Archivio del Tag ‘Blowin’ in the wind’
-
Vaccini e falsi profeti: Bob Dylan contro la mafia del Covid
Il diavolo non veste Prada: di questi tempi va in giro con in mano una siringa mortale, truccata da regalo, che puzza di vaccino lontano un miglio. E’ dedicato al Demiurgo degli gnostici – il Dio Straniero dei catari – l’ultimo guanto di sfida (il terzo, in poche settimane) lanciato dallo stupefacente Bob Dylan, 79 anni a fine maggio. Un blues lento e accidentato, scandito da chitarre sulfuree, tra Muddy Waters e Tom Waits, e presentato da un’icona inequivocabile: uno spettro vestito a festa, da banditore ottocentesco. Il riferimento dell’immagine – trasmessa via web nella notte tra il 7 e l’8 maggio, per accompagnare l’ennesimo, esplosivo brano inedito, “False Prophet” – è all’Uomo Ombra, «il personaggio misterioso creato da Walter Gibson, dal 1931 protagonista di “The Shadow”, il primo magazine pulp interamente dedicato a un singolo “character hero” e progenitore di giustizieri, cupi e solitari, come Batman», annota Valeria Rusconi su “Repubblica”. Ma se lo spettro tenebroso di Gibson impugna una pistola, quello di Dylan – che a sua volta ha sottobraccio un pacco regalo – brandisce una siringa, nientemeno. «A chi sta pensando, Bob Dylan? Qual è il dono che porta la morte?».Per intuirlo basta guardarsi attorno, tra i cimiteri del Covid-19 e le ombre che si allungano, giorno per giorno, sull’incerta origine della pandemia e sulle altrettanto opache manovre per specularvi sopra, come racconta la guerra politica fra Trump e l’Oms “cinese”, il guru Anthony Fauci, il presunto “falso profeta” Bill Gates e i suoi seguaci diffusi ovunque. E’ il coronavirus – o meglio, il clan che lo starebbe “sovragestendo” – l’obiettivo del grande cantautore americano, Premio Nobel per la Letteratura, che il 27 marzo ha sparato wordlwide il capolavoro “Murder Must Foul”, struggente ballad che rievoca l’omicidio di John Kennedy. Il brano lascia spazio a un’accusa velata: il sospetto che, dietro al superpotere che sta cercando di impossessarsi del pianeta sottoponendolo alla “dittatura sanitaria”, vi siano gli eredi dell’esclusivo club oligarchico che nel 1963 fece assassinare il presidente della New Frontier, reclutando la mafia di Chicago sotto la supervisione della Cia e dell’Fbi, con il placet di Lyndon Johnson, Richard Nixon e George Bush.E’ il potere nero, golpista, che avrebbe imposto il neoliberismo a mano armata con il colpo di Stato in Cile che rovesciò e uccise Salvador Allende l’11 settembre del 1973. Lo stesso Deep State che poi, trent’anni dopo – in un altro 11 settembre – avrebbe terremotato il pianeta, abbattendo le Torri Gemelle per imporre il terrore “islamista”, da Al-Qaeda fino all’Isis. Esauriti i mostri creati in laboratorio deformando l’Islam, ora saremmo di fronte all’ennesimo esperimento di dominio, sempre fabbricato in vitro, ma in altri laboratori: un mostro fondato sul terrore sanitario. Vaneggiamenti? Tutt’altro, sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014). La tesi: una cupola mondiale di superlogge – dalla “Three Eyes” di Kissinger alla “Hathor Pentalpha” dei Bush – ha strapazzato il mondo, per piegarlo ai suoi voleri: dal manifesto “The crisi of democracy” del 1975 (Commissione Trilaterale) al neoliberismo-canaglia, quello che oggi – nella gabbia Ue – impedisce all’Italia persino di difendersi, finanziariamente, dalla catastrofe Covid. Ma che c’entra, Bob Dylan?«C’entra eccome», sostiene Magaldi, che un mese fa è stato autorizzato a comunicare ufficialmente la notizia: l’autore di “Blowin in the wind”, «da sempre massone ultra-progressista», fa parte del circuito massonico internazionale che si sta opponendo, con ogni mezzo, al “tentativo di golpe” che ritiene sia in corso: il brutale sequestro di miliardi di persone, terrorizzate da un virus misterioso e sottoposte al coprifuoco da parte di governi che hanno prontamente sospeso libertà e democrazia, obbedendo a oscuri tecno-scienziati. Peggio: l’alleanza massonico-progressista (di cui Dylan è parte) sospetta che sia all’opera lo stesso potere che assassinò Kennedy a Dallas nel ‘63. Ecco perché il menestrello di Duluth è uscito allo scoperto. Conferma Magaldi: «Bob Dylan è sceso in campo ufficialmente: si sente un soldato, deciso a combattere a viso aperto».Senza questa chiave di lettura, agli esegeti della dirompente tripletta scodellata da Dylan in poco più di un mese (”Murder Most Foul”, “I Contain Multitudes” e ora “False Prophet”) non restano che considerazioni preliminari: «Rimaniamo qui, stupiti, ancora incantati, brancolanti nel buio, cercando in un disco i segreti del nostro tempo», scrive sempre Valeria Rusconi nel suo bellissimo articolo su “Repubblica”. Le fa eco Federico Vacalebre sul “Mattino” di Napoli: «L’uomo che contiene moltitudini è tornato, non resta che aspettare il 19 giugno: non sono solo canzonette». Attenti alla data: è la vigilia del solstizio d’estate il giorno prescelto per l’uscita ufficiale del doppio album “Rough and Rowdy Ways”, che ricalca l’omonima opera pubblicata nel lontano 1926 da Jimmie Rodgers, una delle fonti d’ispirazione di Dylan. Quelle “maniere ruvide e turbolente” conterranno quindi la trilogia uscita per ora a rate, in queste settimane con le anticipazioni sui social a cui la stampa ha dato il massimo risalto, interrogandosi sull’improvvisa loquacità del grande artista americano, il cui ultimo album originale, “Tempest”, risale al 2012.Meglio tenere gli occhi aperti, annota anche “Rai News”, visto che il funereo “False Prophet” arriva appena dopo la pubblicazione di “I Contain Multitudes”, dove la voce di Dylan, a partire dalla citazione di “Foglie d’erba” di Walt Whitman, canta delle sue infinite sfaccettature nel suo consueto modo spiazzante («Sono come Anna Frank, come Indiana Jones, e come quei cattivi ragazzi inglesi, i Rolling Stones»). A loro volta, le “moltitudini” anticipate il 17 aprile sono il sequel, intimistico, dell’orazione commossa per Jfk, «dedicata all’America e alla sua musica – dice sempre “Rai News” – a partire dal trauma collettivo dell’assassinio di Kennedy a Dallas». Adesso siamo all’atto terzo, il “falso profeta”, che prelude a un disco la cui tempistica – un attimo prima della “resurrezione” stagionale del sole – fa pensare alle previsioni degli astrologi, secondo cui siamo tuttora immersi in un’altra vigilia, di tipo cosmico: questa immane tribolazione, calcolano, cesserà fra tre anni e mezzo, visto che il 2024 segnerà un passaggio d’epoca paragonabile a quello che tenne a battesimo la Rivoluzione Francese e quella americana, dando corso a 200 anni di vertiginosi progressi sociali, le grandi conquiste da cui è nata la modernità democratica.Niente di casuale, probabilmente, se Dylan – la cui cifra iniziatica è stata definitivamente svelata – ha abituato l’immenso popolo dei suoi fan (36 milioni di dischi venduti) al gusto per i simboli, nel gioco di specchi della tradizione esoterica. Bibbia e stelle, tarocchi, mitologia e archetipi: il materiale perfetto di chi ama parlare per enigmi. Stavolta però le parole si fanno anche esplicite, sia pure sempre attraverso il raffinato doppio fondo della poetica dylaniana: «Ciao straniero, un lungo addio. Hai governato la terra, ma l’ho fatto anch’io». Riecheggia il Dio Straniero, il Demiurgo gnostico responsabile della creazione “dannata” della materia. «Hai perso il tuo mulo», lo sfotte Dylan: fulmineo rimando all’animale-totem dei Vangeli (l’avvento di Cristo a Gerusalemme, in sella un asinello) e più ancora a Genesi 49, il passo biblico in cui i Rosa+Croce individuano la sacralità dell’investitura regale di Giuda, che «lega alla vite il suo asinello». Giuda, il cui discendente Davide («il Re che suona l’arpa») lampeggia tra i versi di “Murder Most Foul”, in cui è Kennedy a indossare i panni del nuovo “re di giustizia” davidico, «secondo a nessuno».Stesso verso, identico, anche in “False Prophet”: «Second to none», si autodefinisce lo spettro vendicatore dell’ultima scorribanda di Dylan, che sfida il Demiurgo: «Hai un cervello avvelenato», gli dice, introducendo una categoria – il veleno – più che mai attuale, nel mondo devastato dal coronavirus e insidiato dalle troppe voci sui vaccini inaffidabili (come quelle rilanciate da Robert Kennedy, figlio di Bob, in prima linea nella battaglia contro l’ipervaccinista Bill Gates). «Ti sposerò a una palla al piede», gli promette Dylan in versione templare, con un’evidente allusione a San Bernardo: incatenare il diavolo è proprio la specialità – nell’iconografia medievale – dell’ispiratore dell’Ordine del Tempio. Quello di San Bernardo è un diavolo terreno: ciascuno deve riconoscerlo come parte di sé, per poterlo tenere a bada. Diverso il demone (gnostico, creatore) contro cui si scaglia l’altro uomo-simbolo della cristianità medievale ora richiamato in servizio da Dylan, il Sant’Agostino della città celeste: «Povero diavolo, alza lo sguardo se vuoi: la città di Dio è lì sulla collina».Versi urlanti, mutuati dalla teologia dualistica ereticale: «So come è successo, l’ho visto cominciare: ho aperto il mio cuore al mondo e il mondo è entrato». Lo zampino del “diavolo” nella creazione, la Terra come regno provvisorio delle tenebre (Ahriman, per la cosmogonia di Zoroastro) compare già – sotto mentite spoglie – nell’incipit del brano: il verso «ciao, Mary Lou», omaggio apparente al country-western, mette insieme due opposti, Maria (la Madonna) e Lucifero. Insieme a «miss Pearl», Mary Lou è una guida per il viaggio dantesco negli inferi, evocato in una strofa dedicata al “principe ribelle”: «Nessuna stella nel cielo brilla più di te», ammette lo spettro, pensando al mitico occhio del grande eversore, la pietra preziosa («miss Pearl»?) contro cui però si schiera in modo categorico: «Sono nemico del conflitto», della divisione (da “diaballo”, dividere: l’etimologia greca del vocabolo “diavolo”). E attenzione: «Sono il nemico del tradimento» (altro riferimento alla fine di Kennedy, tradito dal suo stesso establishment). L’uomo che cerca «il Santo Graal in tutto il mondo», che ha «scalato montagne di spade a piedi nudi» (omaggio alla spiritualità orientale), ora va per le spicce: «Sono qui apposta per portare vendetta sulla testa di qualcuno».E’ il “soldato Dylan”, a parlare: e il diavolo che inquadra nel mirino è quello che sta dilagando, oggi, in tutto il pianeta. Un diavolo terreno, molto politico e non così antico, se contro di lui si abbatterà la vendetta dello spettro che intende fare giustizia, dopo oltre mezzo secolo, dell’infame sorte inflitta a John Kennedy. «Non mi conosci», dice l’Uomo Ombra, «non indovineresti mai: non ho niente ha che fare con quello che il mio aspetto spettrale suggerirebbe». A scanso di equivoci, assicura: «Non sono un falso profeta». E se qualche sprovveduto pensasse ai deliri del satanismo, piaga sociale attribuita persino a una parte insospettabile dello star-system, l’ossuto giustiziere precisa: «No, non sono la sposa di nessuno». Nel brano “I Contain Multitudes”, alludendo ai massoni ribelli che diedero origine alla leggendaria pirateria caraibica, Dylan annunciava: «Porto quattro pistole e due lunghi coltelli». Ora parla attraverso il profeta-fantasma, che falso profeta non è: «Non riesco a ricordare quando sono nato, e ho dimenticato quando sono morto».Sottotraccia, l’esoterista Dylan maneggia numeri: «Play numer 9, play number 6», invitava in “Murder Most Foul”, invocando la simbolizzazione dell’armonia universale. E ora, il suo “False Prophet” – così torvo e scuro – sfodera addirittura il 4, emblema della forza radiante dell’amore che la tradizione iniziatica attribuisce al quadrato. Le strofe sono dieci, ma raggruppate in quattro blocchi separati da tre intervalli: quattro più tre, cioè sette – ovvero otto, come direbbe il simbologo Michele Proclamato, che in tanti libri ha declinato quella che chiama “legge dell’Ottava”, cifra nascosta del segreto della vita. Con una clausola: l’8, mai esplicitato, corrisponde al salto dimensionale, “quantico” che ciascuno può compiere, a patto di scegliere l’amore. Coincidenze, ghirigori intellettuali? Non oggi, probabilmente, se un super-taciturno come Dylan si scomoda in modo così palese, proprio in tempi di coronavirus.«State al riparo, e che Dio sia con voi», scrisse a fine marzo, sul suo sito, presentando l’alluvione poetica di “Murder Most Foul”, monumentale capolavoro in morte di John Kennedy e della speranza assassinata: il più empio dei delitti, capace di raggelare il mondo nella morsa della paura. Ci stanno riprovando? Sì, sembra dire il grande attore travestito da profeta. Ma stavolta, aggiunge, non la spunteranno. «Ciao, straniero», si congeda lo spettro, sicuro della vittoria: «Un lungo addio: hai governato la Terra, ma l’ho fatto anch’io». Come dire: pur in mezzo a questi orrori, a questo nuovo oceano di sofferenze, sappiate che un lunghissimo ciclo doloroso sta per chiudersi. E’ questo, probabilmente, l’ultimo messaggio del profeta di Duluth, il poeta-soldato. Ma ci sarà da ballare parecchio: la battaglia finale è appena cominciata. E a proposito: non aprite la porta a chi si presenta con un pacco regalo, ma nell’altra mano impugna una siringa.(Giorgio Cattaneo, 10 maggio 2020).L’autore della storica rivelazione sull’identità massonica di Bob Dylan, Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, appartiene lui stesso al circuito sovranazionale della massoneria progressista: già “venerabile” della loggia romana Monte Sion del Goi, poi iniziato alla superloggia “Thomas Paine”, è oggi gran maestro del Grande Oriente Democratico, network italiano correlato con la rete massonica progressista sovranazionale.Il diavolo non veste Prada: di questi tempi va in giro con in mano una siringa mortale, truccata da regalo, che puzza di vaccino lontano un miglio. Sembra dedicato al Demiurgo degli gnostici – il Dio Straniero dei catari – l’ultimo guanto di sfida (il terzo, in poche settimane) lanciato dallo stupefacente Bob Dylan, 79 anni a fine maggio. Un blues lento e accidentato, scandito da chitarre sulfuree, tra Muddy Waters e Tom Waits, e presentato da un’icona inequivocabile: uno spettro vestito a festa, da banditore ottocentesco. Il riferimento dell’immagine – trasmessa via web nella notte tra il 7 e l’8 maggio, per accompagnare l’ennesimo, esplosivo brano inedito, “False Prophet” – è all’Uomo Ombra, «il personaggio misterioso creato da Walter Gibson, dal 1931 protagonista di “The Shadow”, il primo magazine pulp interamente dedicato a un singolo “character hero” e progenitore di giustizieri, cupi e solitari, come Batman», annota Valeria Rusconi su “Repubblica“. Ma se lo spettro tenebroso di Gibson impugna una pistola, quello di Dylan – che a sua volta ha sottobraccio un pacco-dono – brandisce una siringa, nientemeno. «A chi sta pensando, Bob Dylan? Qual è il dono che porta la morte?».
-
Dylan, atto secondo: guerra al potere oscuro del Covid-19
«Ho un cuore rivelatore, come il signor Poe. Ho scheletri nei muri delle persone che conosci». Attenti: è Bob Dylan, che parla. A tre settimane da “Murder Most Foul”, che mette in relazione l’omicidio di John Kennedy con la minaccia del coronavirus (evocata nelle righe che accompagnano il brano, sul sito ufficiale del cantautore), il Premio Nobel 2016 per la Letteratura torna a farsi vivo, con la struggente “I Contain Multitudes”: altro giro, altro regalo. In soli 21 giorni, dopo otto anni di quasi-silenzio se non per bootleg sontuosi e cover di lusso, tra cui quelle dei brani di Frank Sinatra, il grande artista di Duluth scodella – gratis, sul web – una seconda strenna. E per lanciarla stavolta sceglie Twitter, il canale social preferito dal Donald Trump che ha appena dichiarato guerra all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un network opaco, che la Casa Bianca sospetta – per usare un eufemismo – di non aver vigilato sull’origine del male oscuro che sta devastando il pianeta. Una conferma esplosiva viene dal francese Luc Montagnier, altro Nobel (per la Medicina, avendo scoperto il virus che dà origine all’Aids): il Covid-19, dice, è sicuramente “scappato” da un laboratorio come quello di Wuhan, ben noto all’Oms. Il virus è stato “progettato”, ingegnerizzato: non è di origine naturale. L’hanno fabbricato proprio bene, dice Montagnier. Chi? Qualcuno che lavorava a un possibile vaccino anti-Hiv.In attesa che la comunità scientifica decodifichi la “bomba” lanciata dal luminare francese (secondo cui sarà la natura stessa, col tempo, a “disarmare” il Covid, rendendo completamente inutile qualsiasi vaccino), è Bob Dylan a occupare il centro della scena. Per sganciare la sua, di bomba, ha atteso la mezzanotte di venerdì 17 aprile. Sembra un rimando diretto a “Murder Most Foul”, in cui descrive Kennedy come “the king on the harp”, evocando il biblico Davide – sovrano predestinato, unico a “conoscere l’ora della mezzanotte” per l’apparire, appunto, di una presenza angelica intenta a suonare l’arpa. Un topos tipicamente rosacrociano, caro all’elusiva tradizione inziatica di cui faceva parte Freddie Mercury, dei Queen (gruppo citato nel brano). Valori guida: fede, speranza e carità – traducibili nello stesso tricolore italiano, e nelle “virtù teologali” cristiane. «Scendo all’incrocio dove morirono fede, speranza e carità», recita Dylan, pensando a Kennedy come a un David assassinato. Per inciso: il presidente della New Frontier era anche strettamente connesso alla tradizione templare, rivela Luca Monti, che spiega che un antenato di Kennedy (Gherarduccio dei Gherardini) ereditò da Dante Alighieri la guida segreta dell’Ordine del Tempio, dopo la morte sul rogo dell’ultimo gran maestro ufficiale, Jacques de Molay.Non solo: Kennedy faceva parte anche dell’antica comunità eleusina. Lo sostiene Nicola Bizzi, “eleusino” lui stesso, autore di una suggestiva ricostruzione (”Da Eleusi a Firenze”, Aurora Boreale) sul ruolo della leggendaria comunità misterica pre-cristiana nell’ispirazione culturale del Rinascimento italiano. “Da Eleusi a Washington” è invece il titolo del “sequel”, che Bizzi sta per dare alle stampe, nelle prossime settimane, per rivelare “le origini occulte e misteriche degli Stati Uniti d’America e il ruolo fondamentale di alcune famiglie iniziatiche eleusine nella scoperta e nella costruzione del nuovo mondo”. Kennedy, esoterismo, Dylan. C’è un nesso? Eccome: lo si potrà leggere nei prossimi mesi, nero su bianco, direttamente tra le pagine di “Globalizzazione e massoneria”, atto secondo del fragoroso “coming out” avviato da Gioele Magaldi con il dirompente saggio “Massoni”, uscito nel 2014. «Se qualcuno l’aveva intuito, posso confermarlo ufficialmente: Bob Dylan è un massone ultra-progressista che milita nel mio stesso circuito», dice Magaldi, già iniziato alla superloggia “Thomas Paine” e ora leader del Grande Oriente Democratico. Un’esternazione clamorosa, espressamente autorizzata. E un invito: «Leggete bene, tra le righe di “I Contain Multitudes”: attraverso il suo splendido contenuto poetico, il brano rappresenta la continuazione di “Murder Most Foul”», atto d’accusa contro un potere criminale che Dylan mette in relazione sia con l’omicidio Kennedy che con la minacciosa comparsa dell’oscuro coronavirus.«Berrò alla verità e alle cose che abbiamo detto», annuncia l’autore di “Blowin’ in the wind”: allusione frontale – a doppio taglio, nell’enigmatico stile dylaniano – alla comunità di voci che ora si sono decise a venire allo scoperto, denunciando dettagli indicibili, come se fossimo giunti a un punto in cui non è più possibile tacere. Trattandosi di Dylan, poeta e letterato finissimo, è il grande Edgar Allan Poe, massone anche lui, a fornirgli l’elegante uscita di sicurezza: gli “scheletri negli armadi” (anzi, nei “muri”) richiamano quelli di cui la “fratellanza bianca” saprebbe praticamente tutto, e che ora si appresta – a rate, inesorabilmente – a riesumare, uno dopo l’altro. Un avvertimento più che esplicito: «Ho un cuore rivelatore», come quello che – nella novella di Poe – rivelerà il crimine e quindi l’assassino. Siamo a questo? A quanto pare, sì. E se qualcuno ancora dubita dell’intento di Dylan e della sua appartenenza, “I Contain Multitudes” fornisce indizi eloquenti: «Vado dove tutte le cose perse vengono rimesse a nuovo», dichiara, facendo risuonare quel “radunare ciò che è sparso” che è uno degli obiettivi dichiarati del percorso iniziatico massonico. A proposito: si intitola “Bringing it all back home” (riportando tutto a casa) uno degli album più celebri di Dylan. Un programma – politico, e non solo – enunciato tra le righe già nel 1965, da “Mr. Tambourine Man”.Naturalmente non passa inosservata, un’uscita pubblica di Dylan, nemmeno tra le redazioni italiane, puntualissime nel rilevare i riferimenti squisitamente culturali di cui trabocca l’ultima creazione dylaniana. Spiega Carlo Moretti, su “Repubblica”: stavolta l’ispirazione viene da uno dei più grandi poeti americani, Walt Whitman, che nel poema “Song on myself”, considerato il centro della sua poetica e pubblicato nel 1855 nella raccolta “Leaves of Grass”, si domanda ad un certo punto: “Mi contraddico? Mi sto contraddicendo? Molto bene, allora io mi contraddico (sono ampio, contengo moltitudini)”. A un certo punto, aggiunge Moretti, Dylan si paragona a William Blake, nel cantare le stesse “songs of experience” (citando così «la raccolta di poesie che Blake pubblicò nel 1794, nella quale raccontava la perdita dell’innocenza e l’ingresso, insieme alla caduta, nell’età adulta»). Tra i giornali italiani, il “Messaggero” scorge «un omaggio a David Bowie», altro massone, facendo rimare “all the young dudes” con il titolo del celebre brano dell’artista inglese. Sul “Corriere della Sera”, lo scrittore Sandro Veronesi si emoziona: «L’ha rifatto. Tre settimane dopo “Murder Most Foul”, Bob Dylan ha pubblicato un’altra canzone inedita sul suo sito – cioè ce l’ha regalata». Beninteso: «E’ bellissima».«Come “Knocking on Heaven’s Door” – scrive l’autore di “Caos calmo” – anche “I Contain Multitudes” è una ballata classica, con strofe di 6 versi stretti a due a due da rime perfette, mesmeriche – ed è, sì, il secondo capitolo di un testamento». Infatti: «Se “Murder Most Foul” era la mareggiata che riporta a riva i frammenti della nostra civiltà naufragata, “I Contain Multitudes” è una struggente appendice al discorso che Dylan ha consegnato all’Accademia di Svezia nel luglio del 2017», dieci mesi dopo avere ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura. «Una confessione (”I’m a man of contraddictions/ I’m a man of many moods/ I Contain Multitudes”); un ringraziamento a chi lo ha ispirato (Walt Whitman, citato direttamente nel titolo, ma anche Edgar Allan Poe, William Blake, Jack London); ma soprattutto è un inno incoercibile alla musica e alla bellezza – di oggi, di ieri e anche di domani». Impressionante, nel nuovo brano, l’archetipo della specularità: il tema esoterico dello specchio, direttamente evocato nel richiamo ad Amleto in “Murder Most Foul”, diventa l’architettura portante delle tante “moltitudini”, specchianti, in cui si riflette la voce di Dylan.Essere o non essere? Dopo Shakespeare, è stato un altro grande iniziato come Oscar Wilde a mettere al centro della scena proprio la funzione cruciale dello “speculum”, in un capolavoro come “Il ritratto di Dorian Gray”. E ora, davanti allo specchio compare Bob Dylan. «Oggi, domani e anche ieri», premette, come rianimando la testa girevole della statua di Giano, usata dai romani per ricordare che le “moltitudini” di cui siamo fatti possono anche essere lette in senso orizzontale, in uno scorrere di cronologie apparenti, in cui il tempo – la “divinità” che ci governa – esiste anche come nozione interiore. «Metà della mia anima, piccola, ti appartiene» (quella riflessa, che solo lo specchio può mostrarci: l’altra metà di noi). Lo specchio, cioè la complementarità degli opposti: «Io, reliquia, gioco con tutti i giovani». Oppure: «Tutte le belle cameriere e tutte le vecchie regine». Ancora: «Ti mostrerò il mio cuore. Ma non tutto, solo la parte odiosa». Non fa sconti, il Giano parlante: «Non ho scuse da presentare», precisa, già sapendo che il suo discorsetto potrebbe non piacere. A chi? Al «vecchio lupo avaro», lo spettro che ricompare a stretto giro (in “Murder Most Foul” era «l’uomo-lupo»). Con chi ce l’ha, Bob Dylan? «Combatto le faide di sangue», annuncia. C’è un potere abominevole, nel mirino?Certo colpiscono le concomitanze: Robert Kennedy Junior, altro massone progressista (figlio di Bob, nipote di John) ha appena caricato a testa bassa il quasi onnipotente Bill Gates («massone non certo progressista», secondo Magaldi), per la sua impazienza di lanciare sul mercato l’ipotetico super-vaccino contro il Covid, non ancora adeguatamente testato. Tant’è vero, accusa Kennedy, che Bill Gates pretende un’impunità assoluta: lo distribuirebbe solo se gli Stati gli garantissero di non fargli causa, nel caso qualcosa dovesse andare storto. Kennedy, Dylan, virus, massoni. Cos’è questo intreccio? Bob Dylan parla di «anelli sulle dita che luccicano e lampeggiano». E avverte: «Vado fino al limite, vado fino alla fine». Come dire: farete i conti anche con me? Farò la mia parte, per denunciare quello che so? In fondo, è quello che sta già facendo: sulla sua nave, omai, sventola la bandiera pirata. Uno studioso come Gianfranco Carpeoro, già a capo di un’antica obbedienza massonica “scozzese”, fa notare che a dare vita alla pirateria furono proprio i massoni libertari, delusi dalla monarchia britannica. «Pirati e corsari: l’Olonese, il Corsaro Nero, il Corsaro Rosso. Erano tutti massoni. Sempre ritratti nell’atto di nasconderlo, il tesoro: mai di riesumarlo. Messaggio: far sparire l’oro, ritenuto fonte di corruzione». Pirati guerriglieri, ribelli ante litteram? Dettagli in arrivo, nel libro che Carpeoro sta scrivendo. Nel frattempo, non resta che godersi il massonico pirata Dylan. Che infatti, a scanso di equivoci, ora canta: «Porto quattro pistole e due grandi coltelli».(Giorgio Cattaneo, 19 aprile 2020).«Ho un cuore rivelatore, come il signor Poe. Ho scheletri nei muri delle persone che conosci». Attenti: è Bob Dylan, che parla. A tre settimane da “Murder Most Foul”, che mette in relazione l’omicidio di John Kennedy con la minaccia del coronavirus (evocata nelle righe che accompagnano il brano, sul sito ufficiale del cantautore), il Premio Nobel 2016 per la Letteratura torna a farsi vivo, con la struggente “I Contain Multitudes“: altro giro, altro regalo. In soli 21 giorni, dopo otto anni di quasi-silenzio se non per bootleg sontuosi e cover di lusso, tra cui quelle dei brani di Frank Sinatra, il grande artista di Duluth scodella – gratis, sul web – una seconda strenna. E per lanciarla stavolta sceglie Twitter, il canale social preferito dal Donald Trump che ha appena dichiarato guerra all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un network opaco: la Casa Bianca sospetta – per usare un eufemismo – che non abbia vigilato sull’origine del male oscuro che sta devastando il pianeta. Una conferma esplosiva viene dal francese Luc Montagnier, altro Nobel (per la Medicina, avendo scoperto il virus che dà origine all’Aids): il SarsCov2, dice, è sicuramente “scappato” da un laboratorio come quello di Wuhan, ben noto all’Oms. Il virus è stato “progettato”, ingegnerizzato: non è di origine naturale. L’hanno fabbricato proprio bene, dice Montagnier. Chi? Qualcuno che lavorava a un possibile vaccino anti-Hiv.
-
Il massone Bob Dylan, Kennedy e i golpisti del coronavirus
Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Conferma Tosh Plumlee, pilota della Cia: fu lui a trasportare a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.Alla vigilia, in un drammatico summit nella città texana, il piano venne convalidato dal Deep State: con lo stesso Howard Hunt, nella villa del petroliere Clint Murchinson c’era Edgar Hoover (Fbi) insieme al vice di Kennedy, Lyndon Johnson, e ad altri due futuri presidenti degli Stati Uniti, Richard Nixon e George Bush. Potere criminale: ma perché riparlarne oggi, come fa Bob Dylan, suggerendo un collegamento tra quell’atroce mattanza e il coronavirus? «State attenti e mettetevi al riparo», ha scritto Dylan sul suo sito, il 27 marzo, presentando l’esplosiva “Murder Most Foul”, regalata al pubblico “worldwide”, in modo sorprendente e spettacolare. Una strepitosa ballad lunga 1016 secondi (quasi 17 minuti) che ripercorre “l’omicidio più ignominioso”, facendo di Kennedy il simbolo di un’America che si stava svegliando, anche sulle ali della musica, per uscire dall’incubo della guerra fredda e della segregazione razziale, del terrore nucleare, del Vietnam.Perché farlo proprio adesso? Perché diventa così loquace, un solitario come Dylan, sempre ultra-reticente con la stampa? Probabilmente, la domanda contiene già la risposta: era indispensabile lanciare un avvertimento, sia pure filtrato dall’eleganza del linguaggio artistico. Un messaggio però anche esplicito, con indizi messi lì apposta per lasciarsi decodificare: l’invito a “suonare il numero 3, il numero 9″, cioè la perfezione dell’armonia. Roba da esoteristi: come il massonico 33, evocato a proposito dei “fratelli” che avrebbero organizzato “l’inferno”, a Dallas. «Nessun mistero: Bob Dylan è, da sempre, un massone radicalmente ultra-progressista», afferma – clamorosamente – Gioele Magaldi, evidentemente autorizzato a dare ufficialmente la notizia. «Dylan milita nei medesimi circuiti massonici progressisti ai quali appartengo anch’io», aggiunge Magaldi, che nel 2014 – nel saggio “Massoni”, edito da Chiarelettere – ha denunciato le trame anche golpiste e terroristiche della supermassoneria reazionaria.L’accusa: è stata la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, ad architettare l’11 Settembre e il crollo delle Torri Gemelle, per poi inventarsi anche l’Isis. Se qualche sprovveduto crede ancora alla storiella degli aerei che avrebbero abbattuto le Twin Towers (cadute per “demolizione controllata”, come ormai dimostrato da oltre tremila architetti e ingegneri americani), proprio l’omicidio Kennedy – giudiziariamente irrisolto, dopo oltre mezzo secolo – sta lì a ricordare a tutti che, a volte, “l’impossibile” diventa possibilissimo. Tant’è vero che qualcuno ci lascia la pelle: anche in modo inimmaginabile, persino se si tratta di un intoccabile come il presidente degli Stati Uniti. Magaldi mette in fila gli eventi: la stessa élite reazionaria, che nel 1975 usò la Trilaterale di Kissinger per dichiarare guerra alla democrazia sociale, oggi sovragestisce la crisi planetaria della pandemia secondo il modulo Wuhan, fondato sulla sospensione della libertà costituzionale.Attenti, avverte Magaldi: fu proprio il club di Kissinger a sdoganare la Cina, aprendola al mercato globale, per farne una specie di Frankenstein: formidabile efficienza economica, ma niente democrazia. Un modello perfetto da trapiantare in un futuro Occidente distopico, raggelante, oggi con il pretesto psico-sanitario del coronavirus, il coprifuoco imposto a tutti (provvisorio, ma con la prospettiva che le libertà di ieri non tornino mai più). Ed ecco, allora, Bob Dylan. «La sua uscita – sottolinea Magaldi – è perfettamente sincronizzata con l’altrettanto clamorosa lettera di Mario Draghi al “Financial Times”, in cui l’ex presidente della Bce (fino a ieri massone neoaristocratico, e oggi tornato ai lidi keynesiani delle origini) dichiara guerra alla “teologia” del rigore neoliberista, evocando addirittura il New Deal rooseveltiano: cioè la necessità di ricorrere a massicci aiuti di Stato per svincolare l’economia dal ricatto della finanza speculativa. Un regime che tuttora strangola l’Italia nella morsa dell’Ue, proprio adesso che il paese ha un bisogno drammatico di fondi che non si trasformino in debito».Draghi e Dylan, strano tandem: in modo diverso paiono dire la stessa cosa. Ovvero: siamo ormai giunti a un bivio esiziale, messi di fronte – con l’accelerazione planetaria della pandemia – a una scelta di campo ormai ineludibile: se la globalizzazione solo finanziaria porta dritti a Wuhan, l’alternativa sta nel riscrivere da zero le regole del mondo. E chi, meglio di John Kennedy, riuscì a esplicitare questo concetto? Era il sogno della New Frontier: un mondo unito, pacificato e libero. Di recente, s’è scoperto un carteggio segreto con Nikita Krushev: i due leader impegnavano Usa e Urss a mettere fine alla guerra fredda entro il 1970. Ma a costare la vita a Kennedy, probabilmente, fu altro: per esempio, la decisione di stampare direttamente banconote di Stato, svincolate dal sistema bancario. Ed ecco che Jfk, riletto oggi, sembra parlare direttamente a noi, alle prese con le maschere dell’euro-rigore “tedesco”. Ma chi era, veramente, Kennedy?«Tra le altre cose, il presidente assassinato a Dallas era un inziato eleusino», rivela lo storico fiorentino Nicola Bizzi, che nel sorprendente libro “Da Eleusi a Firenze” mette a fuoco l’ascendenza “eleusina” del Rinascimento italiano. Ovvero: la regia occulta, nel potere della signoria medicea, della tradizione misterica risalente al 1300 avanti Cristo, quando – secondo la narrazione – la dea Demetra avrebbe rivelato ai fedeli di Eleusi, alle porte di Atene, l’origine “atlantidea” della nostra specie, “creata” dagli dei Titani come Poseidone, signore dei mari. Kennedy eleusino? «Di più: era anche un templare, direttamente collegato a Dante Alighieri». Lo sostiene Luca Monti, autore del volume “Firenze, città santa dei templari”, pubblicato da Aurora Boreale, editrice di cui è titolare lo stesso Bizzi. Collegato alla rete odierna del templarismo, Monti spiega: l’autore della Divina Commedia ereditò la guida segreta dell’Ordine del Tempio dopo il rogo in cui fu arso vivo l’ultimo gran maestro ufficiale, Jacques de Molay. E il collegamento con il presidente assassinato a Dallas? «Il successore dell’Alighieri-templare fu Gherarduccio dei Gherardini, antenato di John Fitzgerald Kennedy», nientemeno.Stupefacente? Be’, sì. Ma questo aiuta a leggere un po’ meglio tra le righe, persino nei riferimenti simbolico-esoterici di cui è gremito l’amletico testo del massone Dylan, “Murder Most Foul”. Va preso sul serio, Luca Monti? Fate voi. Nel 2016, intervistato da Paolo Franceschetti, si sbilanciò con questa previsione: «Nel 2020 succederà qualcosa di inaudito, a livello mondiale». La fonte? Numeri, ancora: nella Commedia di Dante, ricorre il 515. Le profezie contenute nel poema sono intervallate dal medesimo numero di versi, “centodieci e quinque”. «Io penso che questo 515 arriverà verso il 2020», disse Monti, spiegando: «Questo numero rappresenta anche la riunificazione; noi siamo tutti in potenza parti di Dio, particelle divine, e il 515 rappresenta la riunione di noi stessi col divino». Suggestioni da brividi? Certo, si tratta di materiale con cui Bob Dylan ha sempre dimostrato un’estrema confidenza: nessuno come lui ha saputo maneggiare – e con uno slang “pop”, per giunta – la stessa Bibbia e i simboli pescati nei territori dell’alchimia, dell’astrologia, dei tarocchi, della mitologia. Se Kennedy era anche un neo-templare e un iniziato “eleusino”, oltre che un celebrato campione della democrazia, suona sempre meno strano l’omaggio che il grande cantautore gli tributa, in mezzo al panico da coronavirus, come se “Murder Most Foul” fosse anche una dichiarazione di guerra, oltre che un esercizio di pietà.Cade dall’alto, il guanto di sfida lanciato dall’ex ragazzo di Duluth, con alle spalle sessant’anni di carriera, oltre 50 dischi e anche l’Oscar cinematografico per la colonna sonora di “Things have changed”. Il prestigio culturale di Bob Dylan è già scritto nella storia: Premio Pulitzer, Nobel per la Letteratura, Legion d’Onore francese, Premio Principe delle Asturie. Risale al ‘97 il riconoscimento dei Kennedy Center Honors, e al 2012 la Medaglia Presidenziale della Libertà (massimo “award” civile, negli Stati Uniti). Neppure il Dylan politico è una sorpresa, dai tempi di “Blowin’ in the wind” e “Masters of war”. Suo il primo atto d’accusa, frontale, contro la globalizzazione: “Union Sundown”, nel 1983, anticipa profeticamente la tragedia delle delocalizzazioni, in un mondo che sarebbe stato devastato dallo strapotere delle multinazionali. Forte l’attitudine a scendere in campo direttamente, in modo anche spericolato: l’affarista William Zantzinger dichiarò di essere stato rovinato, da Dylan, per la canzone “The lonesome death of Hettie Carroll”, domestica nera uccisa a bastonate. Il pugile afroamericano Rubin Carter, vittima di un caso giudiziario condizionato dal razzismo, fu letteralmente scarcerato in seguito alla campagna per la sua liberazione lanciata da Dylan con il brano “Hurricane”.«Siamo un paese costruito sulla schiena degli schiavi», disse, in prossimità dell’uscita dell’album “Tempest”, pubblicato nel 2012, in cui riecheggia la guerra civile americana nell’interpretazione del poeta Herny Timrod. Sempre rarissime, le interviste, ma quasi tutte memorabili. «Come spiegare la mia longevità artistica? Be’, da giovane ho fatto un patto con il “comandante in capo”». Tradotto: consacro la mia arte alla maggiore delle cause. Obiettivo: far fermentare il talento, alchemicamente, al servizio dell’umanità. Un modo per “tendere al divino”, per citare il 515 dantesco? Più esplicitamente: «Pensate alla trasfigurazione di Cristo, nel Getzemani». Simboli, certo. Positivi e negativi: «Ha vinto Walt Disney», sentenziò anni fa: «Quindi abbiamo perso tutti». Prigioneri della Matrix, in un mondo di plastica? Ecco, forse il velo potrebbe squarciarsi, oggi, di fronte al dramma del coronavirus che sembra distruggere ogni certezza. A patto però – e qui è il “templare” kennedyano che riemerge, il “massone progressista” – che si abbia il coraggio di metterci la faccia. Per esempio regalando ai senzatetto milioni di dollari, ricavati dal disco natalizio “Christmas in the heart” pensato nel 2009 per sfamare gli homeless d’America (gesto di liberalità squisitamente massonico, se non addirittura rosacrociano).A proposito: tra i leggendari Rosa+Croce, elusiva confaternita iniziatica capitanata nel secondo ‘900 dal pittore Salvador Dalì, un simbologo italiano come Gianfranco Carpeoro include il grande Freddie Mercury. E il suo gruppo – i Queen – è l’unico citato da Dylan nella sequenza finale di “Murder Most Foul”, in cui si dispiega lo splendore della colonna sonora degli irripetibili anni Sessanta. Un indizio rivelatore: siamo di fronte a una stretta parentela, non solo artistica? In recenti conferenze, insieme allo stesso Magaldi, Carpeoro ha svelato la cifra massonica di artisti come David Bowie e, in particolare, l’identità anche rosacrociana del massone progressista Michael Jackson, cresciuto nella Prince Hall Freemasonry, l’obbedienza dei neri americani. A costargli la vita, a quanto pare, sarebbe stata la canzone “They don’t care about us”, contro gli abusi del grande potere globalista. Un verso recita: «Tutto questo non succederebbe, se Roosevelt fosse ancora qui». Alla moglie di Franklin Delano, Eleanor, madrina della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il giovanissimo Bob Dylan dedicò “Dear Mrs. Roosevelt”, scritta dal suo antico maestro Woody Guthrie.Sempre Dylan fu tra le star che risposero all’appello di Michael Jackson, autore con Lionel Richie del brano corale “We are the World”, destinato a raccogliere fondi (campagna “Usa for Africa”) per assistere la popolazione dell’Etiopia colpita dalla spaventosa carestia del 1985. Oggi, a quanto sembra, siamo all’ennesimo appuntamento con la storia: si tratta di disseppellire John Kennedy, per aiutare il mondo a ritrovare il suo stesso coraggio. Cambiare tutto, senza paura: né del coronavirus, né nei suoi ipotetici “sovragestori”, che probabilmente sognano un pianeta di neo-sudditi, schiavizzati dal terrore dei virus (oggi il “corona”, domani chissà), e sottoposti alla dittatura orwelliana di una polizia sanitaria capace di imporre vaccini e microchip, azzerando la privacy e la libertà. Messaggio: il momento è cruciale. La sfida è lanciata: “Murder Most Foul” è nell’aria, ne sta parlando il mondo intero. «State al riparo, e state attenti», si congeda il quasi ottantenne Dylan. «E che Dio sia con voi».(Giorgio Cattaneo, 5 aprile 2020).Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Un pilota della Cia, Tosh Plumlee, conferma di aver trasportato a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.
-
Ma nemmeno il Premio Nobel svelerà l’enigma Bob Dylan
«Se la misura della grandezza è quella di allietare il cuore di ogni essere umano sulla faccia della terra, allora era veramente il più grande. In ogni modo è stato il più coraggioso, il più gentile e il più eccellente degli uomini». Così Bob Dylan in memoria di Muhammad Alì, scomparso il 3 giugno 2016. Sincronicità: nel giorno della dipartita di Dario Fo, l’accademia di Svezia concede il Premio Nobel per la letteratura – sospiratissimo, soprattutto da parte di migliaia di fan e supporter – all’immenso artista di Duluth, il cui capolavoro forse consiste nell’essere sopravvissuto a se stesso dopo oltre mezzo secolo di dischi e concerti, perfettamente intatto nell’ispirazione creativa di cantante, musicista, compositore e performer. Un’autorevolezza culturale, quella di Dylan, che ne ha fatto un involontario maestro, riconosciuto da generazioni di cantanti, artisti e intellettuali di ogni parte del mondo. Un maestro singolare, laconico, riluttante. Enigmatico come il simbolo che lo accompagna da anni, sul palco: un occhio in fiamme, sormontato da una corona.Se il “flaming delta” simboleggia la presenza immanente della divinità («percepisco ovunque la presenza di Dio», ha detto in una recente intervista), nell’affascinante logo che accompagna il “neverending tour” si può riconoscere “l’occhio di Horus”, o “occhio dell’iniziato”, quello dell’uomo che ha accesso al cammino verso la “verità profonda”. In più, l’occhio di Dylan – sul drappo calato come un sipario alle spalle della band, in chiusura di concerto – ha un’iride particolarissima, in forma di spirale (in codice esoterico, può significare: verità raggiungibile). E la corona che sovrasta l’occhio richiama direttamente la scienza alchemica, ritenuta la “regina” di ogni conoscenza. Traduzione ipotetica: attraverso l’alchimia interiore – trasformare in “oro” il proprio piombo terreno – è possibile arrivare a «vedere Dio ogni giorno, in ogni cosa», specie a 75 anni, con davanti un calendario di appuntamenti concertistici da schiantare un ventenne. «Morirò su un palco, un giorno, da qualche parte nel mondo», ebbe a dire Dylan qualche anno fa, cercando di spiegare il suo tour infinito, fondato sulla strepitosa reintepretazione, ogni volta rivoluzionaria, di leggendari successi resi irriconoscibili dai nuovi arrangiamenti, ogni volta diversi, regalati in esclusiva al pubblico presente.Rarissime le esternazioni pubbliche, dall’ex ragazzo del Minnesota, nipote di ebrei ucraini e lituani, protagonista di una traiettoria culturale ricchissima: la venerazione per il menestrello Woody Guhrie, “Blowin’ in the wind” e la protesta degli anni ‘60, le battaglie civili come quella per far uscire di prigione il pugile nero Rubin “Hurricane” Carter, o la campagna “Farm Aid” per il sostegno degli agricoltori americani colpiti dalla crisi. Fino all’incredibile disco natalizio del 2009, “Christmas in the Heart”, coi proventi interamente devoluti a “Feeding America”, associazione caritativa che fornisce pasti caldi ai senzatetto. Forse, tra i giudici del Nobel ha pesato soprattutto il Dylan politico, quello di “Masters of war” contro i signori della guerra, tema riproposto in modo magistrale attraverso canzoni più recenti, come “Ring them bells”, del 1989. “I pity the poor immigrant”, cantava un Dylan giovanissimo, soffermandosi su “The lonesome death of Hattie Carroll”, schiava nera uccisa a bastonate dal suo “padrone”, ricco proprietario terriero. Dall’ultimo Dylan, pensieroso fino alla cupezza, sono scaturite gemme di autentica poesia come il disco “Tempest”, ispirato al poeta Henry Timrod, uscito nel 2009 – già allora, sul palco, a fine serata compariva il misterioso simbolo dell’occhio “incoronato”.«Capirete fra trent’anni quello che ho scritto», si sbilanciò nel 1967 quando uscì “John Wesley Harding”, il disco contenente una traccia come “All along the Watchtower”, poi resa immortale dall’interpretazione di Jimi Hendrix a Woodstock. Tutto il lavoro – in apparenza country-western – svelava la profonda intimità dell’artista con una dimensione metafisica presente tra i risvolti del quotidiano, attraverso fotogrammi che illuminano verità senza tempo, percezioni astoriche e immateriali, in un mondo di evocazioni e citazioni bibliche, tra il fantasma di Sant’Agostino e l’arrivo di oscuri messaggeri. “Ci dev’essere il modo di uscire di qui, disse il buffone al ladro”: come i personaggi di “All along the Watchtower”, anche Dylan crede alla possibilità di un riscatto, un Piano-B, mentre si interroga sull’umanità senza mai smettere di denunciarne gli orrori – la vigorosa rock-ballad “Union Sundown” (da “Infildels”, con Mark Knopfler alla chitarra) è un grido, profetico, contro la catastrofe della globalizzazione: porta la data del 1983. «Ha vinto Dinsey, quindi abbiamo perso tutti», sentenziò. Ma non smise di girare il mondo, e – anzi – aggiunse sul palco quel misterioso stendardo-pirata, come monito ammiccante: io so, vedo, capisco. L’occhio in fiamme, la corona. E ora anche il Nobel Prize for Literature.«Se la misura della grandezza è quella di allietare il cuore di ogni essere umano sulla faccia della terra, allora era veramente il più grande. In ogni modo è stato il più coraggioso, il più gentile e il più eccellente degli uomini». Così Bob Dylan in memoria di Muhammad Alì, scomparso il 3 giugno 2016. Sincronicità: nel giorno della dipartita di Dario Fo, l’accademia di Svezia concede il Premio Nobel per la letteratura – sospiratissimo, soprattutto da parte di migliaia di fan e supporter – all’immenso artista di Duluth, il cui capolavoro forse consiste nell’essere sopravvissuto a se stesso dopo oltre mezzo secolo di dischi e concerti, perfettamente intatto nell’ispirazione creativa di cantante, musicista, compositore e performer. Un’autorevolezza culturale, quella di Dylan, che ne ha fatto un involontario maestro, riconosciuto da generazioni di cantanti, artisti e intellettuali di ogni parte del mondo. Un maestro singolare, laconico, riluttante. Enigmatico come il simbolo che lo accompagna da anni, sul palco: un occhio in fiamme, sormontato da una corona.