Archivio del Tag ‘bollette’
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Giannuli: spiegate alla sinistra che le tasse vanno tagliate
Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi. Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate. In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale. Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi i consumi; questo produce nuovi fallimenti, e così via.Peraltro la flessione occupazionale, in termini lineari, produce anche una contrazione del gettito fiscale, con il risultato di spingere ad una nuova stretta per mantenere costante il gettito. E di questo passo si fa bancarotta. Naturalmente ci sono una serie di soglie per cui il risultato finale può prodursi più o meno lentamente. Ed esistono anche controtendenze che limitano gli effetti negativi di un’eccessiva pressione fiscale: ad esempio, evasione fiscale e lavoro nero, per quanto condannabili sul piano morale e indesiderabili su quello politico, però hanno l’effetto di sottrarre una parte della ricchezza all’appropriazione statale, mantenendo quindi, almeno in parte, il potere d’acquisto dei cittadini. Con il risultato che più è elevata la pressione fiscale, più aumenta la propensione a pratiche illegali o condannabili come evasione e lavoro nero, il che poi sposta il carico del gettito inevaso sulle spalle dei contribuenti onesti o che non possono sottrarsi agli obblighi fiscali, il che moltiplica tanto le ingiustizie sociali quanto gli effetti antieconomici dell’eccessivo carico fiscale.Dunque occorre capire quale possa essere una soglia accettabile di pressione, e qui dobbiamo constatare che da 6 anni in qua, la pressione (grazie ai governi del Pd o magari sostenuti dall’esterno dal Pd, come il governo Monti) è salita a circa il 55% del Pil, tenendo conto, oltre che della tassazione diretta, di quella indiretta, dei ticket, delle tariffe dei servizi pubblici, eccetera. Un prelievo di quelle dimensioni sarebbe eccessivo anche per un breve periodo, ma qui ormai siamo entrati nell’ordine di idee che questo è un livello “normale” destinato a durare a tempo indeterminato. Il secondo ordine di problemi è chi sia il soggetto tassato, in che misura e con quali meccanismi. Una delle grandi falsità del neoliberismo è quella per la quale, siccome i ricchi sono quelli che hanno più potenziale di spesa, più detassiamo i ricchi (secondo le politiche di tassazione regressiva sul reddito inaugurate dalla Reaganomics negli Usa degli anni Ottanta), più aumentano i consumi e, quindi, si spinge verso una dinamica virtuosa.Chiunque sappia qualcosa di economia e non sia un venduto sa che la propensione all’accumulazione è direttamente proporzionale al reddito: il “ricco” (usiamo questo termine vago) spende una parte minima del proprio reddito in consumi, poi spende una quota più alta di esso in investimenti nell’economia reale, ma la parte più consistente la accumula come riserva di valore in impieghi finanziari che, in quanto tali, sono improduttivi se non nella parte (più o meno minoritaria) destinata all’economia reale. Più denaro resta immobilizzato nella riserva finanziaria, meno risorse ci sono a disposizione. In terzo luogo è decisivo come si spende il gettito fiscale. La sinistra immagina (o fa finta di crederci) che la voce più consistente sia quella della spesa sociale (pensioni, sanità, istruzione, ammortizzatori sociali) il che non è vero, se non in parte. Sicuramente le voci che abbiamo indicato sono consistenti, ma ci sono anche capitoli di spesa tutt’altro che irrilevanti come la spesa militare, quella per i lavori pubblici e, soprattutto, quella per il personale della Pa (per cui, dando lo stipendio a un fannullone, si fa una spesa improduttiva, ma si sostengono i consumi).In ciascuno di questi capitoli di spesa ci sono sprechi e diseconomie che si potrebbero rivedere facendo dimagrire la spesa complessiva, senza per questo danneggiare la spesa sociale. Ma, soprattutto, ci sono spese assolutamente negative come i compensi eccessivi ai dirigenti, l’eccessivo numero di enti che neppure alimentano i consumi ma finiscono in rendita finanziaria, ed è qui che occorre andare col machete (ma ne riparleremo). Poi c’è una spesa direttamente finanziaria: gli interessi per il debito che crescono costantemente (siamo a 84 miliardi l’anno, destinati a crescere perché in 4 anni di governo Pd il debito è cresciuto di altri 200 miliardi). Ma se la spesa rimane questa, il gettito fiscale non ce la fa e si produce nuovo debito, nonostante l’aumento delle tasse. Ma con questo livello di pressione fiscale non c’è ripresa immaginabile e, prima o poi, lo sbocco è il default. Dunque, per una vera ripresa, occorre tagliare il prelievo fiscale con una cura drastica: diciamo almeno 7-8 punti in un anno. E per far questo occorre una vera spending review (non l’attuale pagliacciata) e ricontrattare le condizioni di debito. Ma questo nella sinistra chi lo dice? Chi si preoccupa del fatto che il prelievo fiscale è diventato un moltiplicatore di ingiustizie sociali?(Aldo Giannuli, “Perché la sinistra non capisce niente della questione fiscale”, dal blog di Giannuli del 2 gennaio 2018).Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi. Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate. In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale. Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi i consumi; questo produce nuovi fallimenti, e così via.
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Le cryptovalute? Sono solo materie prime, possono crollare
Tocca alla nonna capire questa cosa fondamentale, e che nessuno vi dice. Ma è già incazzata… Lei parte dall’Abc, fa domande. Cos’è una valuta? E’ una moneta emessa da uno Stato, e regolata dalla banca centrale di quello Stato. Essendo emessa da uno Stato, la valuta ha valore legale. Ah! E cos’è una cryptovaluta? E’ una fantasia che può essere inventata da chiunque abbia un computer e una connessione Internet. Non ha nessun valore di per sé, né ha valore legale. E da quando le fantasie costano delle fortune? Da quando due categorie di umani hanno deciso che le frittelle d’aria (le cryptovalute) avevano un valore X. Sono gente disposta a pagare per le frittelle d’aria, letteralmente, e si dividono in furbi speculatori e in coglioni del condominio. E più questi comprano le frittelle d’aria, più quelle aumentano di prezzo, come tutte le cose. Ma sono scemi, ’sti qui? Sì. Ma bada bene, nonna: i furbi speculatori sanno come cavare oro dalle rape, i coglioni del condominio no, e questi nel complesso alla fine ci smeneranno il sedere. Non sono valute, ma le chiamano lo stesso cryptovalute: perché? Perché i furbi speculatori usando il termine ‘valute’ infinocchiano i coglioni del condominio. Se le chiamavano cryptofrittelle nessuno le comprava, e il prezzo non aumentava.“Ma non è che sei tu lo scemo? Tutti le chiamano valute”. No. Una valuta è solo quella emessa da uno Stato, regolata dalla banca centrale, e con valore legale. Le cryptovalute sono come le materie prime, cioè sono cose che hanno un dato valore sul mercato, come il grano, il ferro, il carbone, ecc. Ma non sono valute. “Non ho capito un cazzo”. Nonna, cazzo non si dice. “Fanculo, Barnard, non ho capito un cazzo!”. Ok, ok, oh, calma! Spiego: quello che succede oggi con ’ste cryptovalute – cioè frittelle d’aria con un valore inventato, ma non riconosciute dagli Stati – è che vengono scambiate sui mercati esattamente come, ad esempio, il ferro, che è una materia prima. Più c’è richiesta, più il valore del ferro aumenta, chiaro? Lo stesso per le cryptovalute, anche se sono frittelle d’aria. Ma nonna, dimmi, tu puoi pagare le tasse allo Stato, alla Regione e al Comune con il ferro? No. Brava, con il ferro o col grano ad esempio, che sono materie prime, non ci puoi pagare le tasse a Stato, Regione e Comune. Questo è il preciso motivo per cui oggi il ferro o il grano non sono valute (lo furono in passato), sono materie prime.Se con una cosa non ci puoi pagare le tasse al tuo Stato, Regione, Comune, quella cosa non è una valuta valida per te. Punto. E siccome con le cryptovalute non ci puoi pagare nessuna tassa, e in nessuno Stato al mondo, le cryptovalute non sono valute, ma sono come il ferro o il grano: sono cioè materie prime che vengono scambiate sui mercati a un prezzo. Nulla di più. “E adesso che so ’ste cose, mio bel giovane, cosa mi cambia?”. Ti cambia questo: 1) Sai che se i maggiori Stati del mondo dichiareranno che non accettano le cryptovalute come pagamento delle tasse, le cryptovalute sopravviveranno solo fino a che qualcuno le vuole, a capriccio. Mentre invece una vera valuta di Stato sopravviverà finché lo vorrà, ed esisterà, quello Stato. Ben altra sicurezza per chi la possiede. 2) Sai che le cryptovalute sono materie prime come il ferro. Allora, immagina il giorno in cui scoprono un metallo migliore del ferro, là dove oggi lo impiegano. Che succede? Nessuno vuole più il ferro e non vale più un cazzo, nonna…“Non si dice cazzo, maleducato!”. Va bè nonna… per finire il punto 2), volevo dire che il giorno in cui qualcuno s’inventerà delle altre frittelle d’aria che faranno fare più soldi delle cryptovalute, queste andranno al cesso, e assieme a loro tutti i coglioni del condominio che in quel momento le hanno nel portafoglio. Nonna, tu fai come ti pare, ma ricorda sempre questo: fino al giorno in cui il tuo Stato accetterà le cryptovalute come pagamento delle tue tasse, fino a quel giorno le cryptovalute sono solo materie prime, e basta, e come tali vanno trattate. Quindi se ti metti in tasca delle cryptovalute è come se comprassi ferro, grano o carbone. Per farci su dei soldi, devi conoscere benissimo i mercati. Magari ti va bene perché di colpo il valore del grano va alle stelle, o ti va da cani perché invece crolla. E queste cose non le sanno i coglioni di condominio. Ripeti con me: le cryptovalute sono materie prime, non valute. Le cryptovalute sono materie prime, non valute. Le cryptovalute… Nonna?(Paolo Barnard, “Le cryptovalute sono materie prime, non valute – spiegate alla nonna incazzatissima”, dal blog di Barnard del 27 dicembre 2017).…..valuta, moneta, emissione, Stato, banche centrali, valore, legalità, criptovalute, cryptovalute, fantasia, computer, Internet, speculazione, ingenuità, prezzi, materie prime, mercato, grano, ferro, carbone, tasse, bollette, imposte, Regioni, Comuni, validità, sovranità, bolle, sicurezza, metalli, crollo, Paolo Barnard,Tocca alla nonna capire questa cosa fondamentale, e che nessuno vi dice. Ma è già incazzata… Lei parte dall’Abc, fa domande. Cos’è una valuta? E’ una moneta emessa da uno Stato, e regolata dalla banca centrale di quello Stato. Essendo emessa da uno Stato, la valuta ha valore legale. Ah! E cos’è una cryptovaluta? E’ una fantasia che può essere inventata da chiunque abbia un computer e una connessione Internet. Non ha nessun valore di per sé, né ha valore legale. E da quando le fantasie costano delle fortune? Da quando due categorie di umani hanno deciso che le frittelle d’aria (le cryptovalute) avevano un valore X. Sono gente disposta a pagare per le frittelle d’aria, letteralmente, e si dividono in furbi speculatori e in coglioni del condominio. E più questi comprano le frittelle d’aria, più quelle aumentano di prezzo, come tutte le cose. Ma sono scemi, ’sti qui? Sì. Ma bada bene, nonna: i furbi speculatori sanno come cavare oro dalle rape, i coglioni del condominio no, e questi nel complesso alla fine ci smeneranno il sedere. Non sono valute, ma le chiamano lo stesso cryptovalute: perché? Perché i furbi speculatori usando il termine ‘valute’ infinocchiano i coglioni del condominio. Se le chiamavano cryptofrittelle nessuno le comprava, e il prezzo non aumentava.
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Galloni: moneta sovrana e posti di lavoro, o addio Italia
Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.Non si sa fino a che punto tutto questo sia sostenibile, riassume Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt. Il paradosso? «Quelli che stanno bene possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi sanitari per i figli, l’assistenza agli anziani e quant’altro. I più poveri, bene o male, hanno accesso alla gratuità. Ma il grosso della classe media non ha sufficiente reddito per pagarsi i servizi essenziali, e in alcuni casi neppure per fare la spesa al supermercato o andare al cinema, al ristorante o in vacanza, per pagare le bollette, le rate del condominio. E non ha neppure accesso alla gratuità del welfare residuale». Il guaio? Ci sta crollando addosso la storia. Una storia “sbagliata”, che ha cominciato ad andare storta proprio quando l’Italia ha cessato di essere prima “un’espressione geografica”, e poi un paese popolato di contadini analfabeti. Ai fratelli maggiori d’Europa non è mai andato giù il fatto che il Belpaese potesse stupire il mondo con il suo sviluppo da record, il boom del dopoguerra fondato sull’industria. Probabilmente avremmo potuto superare la Francia, dice Galloni, se non ci fossimo fatti sfilare di mano il futuro delle telecomunicazioni, a patrire dalla geniale invenzione di Olivetti: il personal computer.Poi, aggiunge l’economista, fu essenziale il passaggio dell’89 in cui la Germania, per riunificarsi, rinunciò al marco per ottenere l’appoggio della Francia e puntare al suo vero obiettivo strategico: frenare l’Italia. «Perché un’Italia estremamente competitiva avrebbe reso proibitiva l’opera di riunificazione della Germania». Ma i “cugini” d’oltralpe, ricorda Galloni, prima ancora dei tedeschi hanno sempre lavorato contro l’Italia, contribuendo a far fuori gli italiani più decisivi, a cominciare da Enrico Mattei. Il capo dell’Eni era odiato dalle Sette Sorelle perché concedeva più soldi ai paesi petroliferi, ma a costargli la vita fu lo scontro con Parigi sul gas algerino: di fronte alla mano tesa dei francesi per accordarsi su quel business, Mattei rispose “no, grazie”. Disse: «Io tratterò solo col legittimo governo algerino, quello del popolo, che è rivoluzionario e anti-francese». E così avviene: «Gli algerini – ricorda Galloni – vincono la loro guerra di indipendenza nazionale, fanno gli accordi con l’Italia e però, poco dopo, Mattei viene ucciso. Le ultime ricostruzioni convergono sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi».Poi è il turno di Aldo Moro, «altro uomo odiatissimo in Europa». Si era lamentato del fatto che i francesi e gli stessi “servizi” della Fiat (che come l’Eni aveva una sua “polizia segreta”, in gran parte composta da ex poliziotti e carabinieri) non comunicassero tutte le notizie riguardo alle Brigate Rosse, e che addirittura alcuni brigatisti venissero ospitati in territorio francese. Mattei e Moro, quindi Berlusconi: voleva evitare la guerra con la Libia scatenata da Sarkozy, ma è stato “convinto” dal crollo in Borsa del titolo Mediaset, precipitato del 40% in poche ore. Così ha dovuto «abbassare la testa e accettare la terza grande aggressione degli interessi nazionali dell’Italia da parte da parte dei francesi». Ci hanno sempre messo i bastoni tra le ruote, ma il peggio è che adesso l’ossigeno di sta esaurendo: «Non abbiamo più un welfare universale, abbiamo solo un welfare residuale che sta creando ulteriori lacerazioni sul territorio, anche perché spesso è destinato soprattutto agli immigrati. E quindi crea tensioni politiche e sociali che poi diventano determinanti nelle scelte dell’elettorato». Nonostante ciò, osserva Galloni, l’Italia non è ancora crollata: ha dimostrato capacità di resistenza impensabili.«In Italia ci sono 4 milioni di imprese, su quattro milioni e mezzo, che ormai sono fuori dal capitalismo perché non lavorano più per il profitto, ma per controllare risorse reali, darsi una dignità, un futuro». Aziende che «sfuggono a quelle che sono le regole dell’economia e della finanza». Anziché vendere l’azienda e vivere di rendita finanziaria, quattro milioni di imprenditori italiani – caso unico, in tutto l’Occidente – hanno tenuto duro pagando le tasse sulle perdite, senza nessun aiuto dal sistema bancario, e in più con infrastrutture oblsolete e la pubblica amministrazione che rema contro. «Però queste piccole imprese italiane hanno la caratteristica di essere competitive sui mercati internazionali, tant’è che noi siamo, con la Germania, l’unico paese che ha visto aumentare le esportazioni». Stiamo parlando di 9 miliardi di euro: «Non è tanto, però è significativo che ci sia un segno positivo. Ma ancora più significativo e positivo è che ci sia stata una riduzione di 40 miliardi di euro nell’importazione di prodotti agricoli e alimentari, dovuta ad un impressionante ritorno di tre milioni e duecentomila giovani che si sono impegnati nell’agricoltura, per fare quello che i loro padri non volevano più fare: riprendere il mestiere dei nonni». Giovani che «sono tornati a fare quello che si faceva in Italia prima del miracolo economico, che è stato soprattutto industriale».Abbiamo perso tutta la nostra grande industria privata, compreso l’80% di quella a partecipazione statale, che era un gioiello (ma quel 20% che ci rimane ancora fa molta gola a parecchi, compresi i francesi). Però, aggiunge Galloni, abbiamo mantenuto in vita l’80% della piccola industria, delle piccole imprese. «Stiamo parlando di più di 7 milioni di famiglie, che poi corrispondono grossomodo a quel 50% di elettorato che non va più a votare: è gente che non si farà abbindolare da nessuno di quelli che si presentano alle elezioni». La Francia non sta molto meglio: il suo grande problema, sociale, è quello che divide i francesi dagli immigrati, cittadini di serie B. «Da noi è esclusivamente un problema di censo, mentre da loro è un problema di nazionalità: e questo fa sì che lo studente che si è preso una laurea e che vive nella banlieue parigina non potrà mai accettare questo sistema francese». Ora, i grandi potentati finanziari – che finora si erano orientati verso i grandi immobili, i grandi alberghi – adesso stanno puntando all’agricoltura, ai terreni. E con la scusa delle crisi del sistema bancario italiano «cercheranno di entrare con grandi capitali per comprare i mutui al 10-20% del loro valore nominale, per poi rivendere gli appartamenti al 20-30% del mutuo residuo stesso. È un’operazione semplicissima, però potrebbe essere estremamente drammatica».Però poi è difficile che queste ciambelle riescano col buco, aggiunge Galloni, «perché l’Italia ha le energie per reagire e rimettersi in pista». Grande incognita, ovviamente, l’Unione Europea: avremo ancora il “quantitative easing” della Bce o prevarrà un ritorno alle posizioni più rigide, con la riapertura dell’incubo spread, che è un grande ricatto nei confronti del paese? Si insisterà sul Fiscal Compact, «che ovviamente ci metterebbe in ginocchio», oppure i “falchi” perderanno e ci sarà un recupero di fiducia fra i vari paesi? «I grandi potentati finanziari e le grandi multinazionali sono, per loro stessa natura, predatori: non guardano in faccia a nessuno. E dove vedono delle prede di più facile cattura (come siamo noi italiani, perché non abbiamo un governo, una guida, non abbiamo una pubblica amministrazione che funziona, non abbiamo un sistema bancario adeguato alle condizioni e non abbiamo – salvo alcune eccezioni – un sistema infrastrutturale adeguato) è chiaro che loro se ne approfitteranno». Nel 2018 saranno quotate in Borsa le Ferrovie dello Stato? Pessima idea: «Dopo, invece d’inseguire il miglioramento del servizio, dovranno inseguire l’aumento dei saggi d’interesse, altrimenti il titolo perderebbe valore».Lo sappiamo: è in atto una sorta di deindustrializzazione dell’Italia, a vantaggio di élite europee ed extra-nazionali a svantaggio della nostra popolazione. Come possiamo tenerci le industrie? «Dei modi ci sarebbero», risponde Galloni, «ma fanno perno sul ripristino della sovranità nazionale», che non è per forza la chiusura delle frontiere. La sovranità “saggia”, e ormai indispensabile, poggia sulla consapevolezza che quest’Europa dell’euro non sta funzionando: potrebbe implodere. Il Piano-B? «Affiancare alla moneta internazionale – che è straniera – una moneta nazionale». E gli altri paesi dovrebbero fare lo stesso. «Una moneta nazionale non è proibita dai trattati europei, perché avrebbe solo circolazione interna, ma sicuramente servirebbe per fare quegli investimenti e quelle assunzioni – dove servono – per ridare respiro al paese e ripristinare quel concetto di “welfare universale” che ci salva dalla guerra civile». Dopo il 1970, quando cioè l’umanità ha raggiunto livelli record di capacità produttiva, «la crisi ha iniziato a significare che la gente non ha abbastanza reddito». E perché il denaro non circola, beché ormai svincolato dal valore dell’oro? Presto detto: «Non esercitando più la propria sovranità monetaria, lo Stato si trova nella stessa situazione di un qualunque disgraziato che debba chiedere un prestito, se vuole fare investimenti. E non ne può fare di più grandi rispetto a quello che incamera con le tasse».Ma quello delle tasse è un falso problema, spiega Galloni: se si tagliano le tasse ma anche la spesa pubblica, la gente avrà più soldi ma li spenderà tutti per pagare i servizi che prima erano gratuiti. A quel punto la classe media si impoverisce, faccendo crollare i consumi: addio quindi a qualsiasi possibile ripresa. «I consumi aumentano se aumentano i salari, ma oggi non ci sono le condizioni: purtroppo ce le siamo bruciate per tutta una serie di scelte furiosamente sbagliate in tutti i campi, cioè tutte le politiche che hanno portato la flessibilizzazione del lavoro in precarizzazione». Questo ovviamente ha impoverito tutti, «tranne le multinazionali che venivano qui a depredare». Ma l’impresa normale «non ha un vantaggio se i lavoratori sono sottopagati, perché allora chi compra i suoi prodotti?». Si potrebbe rispondere: ci pensano le esportazioni. «Ma per essere competitivi con le esportazioni – cioè con paesi dove i salari sono ancora più bassi dei nostri – devi ridurre i salari. Quindi è sempre un cane che si morde la coda, perché per essere competitivo devi ridurre la domanda interna, ovvero l’economia interna. Che è esattamente il modello europeo. Per questo non funziona, il modello europeo. Se non si supera questo modello deflattivo, il salario sull’occupazione, non ne esce vivo nessuno. Questo lo devono capire i francesi, i tedeschi o gli olandesi e tutti quanti».Che può fare l’Italia, da subito? Lo Stato può emettere una sua moneta, in qualsiasi momento. Il Trattato di Maastricht (articolo 128a) dice che non possiamo stampare banconote. Che problema c’è? Basta stampare “Statonote”, a circolazione nazionale, da usare per assumere e per fare investimenti, «perché poi chi le accettasse le utilizzerebbe per pagare le tasse». In questo modo, si aggirerebbe anche la tagliola del pareggio di bilancio in Costituzione (regalo di Monti), «perché se abbiamo spese superiori alle tasse, basterà aggiungere questa moneta sovrana, la quale – non essendo a debito – avrà lo stesso segno algebrico delle tasse, e cioè il segno più. Quindi: tasse più moneta sovrana, uguale spesa. E abbiamo anche il pareggio di bilancio senza tanti drammi». E possiamo persino coniare degli euro. Le monete vengono stabilite dalla Bce in base a dei plafond nazionali, «quindi non possiamo coniare monete della stessa pezzatura di quelle che abbiamo in tasca. Ma possiamo farlo con altre pezzature. Già la Finlandia lo fa con monete da 2,50 euro, e la Germania ha emesso monete da 5 euro. Anche in Italia sono state emesse monete da 10 euro».In Europa, fino al 1979 la filosofia dominante era che chi fosse stato più forte doveva fare delle rinunce per aiutare gli altri. Funzionava fino a un certo punto, «perché comunque i francesi e tedeschi facevano i marpioni, i furboni, e noi italiani – come al solito – invece aiutavamo gli spagnoli, i greci e i portoghesi a entrare». Dopo il 1979, con il G7 di Tokyo, si rompe il patto di solidarietà e l’Europa ne risente, «per cui il progetto europeo diventa un altro», continua Galloni. «E allora avvengono tutta una serie di scelte che poi porteranno all’euro». A quel punto l’abbrivio è stato molto negativo, ma si voleva fare una politica “di convergenza” che costringesse gli Stati ad avere gli stessi parametri finanziari, anche se avevano situazioni diverse a livello di economia reale. E poi magari si dava un contentino con i fondi la coesione, che furono utili soprattutto per i paesi come la Polonia, che entravano nell’Unione Europea in condizioni molto difficili. «Però alla fine ci siamo trovati con un’Europa dove l’obiettivo è la massimizzazione delle esportazioni, anche a basso valore aggiunto, che si realizzano riducendo salari e occupazione. Quindi è una politica deflattiva dove l’euro funge da moneta straniera, artificiosamente scarsa, che per averla devi pagare». Una vita d’uscita? «La moneta parallela statale, che non è a debito». Non è l’unica soluzione, ma è un passaggio fondamentale: «Dobbiamo rompere l’artificiosità della scarsità, perché sennò non ne usciamo».Ad esempio, per fare il reddito di cittadinanza «dobbiamo togliere a una parte della classe media delle risorse per darle a quelli che non hanno reddito». Errore: il vero reddito di cittadinanza, dice Galloni, deve consistere nella creazione di 7-8 milioni di posizioni lavorative «per mandare a regime tutte le esigenze della società italiana in termini di ambiente, di assetto idrogeologico del territorio, di cura delle persone (soprattutto gli anziani, ma anche i bambini) e di recupero del patrimonio artistico, archeologico e comunque esistente: manutenzioni, strade e ferrovie». Quindi, «se davvero vogliamo essere un paese moderno, è chiaro che abbiamo bisogno di 7-8 milioni di addetti». Ma non ne abbiamo, «quindi non c’è bisogno di fare il reddito di cittadinanza». C’è bisogno, invece di lavoro: che si può creare rapidamente, con moneta sovrana. «Dobbiamo rompere la condizione di scarsità artificiosa, che è voluta per asservire la gente e rendere la democrazia un costo. Invece, la democrazia dev’essere un modo che noi scegliamo per vivere, come scritto nella nostra Costituzione. Se invece diciamo che la democrazia non ce la possiamo permettere – perché non abbiamo i soldi per gestirla – è chiaro che non c’è soluzione».Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.
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L’Italia è il paese Ue con più poveri: sono oltre 10 milioni
L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.Sono considerate tali le persone che non si possono permettere almeno cinque cose ritenute necessarie, come un pasto proteico ogni due giorni, vestiti nuovi per sostituire quelli inutilizzabili, un’auto, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all’anno, una connessione a internet, un‘uscita al mese con gli amici. Se invece dei numeri assoluti si guardano le percentuali, la classifica cambia. I Paesi europei con le maggiori quote di cittadini deprivati sono Romania, con il 49,7%, Bulgaria (48%), Grecia (36%), Ungheria (32%) e Lituania (29%). I paesi nordici sono quelli che stanno meglio. La percentuale di indigenti sulla popolazione è solo del 3% in Svezia, del 4% in Finlandia e del 5% in Lussemburgo e del 6% in Danimarca. In tutta la Ue la deprivazione colpisce di più le persone con livelli di istruzione bassi. Il 25% dei cittadini con bassi livelli di istruzione ne soffre, mentre il tasso è solo del 14% tra chi ha un’istruzione secondaria e del 5% per i laureati. Povertà triplicata in dieci anni. La povertà in Italia è aumentata esponenzialmente dopo la crisi finanziaria: tra 2007 e 2008 i poveri assoluti sono saliti di 400mila unità, a 2,1 milioni, e i poveri relativi sono aumentati altrettanto, a 6,5 milioni.Di lì al 2012 l’incremento è stato lento e costante: i poveri assoluti sono diventati 2,3 milioni nel 2009, 2,47 milioni nel 2010, 2,65 nel 2011, addirittura 3,5 nel 2012 (la crisi ha iniziato a falcidiare i posti di lavoro), 4,4 nel 2013. L’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione italiana è passata di conseguenza dal 2,9% del 2006 al 7,9% del 2016. Il nuovo Reddito di inclusione, un assegno variabile tra 187 e 485 euro che può essere richiesto ai Comuni dai nuclei in difficoltà, è un passo avanti ma non basta: i fondi stanziati dal governo bastano per circa 1,8 milioni di persone, un terzo di chi ne avrebbe bisogno. Nel frattempo, sempre stando ai dati Istat, ben 18 milioni di italiani si sono ritrovati “a rischio povertà o esclusione”. Si tratta del 30% della popolazione, in salita rispetto al 2015 mentre a livello Ue la percentuale è diminuita dal 23,8 al 23,5%. E’ l’effetto, secondo l’istituto di statistica, di un aumento della disuguaglianza: il quinto più ricco della popolazione ha visto crescere i propri redditi molto più di quelli della parte più povera. Il rischio povertà in Italia è “molto superiore”, ha segnalato l’Istat, “a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%)”.(“Povertà, Italia primo paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione: sono 10,5 milioni”, dal “Fatto Quotidiano” del 13 dicembre 2017).L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.
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Rubinetti anche alle fontane: se vuoi l’acqua devi pagare
Bere l’acqua della fontana? Bei tempi, quando l’acqua corrente era libera e gratuita. Ora siamo in regime di arrembante privatizzazione: se vuoi un sorso d’acqua potabile, anche in aperta campagna, la devi pagare. A chi? A chi se n’è appropriato, alla multi-utility di turno che, con il pieno consenso della politica, gliel’ha consegnata (nonostante il referendum del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua pubblica). Lo ricorda il “Secolo XIX”, in un articolo che fotografa la situazione 2017 in val d’Aveto, nell’entroterra di Chiavari. «Fontanelle e trogoli di campagna e montagna, ovvero acqua che arriva in molti casi direttamente dalla fonte. E che è considerata pubblica nella sua accezione di libera, gratuita. Forse era così una volta. Ora quel concetto sta per andare in pensione», scrive Italo Vallebella sul quotidiano ligure. «Nell’area metropolitana di Genova sono solo due i Comuni rimasti con quello che a oggi potrebbe essere definito un benefit: Rezzoaglio e Santo Stefano d’Aveto». Ma i contatori per trogoli e lavatoi stanno per arrivare anche qui, dove sinora i Comuni pagavano a forfait.In molti paesi i contatori sono già arrivati, continua il “Secolo”, e «l’acqua che una volta era considerata pubblica, nel senso di libera, diventerà a pagamento a consumo e non più a tariffazione forfettaria». Chi pagherà? «I rispettivi Comuni che, per difendersi da eventuali bollette “pazze”, avranno a disposizione tre opzioni: sostituire i rubinetti con sistemi a pulsante (in modo che non possano esserci sprechi di acqua), confidare nel buon senso delle persone oppure chiudere trogoli e fontanelle, perdendo un altro pezzo di cultura rurale». Ma al di là dell’aspetto romantico, prosegue il giornale, la preoccupazione in val d’Aveto è alta, soprattutto in chi ha attività agricole o di allevamento: «Tra alcuni mesi (i tempi non sono ancora chiari, ma è solo questione di tempo) anche nelle varie frazioni l’acqua sarà pagata in base ai consumi e non più in virtù di un forfait». Un aspetto che non può che deprimere gli abitanti: è un altro pezzo di mondo (di vita) che sparisce, nell’asta universale della privatizzazione di qualsuasi bene monetizzabile.Precisazione doverosa: Iren, la società che sta piazzando i rubinetti anche nei più sperduti borghi dell’entroterra ligure, è regolarmente autorizzata: per legge, può benissimo mettere i contatori anche ai trogoli, ai lavatoi. «C’è solo una via per evitare il contatore: essere allacciati ad un acquedotto consortile, come accade per esempio a Sopralacroce, nel Comune di Borzonasca», scrive Vallebella. «In tutti gli altri casi, Iren è autorizzata a intervenire anche dove ci sono acquedotti che un tempo erano privati, ma che sono passati in seguito alla gestione comunale. E allacciati a questi acquedotti ci sono anche fontane, lavatoi e trogoli, simboli di un tempo che rischia di essere sempre più lontano e di una cultura che, complici le varie difficoltà, ha sempre meno custodi». Il grande problema? Quando veniva presa la decisione di sottoporre a gestione privata l’erogazione dell’acqua, qualcuno ha alzato la mano per votare e altri hanno firmato deocumenti, ma la popolazione era disinformata o distratta. Se accorge adesso, di fronte alle fontane asciutte.Bere l’acqua della fontana? Bei tempi, quando l’acqua corrente era libera e gratuita. Ora siamo in regime di arrembante privatizzazione: se vuoi un sorso d’acqua potabile, anche in aperta campagna, la devi pagare. A chi? A chi se n’è appropriato, alla multi-utility di turno che, con il pieno consenso della politica, gliel’ha consegnata (nonostante il referendum del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua pubblica). Lo ricorda il “Secolo XIX”, in un articolo che fotografa la situazione 2017 in val d’Aveto, nell’entroterra di Chiavari. «Fontanelle e trogoli di campagna e montagna, ovvero acqua che arriva in molti casi direttamente dalla fonte. E che è considerata pubblica nella sua accezione di libera, gratuita. Forse era così una volta. Ora quel concetto sta per andare in pensione», scrive Italo Vallebella sul quotidiano ligure. «Nell’area metropolitana di Genova sono solo due i Comuni rimasti con quello che a oggi potrebbe essere definito un benefit: Rezzoaglio e Santo Stefano d’Aveto». Ma i contatori per trogoli e lavatoi stanno per arrivare anche qui, dove sinora i Comuni pagavano a forfait.
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Globalizzati e sempre più poveri: come nell’Impero Romano
I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.In Europa occidentale questo è un po’ meno evidente, o forse è solo in ritardo, ma con il globalismo e il neoliberismo, che sono ancora le religioni economiche dominanti, non ci sarà via d’uscita. Che è successo? Beh, noi non facciamo più le cose. Ecco tutto. Dobbiamo comprare da altri tutte le cose che ci servono: sempre di più. E di conseguenza non abbiamo nemmeno le competenze per fare altre cose. Siamo diventati dipendenti, per la nostra sopravvivenza, da nazioni che stanno dall’altra parte del pianeta. Dipendenti da nazioni che sono interessate solo a venderci le loro cose, se le possiamo pagare. Nazioni che vedono le richieste di salario interno salire e che – dovranno – farci pagare i loro prodotti a prezzi sempre più alti. E noi non avremo altra scelta che pagare. Ma possiamo pagare solo con quello che possiamo prendere in prestito – come nazioni, come imprese e come individui. Dobbiamo prendere in prestito perché, come nazioni, come società e come individui noi non facciamo più le cose. È un circolo vizioso con cui la globalizzazione ci ha benedetto. E da cui – ci viene detto – potremo uscire solo se riusciremo a crescere ancora. Cosa che non possiamo fare, perché noi non facciamo nulla.Quindi ci affidiamo ai banchieri centrali per gestire la crisi. Perché ci viene detto che loro sanno come gestirla. Non lo sanno, ma fingono di saperlo. Però, a leggere bene tra le righe, ammettono la loro ignoranza. A Janet Yellen, poche settimane fa, è scappato di dire che non ha idea del motivo per cui l’inflazione è debole. Mario Draghi ha detto più o meno la stessa cosa. Perché non lo sanno? Perché conoscono solo i modelli attuali, che non vanno più bene, perché non si adattano. E i modelli sono tutti quelli che hanno. Nel settore bancario centrale i modelli economici sono più importanti del buon senso. La Fed ha almeno un migliaio di dottorati PhDs sotto contratto. Ma la Yellen, il loro capo, continua a sostenere che “forse” sono sbagliati i modelli che dicono che se cresce l’inflazione aumentano i salari. Non hanno idea del perché i salari non crescano. Perché i modelli dicono che invece dovrebbero crescere. Perché loro hanno tutti un lavoro – i 1000 dottoroni ben pagati. E questo è tutto quello che hanno da dire. Dicono che il fatto che i salari non aumentano è un mistero.Io dico che quelli per cui questo è un mistero non sono le persone giuste per fare il lavoro che fanno. Se si esportano milioni di posti di lavoro in Asia, si sposta anche il potere negoziale dei lavoratori e li si spinge a fare dei lavori di merda e senza nessun benefit, allora c’è solo un risultato possibile. E questo risultato non include né inflazione, né crescita dei salari. L’unico risultato possibile, invece, è una erosione continua delle economie. Il mantra globalista afferma che riempiremo lo spazio che perdono le nostre economie offrendo posti di lavoro migliori, nel settore dei servizi e nel settore della conoscenza. Ma la realtà non segue il mantra. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro non sono sicuramente “migliori”. E mentre aspettiamo di vedere questi posti di lavoro migliori, salutiamo i clienti di Wal-Mart, vediamo che i robot cominciano a prendersi cura di quel poco che ci rimane della nostra capacità produttiva e i servizi pronta consegna eliminano dagli scaffali anche quello che restava nei nostri magazzini di mattoni e di calce. Sì, questo significa che stiamo perdendo anche i lavori “di minor qualità”.Nel frattempo i cinesi, che ora fanno i nostri vecchi lavori, sono stati capaci di farli grazie ad una folle quantità di inquinamento prodotto. E come se non fosse abbastanza, recentemente, solo per mantenere in vita il loro nuovo magico paradiso produttivo, sono stati costretti a prendere in prestito tanto quanto abbiamo preso in prestito noi – a livello statale, a livello di governo locale e ora anche a livello individuale. In Cina, le funzioni del credito sono come gli oppiacei in America. Milioni di persone che non erano mai entrate in contatto con le cose – e avrebbero continuato a viver bene anche se non ci fossero mai entrate in contatto – ora sono state agganciate. Ma sono stati agganciati anche i governi locali, che hanno creato un sistema bancario ombra che minaccerà presto Pechino; ma per i cittadini, questo, è un fenomeno relativamente nuovo. E si vede gente che dice cose come: “Se non compri un appartamento oggi, non te lo potrai mai più permettere”; oppure: “Una persona senza un appartamento non ha futuro a Shenzhen”.Sappiamo tutti che è sbagliato, ma i cinesi sono gente che ha visto solo che i prezzi dei beni salgono, e che non ha mai pensato che esistono delle città fantasma, e che ha pochi altri modi per parcheggiare i soldi che si guadagna, grazie al lavoro importato dagli Stati Uniti e dall’Europa. Pensano, senza avere mai dubbi, che i loro salari continueranno a crescere, proprio come il “valore” degli appartamenti. E’ gente che non ha mai visto i prezzi scendere. Ma se noi dobbiamo prendere soldi in prestito per permetterci di comprare i prodotti che (i cinesi) fanno per ripagare i soldi che hanno preso in prestito per comprare i loro appartamenti, allora siamo tutti in difficoltà, siamo tutti in mezzo ai guai. E allora è la stessa globalizzazione ad essere in difficoltà. I beneficiari assoluti, i proprietari della globalizzazione saranno in mezzo ai guai. Anche se lo saranno non prima di essersi pappati la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Che cosa ci farete, poi, con tutti i vostri miliardi, quando il tipo di società che avevate conosciuto quando siete cresciuti saranno state sradicate dal processo stesso che vi ha permesso di fare quei miliardi? Da qualche parte però, quei miliardi dovranno andare!Se quei 1000 dottoroni vogliono studiare un nuovo modello, potrebbero cominciare da qui. La globalizzazione provoca molti problemi. Il fatto che il lavoro scompaia dalle società – in modo che i cittadini di queste società possano però acquistare gli stessi prodotti per pochi centesimi di meno, se vengono in Cina – è un grande problema. Ma il problema principale della globalizzazione è quello finanziario: i soldi svaniscono continuamente dalle società, che devono indebitarsi sempre più per non regredire. La globalizzazione, come qualsiasi tipo di centralizzazione, fa questo: chiede soldi lontano, li chiede alle “periferie”. Il modello di Wal-Mart, McDonald’s, Starbucks ha già portato via lavoro, negozi e soldi incalcolabili dalle nostre società, ma non abbiamo ancora visto nulla. L’avvento di Internet farà prendere gli steroidi a quel modello; ma perché bisogna lasciare che un gruppo di capitalisti-avventurieri di Silicon Valley gestisca certi affari, come Uber o Airbnb, anche nel posto in cui viviamo noi, quando noi potemmo farlo benissimo e utilizzare i profitti di questi affari per migliorare la nostra comunità, invece di lasciarla diventare più povera?Vedo che, nel Regno Unito, Jeremy Corbyn ci aveva già pensato, e aveva fatto bene. La Gran Bretagna può diventare la prima grande vittima del lato oscuro della centralizzazione e, dopo essere uscita dall’organizzazione che l’appoggia – l’Unione Europea – l’idea di Corbyn di creare una cooperativa locale per sostituire Uber è proprio il modo di pensare di cui avrà bisogno. Ma perché devi accentrare tanti soldi e tanta capacità produttiva e poi lasciare tutto nel posto in cui si vive? Non si riuscirà mai a correre abbastanza velocemente, e non si deve farlo. Questo è il succo del dibattito sulla centralizzazione dell’Impero Romano. Anche se i Romani non spingevano mai le loro periferie a smettere di produrre i beni essenziali, però chiedevano di versare a Roma una parte. Il loro problema era che, verso la fine dell’Impero, la quota-parte che richiedevano (con la forza) divenne sempre più grande. Fino a che le periferie non si ribellarono – anche loro con forza.Il club delle banche centrali del mondo presto avrà delle nuove leadership. La Yellen potrebbe andar via, così come Kuroda in Giappone e Zhou in Cina; la Bce e Mario Draghi – della Goldman – cambieranno un po’ più tardi. Ma non c’è nessun segnale che le religioni economiche a cui aderiscono tutti saranno sostituite; così si andrà avanti con la centralizzazione. E se non dovesse funzionare, imporranno ancora più centralizzazione. Come finiranno i giochi in questo processo è dolorosamente ovvio già dall’inizio. La centralizzazione alimenta forze centrali, siano esse governative, militari o commerciali, pagate con i frutti del lavoro delle popolazioni locali, delle periferie. Questo è un processo che, sempre e inevitabilmente, andrà a sbattere contro un muro, perché sono troppi i frutti di quel lavoro che vengono tolti. Troppo è il peso di quei frutti che continuano a scorrere verso il centro, sia verso la Silicon Valley, sia verso Wall Street o sia verso Roma Antica. Non c’è nessuna differenza. Ci sono cose che si possono tranquillamente centralizzare (come le trattative di pace), ma non si possono centralizzare beni essenziali come il cibo, la casa, i trasporti, l’acqua, l’abbigliamento. Hanno un costo troppo alto a livello locale per essere centralizzati. Oppure tutti e ovunque finiremo per romperci l’osso del collo solo per sopravvivere. E’ molto facile, forse perché nessuno ci fa caso.(Raul Ilargi Meijer, “La globalizzazione è povertà”, da “The Automatic Earth” del 16 ottobre 2017, post ripreso da “Come Con Chisciotte” con traduzione di Bosque Primario).I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.
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Cripto-rublo a tasso zero: Mosca, rivoluzione trasparente
Il cripto-rublo confonde molte persone. Non dovrebbe. Putin ha appena preso il comando della cripto-tecnologia. Sono settimane che dal governo russo riceviamo segnali confusi sulle criptovalute. Da una parte lo vediamo abbracciare questa nuova tecnologia, dall’altra dichiararle guerra. Per questo non si capiscono bene le intenzioni di Mosca in materia. Cercherò di eliminare questa confusione basandomi sui dati a disposizione. Basta dire che questa è una buona notizia sia per i Bitcoin che per l’economia russa. Datemi qualche minuto e vi spiegherò perché. Putin crede fermamente nelle leggi. Nell’arena pubblica opera sempre in loro conformità. E le criptovalute, nonostante la loro flessibilità, operano al limite della legalità, il che lo mette a disagio. La posizione dei russi sulle criptovalute è dunque quella di eliminare le attività illegali – riciclaggio di denaro, finanziamento del terrorismo, traffico di esseri umani, ecc. – e allo stesso tempo sfruttare questa tecnologia per modernizzare le capacità di gestione dei capitali interni. Il cripto-rublo è un ponte tra il cripto-mondo e il mondo reale. Garantisce che questa nuova forma di rubli rispetti correttamente il flusso di capitali.Tassando i cripto-rubli a chi non è in grado di fornire una documentazione della proprietà, Putin sta incentivando lo sviluppo di sistemi di cripto-pagamento a basso costo. L’obiettivo è quello di scambiare rubli per merci solo in criptovalute che traccino anche la proprietà, come Ethereum ed altri che hanno una cronologia dei propri Blockchain trasparente. Putin sta apertamente invitando investimenti legali e alla luce del sole. A prescindere dalla moneta, la Russia vuole sul proprio suolo solo imprese legittime. Il cripto-rublo fornisce i mezzi per convertire, senza spese di transazione, nuovamente nella moneta nazionale ‘fiat’, per pagare bollette, tasse e simili. Questo in opposizione diretta al modo con cui gli Stati Uniti, ad esempio, trattano le criptovalute. Il regolamento Irs del 2014 che ha classificato i Bitcoin come “proprietà” implica che ogni transazione Bitcoin, non importa quanto piccola, crea un potenziale utile. Ciò significa che prendere un caffè da Starbucks via Bitcoin è imponibile sia per l’acquirente che per Starbucks quando andrà a vendere tali Bitcoin e li convertirà in dollari per pagare salari, ordini di consegna, ecc.È per questo che il capitale che si è spostato sulle criptovalute non tornerà indietro. È per questo che è esploso il mercato delle Ico. Miliardi di profitti, non tassati, pronti per essere reinvestiti. È anche il motivo principale per cui Amazon, ad esempio, non accetta Bitcoin. Chi vorrebbe questa seccatura? La struttura del cripto-rublo aggira l’ostacolo per chi dimostra la proprietà dal Blockchain. Bitcoin consente la trasparenza delle transazioni, così come Ethereum, Litecoin e molti altri. Ora, le due valute possono convivere senza doversi preoccupare della doppia tassazione, a meno che uno non guadagni in modo oscuro, nel qual caso Mosca vuole il 13% degli utili. Questo nuovo sistema non riporterà il capitale nell’economia russa, ma tanto non sarebbe tornato comunque. Definendo i Bitcoin come uno schema Ponzi e un modo per riciclare denaro, Putin e la Banca di Russia stanno semplicemente attaccando tecnologie non autoctone. Putin preferirebbe che si usassero piattaforme russe. Ricordate, è un nazionalista, e vuole portare il proprio paese in questo mercato che sarà molto importante in futuro.Ethereum e Waves sono entrambe piattaforme progettate e costruite per la Russia. Notate che Vlad non ha mai parlato male di Ethereum. Waves continua ad essere poco considerato, ma è potente come Ethereum. Entrambi forniscono una piattaforma per agire come “Infrastructure as a service” (Iaas) per la prossima generazione di applicazioni basate su Internet. Ethereum è un sistema operativo per Internet 3.0 mentre Waves è un mercato valutario di prossima generazione, che fornisce una piattaforma semplice per investimenti in private e public equity. Waves sosterrà la mossa di Mosca di scambiare criptovalute e relativi derivati. Agirà sulla soglia di ogni scambio di valuta. Per cui, se avete dollari, Bitcoin, rubli o Ethereum alla fine potrete acquistare e vendere titoli presso la Borsa di Mosca. Tutto pulito e legale. E alla luce del sole. Il cattivo Putin, vedendo che i titoli russi vendono oltre il 7%, cerca investitori in fondi pensione: attraverso la via cripto, ha appena dato ai manager di tali fondi un modo per entrare. Non pensate neanche per un attimo che a Putin non piacciano i Bitcoin come mezzo per attirare investimenti.Questa è l’essenza del Russian Miner Coin. Vuole solo che il settore venga regolamentato, così da massimizzare i profitti per la sfera pubblica. Il capitale va dove viene trattato meglio. Data la fragile situazione dei sistemi finanziari e politici globali, lo stabile governo russo è un asset. Ciò di cui gli investitori hanno bisogno è esser sicuri di trarci un guadagno. Lo schema del cripto-rublo fa parte di questo processo di costruzione della fiducia. Da investitore americano, ora so di poter, ad esempio, investire direttamente in un’offerta di stock o bond di un’azienda russa. Posso veder convertiti i miei dividendi o cedole in cripto-rubli, scambiarli immediatamente con Bitcoin o qualsiasi valuta di mia scelta. E posso non pagarci le tasse fino a che non li riconverto in dollari. Al momento non è tecnicamente possibile, specialmente con le sanzioni. Dove è possibile, è costoso ed è una grossa lungaggine. Putin è intelligente, e ha ottimi consiglieri. Mosse come questa sono una risposta a quelle fatte dagli americani per privare la Russia di capitali (vedasi le sanzioni decise da McCain).Fornire una piattaforma con cui il capitale possa entrare in Russia senza essere bloccato è ora fondamentale per sopravvivere nei prossimi due anni. Non è sua responsabilità controllare gli investitori statunitensi, solo verificare che rispettino la legge russa. Il vantaggio della prima mossa qui è importante. Se la Russia continua a sviluppare la tecnologia Blockchain e ad abbracciarla in modo relativamente privo di imposte, non importa che stia “regolamentando” il meraviglioso mercato decentrato delle criptovalute. Quel che importa è che la Russia tratti i cripto-investitori meglio degli altri. Nella lotta per i flussi globali di capitali, non devi essere perfetto, solo essere leggermente meglio degli altri. L’arbitraggio si prenderà cura del resto. E lo scambio rublo/cripto-rublo, esente da tasse, è l’applicazione che il cripto-mercato cercava per portarlo al livello successivo. La Russia ci è arrivata per prima.(Tom Luongo, “Il cripto-rublo ha appena cambiato le carte in tavola”, dal blog di Luongo del 16 ottobre 2017, ripreso da “Come Don Chisciotte” con traduzione di Hmg).Il cripto-rublo confonde molte persone. Non dovrebbe. Putin ha appena preso il comando della cripto-tecnologia. Sono settimane che dal governo russo riceviamo segnali confusi sulle criptovalute. Da una parte lo vediamo abbracciare questa nuova tecnologia, dall’altra dichiararle guerra. Per questo non si capiscono bene le intenzioni di Mosca in materia. Cercherò di eliminare questa confusione basandomi sui dati a disposizione. Basta dire che questa è una buona notizia sia per i Bitcoin che per l’economia russa. Datemi qualche minuto e vi spiegherò perché. Putin crede fermamente nelle leggi. Nell’arena pubblica opera sempre in loro conformità. E le criptovalute, nonostante la loro flessibilità, operano al limite della legalità, il che lo mette a disagio. La posizione dei russi sulle criptovalute è dunque quella di eliminare le attività illegali – riciclaggio di denaro, finanziamento del terrorismo, traffico di esseri umani, ecc. – e allo stesso tempo sfruttare questa tecnologia per modernizzare le capacità di gestione dei capitali interni. Il cripto-rublo è un ponte tra il cripto-mondo e il mondo reale. Garantisce che questa nuova forma di rubli rispetti correttamente il flusso di capitali.
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L’eroica lotta degli italiani per i diritti, un esempio per tutti
Gli studenti americani si sono ribellati, la scorsa settimana, ed hanno impedito ad un portavoce di Donald Trump di venire a tenere un discorso all’Università di Berkeley. Incuranti dei getti d’acqua e dello spray urticante della polizia, questi studenti hanno lottato fino all’ultimo per affermare il proprio diritto di non vedere il loro campus calpestato da un personaggio con cui non volevano avere nulla a che fare. I cittadini catalani stanno portando avanti da mesi una dura lotta per riuscire a fare il referendum sulla secessione, e stanno obbligando il premier Mariano Rajoy a ricorrere a tutte le più sofisticate armi burocratiche pur di impedirglielo. Avanti di questo passo, riusciranno sicuramente a meritarsi il diritto di votare liberamente sul futuro della propria regione. In Romania da quasi una settimana il popolo è sceso in piazza contro le riforme del governo, che voleva abolire il reato di abuso di ufficio e altri reati minori.Compatti e uniti, i cittadini romeni sono riusciti ad ottenere il ritiro del nuovo regolamento da parte del proprio governo, e ora, non contenti, chiedono anche la testa del proprio primo ministro. Anche in Italia i nostri concittadini hanno imparato ormai da tempo a scendere in strada per difendere i propri diritti. Storico infatti il loro successo dell’anno scorso, nel quale, dopo una lunga serie di dure manifestazioni di piazza, sono riusciti a far revocare dal governo l’abolizione dell’articolo 18. Altrettanto entusiasmante è stata la protesta con la quale si sono rifiutati di vedersi inserire l’obbligo del pagamento del canone televisivo nella bolletta elettrica, una scelta chiaramente incostituzionale.Ancora più rumorose ed efficaci sono le lotte che stanno facendo gli italiani in piazza per vedere finalmente rispettato il loro diritto di andare a votare, e di scegliersi il proprio governo con elezioni regolari. In fondo, dopo aver espresso con tanta chiarezza il proprio desiderio, il 4 dicembre, non ci si poteva che aspettare una presa di posizione così forte da parte dei nostri concittadini in difesa dei propri diritti. Noi sì che siamo un popolo di gente unita e dura, gente che sa combattere per ottenere ciò che ci spetta, e che su questo terreno non ha nulla da imparare da nessuno. (Chiedo scusa, ma temo di essermi addormentato scrivendo l’ultima parte dell’articolo).(Massimo Mazzucco, “Italiani esempio per tutti”, dal blog “Luogo Comune” del 5 febbraio 2017).Gli studenti americani si sono ribellati, la scorsa settimana, ed hanno impedito ad un portavoce di Donald Trump di venire a tenere un discorso all’Università di Berkeley. Incuranti dei getti d’acqua e dello spray urticante della polizia, questi studenti hanno lottato fino all’ultimo per affermare il proprio diritto di non vedere il loro campus calpestato da un personaggio con cui non volevano avere nulla a che fare. I cittadini catalani stanno portando avanti da mesi una dura lotta per riuscire a fare il referendum sulla secessione, e stanno obbligando il premier Mariano Rajoy a ricorrere a tutte le più sofisticate armi burocratiche pur di impedirglielo. Avanti di questo passo, riusciranno sicuramente a meritarsi il diritto di votare liberamente sul futuro della propria regione. In Romania da quasi una settimana il popolo è sceso in piazza contro le riforme del governo, che voleva abolire il reato di abuso di ufficio e altri reati minori.
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Craig Roberts: sembra Ue, ma è Cia. Il suo veleno? L’euro
“Un anello per domarli tutti… e nel buio incatenarli” (J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”). La Seconda Guerra Mondiale è finita con la conquista dell’Europa, non da parte di Berlino, ma da parte di Washington. La conquista era certa, ma non la si poteva ottenere tutta in una volta. La conquista di Washington dell’Europa è avvenuta grazie al Piano Marshall, alla paura dell’Armata Rossa di Stalin (che ha portato l’Europa a fare affidamento sulla protezione di Washington e a subordinare le forze armate europee agli Stati Uniti, all’interno della Nato), alla sostituzione della sterlina con il dollaro Usa come valuta di riserva mondiale e al lungo processo di subordinazione della sovranità dei singoli paesi europei verso l’Unione Europea, un’iniziativa della Cia attuata da Washington per controllare tutta l’Europa attraverso un solo e irresponsabile governo. Con poche eccezioni, principalmente il Regno Unito, l’adesione all’Unione Europea ha significato anche la perdita di indipendenza finanziaria. Dato che solo la Banca Centrale Europea è in grado di creare euro, quei paesi così sciocchi da accettarlo come valuta non hanno più avuto il potere di creare il proprio denaro per finanziare i deficit di bilancio.I paesi che hanno aderito all’euro devono fare affidamento su banche private per finanziare i loro deficit. Il risultato è che i paesi indebitati non possono più pagare i loro debiti con la creazione di denaro o sperare che questi debiti vengano abbassati a livelli che possono tenere sotto controllo. Invece, Grecia, Portogallo, Lettonia e Irlanda sono state saccheggiate dalle banche private. L’Ue ha costretto gli pseudo-governi di questi paesi a pagare le banche private del Nord Europa soffocando il tenore di vita delle loro popolazioni e privatizzando i beni pubblici svendendoli per due soldi rispetto al loro valore originale. Così le pensioni di anzianità, il pubblico impiego, l’istruzione e la sanità sono stati tagliati e il denaro reindirizzato alle banche private. Le aziende idriche municipali sono state privatizzate con il risultato che le bollette dell’acqua sono più elevate. E così via. Poiché non vi è alcuna ricompensa, solo punizioni, per essere un membro della Ue, perché i governi, nonostante i desideri espressi dei loro popoli, si uniscono?La risposta è che Washington ha voluto che non vi fossero altre possibilità. I fondatori europei della Ue sono creature mitiche. Washington ha utilizzato i politici pilotandoli nella creazione dell’Unione Europea. Alcuni anni fa sono stati rilasciati dei documenti della Cia che dimostrano che l’Ue è stata un’iniziativa della Cia stessa. Nel 1970 il presidente per la discussione della tesi del mio dottorato di ricerca, divenuto poi un funzionario di alto rango a Washington addetto al controllo degli affari di sicurezza internazionale, mi ha chiesto di intraprendere una missione delicata all’estero. Ho rifiutato. Tuttavia, egli ha risposto alla mia domanda: «Come fa Washington a fare in modo che i paesi stranieri facciano ciò che Washington vuole?». «Soldi», ha detto. «Diamo ai loro leader borse piene di soldi. Appartengono a noi». E’ chiaro che l’Ue serve gli interessi di Washington, non gli interessi dell’Europa. Ad esempio, il popolo francese e il governo sono contrari agli Ogm, ma l’Ue consente una “autorizzazione di mercato precauzionale” di introduzione degli Ogm, contando forse sulle “scoperte scientifiche” degli scienziati sul libro paga della Monsanto.Quando lo Stato americano del Vermont ha approvato una legge che impone l’etichettatura degli alimenti Ogm, la Monsanto gli ha fatto causa. Una volta che i funzionari dell’Ue, pagati di nascosto, firmeranno l’accordo Ttip scritto dalle multinazionali degli Stati Uniti, la Monsanto si impadronirà dell’agricoltura europea. Ma il pericolo per l’Europa va ben oltre la salute dei popoli europei, che saranno costretti a nutrirsi di cibi velenosi. Washington sta usando l’Ue per costringere gli europei a entrare in conflitto con la Russia, una potenza nucleare in grado di distruggere tutta l’Europa e tutti gli Stati Uniti in pochi minuti. Ciò sta accadendo perché i “leader” europei, pagati di nascosto con “borse piene di denaro”, hanno preferito avere il denaro di Washington nel breve periodo piuttosto che garantire la vita degli europei nel lungo periodo. Non è possibile che qualsiasi politico europeo sia sufficientemente idiota da credere che sia stata la Russia a invadere l’Ucraina, che la Russia da un momento all’altro invaderà la Polonia e gli Stati baltici, o che Putin sia un “nuovo Hitler” che progetta di ricostruire l’impero sovietico. Queste accuse assurde non sono altro che propaganda di Washington priva di qualsiasi verità. Tutto ciò è evidente. Nemmeno un idiota potrebbe crederci. Eppure l’Unione Europea va di pari passo con la propaganda, come fa la Nato. Perché?La risposta è il denaro di Washington. L’Ue e la Nato sono assolutamente corrotte. Sono le puttane ben pagate di Washington. L’unico modo che gli europei hanno per impedire una Terza Guerra Mondiale nucleare, e continuare a vivere e godere di ciò che resta della loro cultura (che gli americani non sono riusciti a distruggere con la loro cultura di sesso, violenza e avidità) è, per i governi europei, quello di seguire l’esempio del governo inglese e uscire dall’Unione Europea creata dalla Cia. E l’uscita dalla Nato, il cui scopo è evaporato con il crollo dell’Unione Sovietica, e che ora viene usata come uno strumento di egemonia mondiale da parte di Washington. Perché gli europei vogliono morire per favorire l’egemonia mondiale di Washington? Ciò significa che gli europei stessi stanno morendo a causa di questa egemonia (esercitata allo stesso modo sull’Europa). Perché gli europei vogliono sostenere Washington, i cui alti funzionari, come Victoria Nuland, dicono “l’Unione Europea si fotta”? Gli europei stanno già soffrendo a causa delle sanzioni economiche che il loro signore a Washington li ha costretti ad applicare nei confronti della Russia e dell’Iran. Perché gli europei desiderano essere distrutti da una guerra contro la Russia? Gli europei vogliono forse morire?Sono stati americanizzati e non apprezzano più l’enorme quantità di bellezze artistiche e architettoniche, letterarie e musicali di cui i loro paesi sono custodi? La risposta è che non fa alcuna differenza che cosa pensino gli europei, perché Washington ha istituito per loro un governo che è totalmente indipendente dalla loro volontà. Il governo dell’Ue è tenuto a rispondere solo per il denaro di Washington. Alcune persone capaci di emettere editti sono sul libro paga di Washington. Gli interi popoli d’Europa sono servi di Washington. Pertanto, se gli europei rimangono i popoli creduloni, indifferenti e stupidi che attualmente sono, verranno condannati, assieme al resto di noi. D’altra parte, se i popoli europei saranno in grado di rinsavire, di liberarsi dalla Matrix che Washington ha imposto su di loro, e di rivoltarsi contro gli agenti di Washington che li controllano, i popoli europei potranno salvare la propria vita e la vita di tutti noi.(Paul Craig Roberts, “L’Ue è condannata al vassallaggio nei confronti di Washington”, dal blog di Craig Roberts del 27 luglio 2016, tradotto da “Desastrado” per “Come Don Chisciotte”. Eminente analista ed economista statunitense, Roberts è stato viceministro del Tesoro con Ronald Reagan).“Un anello per domarli tutti… e nel buio incatenarli” (J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”). La Seconda Guerra Mondiale è finita con la conquista dell’Europa, non da parte di Berlino, ma da parte di Washington. La conquista era certa, ma non la si poteva ottenere tutta in una volta. La conquista di Washington dell’Europa è avvenuta grazie al Piano Marshall, alla paura dell’Armata Rossa di Stalin (che ha portato l’Europa a fare affidamento sulla protezione di Washington e a subordinare le forze armate europee agli Stati Uniti, all’interno della Nato), alla sostituzione della sterlina con il dollaro Usa come valuta di riserva mondiale e al lungo processo di subordinazione della sovranità dei singoli paesi europei verso l’Unione Europea, un’iniziativa della Cia attuata da Washington per controllare tutta l’Europa attraverso un solo e irresponsabile governo. Con poche eccezioni, principalmente il Regno Unito, l’adesione all’Unione Europea ha significato anche la perdita di indipendenza finanziaria. Dato che solo la Banca Centrale Europea è in grado di creare euro, quei paesi così sciocchi da accettarlo come valuta non hanno più avuto il potere di creare il proprio denaro per finanziare i deficit di bilancio.
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Colpi di mano e tradimenti, nell’ascesa di Renzi (e di Hitler)
Questo appunto, serio e faceto insieme, intende descrivere oggettive analogie di metodo politico-giuridico nella scalata al potere compiuta dai due statisti e non affermare qualsivoglia equivalenza dei loro meriti o demeriti, né assimilar tra loro le rispettive personalità. Hitler nel 1933 e Renzi nel 2016 stanno ambedue giocandosi il tutto per tutto per scalare il controllo dello Stato e per mutarne radicalmente la Costituzione vigente, ma nel rispetto formale delle sue norme, ossia per rivoltarli dall’interno, servendosi dei poteri dello Stato, anziché attaccandoli materialmente dall’esterno. Entrambi riconoscono che l’ostacolo principale al loro progetto è la separazione dei poteri dello Stato assieme all’esistenza di organi di controllo indipendenti, e puntano a eliminarlo unendo in sé il potere esecutivo, quello legislativo, quello di nomina degli organi di controllo.Entrambi vengono terzi e ultimi di una serie di premier (il primo dopo Von Papen e Von Schleicher, il secondo dopo Monti e Letta) che sono “premier del presidente” (rispettivamente, del vecchio presidente Von Hindenburg e del vecchio presidente Napolitano), dove “premier del presidente” significa “capo del governo scelto e sostenuto dal capo dello Stato” che gli firma i decreti legge anche al di fuori dei presupposti costituzionali per la loro emissione e che assicura loro il voto del Parlamento (forzando i partiti a collaborare e minacciando i parlamentari di scioglierlo se gli vota la sfiducia, così da far loro perdere seggio e vitalizio). E qui segnalo una differenza tra Hitler e Renzi: Von Hindenburg era stato eletto dal popolo a maggioranza assoluta, mentre Napolitano da una maggioranza parlamentare frutto di una legge poi dichiarata incostituzionale, cioè del Porcellum, che è la medesima maggioranza con cui Renzi ha fatto votare la sua Costituzione. Quindi il percorso di Renzi verso il potere è meno democraticamente legittimato e meno formalmente “legalitario” di quello di Hitler.Torniamo alle analogie. Entrambi epurarono l’ala sociale del loro partito (rappresentate rispettivamente, diciamo, da Strasser e da Fassina) per assicurarsi l’appoggio e le sovvenzioni del grande capitale. Hitler divenne premier pugnalando alle spalle Von Schleicher, Renzi pugnalando alle spalle Enrico Letta. Entrambi rassicurarono la vittima prima di colpirla. Hitler fece uccidere Von Schleicher il 30giugno 1934. Ambedue hanno cercato invano di ottenere la maggioranza assoluta alla elezioni generali, e hanno conseguito il potere sfruttando le divisioni e la miopia dell’insieme delle altre forze politiche. Ambedue hanno sfiorato il 40% dei suffragi popolari, per poi iniziare a perdere consensi, ma hanno continuato nondimeno la scalata al potere e le rispettive riforme, fino a conseguirle, nonostante il declino della fiducia popolare. Una volta divenuti premier, entrambi hanno preteso e ottenuto di modificare la Costituzione in modo da accentrare nelle proprie mani le fila di tutti i poteri dello Stato, eliminando i controlli indipendenti di garanzia e la possibilità di una reale opposizione parlamentare.Entrambi hanno usato il governo, il potere esecutivo, per promuovere queste riforme costituzionali. Entrambi hanno chiamato il popolo a un referendum confermativo del nuovo ordine – Hitler nell’agosto 1934, Renzi nell’ottobre 2016 – presentando il referendum come un plebiscito per legittimare politicamente la propria persona senza sottoporsi ad elezioni generali, e per legare alla propria persona il nuovo ordine costituzionale. Entrambi hanno fatto riforme che limitano sostanzialmente la partecipazione e la scelta politica popolari in favore delle liste bloccate redatte dal capo del partito. Inoltre entrambi hanno preteso e ottenuto di sopprimere le autonomie federali, imponendo ai governi e i parlamenti regionali il principio di supremazia del governo centrale.Ancora, entrambi hanno soppiantato la figura del presidente, dopo averla usata per scalare il potere: Hitler assorbendone le funzioni alla morte di Von Hindenburg, Renzi, alle dimissioni di Napolitano, scegliendosi in proprio una persona assecondante, senza spicco né autonomia, come poi avverrà automaticamente sotto la sua Costituzione, con effetto analogo a quello ottenuto da Hitler quando riunì alla propria carica di premier quella di presidente. Entrambi, prima delle votazioni decisive, si sono assicurati appoggio e visibilità da parte dei principali mezzi di informazione di massa, sostituendo i direttori delle testate con uomini di loro fiducia: Hitler prevalentemente con la forza, Renzi prevalentemente con le sovvenzioni, il canone in bolletta e soprattutto occupando la direzione della Rai. Entrambi hanno saputo comperare, fino all’ultimo, il sostegno dei cattolici centristi. Hitler li scaricò non appena possibile. Entrambi, infine e naturalmente, hanno agito per il dominio della Germania sull’Europa.(Marco Della Luna, “Hitler e Renzi, analogie di metodo”, dal blog di Della Luna del 15 maggio 2016).Questo appunto, serio e faceto insieme, intende descrivere oggettive analogie di metodo politico-giuridico nella scalata al potere compiuta dai due statisti e non affermare qualsivoglia equivalenza dei loro meriti o demeriti, né assimilar tra loro le rispettive personalità. Hitler nel 1933 e Renzi nel 2016 stanno ambedue giocandosi il tutto per tutto per scalare il controllo dello Stato e per mutarne radicalmente la Costituzione vigente, ma nel rispetto formale delle sue norme, ossia per rivoltarli dall’interno, servendosi dei poteri dello Stato, anziché attaccandoli materialmente dall’esterno. Entrambi riconoscono che l’ostacolo principale al loro progetto è la separazione dei poteri dello Stato assieme all’esistenza di organi di controllo indipendenti, e puntano a eliminarlo unendo in sé il potere esecutivo, quello legislativo, quello di nomina degli organi di controllo.
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Erri De Luca: il referendum, per non restare sudditi a vita
Il malaffare Guidi non è un episodio isolato, ma la prassi: interessi privati in pubblico servizio, con l’aggravante del danno alla salute e all’economia di una comunità. Il personale politico al potere è regolarmente corrotto e se ne infischia delle conseguenze. Le dimissioni preparano a nuovi incarichi e non all’esilio. Il 17 aprile si va a riscattare la nostra cittadinanza contro la riduzione a sudditi del satrapo di turno. Si va a riempire le urne di Sì per affermare la nostra sovranità sul mare, sui fondali, sulle coste e sull’economia della bellezza, nostra irripetibile fonte di reddito e di credito. Per il giurista Stefano Rodotà, con l’attacco frontale ai referendum Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Al governo serve un’astensione totale dei cittadini, una rinuncia a partecipare e interessarsi, complice una informazione che procede a reti unificate con la censura del referendum. Istigano alla diserzione dalle urne. Al governo serve l’anestesia delle coscienze per proseguire con la svendita e lo stupro del territorio, come fosse cosa sua privata.Siamo alla democrazia drogata da anestetico. Perciò il 17 aprile lo chiamerei giorno di caffeina civile, giorno di adrenalina e di pronto soccorso al nostro suolo. Non è un voto contro il governo, è il voto di chi vuole bene al suo paese. Questo governo, anch’esso non uscito da urne, gode di una congiuntura favorevole: ha maggioranze parlamentari variabili dovute al fine corsa di Forza Italia che vuole sfruttare tutta la durata della legislatura. Da questa posizione irripetibile di vantaggio il governo spadroneggia. Il guasto del nostro paese è la corruzione. Questa è la tirannia penetrata nelle fibre della società, che produce inerzia. Attribuisco al 17 aprile un’ importanza superiore al quesito del referendum: assume il senso di un risveglio di cittadinanza oppure, l’alternativa, la sottomissione all’emiro nostrano. Chi sta con le trivelle in mare vede l’Italia come un suo emirato.Per il comitato del No, con il blocco futuro delle concessioni l’Italia avrebbe bisogno di sopperire al gas e al petrolio “perso” rifornendosi altrove, il che si tradurrebbe nell’arrivo di un maggior numero di petroliere che aumenterebbero i rischi di inquinamento da idrocarburi nei nostri mari. Inoltre le trivellazioni porterebbero ad un risparmio di quasi 5 miliardi l’anno sulla bolletta energetica. Come replico? Sono balle desolate. Le concessioni, come dice la parola, concedono ai petrolieri di vendere l’estratto a chi vogliono loro. Quel gas, quel petrolio non è nostro, per concessione è loro. Da noi intanto con tenacia cresce l’energia rinnovabile che investe sulla dipendenza dal sole e dal vento, per liberarsi dalla dipendenza dei trivellatori, degli sfruttatori e dei loro concessionari politici. Il settore chimico della Cgil si è schierato per il No al referendum per il rischio della perdita dei posti di lavoro? Non è così. Quei posti di lavoro sono altamente specializzati e trovano collocazione ovunque. È puro corporativismo analfabeta, da parte di un sindacato, pronunciarsi contro questo referendum voluto da sette Regioni e per legittima difesa.(Erri De Luca, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Referendum, caffeina civile contro l’anestesia delle coscienze”, pubblicata da “Micromega” il 4 aprile 2016).Il malaffare Guidi non è un episodio isolato, ma la prassi: interessi privati in pubblico servizio, con l’aggravante del danno alla salute e all’economia di una comunità. Il personale politico al potere è regolarmente corrotto e se ne infischia delle conseguenze. Le dimissioni preparano a nuovi incarichi e non all’esilio. Il 17 aprile si va a riscattare la nostra cittadinanza contro la riduzione a sudditi del satrapo di turno. Si va a riempire le urne di Sì per affermare la nostra sovranità sul mare, sui fondali, sulle coste e sull’economia della bellezza, nostra irripetibile fonte di reddito e di credito. Per il giurista Stefano Rodotà, con l’attacco frontale ai referendum Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Al governo serve un’astensione totale dei cittadini, una rinuncia a partecipare e interessarsi, complice una informazione che procede a reti unificate con la censura del referendum. Istigano alla diserzione dalle urne. Al governo serve l’anestesia delle coscienze per proseguire con la svendita e lo stupro del territorio, come fosse cosa sua privata.
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Attenti alle tasse occulte, sono il 96% e strozzano gli italiani
Il contribuente non è consapevole di dare allo Stato gran parte del suo guadagno, salvo poi accorgersi dell’alto costo del lavoro (se è un datore) o dell’esiguità dello stipendio (se è un dipendente). Il calcolo di quanto sia nascosto il fisco italiano lo ha fatto la Cgia di Mestre. Nel 96% dei casi le tasse sono occulte, cioè vengono prelevate alla fonte, ovvero dalla busta paga, o sono incluse nei beni o nei servizi che vengono acquistati. Un lavoratore dipendente compie il gesto consapevole di versare allo Stato solo per il 4%, andando in banca o alla posta. Nel 2016 una famiglia tipo di due lavoratori dipendenti con un figlio, ha calcolato il centro studi della Cgia, pagherà in media 17mila euro di tasse. Per la quasi totalità prelevate alla fonte. Il prelievo “alla fonte” rappresenta il 65% del totale del carico fiscale annuo. Rientrano in questa categoria i versamenti dei contributi previdenziali Inps, Irpef e le addizionali regionali e comunali Irpef. Ma nelle tasse “nascoste” rientra anche l’Iva, l’imposta su beni e servizi incorporata nel prezzo. Ultimo arrivato, il canone Rai che non pagheremo più allo sportello, ma dentro una bolletta.Le altre tasse, quelle consapevoli, sono ormai sono ridotte al lumicino: da quest’anno solo il bollo auto e la Tari costringono la famiglia di dipendenti a mettere mano al portafogli per un importo di 696 euro (pari al 4% del totale), ha calcolato la Cgia. Il tema dei contribuenti inconsapevoli torna agli onori delle cronache ogni volta che qualcuno propone di parificare il regime fiscale per gli autonomi e per i dipendenti, lasciando a questi ultimi il lordo in busta paga e l’onere di versare le imposte con la dichiarazione. Operai e impiegati, trattati come avvocati e commercianti. Proposta sempre bocciata perché – questa la motivazione dei contrari – farebbe aumentare l’evasione fiscale. Ma non c’è solo questo. «Nel momento in cui ci rechiamo in banca o alle poste per pagare – segnala il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo – psicologicamente percepiamo maggiormente il peso economico di questi versamenti rispetto a quando subiamo il prelievo dell’Irpef o dei contributi previdenziali direttamente dalla busta paga».«Nel momento in cui mettiamo mano al portafoglio prendiamo atto dell’entità del pagamento e di riflesso scatta una forma di avversione nei confronti del fisco. All’opposto, quando i tributi vengono riscossi alla fonte, l’operazione è astrattamente indolore, perché avviene in maniera automatica». Meglio quindi nascondere le imposte, lasciando al contribuente-dipendente l’impressione che il suo lavoro valga poco. Se pagasse allo sportello, si accorgerebbe di pagare il 4% più del collega tedesco, il 6% di un olandese, del 9% con uno spagnolo e il 13% di un irlandese. Se versasse in prima persona le imposte, diventerebbe consapevole della sproporzione tra la somma che finisce allo Stato e il servizio offerto. Si trasformerebbe, insomma, in un lavoratore autonomo. E questo non piace al fisco.(Antonio Signorini, “Le tasse nascoste che strozzano gli italiani”, da “Il Giornale” del 13 marzo 2016).Il contribuente non è consapevole di dare allo Stato gran parte del suo guadagno, salvo poi accorgersi dell’alto costo del lavoro (se è un datore) o dell’esiguità dello stipendio (se è un dipendente). Il calcolo di quanto sia nascosto il fisco italiano lo ha fatto la Cgia di Mestre. Nel 96% dei casi le tasse sono occulte, cioè vengono prelevate alla fonte, ovvero dalla busta paga, o sono incluse nei beni o nei servizi che vengono acquistati. Un lavoratore dipendente compie il gesto consapevole di versare allo Stato solo per il 4%, andando in banca o alla posta. Nel 2016 una famiglia tipo di due lavoratori dipendenti con un figlio, ha calcolato il centro studi della Cgia, pagherà in media 17mila euro di tasse. Per la quasi totalità prelevate alla fonte. Il prelievo “alla fonte” rappresenta il 65% del totale del carico fiscale annuo. Rientrano in questa categoria i versamenti dei contributi previdenziali Inps, Irpef e le addizionali regionali e comunali Irpef. Ma nelle tasse “nascoste” rientra anche l’Iva, l’imposta su beni e servizi incorporata nel prezzo. Ultimo arrivato, il canone Rai che non pagheremo più allo sportello, ma dentro una bolletta.