sempre più frequenti tra l’esercito di Israele da una parte e l’Isis ed Al-Qaeda dall’altra lungo le Alture del Golan, la Genie Energy, una semi-sconosciuta compagnia petrolifera di Newark, nel New Jersey, assieme ad una sua controllata isreliana, la Afek Oil e Gas, iniziò a muoversi nelle Alture per delle esplorazioni petrolifere, col permesso del governo Netanyahu.Quello stesso anno, continua Engdhal, gli ingegneri dell’esercito di Israele sostituirono la recinzione di confine con la Siria, rimpiazzandola con una barriera dotata di filo spinato, sensori, radar e telecamere a infrarossi, come quelle del muro costruito da Israele lungo la West Bank palestinese. Yuval Bartov, geologo capo della controllata israeliana della Genie Energy, l’Afek Oil e Gas, ha annunciato alla Tv israeliana “Channel 2” che la sua compagnia ha scoperto un consistente giacimento petrolifero sulle Alture del Golan, profondo 350 metri: «A livello mondiale, i giacimenti hanno in media lo spessore di 20 o 30 metri, mentre questo è 10 volte più spesso», ha dichiarato Bartov. «Parliamo quindi di una quantità rilevante». Attenzione: nel vertice della Genie Energy siedono personaggi come Dick Cheney, ex vicepresidente Usa, e James Woosley, già direttore della Cia e famigerato neo-con. Con loro anche altre personalità di spicco, come quella di Lord Jacob Rothschild. «Nessuna persona sana di mente suggerirebbe che vi sia un legame tra i rapporti dell’esercito di Israele con l’Isis ed altri terroristi anti-Assad in Siria, specialmente lungo le alture del Golan, e la scoperta dei giacimenti da parte della Genie Energy nello stesso posto, o con i recenti appelli di Netanyahu al “ripensamento” sulle Alture del Golan ad Obama», conclude Engdhal. «Questo suonerebbe troppo simile ad una “teoria della cospirazione”, mentre tutte le persone ragionevoli sanno bene che non esistono cospirazioni ma solo coincidenze».Un colonnello israeliano catturato in Iraq con miliziani dell’Isis, e un dossier ufficiale dell’Onu che denuncia il ruolo di Israele nel supporto al Califfato. Motivo? Mettere le mani sul petrolio siriano, dopo che la società Genie Energy, in cui figura anche Dick Cheney, ha scoperto nel Golan un immenso giacimento. Ma nulla di tutto ciò affiora sui media mainstream, protesta il professor William Engdhal, consulente strategico e docente universitario negli Usa. Clamorosa la cattura dell’ufficiale israeliano, il colonnello Yusi Oulen Shahak, sorpreso “a brache calate assieme all’Isis” dall’esercito iracheno. Secondo l’agenzia iraniana “Fars”, l’ufficiale era legato al “Battaglione Golani” dell’Isis, insieme a cui l’ufficiale avrebbe «partecipato alle operazioni terroristiche della fazione takfirita» dei miliziani jihadisti. Dal 30 settembre, cioè «da quando sono iniziati gli efficaci bombardamenti russi», scrive Engdhal, sono emersi dettagli sempre più imbarazzanti sul «ruolo alquanto sporco» giocato da Washington, dalla Turchia di Erdogan e anche da Israele. Già a fine 2014 il “Jerusalem Post” aveva scoperto un rapporto delle Nazioni Unite «largamente ignorato e politicamente esplosivo», che descrive come l’esercito israeliano sia stato visto cooperare con i combattenti dell’Isis.
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Levy: persino Gandhi capirebbe la violenza dei palestinesi
Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.Come ha scritto recentemente l’attivista palestinese di lunga data Hanan Ashrawi, i palestinesi solo l’unico popolo sulla terra a cui si chiede di garantire la sicurezza dell’occupante, mentre Israele è l’unico paese al mondo che pretende protezione alle sue vittime. E come possiamo rispondere? Come ha chiesto il presidente Mahmoud Abbas in un’intervista ad “Haaretz”: «Come vi aspettate che la piazza palestinese reagisse dopo che l’adolescente Mohammed Abu Khdeir è stato bruciato vivo [nel luglio 2014, dopo l’uccisione di tre giovani israeliani], l’incendio della casa dei Dawabsheh [nell’agosto 2015, in cui è morto carbonizzato un bambino di 18 mesi e, dopo qualche settimana, sono deceduti i suoi genitori], le aggressioni dei coloni e gli attacchi contro le proprietà [palestinesi] sotto gli occhi dei soldati?». E cos’abbiamo da rispondere?Ai cento anni di spoliazione ed ai 50 anni di oppressione possiamo aggiungere gli ultimi anni, segnati dall’intollerabile arroganza israeliana che ci sta esplodendo ancora una volta in faccia. Sono stati gli anni in cui Israele ha pensato di poter fare qualunque cosa senza pagarne il prezzo. Ha pensato che il ministro della difesa [Moshe Ya’alon, del Likud, il partito di Netanyahu] potesse vantarsi di conoscere l’identità degli assassini dei Dawabsheh senza arrestarli, e i palestinesi si sarebbero controllati. Ha pensato che quasi ogni settimana un ragazzo o adolescente potesse essere ucciso dai soldati e i palestinesi sarebbero rimasti tranquilli. Ha pensato che i soldati israeliani potessero irrompere nelle case dei palestinesi ogni notte e terrorizzare, umiliare ed arrestare la gente. Che a centinaia potessero essere arrestati senza un’accusa. Che lo Shin Bet, il sevizio di sicurezza, potesse continuare a torturare i sospetti con metodi satanici.Ha pensato che i prigionieri che fanno lo sciopero della fame e che sono stati liberati potessero essere riarrestati, spesso senza alcuna ragione. Che Israele potesse distruggere Gaza una volta ogni due o tre anni e che Gaza si sarebbe arresa e la Cisgiordania sarebbe rimasta tranquilla. Che l’opinione pubblica israeliana avrebbe applaudito tutto ciò, nella migliore delle ipotesi con sorrisi e nella peggiore con la richiesta di più sangue palestinese, con una sete che è difficile da comprendere. E i palestinesi lo avrebbero perdonato. Tutto ciò potrebbe continuare ancora per molti anni. Perché? Perchè Israele è più forte che mai e l’Occidente è indifferente e gli consente di scatenarsi come non mai. I palestinesi, nel contempo, sono deboli, divisi, isolati e colpiti come non mai dai tempi della Nakba. Così tutto ciò potrebbe continuare perché Israele lo può fare – e il popolo [israeliano] lo vuole. Nessuno potrà fermare ciò, se non l’opinione pubblica internazionale, che Israele rifiuta in quanto anti-ebraica.E non abbiamo detto niente in merito all’occupazione in quanto tale e l’incapacità di porvi termine. Siamo stanchi. Non abbiamo detto una parola sull’ingiustizia del 1948, che avrebbe dovuto finire allora e non continuata con ancor maggiore forza nel 1967, e continuata senza che se ne veda la fine. Non abbiamo parlato delle leggi internazionali, del diritto naturale e l’etica umana, che non può assolutamente accettare niente di simile. Quando giovani uccidono coloni, lanciano bottiglie molotov contro i soldati e scagliano pietre contro gli israeliani, questo è il contesto. Ci vuole una buona dose di ottusità, ignoranza, nazionalismo e arroganza – o di tutto ciò insieme – per ignorare tutto ciò.(Gideon Levy, “Perfino Gandhi capirebbe la violenza palestinese”, articolo pubblicato sul quotidiano israeliano “Haaretz” il 9 ottobre 2015 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.
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Giulietto Chiesa: è arrivata la bufera, a lungo annunciata
Alcuni mesi orsono, il giornalista e uomo politico Giulietto Chiesa ha pubblicato per i tipi di Piemme Edizioni il volume “E’ arrivata la bufera”. Quest’opera contiene la riproposizione del saggio intitolato “Invece della Catastrofe”, oltre ad un lungo articolo dedicato ai fatti parigini di inizio gennaio 2015, ovvero la strage presso la sede della redazione del periodico satirico Charlie Hebdo. A distanza di un anno e mezzo dalla prima pubblicazione, “Invece della catastrofe” torna dunque a proporsi quale indispensabile strumento cognitivo della modernità. Va colta prima di tutto una peculiarità di questo scritto: esso è inchiesta giornalistica, analisi, e proposta politica, che si pone l’obiettivo di abbracciare e racchiudere nel proprio sguardo partecipe la realtà nella sua globalità. A differenza di altri pur brillanti scritti di questi anni, il libro di Chiesa coglie nel loro stretto legame fenomeni quali il profilarsi di una crisi irreversibile dell’eco-sistema, l’agonia degli stati-nazione sotto la scure del debito di proprietà delle banche, il mutamento antropologico dell’uomo occidentale avulso, disancorato dalla realtà e schiavo dei moderni mezzi di comunicazione, lo spirare di nuovi venti di guerra da ovest, da quegli Stati Uniti d’America che non sanno accettare la perdita del ruolo di superpotenza in un nuovo mondo multi-polare.
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Perché l’America si limita a fingere di combattere l’Isis
“Charlie Hebdo”, la falsa morte di Bin Laden, l’aggressione alla Siria e poi all’Ucraina per colpire Putin che non vuole piegare la Russia al codice atlantico, mentre gli Usa cercano di stringere l’Europa nella morsa del Ttip, spaventati dalla Cina che ormai acquisisce la leadership mondiale dell’economia. Tutto chiaro: scenari e retroscena, geopolitica e moventi. Ma il mainstream continua a non prenderne atto, relegando la controinformazione (ormai dilagante) alla sfera del web. Ne abbiamo le prove, ripete il regista Massimo Mazzucco: l’unico terrorismo preoccupante è sempre e solo terrorismo di Stato, strategia della tensione, a partire dal crollo delle Torri Gemelle l’11 Settembre. «Non potrei mai dire chi e come le ha fatte crollare, con quale esplosivo, ma quello che è certo è che sono crollate per demolizione controllata, non certo perché colpite da due aerei di linea». Nel mainstream italiano, spicca una voce isolata e notevole, quella di Marcello Foa, che – dalle pagine del “Giornale” – continua a snocciolare pillole di verità destinate ai non addetti ai lavori. Per esempio, quelle sull’atroce Isis: nessuno ferma i tagliatori di teste perché sono stati messi lì apposta dagli Usa. Ecco il motivo per cui l’Isis non viene annientato.«Chi osserva con disincanto le vicende in Medio Oriente lo ha capito da tempo: l’America che negli anni Duemila ha lanciato una guerra feroce – e decisamente sproporzionata – ad Al Qaeda, ora appare molto svogliata contro una minaccia ben più concreta: quella dell’Isis». Foa non menziona il Pnac, il progetto per il “Nuovo Secolo Americano” che già prima del 2000 annunciava la “guerra infinita” innescata dal terrorismo fatto in casa, con l’obiettivo finale di arginare la Cina entro il 2017. Preferisce limitarsi a osservazioni contingenti, collegando eventi che i media tendono a non collegare mai. «Come ho documentato da tempo – scrive – l’Isis un paio di anni fa è stato usato, armato e finanziato da Arabia Saudita, Emirati Arabi e dagli stessi Stati Uniti nel tentativo di abbattere il regime di Assad. Grazie anche a quei finanziamenti l’Isis si è ampliato, si è rafforzato ed è partito alla conquista di larghe parti dell’Iraq e ha infiltrato i suoi jihadisti in altri paesi, fino alla Libia». Risultato: «L’Isis, come purtroppo ben sappiamo, sta destabilizzando tutta la regione». Ma gli Stati Uniti si guardano bene dal fermarlo.Per molti osservatori internazionali, da Pepe Escobar a Thierry Meyssan, l’Isis è un mostro fabbricato in provetta nei laboratori della Cia e del Pentagono, con la collaborazione di Israele. E’ ancora Mazzucco a ricordare il ruolo di Tel Aviv nel cosiddetto terrorismo islamico: «Alla vigilia della strage di “Charlie Hebdo” fu lo stesso Netanyahu ad avvertire i francesi che, se avessero firmato la dichiarazione a sostegno della nascita dello Stato di Palestina, avrebbero avuto guai, in casa, coi fondamentalisti». E perché mai gli arabi dovrebbero prendersela con chi aiuta i palestinesi? Il ragionamento, ovviamente, non regge. A meno che non lo si capovolga: il problema non sono “gli islamici”, ma chi manovra i fondamentalisti per i propri scopi politici. Come Netanyahu, in prima fila a Parigi alla grottesca parata dei potenti in occasione dei solenni funerali delle vittime di “Charlie Hebdo”. «E’ uno schema banale, che si ripete alla noia, eppure i media fingono di ignorarlo perché sono funzionali a quello stesso sistema», accusa Mazzucco, intervistato da “Border Nights”. Il copione è invariato, cambiano solo gli attori.Le comparse dell’Isis, denuncia Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni”, sono state accuratamente selezionate da manovalanza occidentale, coordinata dalla cupola massonica del massimo potere concentrata nella Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, la superloggia segreta dei Bush che ha reclutato anche leader europei come Blair, Aznar e Sarkozy, oltre al turco Erdogan. Nella “Hathor Pentalpha”, che Magaldi definisce “loggia del sangue e della vendetta”, nata da George Bush padre dopo la sconfitta subita da Reagan alle presidenziali del 1980, sarebbero confkuiti i campioni del vertice neocon americano, da Dick Cheney e Paul Wolfowitz, il falco Donald Rumsfeld, profeti della globalizzazione neoliberista come Samuel Huntington e decine di satelliti regionali, tra cui anche l’ex presidente del Senato italiano Marcello Pera e l’ex ministro della difesa Antonio Martino. Per Magaldi, la “Hathor Pentalpha” ha diretto l’operazione 11 Settembre, in collaborazione con un certo Bin Laden. E poi ha creato il nuovo orrore, quello dell’Isis, non a caso battezzato con il nome della dea egizia, di cui “Hathor” è il secondo nome. Una “firma” piuttosto esplicita, ideata da ambienti esoterici sempre molto attenti ai nomi, alle date, ai numeri che compongono il contenuto simbolico a cui viene attribuito anche un preciso significato propiziatorio.Marcello Foa resta a debita distanza dalle recenti dietrologie, costantemente oscurate dai grandi media, ma non rinuncia a lanciare avvertimenti. L’Isis? «L’America ufficialmente dice di volerlo combattere. E gli alleati arabi, ufficialmente, non sostengono più i miliziani del nuovo Califfato. Ma qualcosa non torna: sarebbero bastate alcune giornate di bombardamenti intesi sulle milizie Isis – stile quelli condotti sulla Libia – per letteralmente annientare l’Isis. Invece, l’America ha dato sì avvio ai bombardamenti, ma con il freno tirato; limitandosi a bombardamenti simbolici. E l’Isis infatti ha continuano ad espandere la sua influenza». Ora, continua Foa, il sospetto degli analisti trova conferma nelle denunce dei piloti americani, che affermano di essere frenati da regole di ingaggio assurde. Foa cita fonti giornalistiche: «Ci sono stati momenti in cui avevo gruppi dell’Isis nel mirino ma non avevo l’autorizzazione a colpire», ha detto a “Fox News” il pilota di un F-18. Può passare anche un’ora, prima che il pilota possa bombardare. Perché? Lo spiegano Mazzucco, Meyssa, Escobar e tutti gli altri. Foa preferisce formulare la domanda: «Perché l’America non vuole distruggere l’Isis? E perché i paesi europei, pur essendo direttamente esposti alla minaccia jihadista, lasciano fare?».“Charlie Hebdo”, la falsa morte di Bin Laden, l’aggressione alla Siria e poi all’Ucraina per colpire Putin che non vuole piegare la Russia al codice atlantico, mentre gli Usa cercano di stringere l’Europa nella morsa del Ttip, spaventati dalla Cina che ormai acquisisce la leadership mondiale dell’economia. Tutto chiaro: scenari e retroscena, geopolitica e moventi. Ma il mainstream continua a non prenderne atto, relegando la controinformazione (ormai dilagante) alla sfera del web. Ne abbiamo le prove, ripete il regista Massimo Mazzucco: l’unico terrorismo preoccupante è sempre e solo terrorismo di Stato, strategia della tensione, a partire dal crollo delle Torri Gemelle l’11 Settembre. «Non potrei mai dire chi e come le ha fatte crollare, con quale esplosivo, ma quello che è certo è che sono crollate per demolizione controllata, non certo perché colpite da due aerei di linea». Nel mainstream italiano, spicca una voce isolata e notevole, quella di Marcello Foa, che – dalle pagine del “Giornale” – continua a snocciolare pillole di verità destinate ai non addetti ai lavori. Per esempio, quelle sull’atroce Isis: nessuno ferma i tagliatori di teste perché sono stati messi lì apposta dagli Usa. Ecco il motivo per cui l’Isis non viene annientato.
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Asse Londra-Pechino: ciao Usa e Ue, godetevi la Merkel
Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.«Com’è noto – scrive Sapelli sul “Sussidiario” – queste tre istituzioni sono dominate dagli Usa e dal Giappone, unitamente a un ruolo secondario, ma importante, degli europei». In una sua relazione del 2010, la Banca Asiatica di Sviluppo sosteneva che, per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area euro-asiatica, si sarebbero dovuti come minimo investire 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. «Finora nulla è stato fatto, ed è per questo che la nuova istituzione, promossa dalla Cina, nel lasso di tempo dal 2013 al 2014, aumentava il suo capitale da 50 a 100 miliardi con l’intervento decisivo dell’India nella cofondazione della stessa banca». In breve, racconta Sapelli, nel 2014 a Pechino si svolse una cerimonia di insediamento della nuova banca a cui parteciparono, oltre alla Cina e all’India, paesi come Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Pakistan, Bangladesh e Brunei, insieme a Cambogia, Laos, Birmania, Nepal, Sri Lanka, e persino Uzbekistan e Mongolia. «Significative anche le firme del Kuwait, dell’Oman e del Qatar, a cui si aggiunsero nel 2015 anche quella della Giordania e dell’Arabia Saudita, nonché del Tagikistan e infine del Vietnam». Ma attenzione: nel 2015 hanno aderito anche Nuova Zelanda e Inghilterra.Sapelli considera «straordinaria» già la notizia dell’adesione della Nuova Zelanda, «che aspira sempre più manifestamente a una politica differenziata rispetto all’Australia», che non a caso nel contesto del “Trans-Pacific Pact” ha firmato con gli Stati Uniti un accordo militare in funzione anti-cinese e dichiaratamente pro-giapponese. «Ma la notizia bomba – sottolinea Sapelli – è quella dell’adesione dell’Inghilterra». Cameron e Osborne, primo ministro e titolare degli esteri, sono stati chiari fin da subito, anche sul “Telegraph”, dichiarando che «il Regno Unito, in primo luogo, ha di mira i suoi interessi nazionali». Il problema, avverte Sapelli, ha gà avuto i suoi risvolti nel contesto della Nato, in cui «il Regno Unito ha diminuito i suoi investimenti in armamenti portandoli sotto il tetto del 2%, soprattutto in armi convenzionali, mentre invece, di contro, aumentava la sua spesa difensiva sul fronte nucleare missilistico, in terra, in cielo, in mare». Il Regno Unito? Non si sta affatto “isolando”. Al contrario: «Si sta sempre più allontanando dall’Europa», e quindi «guarda sempre più al mondo e in primo luogo all’Asia e, con atteggiamento più incerto, all’Africa».Quello a cui Londra sta voltando le spalle è «l’Europa deflazionistica, germanico-teutonica, antirussa». Per Sapelli, questo è «il trionfo postumo della Thatcher, che fu costretta a dimettersi dal suo stesso partito perché non credeva nell’accrocchio di un euro costruito a immagine del marco». Secondo l’analista, questa decisione inglese «avrà conseguenze devastanti in Europa, perché la Francia, da sola, non osa opporsi alla Germania». Quanto all’Europa del Sud, «è profondamente infetta dall’ideologia blairista e neoliberista, che altro non è che l’altra faccia dell’ordoliberalismus tedesco». Di fatto, «il Regno Unito abbandona l’Europa per ritornare a essere una potenza mondiale intracontinentale». E per far questo, «sceglie di allearsi con la Cina in una prospettiva di lungo periodo», ampliando così il solco apertosi con la crisi di Suez del ‘56, quando gli Usa (e l’Urss) si opposero all’invasione inglese dell’Egitto non-allineato di Nasser, mettendo fine al monopolio britannico sul Mediterraneo. Alla nascita del clamoroso asse Londra-Pechino, gli Stati Uniti hanno reagito «in modo convulso, come al solito nervoso, indispettito e privo di lungimiranza strategica». In ogni caso, continua Sapelli, è indubbio che «la ferita è profonda». E l’incapacità egemonica degli Usa «in quest’occasione è apparsa in modo preclaro e drammatico». Infatti, «tutte le famiglie politiche degli Usa sono in preda al caos».La divisione tra Stati Uniti e Gran Bretagna «non potrà che rafforzare la Cina e, di fatto, anche la Russia, con conseguenze inaspettate anche nel Mediterraneo». Nella nuova super-banca cinese, infatti, sono presenti anche Giordania, Arabia Saudita, Oman e Qatar: «Una chiara dichiarazione di guerra diplomatica agli Usa, impegnati in trattative sul nucleare con l’Iran». Inutile aggiungere, conclude Sapelli, che le conseguenze saranno «drammatiche» anche per l’Italia, «paese a sovranità limitata e verso cui il Regno Unito aveva avuto dagli Usa la delega di occuparsi dei suoi esiti governativi e oltre, com’era stato reso manifesto dalla non lontana visita privata della Regina Elisabetta e del suo consorte all’allora presidente Giorgio Napolitano», evento che Sapelli definisce «caso unico al mondo di visita privata di un monarca a un presidente della Repubblica». Tra le ombre che gravano sul nostro paese, anche l’influenza israeliana nell’eventuale dopo-Netanyahu e i rivolgimenti in Libia per mano dell’Isis. Tutto questo, anche alla luce della svolta inglese: chi condizionerà le decisioni strategiche italiane nel Mediterraneo?Sullo sfondo, naturalmente, l’impressionante iniziativa della Cina di Xi Jingping, che «ha iniziato a costruire una possente rete di istituzioni alternative al potere dominante del mondo di oggi, ossia agli Usa». In particolare, Pechino «sta costruendo una rete di istituzioni finanziarie alternative a quelle egemonizzate dagli Usa e dai suoi alleati europei». Si è iniziato con la Brics Bank, che oltre ai cinesi raccoglie Brasile, Russia e India, e si è continuato con la “New Silk Road”, «che unisce in un progetto infrastrutturale e finanziario i paesi che, dalla Mongolia all’Afghanistan, sino alla Turchia, costituiscono il cuore dell’Eurasia, o meglio dell’Heartland, sulla rotta che fu di Alessandro Magno, al quale Xi Jinping si dice spesso idealmente si accomuni». Dinanzi a queste iniziative, «l’Occidente è rimasto muto, sprofondando nel suo autismo germanico in Europa e nella sua dissociazione schizofrenica negli Usa», dove «l’isterico ometto» Netanyahu, invitato dai repubblicani, ha potuto parlare al Congresso sfidando «l’inconsapevole povero Obama». Insomma, «il disordine sta diventando caos». E in questo caos, la Cina avanza. Reclutando addittura l’Inghilterra.Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.
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Sorpresa, ora i sauditi impongono agli Usa di mollare l’Isis
La situazione nel Levante rischia di evolversi rapidamente, in parte a causa della crisi di autorità a Washington e in parte a causa dell’ascesa del principe Salman al trono saudita. Questa evoluzione potrebbe essere facilitata da un’alternanza politica in Israele. In primo luogo, la crisi di autorità che paralizza gli Stati Uniti continua a mobilitare la classe dirigente. Dopo l’appello del presidente onorario del Council on Foreign Relations (Cfr) affinché il presidente Obama si circondi di personalità sperimentate di entrambe le parti, il “New York Times” ha dedicato un editoriale a un rapporto pubblicato nel mese di ottobre dalla Rand Corporation. Il principale think-tank dedicato alle questioni militari ha fatto una inversione ad U nel giro di un anno. A suo parere, la vittoria della Repubblica araba siriana è ormai «l’opzione più desiderabile» per gli Stati Uniti, mentre la sua caduta sarebbe «il peggiore dei risultati». I gruppi armati hanno perso ogni sostegno tra la popolazione urbana, le defezioni si sono fermate da più di un anno e l’esercito siriano continua la sua liberazione del paese.Inoltre, continua la Rand, la vittoria siriana non andrà a vantaggio dell’Iran finché Daesh (l’Isis, ndr) sarà presente in Iraq. L’istituto prevede che gli Stati che hanno fin qui alimentato gli jihadisti smetteranno di farlo. Essi, infatti, non possono sperare di sconfiggere la Siria in questo modo e ora temono che gli jihadisti si rivoltino contro di loro. Pertanto, ha concluso la Rand, non vi sarà alcuna soluzione negoziata con gli Stati sponsor, bensì una netta vittoria del “regime”, alla quale gli Stati Uniti dovrebbero essere associati. Si osserverà il cambiamento radicale della posizione del complesso militare-industriale. Un anno fa, la Rand preconizzava di bombardare la Siria come la Libia, e di condurvi un’azione limitata a terra con la creazione di aree protette amministrate dai “rivoluzionari”. Oggi, ammette implicitamente che non c’è mai stata una rivoluzione in Siria e, dopo un lungo momento di esitazione sul suo futuro, la maggioranza sunnita sostiene nuovamente la Repubblica laica.L’atmosfera a Washington oggi assomiglia a quella all’inizio del 2006, quando l’esercito era impantanato in Afghanistan e in Iraq, mentre Donald Rumsfeld tentava di nascondere la sconfitta. All’epoca, il Congresso istituì la Commissione Baker-Hamilton. Questa, dopo otto mesi di lavoro, concluse che le forze Usa non sarebbero state in grado di stabilizzare il paese che occupavano senza l’aiuto dell’Iran e della Siria. Il quadro della situazione militare che disegnò era così spaventoso che gli statunitensi sanzionarono George W. Bush nelle elezioni di medio termine. Il presidente a quel punto sacrificò Rumsfeld e lo sostituì con un membro della Commissione, Robert Gates. Il nuovo segretario della Difesa concluse degli accordi sul campo con Teheran e Damasco, acquistò i principali gruppi della resistenza irachena (la carota) e aumentò il numero dei soldati lì schierati (il bastone) fino a stabilizzare la situazione.In secondo luogo, in Arabia, il nuovo re Salman ha dapprima cercato di destituire tutti gli ex sostenitori del suo predecessore, arrivando perfino a congedare il principe Miteb e il segretario generale del palazzo due ore dopo la morte di re Abdullah. Poi è ritornato sulle sue decisioni dopo aver ricevuto le condoglianze del suo Signore statunitense. In ultima analisi, Miteb sarà l’unico sopravvissuto dell’era precedente, mentre il principe Bandar è stato licenziato. Ora, Bandar foraggiava Daesh con l’aiuto della Cia, al fine di fare pressione sul re Abdullah nell’interesse del clan dei Sudeiri. La sua cacciata, pretesa dal presidente Obama, segna probabilmente la fine del predominio saudita sul terrorismo internazionale. Questa volta – la quarta – dovrebbe essere quella buona: nel 2010, il principe era stato bandito per aver tentato di organizzare un colpo di Stato, ma era ritornato grazie alla guerra contro la Siria; nel 2012, era stato vittima di un attacco in rappresaglia per l’uccisione di membri del Consiglio di sicurezza nazionale siriano, ma era di nuovo al lavoro un anno dopo, debole e ossessivo; nel 2014, John Kerry ha preteso ancora una volta il suo licenziamento, ma è tornato nuovamente in scena grazie alla crisi egiziana; è stato appena sacrificato dal suo stesso clan, che non gli lascia alcuna prospettiva di ritorno né a breve né a medio termine.In terzo luogo, l’attacco a Hezbollah da parte di Israele, cui è seguita la risposta di Hezbollah contro Israele, evidenzia paradossalmente la debolezza di Benjamin Netanyahu in pieno periodo elettorale. Il primo ministro uscente sperava che la resistenza libanese non fosse in grado di rispondere all’aggressione e che lui uscisse così coronato da questo confronto. Il suo errore di calcolo potrebbe costargli il posto, per la gioia della Casa Bianca che non nasconde più da molto tempo la propria esasperazione per il suo fanatismo. In base agli sviluppi in corso a Washington, a Riyadh e forse presto a Tel Aviv, è ragionevole concludere che, nei prossimi mesi, gli Stati Uniti concentreranno i loro sforzi per escludere Daesh dal Levante per proiettarlo, fuori della loro area di influenza, contro la Russia e la Cina.Da parte sua, l’Arabia Saudita dovrebbe cercare sia di salvare la sua autorità presso i vicini Bahrein e Yemen, fornendo assistenza al gran perdente della guerra contro la Siria, il presidente Recep Tayyip Erdoğan, che il Stati Uniti hanno deciso di abbandonare. Questo sviluppo sarà più o meno lungo a seconda dei risultati elettorali a Tel Aviv. Mentre gli jihadisti sono diventati una minaccia per la stabilità di tutti gli stati nel Levante, compreso Israele, Netanyahu potrebbe continuare a mettere la sua aviazione e i suoi ospedali al loro servizio. Ma non si può immaginare che persisterà quando tutti gli altri Stati della regione li combatteranno. Al contrario, nel caso che il primo ministro perda le elezioni, il suo successore darà immediatamente una mano agli Stati Uniti contro gli jihadisti. Ancora una volta, Damasco, la più antica città abitata del mondo, sarà sopravvissuta ai barbari che volevano distruggerla.(Thierry Meyssan, “Sconvolgimento degli interessi Usa nel Levante”, da “Megachip” del 1° febbraio 2015).La situazione nel Levante rischia di evolversi rapidamente, in parte a causa della crisi di autorità a Washington e in parte a causa dell’ascesa del principe Salman al trono saudita. Questa evoluzione potrebbe essere facilitata da un’alternanza politica in Israele. In primo luogo, la crisi di autorità che paralizza gli Stati Uniti continua a mobilitare la classe dirigente. Dopo l’appello del presidente onorario del Council on Foreign Relations (Cfr) affinché il presidente Obama si circondi di personalità sperimentate di entrambe le parti, il “New York Times” ha dedicato un editoriale a un rapporto pubblicato nel mese di ottobre dalla Rand Corporation. Il principale think-tank dedicato alle questioni militari ha fatto una inversione ad U nel giro di un anno. A suo parere, la vittoria della Repubblica araba siriana è ormai «l’opzione più desiderabile» per gli Stati Uniti, mentre la sua caduta sarebbe «il peggiore dei risultati». I gruppi armati hanno perso ogni sostegno tra la popolazione urbana, le defezioni si sono fermate da più di un anno e l’esercito siriano continua la sua liberazione del paese.
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
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Falchi, Wall Street e Israele: tutti pazzi per Hillary Clinton
Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.Se la propaganda presenterebbe la candidatura come opportunità di ringiovanimento e simbolo di speranza e cambiamento, ci pensa “Politico Magazine” a chiarire “perché Wall Street ama Hillary”, spiega Greenwald, in un post ruipreso da “Controinformazione”. «Giù a Wall Street non credono alla retorica populista della Clinton neanche per un minuto», scrive il magazine. «Mentre l’industria finanziaria effettivamente odia Warren, i grandi banchieri amano la Clinton e in linea di massima la vogliono a tutti i costi come presidente». Tra i super-banchieri dalla sua parte, oltre a Blankfein, spiccano James Gorman e Tom Nides (Morgan Stanley), nonché i capi di Jp Morgan Chase e Bank of America. «Considerano la Clinton una pragmatica risolutrice di problemi poco propensa alla retorica populista», scrive “Politico Magazine”. «Per loro è una che ha l’idea che tutti beneficiamo se Wall Street e il business americano prosperano». Ardente retorica populista? «Nessuno di loro pensa che lei faccia sul serio». La sostanza: «Wall Street, soprattutto, ama i vincitori, tanto più quelli che difficilmente toccheranno troppo il suo salvadanaio».Altro caposaldo della scalata di Hillary, la lobby israeliana. «Se dovesse diventare presidente, rapporti migliori con Israele sarebbero praticamente garantiti», assicura “Foreign Policy”. «Non dimentichiamo che i Clinton hanno già trattato con Bibi primo ministro». Non è mai stato facile, ma il rapporto con Netanyahu era chiaramente «molto più produttivo di quanto vediamo adesso», con Obama. Hillary? «E’ buona per Israele e si relaziona al paese in un modo in cui questo presidente non fa». La Clinton «è di un’altra generazione, e ha lavorato in un mondo politico in cui essere buoni per Israele era sia obbligatorio che intelligente», cioè conveniente. «Siamo chiari: quando si tratta di Israele, non esiste un Bill Clinton 2.0». L’ex presidente è stato probabilmente “unico”, sia «per la profondità dei suoi sentimenti per Israele» che per «la sua disponibilità a mettere da parte le proprie frustrazioni per certi aspetti del comportamento di Israele, come gli insediamenti». Ma questa intesa vale anche per Hillary, garantisce “Foreign Policy”. «Sia Bill che Hillary sono così innamorati dell’idea di Israele e della sua storia unica che sono propensi a fare certe concessioni sul comportamento del paese, come la continua costruzione di insediamenti».Poi ci sono loro, gli interventisti (ovvero i fanatici della guerra). Come Robert Kagan, il super-falco dell’entourage di Obama, marito di Victoria Nuland, architetto del golpe di Kiev per rovesciare il governo ucraino regolarmente eletto e aprire la sfida anche militare con Mosca. Molti “interventisti” come Kagan ripongono le loro speranze proprio nella Clinton, conferma il “New York Times”. «Mi sento a mio agio con lei in politica estera», ha ammesso Kagan, aggiungendo che il prossimo passo, dopo l’approccio “realista” di Obama, «potrebbe in teoria essere qualsiasi cosa Hillary porti in tavola», se eletta alla presidenza. «Se perseguirà la politica che noi crediamo perseguirà», ha aggiunto Kagan, «è qualcosa che si potrebbe chiamare neoconservatrice, ma chiaramente i suoi sostenitori non la definiranno così, la chiameranno in modo diverso». Di fatto, però, le idee sono quelle dei neo-con. Che sempre il “New York Times” ipotizza siano pronti ad allearsi con Hillary, «dopo quasi un decennio di esilio politico». Ovvero: «Mentre castigano Obama, i neo-con forse si stanno preparando per un’impresa più sfrontata: allinearsi con Hillary Rodham Clinton e la sua nascente campagna presidenziale, nel tentativo di tornare al posto di comando della politica estera americana». Lo conferma Max Boot, membro del Council on Foreign Relations: «Nei consigli dell’amministrazione, Hillary era una voce di principio per una posizione forte su questioni controverse, che fosse a supporto dell’insorgenza afghana o dell’intervento in Libia».Esatto: «La signora Clinton ha votato per la guerra in Iraq, ha supportato l’invio di armi ai ribelli siriani, ha paragonato il presidente russo Putin ad Adolf Hitler», scrive il “New York Times. Tuttora, Hillary «supporta appassionatamente Israele e sottolinea l’importanza di “promuovere la democrazia”». Dunque, «è facile immaginare che la signora Clinton nella sua amministrazione farà spazio ai neo-con. Nessuno la potrebbe incolpare di essere debole, nella sicurezza nazionale, con uno come Robert Kagan a bordo». Nel 1972, il primo a tracciare l’identità trasversale della lobby neo-con fu Robert Bartley, editorialista del “Wall Street Journal”, vicino ai neo-con: Bartley, dice il “New York Times”, «definì acutamente il movimento come “un gruppo altalenante tra i due maggiori partiti”», nonostante la decantata democrazia dell’alternanza bipolare. «Perciò beccatevi questo, cinici», conclude Greenwald. «Ci sono sacche di vibrante eccitazione politica che si stanno entusiasmando nel paese per una presidenza di Hillary Clinton. Si fanno poster, si attaccano distintivi, si preparano assegni, si bramano appuntamenti. I costituenti uniti, alleati, sinergici della plutocrazia e della guerra senza fine hanno la loro beneamata candidata. Ed è davvero difficile argomentare che la loro eccitazione ed affetto non sia giustifica».Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.
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Udi Segal, eroe: in galera, pur di non sparare su Gaza
«Fuoco sui civili di Gaza? Non in mio nome. Piuttosto, vado in prigione». E’ il destino che attende Udi Segal, 19 anni, soldato israeliano: sei mesi di carcere, per essersi rifiutato di partecipare all’ennesimo massacro contro i palestinesi. «Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele», sostiene Aldo Giannuli. «Tanto più importante, la scelta di Udi e degli altri come lui, di fronte al vergognoso e complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale», rincara la dose Fabio Marcelli sul “Fatto Quotidiano”. «Comunità di ipocriti, bugiardi e mestatori che ha un esponente esemplare nel “nostro” Matteo Renzi e nella sua ministra degli esteri Mogherini, incapaci di articolare una proposta o protesta degna di questo nome di fronte alla strage degli innocenti che continua ad aver luogo a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste».Lo stesso Marcelli racconta che, anni fa, ebbe occasion di incontrare a Tel Aviv alcuni “Refuseniks”, esponenti del movimento israeliano contro la guerra, molti dei quali militari. «Erano i tempi della seconda Intifada: altri massacri, tuttora impuniti, si erano svolti da poco a Jenin ed altrove». Aggiunge Marcelli: «Rimasi colpito davvero dalla tranquilla fermezza di quelle persone, degne esponenti di una cultura millenaria cui l’umanità deve moltissimo, degni continuatori dei ribelli che difesero con le armi la loro vita e la loro dignità nel ghetto di Varsavia contro gli assassini nazisti». Una cultura civile e una nobile storia «che oggi Netanyahu e altra gentaccia della sua risma, i veri antisemiti, rischiano di gettare per sempre in una pattumeria piena di sangue e di bugie». Costretti a vivere in una società ostile, i giovani obiettori israeliani, in un paese in cui «crescono a vista d’occhio le malepiante dell’odio razziale e del fascismo». Eppure, «coraggiosamente, continuano a chiedere il dialogo e una pace giusta, così come chiedono giustizia per tutte le vittime innocenti di questa guerra insensata».Udi Segal sarà rinchiuso per sei mesi nel carcere militare Prison Six. «Israele può continuare questa occupazione, “but not in my name”, non nel mio nome», dichiara a Gianni Rosini del “Fatto”. Se un sondaggio del “Jerusalem Post” rivela che l’86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all’operazione “Protective Edge”, sul fronte opposto sono almeno 50 i soldati dell’Idf, l’Israel Defense Force, che hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all’operazione. «E migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionisti “Neturei Karta”, stanno manifestando nelle piazze contro l’attacco israeliano a Gaza». L’appoggio del paese alla politica di Netanyahu è ancora forte, ammette il giovane Segal, «ma ci sono molte persone che sono stanche di questa guerra: solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione».«Quando mi sono avvicinato all’età della leva obbligatoria – racconta Segal – ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione». In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. «Non so ancora di preciso quanto rimarrò in cella – continua il ragazzo – anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro». Gli altri 50 soldati obiettori la pensano come lui. Lo spiegano in una lettera al “Washington Post”: «Ci opponiamo all’esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare».Gli israeliani, scrive Giannuli, sono già al massimo dei rapporti di forza nei confronti dei loro avversari, «a meno di non pensare davvero ad un genocidio, cosa che immaginiamo (e speriamo) ripugni la maggioranza della stessa opinione pubblica israeliana». A ben vedere, osserva lo storico dell’ateneo milanese, «lo Stato d’Israele esce indebolito da questa “brillante” operazione militare: persino gli Usa mostrano maggiore freddezza del passato e cresce il suo isolamento internazionale, l’opinione pubblica europea è disgustata mentre si risolleva una preoccupante ondata di antisemitismo», al punto che «la memoria del genocidio ebraico ne è sporcata e logorata», mentre nei paesi arabi «si ridestano gli umori più ostili a Israele rimettendo in discussione l’accettazione della sua esistenza. Vi sembrano costi politici da poco? E per aver ottenuto cosa? Questa offensiva ha comportato autentici crimini di guerra che non saranno perseguiti solo perché sul banco degli imputati ci vanno i vinti, e Israele non lo è».Domanda: quanto peserà l’obiezione di coscienza di alcune decine di militari, di fronte all’ennesima mattanza? Furono molti i soldati che, all’epoca, rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Un “rifiuto selettivo” che poi si estese ai Territori Occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere in Cisgordania e Gaza, ricorda ancora il “Fatto”, si chiama “Ometz LeSarev” o anche “Courage to Refuse”, coraggio di rifiutare. I 623 componenti del movimento dei “refuseniks”, formatosi nel 2002 e guidato da un ex generale dell’aviazione, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare: per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al Premio Nobel per la Pace.Tutto inutile, però, secondo Fabio Marcelli, fino a quando l’ipocrita Occidente continerà imperterrito «il traffico di armi e il sostegno, sia politico che militare, nei confronti del governo assassino» di Netanyahu, perfettamente consapevole che i tre studenti israeliani rapiti – casus belli dell’ultimo massacro – non erano finiti nelle mani di Hamas. I colpevoli siamo anche noi: il Tribunale Penale Internazionale rifiuta di tutelare i palestinesi. «A fronte di questa e altre vergognose manifestazioni di codardia e realpolitik», cioè subalternità al potere imperiale Usa, «occorre continuare la lotta per una giusta pace in Medio Oriente: lo dobbiamo alle mille e più vittime innocenti di Gaza, lo dobbiamo a Udi, ai giovani israeliani che rifiutano la guerra».«Fuoco sui civili di Gaza? Non in mio nome. Piuttosto, vado in prigione». E’ il destino che attende Udi Segal, 19 anni, soldato israeliano: sei mesi di carcere, per essersi rifiutato di partecipare all’ennesimo massacro contro i palestinesi. «Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele», sostiene Aldo Giannuli. «Tanto più importante, la scelta di Udi e degli altri come lui, di fronte al vergognoso e complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale», rincara la dose Fabio Marcelli sul “Fatto Quotidiano”. «Comunità di ipocriti, bugiardi e mestatori che ha un esponente esemplare nel “nostro” Matteo Renzi e nella sua ministra degli esteri Mogherini, incapaci di articolare una proposta o protesta degna di questo nome di fronte alla strage degli innocenti che continua ad aver luogo a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste».
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Caracciolo: polveriera Gaza, il Medio Oriente è impazzito
Parrebbe la solita storia: Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse. Quindi, aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili. A seguire, spedizione punitiva, stivali per terra, nella Striscia. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio: è cambiato il contesto, avverte Lucio Caracciolo. Stanno mutando i rapporti di forza all’interno delle leadership palestinesi e israeliana. Soprattutto, «il Grande Medio Oriente si sta disintegrando: dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua», dopo le “primavere arabe” e le contro-rivoluzioni di marca saudita che hanno prodotto solo «guerre, miseria, precarietà».Esempio, il golpe egiziano con tentativo tuttora in corso di annegare nel sangue la Fratellanza musulmana. E poi «la disintegrazione della Libia, il massacro permanente sulle macerie della Siria e la mai spenta guerra civile in Iraq», che ora ha visto riemergere «le tribù sunnite e i vedovi di Saddam, insieme ai jihadisti dell’Isis, inventori dell’improbabile “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi». Sullo sfondo, scrive il direttore di “Limes”, c’è il rischio che anche la Giordania, «battuta da cotante onde sismiche», finisca per crollare. Grandi domande: quanto e come potrà tenere l’Arabia Saudita, che stenta a riprendere il controllo dei “suoi” jihadisti e altri agenti scagliati contro il regime di Assad e gli sciiti iracheni, impegnati a liquidare i Fratelli Musulmani? Inoltre, che fine farà il disegno dell’Iran di «rientrare a pieno titolo nella partita internazionale sacrificando le proprie ambizioni nucleari sull’altare di un accordo con gli Stati Uniti?». Di conseguenza, «Obama vorrà portare fino in fondo il suo ritiro dal Medio Oriente, o sarà costretto a smentirsi per non perdere quel che resta della credibilità americana nella regione e nel mondo?».Nel campo palestinese, continua Caracciolo, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. «Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale». Abu Mazen «si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani». Ma la “pax cisgiordana” degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio dei tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite. «In questa vicenda – prosegue il direttore di “Limes” – è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso». Sicché, «l’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione».A compiere quel crimine si dice siano stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che «si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale». Dunque una scheggia impazzita, non certo un referente militare della «peraltro divisa» leadership di Gaza. La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, sottolinea Caracciolo, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. «Spirale infinita, ma non uguale a se stessa: a ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso». La crisi «potrà essere sedata, magari a lungo», ma «non risolta». Così, Netanyahu «rischia di fare i conti con gli effetti imprevisti del machiavellismo con cui lui, come i suoi predecessori, ha pensato di chiudere la partita palestinese giocandone le fazioni una contro l’altra». L’opinione pubblica israeliana, angosciata dalla continua pioggia di razzi, sta spingendo il premier ad alzare il tiro. «L’estrema destra lo accusa di passività, la coalizione di governo perde pezzi (Avigdor Lieberman) e il suo aspirante successore, Naftali Bennett, affila le armi. Risultato: 40 mila riservisti sono mobilitati e una nuova campagna di terra dentro Gaza sembra imminente».Invadere Gaza, dunque. Ma con quale obiettivo? «Una soluzione radicale dovrebbe prevedere la rioccupazione della Striscia: impossibile senza un bagno di sangue, con perdite considerevoli anche fra i soldati israeliani». L’ultima cosa che Gerusalemme vuole, sostiene Caracciolo, è «riaccollarsi la responsabilità di quell’inferno da cui Sharon seppe smarcarsi quasi dieci anni fa». Incognite pericolose: «La storia non si ripete. Massimo, fa rima. E illude. Tutti i contendenti pensano di recitare un copione scritto. Anche volendo, non possono. Dentro e intorno a casa, tutti hanno preso a correre all’impazzata. Verso dove, nessuno sa. Meno che mai quelli che pensano di saperlo».Parrebbe la solita storia: Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse. Quindi, aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili. A seguire, spedizione punitiva, stivali per terra, nella Striscia. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio: è cambiato il contesto, avverte Lucio Caracciolo. Stanno mutando i rapporti di forza all’interno delle leadership palestinesi e israeliana. Soprattutto, «il Grande Medio Oriente si sta disintegrando: dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua», dopo le “primavere arabe” e le contro-rivoluzioni di marca saudita che hanno prodotto solo «guerre, miseria, precarietà».
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Vattimo: vorrei armare Hamas contro i nazisti israeliani
«Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali». Sembrano scolpite nel marmo, le parole che il filosofo Gianni Vattimo consegna ai microfoni di “Radio24”. «Andrei a Gaza a combattere a fianco di Hamas», aggiunge l’ex europarlamentare. «Direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista. E ci vuole una resistenza». Vattimo si spinge oltre: dice che lancerebbe una campagna per raccogliere fondi e consentire ai palestinesi di difendersi, con vere armi, adatte a fronteggiare l’aggressione israeliana. Una voce, la sua, assolutamente isolata, nel grande silenzio che avvolge gli intellettuali, come rileva Renato Rallo: su Medio Oriente e Palestina, ormai, vige la consegna dell’indifferenza.«C’è una nuovissima, meravigliosa avanguardia tra gli intellettuali-de-sinistra (Michele Serra, Christian Raimo, Ida Dominijanni e tanti altri) sul conflitto in Medioriente: gli esaltatori del silenzio», scrive Rallo su “L’Intellettuale Dissidente”. «Laddove l’intellettuale deve sempre necessariamente prendere una posizione, anche solo perchè dovrebbe sapere meglio di tutti che l’imparzialità è un’utopia (o un’omertà), essi invece tacciono, e se ne vantano. Tra gli argomenti, oltre alla già nota “tragedia da entrambe le parti”, la “complessità della situazione”, spunta la geniale novità: la stanchezza. Ebbene sì, gli intellettuali-de-sinistra non prendono più posizione sul conflitto israelo-palestinese perchè sono stanchi della ripetitività della situazione, dell’impotenza, e questa noia li uccide al punto che non riescono neanche più a scrivere due righe sul sionismo». La loro “ipersensibilità filantropica”, aggiunge Rallo, li costringe «ad un silenzio colto, tenebroso, raffinato, ed invita il pubblico a fare altrettanto. Un’elegantissima orazione funebre in onore di un popolo che però, sfortunatamente, ancora deve morire».Non è solo la paura di “uscire dal giro” ad impedire a molti opinion leader di «dire una-parola-una sull’apartheid israeliana, sulle radici di quest’ennesimo episodio di pulizia etnica». Aggiunge Rallo: «Non hanno paura: si stanno solo annoiando». Un “consiglio” ai palestinesi? «Smettetela di morire in modo così banale: non so, magari prima che il vostro corpo venga dilaniato da una bomba, mangiatevi dei coriandoli». Non ha bisogno di incoraggiamenti, invece, il professor Vattimo: proprio lui, teorico del “pensiero debole”, si esprime nel modo più drastico sulla storica controversia, tragicamente rinverdita dalle bombe “intelligenti” di Netanyahu. E denuncia anche il colpevole assenteismo dei media mainstream: «Tutta l’informazione, compresa la stampa italiana, piange sul fatto che c’è una pioggia di missili su Israele. Però Hamas quanti morti ha fatto? Nessuno».Vogliamo parlare dei palestinesi? «I poveretti non hanno armi, sono dei miserabili tenuti in schiavitù, come tutta la Palestina. Hanno dei razzetti per bambini». Meritano di avere la possibilità di difendersi, dice Vattimo: «Voglio promuovere una sottoscrizione mondiale per permettere ai palestinesi di comprare delle vere armi e non delle armi giocattolo. Cominciamo a distruggere il nucleare israeliano, Israele è lo Stato-canaglia che ha il nucleare». Alla domanda se sparerebbe contro gli israeliani, il filosofo ammette: «Io sono un non-violento, però contro quelli che bombardano ospedali, cliniche private e bambini sparerei, ma non ne sono capace». E aggiunge: «Gli ebrei italiani dalla parte di Israele sono gli ex fascisti, che adesso sono dalla parte dell’America. La comunità ebraica italiana è rappresentata da quell’ossimoro che è Pacifici, ma ci sono molti ebrei d’accordo con me. Li c’è uno Stato nazista che cerca di sopprimere un altro popolo. E io ce l’ho con lo Stato di Israele, non con gli ebrei».«Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali». Sembrano scolpite nel marmo, le parole che il filosofo Gianni Vattimo consegna ai microfoni di “Radio24”. «Andrei a Gaza a combattere a fianco di Hamas», aggiunge l’ex europarlamentare. «Direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista. E ci vuole una resistenza». Vattimo si spinge oltre: dice che lancerebbe una campagna per raccogliere fondi e consentire ai palestinesi di difendersi, con vere armi, adatte a fronteggiare l’aggressione israeliana. Una voce, la sua, assolutamente isolata, nel grande silenzio che avvolge gli intellettuali, come rileva Vittorio Ray: su Medio Oriente e Palestina, ormai, vige la consegna dell’indifferenza.
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Una parlamentare: uccidete tutte le madri palestinesi
«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».Ayelet Shaked, rileva il newsmagazine “Fronte Sud News”, ha espressamente invocato l’uccisione di tutte le madri palestinesi, quelle che partoriscono i «piccoli serpenti» destinati a odiare Israele, lo Stato-prigione che nega loro ogni diritto sottoponendoli a vessazioni quotidiane e durissime repressioni anche in tempo di “pace”, quando cioè non si levano in volo i bombardieri che radono al suolo centinaia di case con dentro le loro famiglie. Le dichiarazioni della Shaked, sottolinea “Sponda Sud”, «sono considerate un vero e proprio invito al genocidio nei confronti dei palestinesi, considerati tutti nemici di Israele e dunque da eliminare». Parole sanguinarie, che ancora nel 2014 hanno libero corso in un paese che dopo decenni non riesce ad ammettere di essere nato, storicamente, dal “peccato originale” della pulizia etnica contro i palestinesi, come ricorda il professor Ilan Pappe, il più importante storico israeliano. Un genocidio avviato molto prima di Auschwitz e poi rimosso dai maggiori leader, tutti ex terroristi ricercati dalle autorità coloniali inglesi prima della Seconda Guerra Mondiale.Contro le sanguinarie parole di Ayelet Shaked, riferisce “Press Tv”, si è scagliato anche il premier turco, Recep Tayyip Erdoğan: «Una donna israeliana ha detto che le madri palestinesi devono essere uccise. Questa donna è un membro del Parlamento israeliano: qual è la differenza tra questa mentalità e Hitler?». Il premier turco ha inoltre accusato Israele di fare del terrorismo di Stato contro i palestinesi nella regione. Parlando in Parlamento, Erdoğan ha anche criticato il silenzio del mondo verso le atrocità commesse da Tel Aviv contro il popolo palestinese, in particolare nella Striscia di Gaza. Se Erdoğan parla anche per ragioni di politica interna – i turchi non hanno dimenticato l’aggressione della marina israeliana contro la Freedom Flotilla che portava aiuti umanitari nella Striscia – colpisce la incredibile sordità della “comunità internazionale” di fronte all’ennesimo massacro ordinato dal governo Netanyahu. Data la situazione, le terribili parole di Ayelet Shaked sono più illuminanti del bagliore dei missili.«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».