Archivio del Tag ‘Borboni’
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Conte governa coi bollettini dei contagi, la politica è morta
Può il bollettino dei contagi sostituire il Parlamento? Se lo domanda Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, dopo la decisione di Conte di prorogare lo stato d’emergenza a causa del Covid–19 fino al 31 gennaio 2021. «Praticamente, l’Italia resterà in questa condizione per un anno intero, unico paese in Europa». Il 1° ottobre, il numero dei tamponi eseguiti ha battuto ogni record: oltre 115.000. Ma terapie intensive, decessi e ricoveri restano pressoché in linea con il numero dei giorni precedenti. Siamo “schiavi del bollettino”? La verità è che «ognuno dice la sua, e Conte decide prima ancora di consultare il Parlamento». Anche se non si tratta di un lockdown generale, scrive Da Rold, lo stato d’emergenza «mette maggiore ansia in un paese che è angosciato da altre prove che lo attendono, non solo in campo sanitario», e inserisce un nuovo motivo di polemica «proprio mentre ci si dovrebbe unire in uno sforzo comune sia per affrontare la pandemia, sia per affrontare quella che ormai sembra una crisi di sistema». Da anni, ormai, la democrazia parlamentare «sembra più preoccupata di garantire un libero mercato che abbia poche regole, piuttosto che la coesione sociale e i diritti di tutti i cittadini».In questo modo «si sono accentuate le differenze sociali, si sono ridotte le funzione dei Parlamenti e si è creata confusione fra i tre classici poteri». L’eco dello scontro, «ai limiti della decenza», tra Donald Trump e Joe Biden nel primo dibattito televisivo per le presidenziali americane «ha lasciato un po’ tutti stupefatti, ma è sembrato un segnale allarmante per come si presenti oggi la democrazia americana, quella che è stata – insieme alla Gran Bretagna, pur con tutti i suoi limiti – uno dei maggiori riferimenti per i democratici di tutto il mondo». Quanto all’Italia, sembra che il nostro paese sia «veramente sull’orlo di una vera e propria crisi di sistema». Tanto per cominciare, «c’è un governo che è composto principalmente da due forze che, al momento, hanno più motivi di divisione che di coesione». Divisi su tutto, Pd e Movimento 5 Stelle sono separati anche sul fronte costituzionale: contrariando Zingaretti, Grillo ha detto che non crede più nella democrazia rappresentativa. Ruolo della magistratura, Mes e Recovery Fund: non c’è intesa su niente. Senza contare che adesso «diventa inquietante» il ritardo con cui arriverebbero gli aiuti europei.Scontato, in fondo, per un governo-disastro nato al solo scopo di escludere la Lega? Di certo, il trasformismo “acrobatico” di Conte, passato dal governo con Salvini a quello contro Salvini, «ha di fatto indebolito tutta la politica nel suo complesso, non riuscendo tra l’altro a creare un’unità necessaria per superare una crisi di sistema». Non ci sono solo le critiche di Sabino Cassese sulla ridotta funzione del Parlamento, sul taglio lineare dei parlamentari avvenuto cancellando due articoli della Costituzione, con un referendum che ha esaltato solo Luigi Di Maio. Il problema è che, guardando ai risultati delle elezioni regionali, vedendo le proiezioni nazionali e i sondaggi – aggiunge Da Rold – non esiste solo un governo che è in minoranza numerica nel paese, ma paradossalmente maggioranza in Parlamento. Tra partiti e movimenti, «non esiste più un punto di riferimento, un autentico partito di maggioranza relativa intorno a cui sviluppare una linea politica di coalizione». Non solo: «Il proporzionale è destinato ad aumentare ancor più la confusione».Se la Lega perde voti e non raggiunge il 24%, e il Pd è inchiodato al 20%, i 5 Stelle – attualmente, partito di maggioranza relativa in Parlamento – stanno scivolando al quarto posto della classifica, forse prossimi al 10%. Cresce la Meloni, ma Forza Italia è in via di estinzione: «C’è qualcuno che può spiegare quale tipo di maggioranza funzionante, coesa, può uscire da un simile panorama politico?». Ed ecco delinearsi «una crisi di sistema veramente grave», peggiorata da quella che Da Rold definisce «l’invadenza delle magistratura nella politica», e l’atavica elefantiasi di una burocrazia «borbonica». Servirebbe «un governo che almeno assomigli a un esecutivo di unità nazionale», in grado di affrontare «la situazione sanitaria, occupazionale, economica, scolastica». E invece, si scivola verso il baratro.Può il bollettino dei contagi sostituire il Parlamento? Se lo domanda Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario“, dopo la decisione di Conte di prorogare lo stato d’emergenza a causa del Covid–19 fino al 31 gennaio 2021. «Praticamente, l’Italia resterà in questa condizione per un anno intero, unico paese in Europa». Il 1° ottobre, il numero dei tamponi eseguiti ha battuto ogni record: oltre 115.000. Ma terapie intensive, decessi e ricoveri restano pressoché in linea con il numero dei giorni precedenti. Siamo “schiavi del bollettino”? La verità è che «ognuno dice la sua, e Conte decide prima ancora di consultare il Parlamento». Anche se non si tratta di un lockdown generale, scrive Da Rold, lo stato d’emergenza «mette maggiore ansia in un paese che è angosciato da altre prove che lo attendono, non solo in campo sanitario», e inserisce un nuovo motivo di polemica «proprio mentre ci si dovrebbe unire in uno sforzo comune sia per affrontare la pandemia, sia per affrontare quella che ormai sembra una crisi di sistema». Da anni, ormai, la democrazia parlamentare «sembra più preoccupata di garantire un libero mercato che abbia poche regole, piuttosto che la coesione sociale e i diritti di tutti i cittadini».
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Bizzi: i massoni italiani? Morti nel lockdown, arresi al potere
Questo mio articolo a molti non piacerà, ma sinceramente non me ne curo. Non piacerà, in primis, a molti “complottari” della domenica, abituati – per pregiudizio, per ignoranza o per condizionamenti ideologici – a vedere ovunque lo zampino del famigerato “complotto giudaico-massonico” e a considerare la Libera Muratoria l’origine e la causa di ogni male. Certi soggetti, al pari di molti “covidioti” dei nostri giorni, difficilmente sono recuperabili alla ragione, a meno che non si facciano un corso accelerato di Storia (la Storia quella vera, con la “S” maiuscola). Non piacerà, in secondo luogo, anche a molti Liberi Muratori, o presunti tali, soprattutto a quelli che boriosamente si autodefiniscono “Costruttori di Cattedrali”, ma che in realtà sono “visitatori di cattedrali” la cui cattedrale interiore, quella dello Spirito, è assai meno solida di due mattoncini Lego assemblati al contrario. Più che ai primi, quindi, mi rivolgerò proprio ai secondi. Nei giorni scorsi mi è capitato di leggere, su Facebook e su altre piattaforme, delle animate discussioni aperte da alcuni Fratelli i quali, mentre l’Italia sta sprofondando sempre di più in una dittatura orwelliana in salsa tecnocratico-cinese, invece di allarmarsi e di indignarsi per il fatto che la nostra Costituzione venga ignobilmente e impunemente ogni giorno calpestata dal peggiore governo che il nostro paese abbia mai subito, indovinate un po’ di cosa si preoccupavano? Della fantomatica presenza di “fascisti” all’interno delle logge!
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Il Corriere: gli Stati Generali di Francheschiello, il Re Sòla
«Tornassi indietro, rifarei tutto uguale». Il primo segnale che qualcosa non andava avremmo forse dovuto coglierlo il giorno che Conte andò per la prima volta in Lombardia, il 27 aprile, un paio di mesi dopo il primo caso di Codogno. Insomma, dal premier di un paese che piange 35 mila morti e conta 235 mila casi di Covid-19 ci si sarebbe potuto aspettare qualche dubbio in più sulla propria performance. Ma gli indizi, da allora, si sono succeduti e moltiplicati: un tratto sovrano, non sovranista ma proprio sovrano, una leggera megalomania, una folie de grandeur sembra essersi impadronita dell’ex avvocato del popolo, trasformando la narrazione dell’umile figlio della patria strappato alla sua amata professione, in quella del padre della patria vocato a una missione salvifica. «Rifarei tutto uguale» l’aveva detto solo Trump. E anche «tutto il mondo ci copia». «Renderò edotto il Parlamento», invece, l’avrebbe potuto dire Trump perché lui è presidente, non del Consiglio ma degli Stati Uniti. Invece neanche Trump l’ha detto. Conte sì, quando ha annunciato, con grazia, che dal sistema emergenziale dei Dpcm sarebbe passato a informare le Camere a scadenze fisse. Ma le frasi non dicono tutto. E poi ci vuole un orecchio allenato per coglierne la progressiva enfasi monarchica.Le immagini contano di più. Il cortile di Palazzo Chigi addobbato con guida rossa e standing portavoce per una conferenza stampa aveva una innegabile assonanza presidenziale con la coreografia dell’Eliseo. E il concedersi a microfoni e telecamere del press pack in Piazza Colonna, beh, quello sembra preso pari pari dai meeting informali con la stampa e le tv del premier inglese davanti a Downing Street. Manca il giardino della Casa Bianca, ma forse a Villa Pamphilj si potrà riparare. Naturalmente è bastato dire «Stati Generali» per evocare un sospetto di sovranità, anche se in realtà molto sfortunata, perché l’esito della manovra politica di Luigi XVI per risolvere la grande emergenza del suo regno fu così orribile da restare proverbiale. Ma siamo certi che Conte non avesse di certo in mente quel Borbone quando ha usato la fatidica immagine. Secondo alcuni dei suoi critici si immaginava piuttosto come un predecessore del decapitato, il Re Sole. Secondo altri, più cattivi, il Borbone cui rischia di assomigliare è di un altro ramo: Franceschiello, l’ultimo re delle Due Sicilie.C’è chi dice che Conte lo fa perché si è messo in testa di dotarsi di un suo partito, che i sondaggi danno tra il 12 e il 15, un po’ meno di quanto davano al partito di Monti mentre questi era a Palazzo Chigi, giusto per memoria di quanto transit gloria mundi. C’è chi invece insinua che nella sua testa siano state piantate ambizioni più grandi, visto che nel 2022 si elegge il Capo dello Stato, e se il Parlamento tiene fino ad allora ad eleggerlo dovrebbe essere l’attuale maggioranza. Confesso che non credo a queste maldicenze. La minaccia di farsi un partito, fatta circolare in queste settimane, sembra più che altro un’assicurazione per tenersi i partiti che ha: come minaccia verso i Cinquestelle per esempio funziona, attenti che se andiamo alle urne vi rubo un po’ di voti. E la storia del Capo dello Stato, beh, se uno vuole fare il Capo dello Stato la prima attività cui si applica è quella di conquistarsi qualche amico nell’opposizione, perché la maggioranza politica del momento non è mai bastata per salire al Quirinale, e questa volta meno che mai, visto che dovrebbe contare sulla lealtà di Renzi.Forse le cose sono più semplici, e più casuali. Forse non è estraneo un elemento di improvvisazione che nella cultura politica di Conte è quasi inevitabile, viste le origini. Non si vuol qui dire che possa essere paragonato al personaggio di un dramma romantico di Victor Hugo, Ruy Blas, valletto di un altro conte che si ritrova a fare il primo ministro di Spagna per una somiglianza. Ma certo il nostro Conte è un premier per caso, asceso a Palazzo Chigi per mancanza di un leader vincente alle elezioni, e rimastoci grazie a un ribaltamento di maggioranza. Il fatto è che l’uomo ha un eloquio indubbiamente fluente, forse retaggio di oratoria da avvocato, è intelligente e ha una certa simpatia fisica, e certe volte ci si affida un po’ troppo. Si dovrà dunque essere comprensivi per qualche stonatura istituzionale. Come quando, l’altro giorno, ha risposto al centrodestra che chiedeva di essere consultato nelle sedi istituzionali, che Villa Pamphilj lo è, visto che è sede di rappresentanza, mentre quelli intendevano la sede dei rappresentanti, il Parlamento.Se di qualcosa Conte aveva bisogno per dare forza istituzionale ai suoi Stati Generali quella era proprio la partecipazione delle opposizioni; darne l’annuncio senza averli prima conquistati all’idea è stata dunque più ingenuità e fregola mediatica che arroganza. Né, se il mestiere politico fosse stato più radicato, il premier si sarebbe mai fatto scappare, per descrivere il programma dei lavori, che la prima serata avrebbe visto la partecipazione di «grandi ospiti internazionali», mutuando alla perfezione il lessico di Amadeus. Ma queste sono nuances. Più pericoloso per un aspirante sovrano, soprattutto quando incontra vis-à-vis il popolo come ha fatto l’altra sera parlando con un contestatore in piazza, è mostrare di non sapere che il reddito di cittadinanza non è di 800 euro per tutti, ma molto, molto meno per tanti. Perché ricorda troppo da vicino la storia delle brioche di un’altra personalità coinvolta nella storia degli Stati Generali: Maria Antonietta.(Antonio Polito, “Conte, frasi e scenografie solenni: l’enfasi da Re Sole dell’avvocato del popolo”, dal “Corriere della Sera” del 12 giugno 2020).«Tornassi indietro, rifarei tutto uguale». Il primo segnale che qualcosa non andava avremmo forse dovuto coglierlo il giorno che Conte andò per la prima volta in Lombardia, il 27 aprile, un paio di mesi dopo il primo caso di Codogno. Insomma, dal premier di un paese che piange 35 mila morti e conta 235 mila casi di Covid-19 ci si sarebbe potuto aspettare qualche dubbio in più sulla propria performance. Ma gli indizi, da allora, si sono succeduti e moltiplicati: un tratto sovrano, non sovranista ma proprio sovrano, una leggera megalomania, una folie de grandeur sembra essersi impadronita dell’ex avvocato del popolo, trasformando la narrazione dell’umile figlio della patria strappato alla sua amata professione, in quella del padre della patria vocato a una missione salvifica. «Rifarei tutto uguale» l’aveva detto solo Trump. E anche «tutto il mondo ci copia». «Renderò edotto il Parlamento», invece, l’avrebbe potuto dire Trump perché lui è presidente, non del Consiglio ma degli Stati Uniti. Invece neanche Trump l’ha detto. Conte sì, quando ha annunciato, con grazia, che dal sistema emergenziale dei Dpcm sarebbe passato a informare le Camere a scadenze fisse. Ma le frasi non dicono tutto. E poi ci vuole un orecchio allenato per coglierne la progressiva enfasi monarchica.
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Cretini di sinistra, la “mafia” ipocrita che rimpiange Sciascia
Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro (un Conte ante litteram). Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate Rosse.Oggi prevale la favoletta della neutralità di Sciascia tra lo Stato e le Br, il famoso né né. In realtà Sciascia riteneva poco credibile la linea della fermezza dopo decenni di connivenza, di zona grigia e di cedimento dello Stato a ogni livello. E denunciava la rete larga di complicità intorno al terrorismo rilevando che «è in atto un’espansione del partito armato che sta trovando insediamenti sociali», mentre si continuava a negare la matrice comunista. «Le Brigate Rosse – scrisse Sciascia – erano rosse e non nere come tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale desideravano che fossero». Anzi, notava Sciascia, le Br si appellavano alla stessa fonte di legittimazione dello Stato democratico e antifascista: «La Resistenza è un valore indistruttibile anche per le Brigate Rosse: credono di esserne i figli». Le azioni terroristiche delle Br per lui saldarono il sistema, non lo fecero saltare. Il terzo spunto, connesso al precedente, fu il suo giudizio sul potere democristiano e su Aldo Moro. Le sue interpretazioni furono espresse già nel ’76 in “Todo Modo” e poi ne “L’Affaire Moro” e dispiacquero non solo alla Dc, ma anche al Pci e ai grandi giornali. Berlinguer arrivò a querelarlo. Scalfari lo stroncò prima che il suo libro sul caso Moro uscisse.Sciascia denunciò in Moro lo scarso senso dello Stato. Per lui Moro non era uno statista ma «un grande politicante». A Moro rimproverò pure di non aver speso una parola nelle sue tante lettere dal carcere per la sua scorta trucidata in via Fani. E come Pasolini, anche Sciascia ritenne che Moro avesse inventato un linguaggio incomprensibile, di cui fu detentore ma anche vittima (perché nessuno colse i messaggi cifrati delle sue lettere dal carcere delle Br), che secondo Sciascia serviva a tenere oscura e impenetrabile la chiave del potere. La lingua di Moro era per lo scrittore siciliano come il latino usato dalla Chiesa per rendersi incomprensibile al volgo e così alimentarne l’ossequio devoto. La lingua morotea a suo dire corrompeva la democrazia perché rendeva i percorsi del potere politico inaccessibili e arcani al popolo sovrano. Il quarto spunto di Sciascia è sulla sinistra antifascista. Mi limito a due citazioni riassuntive, tratte da “Nero su nero”: «Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è».E poi: «Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero solo a destra e perciò l’evento non ha trovato registrazione». Ecco l’antifascista di sinistra, intollerante ma cretino. Mirabile sintesi, assai attuale. Infine, in tema di Sicilia e di malgoverno, Sciascia dette una lezione di non conformismo, paragonando l’inefficacia e la corruttela che aveva accompagnato i terremoti avvenuti durante la repubblica italiana con quel che invece era accaduto ai tempi “nefasti” della controriforma e della vituperata dominazione spagnola. Nel 1693, nella Sicilia sotto la prepotenza spagnola, un terremoto colpì una cinquantina di Comuni, tra cui Catania, Avola, Lentini e Noto. Si recò sul luogo del disastro il duca di Camastra, vicario del vicerè, con pieni poteri e con la benedizione della Chiesa. Il signorotto, la Chiesa, i fondi da gestire: il triangolo perfetto del malaffare meridionale.E invece quel duca brusco, altero e devoto, che passava a cavallo tra le macerie, in pochi mesi ricostruì al meglio quei paesi. Il duca, scrisse Sciascia, temperava il rigore cattolico con il culto della bellezza; non si dirà lo stesso dei democratici che gestirono i terremoti più recenti e i loro fondi. Sono riusciti a far rimpiangere la dominazione spagnola. E Sciascia, volterriano laico, onestamente lo riconosceva. Quanti dei signorini che oggi lo invocano e lo rimpiangono avrebbero fatto altrettanto? Certo, Sciascia ha scritto ben altro, non si può ridurre la sua opera a queste polemiche. Ma ogni volta che comincia la messa cantata su Pasolini e Sciascia che ci mancano (a noi mancano anche tanti altri scrittori rimossi perché dalla parte sbagliata), allora vorrei far notare che per questo loro non conformismo subirono in vita linciaggi verbali e peggior sorte avrebbero avuto oggi. Magari anche dalle mafie culturali che ne piangono la scomparsa.(Marcello Veneziani, “Sciascia, rimpianto con ipocrisia”, da “La Verità” del 19 novembre 2019).Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro (un Conte ante litteram). Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate Rosse.
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Quale 25 Aprile e quale Liberazione, nella Colonia Italia?
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti, abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano, sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche definiscono razzismo. Mistificando per tale quello di chi smaschera l’operazione colonialista, detta globalizzazione, ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti, identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma tutti i missi dominici dell’Impero.Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta. E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato, federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i De Sica, Rossellini, Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente, tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla canna di un fucile.Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini, e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua, della sua comunità, del suo passato, presente, futuro, nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto “giustizia di popolo”.Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati, dall’estrema sinistra a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo” (e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa, proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne autorizza l’abbattimento: fatto che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù, ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’ insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e, quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini, incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che, sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora, preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.
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Salvini-Diciotti, Magaldi: quando la Lega tifava per i giudici
Ma che razza di democrazia è, quella in cui si affida a un’anomima piattaforma informatica la decisione sulla sorte di un ministro, per giunta alleato di governo? Possibile che i 5 Stelle non riescano a difendere in modo netto Matteo Salvini, senza dover consultare gli iscritti? Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, prende atto della preoccupante debolezza politica dei pentastellati: la loro classe dirigente non osa assumersi la piena responsabilità di schierarsi fino in fondo con il leader della Lega, messo alla berlina dalla magistratura per aver ostacolato lo sbarco dei migranti a bordo della nave Diciotti. Sequestro di persona? Questa l’ipotesi di reato, formulata dai magistrati siciliani. Durissimo, in proposito, un altro esponente del Movimento Roosevelt, Gianfranco Carpeoro: non è possibile sanzionare un politico per un legittimo atto governativo, dice Carpeoro in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «I migranti della Diciotti non erano affatto sequestrati: nessuno impediva loro di dirigersi altrove, Salvini ha solo frenato il loro ingresso in Italia», sostiene Carpeoro, che ipotizza un abuso extra-costituzionale. «Mi auguro – aggiunge – che altri magistrati valutino l’operato dei colleghi che hanno deciso di indagare Salvini».L’avvocato Pierluigi Winkler, altro “rooseveltiano”, fa notare che il sequestro di persona, come reato, dovrebbe avere alle spalle una finalità criminale: e di quale crimine si dovrebbe accusare il governo italiano, in questo caso? Concorda lo stesso Magaldi, a sua volta in diretta web su YouTube con Frabetti: «E’ evidente che Salvini non ha commesso alcun reato, e bene ha fatto il resto del governo – cioè i 5 Stelle e lo stesso Conte – a dichiararsi corresponsabile della decisione di Salvini. Quello che stupisce, semmai – aggiunge Magaldi – è che Di Maio e soci non abbiano trovato il coraggio di prendere la decisione di proteggere Salvini dall’azione giudiziaria, ricorrendo invece alla consultazione online degli iscritti». Democrazia diretta? «Va bene che il popolo dev’essere sovrano. Ma se proponesse una follia? Un gruppo dirigente deve sapersi assumere precise responsabilità, senza rinunciare a dire come la pensa». Pesa, sui 5 Stelle, il recentissimo passato giustizialista: tanti voti sono arrivati al movimento di Grillo proprio grazie alla retorica anti-casta, alla crociata contro i privilegi. Fino al punto da esporre un alleato di governo al rischio di farsi processare – concedendo l’autorizzazione a procedere – solo per aver tenuto fede alla sua linea politica?Gli stessi leghisti, peraltro – ricorda Magaldi – sono reduci della stessa “malattia” dei 5 Stelle: anche loro, guidati da Bossi, agitarono il cappio in Parlamento nella battaglia campale contro i politici corrotti. Invasione di campo, da parte della magistratura? «Negli anni ‘90, gli esponenti forcaioli della Lega Nord erano ben lieti che il pool di Mani Pulite facesse a pezzi i partiti della Prima Repubblica». Beninteso: i reati vanno perseguiti, e i partiti italiani scontavano un tasso elevato di corruzione, oltre all’ipocrisia sul finanziamento pubblico (tollerato, benché irregolare). Per contro, gli stessi magistrati – per decenni – non avevano mai osato mettere sotto accusa ministri e segretari di partito. Il motivo? Geopolitico: l’Italia era troppo importante, come baluardo contro l’impero sovietico. Per consentire ai pm di indagare Craxi c’è stato bisogno del crollo del Muro di Berlino. Magistrati anche valorosi e in totale buona fede, aggiunge Magaldi, sono diventati lo strumento di un gioco pericoloso, costruito per indebolire l’Italia. Un gioco avviato proprio in quegli anni dal separatismo nordista della Lega di Bossi, che – nella sua vulgata – criminalizzò l’intero processo dell’unità nazionale, rappresentando il Risorgimento come una tragica farsa.Suscita malinconia, oggi, riscontrare la singolare consonanza di vedute tra i vetero-leghisti degli anni ‘90 e i propagandisti neo-borbonici, cioè tra il Nord che si ritiene vampirizzato finanziariamente dal Meridione “scansafatiche” e il Sud che, a sua volta, si dichiara vittima dell’imperialismo coloniale nordista, garibaldino e sabaudo. Pura ignoranza della nostra storia, dice Magaldi: impossibile dimenticare che i combattenti meridionali aderirono all’esercito di Garibaldi perché non ne potevano più del regime assolutista dei Borboni, violento e autoritario, privo di Costituzione, fondato sull’arbitrio e sullo sfruttamento schiavistico di milioni di “cafoni” costretti a faticare nei latifondi. Pessima, poi, la gestione post-unitaria dopo la perdita di Cavour, col prevalere degli aspetti più reazionari della pessima monarchia torinese. Ma da qui a rimpiangere la cricca parassitaria del sovrano di Napoli, ne corre. Piuttosto: ci siamo mai domandati perché periodicamente esplodono queste polemiche fondate sulla non-conoscenza della storia?Se voglio colpire un paese, ragiona Magaldi, per prima cosa lo divido, mettendo il Nord contro il Sud. Poi magari uso la magistratura per decapitarne la classe dirigente (nel caso dell’Italia, protagonista di un notevole riscatto economico nei decenni del dopoguerra). In altre parole, la manipolazione produce una specie di harakiri: un paese indifeso, proprio quando i grandi poteri globalizzatori stanno per assalirlo e depredarlo, grazie alle regole truccate della nuova Ue. Fino a ritrovarsi poi con Mario Monti a Palazzo Chigi, spedito a commissariare l’Italia dagli stessi poteri che hanno lavorato, anche con l’aiuto della Lega Nord, per sabotare il Belpaese. Quindi è bene prestare la massima attenzione, se il potere giudiziario si mette contro il potere esecutivo. «Provo una sorta di compassione – ammette Magaldi – per come il Movimento 5 Stelle sta facendo di tutto per dissipare il consenso che aveva raccolto in questi anni. Possiamo anche relativizzare la recente débacle alle regionali abruzzesi, ma come non vedere che l’elettorato contesta ovunque il mancato rispetto delle promesse elettorali?». Pessima idea, quella di rifugiarsi nella piattaforma Rousseau sul caso Salvini-Diciotti: «Se per assurdo gli iscritti decidessero un bel giorno che dobbiamo ripristinare le leggi razziali, i dirigenti 5 Stelle si adeguerebbero?».Ma che razza di democrazia è, quella in cui si affida a un’anonima piattaforma informatica la decisione sulla sorte di un ministro, per giunta alleato di governo? Possibile che i 5 Stelle non riescano a difendere in modo netto Matteo Salvini, senza dover consultare gli iscritti? Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, prende atto della preoccupante debolezza politica dei pentastellati: la loro classe dirigente non osa assumersi la piena responsabilità di schierarsi fino in fondo con il leader della Lega, messo alla berlina dalla magistratura per aver ostacolato lo sbarco dei migranti a bordo della nave Diciotti. Sequestro di persona? Questa l’ipotesi di reato, formulata dai magistrati siciliani. Durissimo, in proposito, un altro esponente del Movimento Roosevelt, Gianfranco Carpeoro: non è possibile sanzionare un politico per un legittimo atto governativo, dice Carpeoro in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «I migranti della Diciotti non erano affatto sequestrati: nessuno impediva loro di dirigersi altrove, Salvini ha solo frenato il loro ingresso in Italia», sostiene Carpeoro, che ipotizza un abuso extra-costituzionale. «Mi auguro – aggiunge – che altri magistrati valutino l’operato dei colleghi che hanno deciso di indagare Salvini».
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“Bergoglio fa il globalista? Oscura il suo passato fascista”
C’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).Evidentemente anche nell’Argentina dei Peron il mito di Codreanu, barbaramente assassinato, e del suo integralismo cristiano, aveva proseliti. Nel ’74, dopo la morte di Peron, il movimento legionario si sciolse. Era un gruppo di 3.500 militanti e 15mila attivisti. Si opponevano ai guerriglieri di sinistra peronisti infiltrati dai castristi, seguaci di Che Guevara; loro erano, per così dire, l’ala di estrema destra del giustizialismo. Il gruppo della Guardia de Hierro era stato fondato da Alejandro Gallego Alvarez. Era un movimento che teneva molto alla formazione culturale dei suoi militanti e alla presenza tra i diseredati e gli ultimi. A Bergoglio fu poi affidata un’istituzione in difficoltà, l’Università del Salvador. Bergoglio la risanò e l’affidò a due ex-camerati della Guardia de Hierro, Francisco José Pinon e Walter Romero. In quegli anni Bergoglio era avversario dichiarato dei gesuiti di sinistra da posizioni nazionaliste e populiste. La sua avversione alla teologia della liberazione gli procurò l’accusa di omertà da parte del Premio Nobel Perez Esqivel e poi di collaborazionismo con la dittatura dei generali argentini, dal 1976 a 1983.Lo storico Osvaldo Bayer dichiarò ai giornali: «Per noi è un’amara sconfitta che Bergoglio sia diventato Papa». E Orlando Yorio, uno dei gesuiti filocastristi catturato e torturato dai servizi segreti del regime militare, accuserà: «Bergoglio non ci avvisò mai del pericolo che correvamo. Sono sicuro che egli stesso dette ai marinai la lista coi nostri nomi». Solo dopo la caduta della dittatura militare Bergoglio iniziò a prendere le distanze dal peronismo nazionalista. Ho tratto fedelmente questa ricostruzione dalle pagine del libro di Emidio Novi, “La riscossa populista”, appena uscito per le edizioni Controcorrente (pp.286, 20 euro). Novi sostiene che la deriva progressista e mondialista di Francesco nasca da questo passato rimosso. Secondo Novi, «Papa Bergoglio vuol farsi perdonare il suo passato “fascista” durato fino al 1980». Per questo non perde occasione di compiacere il politically correct, il partito progressista dell’accoglienza, l’antinazionalismo radicale.Novi, giornalista di lungo corso e senatore di Forza Italia, è morto lo scorso 24 agosto investito da un camion della nettezza urbana in retromarcia mentre era al suo paese natale, S.Agata di Puglia. Il suo libro è uscito postumo, con una prefazione di Amedeo Laboccetta e a cura di suo figlio Vittorio Alfredo. Novi si definiva populista già decenni prima che sorgesse in Italia l’onda populista. Era populista al cubo, perché proveniva dall’ala più “movimentista” dell’Msi ispirata dal fascismo sociale: poi perché proveniva dal sud e da Napoli, ed era un interprete genuino dell’antico populismo meridionale, a cavallo tra la rivolta popolana e la nostalgia borbonica; e infine era populista perché considerava l’oligarchia finanziaria, la dittatura dei banchieri e degli eurocrati, il nemico principale dei popoli nel presente. Perciò amava definirsi nazionalpopulista, e sovranista ante litteram.In questo suo ultimo libro Novi si occupa in più pagine del «papulismo» di Bergoglio, della sua teologia «improvvisata e arruffona», della sua resa all’Islam, della sua ossessione migrazionista fino a definire Gesù, la Madonna e San Giuseppe come una famiglia di immigrati clandestini in fuga. Lo reputa «uno strumento dell’anticristo», funzionale sia al progressismo radical dell’accoglienza che al mondialismo laicista della finanza, mescolando il vecchio terzomondismo, l’internazionalismo socialista con il disegno global che ci vuole nomadi, senza radici, senza patria e senza frontiere. Ma del suo passato argentino, al tempo di Peron, del giustizialismo e poi della dittatura militare, Bergoglio preferisce non parlare. Anche gli estroversi a volte tacciono.(Marcello Veneziani, “Camerata Bergoglio”, da “La Verità” del 31 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).C’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).
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Carne macinata per l’universo: la vera rivoluzione italiana
Sono tornato in via Filippo Buonarroti, sono tornato in via Ferrari, in piazza Garibaldi e dove ho fatto le scuole, in via Ugo Bassi. Qualcuno di voi si ricorda di chi era Filippo Buonarroti? Un anarchico rivoluzionario? No, non era proprio un anarchico, perché allora, quando lui era in vita, l’anarchia non si era ancora compiuta in un qualche pensiero. Ma in tutte le città d’Italia c’è una via intitolata a Filippo Buonarroti. Qualcuno ha avuto la forza, il desiderio di intolargliela. Intorno agli anni ‘20 del 1800, Filippo Buonarroti è stato considerato, dai giornali conservatori di tutta Europa, il più grande rivoluzionario europeo vivente. Filippo Buonarroti ha fatto una cosa che nessun altro uomo ha osato compiere, nella storia dell’umanità. Ha fondato e costituito un paese a totale regime comunista: Oneglia. Lui, come prefetto robesperriano della Rivoluzione Francese, è stato mandato a governare Oneglia – sapete, Oneglia, in fondo alla Liguria, che allora era francese. E lì costituì un paese totalmente comunista, con l’estinzione della proprietà privata e il ricalcolo dei beni, a tutti. Guardate che i paesi che noi chiamiamo comunisti non si sono mai chiamati comunisti, si chiamavano “paesi socialisti verso il comunismo” (verso il baratro, poi). A Oneglia, invece: redistribuzione delle terre e istruzione obbligatoria fino al più alto grado, per tutti. E’ stato un paese comunista che è durato 9 mesi.Poi è arrivato il Direttorio, Robespierre ha fatto la fine che ha fatto, Buonarroti è stato richiamato a Parigi e messo in galera, e chi s’è visto s’è visto. Gli onegliesi, da allora, non si sono mai più ripresi. Perché è stata un’esperienza che ha sconvolto la loro vita, ha rivoluzionato ovviamente le loro vite, e da allora – fino a oggi – votano sempre e solo a destra. E’ dal collegio di Oneglia che è uscito fuori questo fiore della repubblica, il ministro Scajola. Se Buonarroti è ancora vivo, in qualche universo parallelo, forse si rende conto che avrebbe dovuto rivedere un po’ le sue posizioni. Ma il punto è un altro. Il titolo di questa conferenza dovrebbe essere questo: carne macinata per l’universo. E “carne macinata per l’universo” è il giudizio che dà Carlyle – il grande poeta, drammaturgo, uomo di cultura e anche politico, inglese – quando gli chiedono chi fosse Giuseppe Mazzini. Carlyle risponde: «Nessun uomo come Giuseppe Mazzini è, per me, carne macinata per l’universo». Quello che io so, di quello che è stato chiamato Risorgimento, è che ci sono state due generazioni di giovani europei, e in particolare due generazioni di giovani italiani, che hanno speso la loro vita e null’altra ambizione hanno avuto, per la loro vita, se non quella di farsi carne macinata per l’universo.Due generazioni di uomini e di donne che allora non si sono nemmeno poste il problema del sesso, maschile o femminile. E’ una cosa che noi forse non riusciamo a capire. Tutta l’Europa e gran parte del mondo (intendo le Americhe, soprattutto), per cinquant’anni hanno pensato all’Italia, a ciò che noi oggi chiamiamo Italia e che allora si chiamavano “gli Stati del territorio italiano”. E hanno guardato a ciò che accadeva, in quello che adesso è questo paese. Vi hanno guardato con la speranza, il timore, l’angoscia, la promettenza universale di chi pensava e dichiarava, sui giornali consevatori e progressisti, nelle riunioni dei gabinetti dei ministri inglesi o danesi o tedeschi o francesi: ciò che accade in Italia, come disse un giornalista del consevatore “Times”, è «il più grande teatro della storia a cui noi possiamo assistere: ciò che accade in Italia condizionerà la storia d’Europa e del mondo». Questo pensavano l’opinione pubblica, i politici, gli ambasciatori di tutta Europa e delle Americhe, osservando ciò che accadeva in Italia. Era straordinariamente più vasto, più grande e più radicale di ciò che comunque accadeva nel resto d’Europa – in alcune nazioni, almeno: nella Germania baltica, in Ungheria, in Polonia, in Grecia, in Francia. Due generazioni che hanno dedicato la loro vita alla rivoluzione.Ciò che essi chiamavano Risorgimento è stato un continuo susseguirsi di rivoluzioni territoriali. Guardate, ci sono stati moti rivoluzionari e insurrezioni dal 1821 al 1878 (e io sostengo fino al 1884, e poi spiego perché). E’ accaduto in Italia, ma anche nel resto d’Europa: certamente in Grecia, e in Francia fino al 1870. Rivoluzioni in nome di cosa? Quando studiamo il Risorgimento, leggiamo “Risorgimento, uguale: Unità d’Italia”. Ma c’erano quelle due generazioni di rivoluzionari, a vario titolo e in vario modo: Giuseppe Mazzini era un repubblicano, Giuseppe Garibaldi era repubblicano e socialista, Orsini era un anarchico repubblicano, Filippo Buonarroti era comunista, i fratelli Bandiera erano repubblicani e socialisti, Pisacane era forse comunista, chi lo sa. Ma non si davano etichette: avevano un pensiero, ciascuno il suo. Condividevano quel pensiero con altri, lo discutevano. E’ straordinaria la libertà di pensiero e di movimento del pensiero generata nell’incontro di queste due generazioni, in un paese come quello: il paese degli Stati componenti il territorio italiano, in nessuno dei quali era consentita la libertà di espressione.E’ straordinario come in questa servitù, in questa schiavitù, in questi Stati oppressivi (in un modo che la stessa regina Vittoria, conservatrice e reazionaria, considerava vergognoso) si ebbe una diffusione di opinioni e di libero pensiero – una diffusione libera, ricca, forte e, a volte, anche di grande contrasto. Non solo opinioni: opinioni che formano pensiero. Si sono formati dei pensieri che sono rimasti, e che sono stati pensieri costituenti la modernità e la contemporaneità del Novecento. Ciò che le due generazioni di giovani italiani e di giovani europei hanno costruito, dal punto di vista del pensiero, è la base a fondamento del pensiero ottocentesco, novecentesco e, per quanto ne so io, è ancora oggi strumento di valutazione e di comprensione della contemporaneità. La critica che faceva Giuseppe Mazzini al comunismo nel 1852 è una critica che oggi condivido totalmente – io, che vado a dire in giro di essere un anarchico, e che mi sento profondamente legato a un modo del pensiero libertario anarchico. Mazzini dibatte senza diffamare nessuno, senza sporcare il suo pensiero con nessuna menzogna – e questo è importante, perché il pensiero oggi tendiamo sempre a sporcarlo, e non riesco a capire perché. C’è una parola, che io metto assieme a quelle due generazioni di giovani rivoluzionari: uomini e donne casti, di casto pensiero (e vita). Un agire e un pensare privo di malizia, candidamente casto.La prima cosa che Mazzini dice, sul comunismo, è: attenzione, perché l’abolizione delle classi, così come concepita nel pensiero comunista, genererà una nuova classe, e quella nuova classe sarà oppressiva quanto la vecchia classe dei capitalisti, e forse di più. E se non sarà oppressiva dal punto di vista economico, lo sarà dal punto di vista politico e culturale. Questo scriveva, Mazzini. Abbiamo da discutere, su questo. Ma pensate che sia infondata, come critica? Direi che è estremamente moderna, forse. Ma non è questo il punto. Mi piacerebbe raccontare di Mazzini, di Garibaldi. E mi piacerebbe anche raccontare di Carmine Crocco. Era un uomo del Risorgimento, che si è fatto bandito – fuorilegge – perché giustamente trovava intollerabile, insieme a una massa di contadini, di pastori e di artigiani, il fatto di aver sperato con tutta l’anima e con tutto il cuore, dal 1831 (i primi grandi moti siciliani e calabresi), in una rivoluzione sociale che avrebbe finalmente rotto le catene medievali della proprietà privata concepita nel latifondo, e avrebbe dato finalmente un minimo di equità sociale.Due generazioni di siciliani, calabresi e napoletani hanno pensato a questo: hanno pensato di aver finalmente coronato il loro sogno impossibile, quando Garibaldi arriva coi suoi volontari e, per prima cosa, dopo aver preso possesso dei palazzi comunali e di governo, emana ordinanze che riducono le tasse, ridistribuiscono le terre ai senza terra (per quanto possibile, attraverso la riforma catastale) e garantiscono un minimo di istruzione per tutti. Ecco, per prima cosa Garibaldi fa questo. Se ne va a Teano, e lì il Piemonte (Vittorio Emanuele) prende possesso dei territori conquistati dai volontari repubblicani e socialisti di Garibaldi, diventati da mille a sessantamila con i volontari siciliani, calabresi e campani. E nel giro di 6 mesi vengono abolite tutte le ordinanze, intese alla giustizia sociale, alla libertà di espressione e a un minimo di redistribuzione delle terre – tutte abolite. Nel giro di due anni, i territori meridionali dell’Unità d’Italia hanno una tassazione, per le fasce basse della popolazione, che è il doppio della tassazione imposta dai borbonici. Non solo: le popolazioni dell’Italia meridionale si devono pagare le spese dello stato d’assedio, perché in due anni le terre liberate vengono assoggettate alla legge marziale.Questo perché le rivoluzioni, le insurrezioni e le rivolte cominciate nel 1831 per la giustizia sociale continuano, perché la giustizia sociale non c’è. Quando oggi ci poniamo la questione cosiddetta meridionale, vogliamo ricordarci di quelle due generazioni? Generazioni di giovani uomini e giovani donne, che altro non hanno vissuto se non per un po’ di giustizia e di libertà. E sono state distrutte, letteralmente distrutte, dal regno unitario. Carmine Crocco era un bandito – come altri cento, duecento banditi. Ma lo voleva con una forza che è calabrese, contro la quale non c’è niente da fare. Finché tutto non è finito: nell’eccidio, nella violenza, nella strage. Se sfogliate i tomi fotografici della storia d’Italia editi da Einaudi, scoprite che la più grande quantità di documenti fotografici relativi al paese immediatamente post-unitario riguarda le fotografie degli uomini uccisi in Campania, in Basilicata, in Calabria e in Sicilia. Mettevano in posa 10-20 morti ammazzati, e i carabinieri se li fotografavano – fotografavano le teste mozzate. Non solo: prima di fucilarli, li mettevano in posa coi loro schioppi e li fotografavano. C’era molta modernità, nello stato d’assedio. C’era molta intuizione, nella nuova società – nella legge marziale. Carne macinata per l’universo.L’Unità d’Italia? Certo, questi uomini e queste donne pensavano all’Unità d’Italia. Ma cosa significava, per loro, l’Unità d’Italia? Lo dicono, lo hanno scritto. Sapete quante lettere ha scritto, Giuseppe Mazzini, nella sua vita? Nessuno ne ha idea. Pare che fossero almeno 8-900.000, per quello che si sa. Non ne sono rimaste che 70-80.000. Le altre sono state tutte bruciate da chi le riceveva o confiscate dalla polizia, ma soprattutto bruciate, perché chi aveva una lettera di Mazzini veniva arrestato e finiva in galera. Come forse sapete, Giuseppe Mazzini ha vissuto tre quarti della sua vita nascosto, perché perseguito da due, tre, quattro polizie. E’ stato condannato a morte in contumacia. Andate a vedere a Londra dove ha vissuto, in quali case d’appartamento, in quali stanze, quasi sempre con le finestre chiuse o le tende tirate. Alla fine, vecchio, non lo hanno arrestato anche se si sapeva che “forse” era a Pisa, dove ha vissuto gli ultimi mesi prima di morire, nascosto in una casa, potendo uscire solo per dieci minuti, di notte. L’unica cosa che ha chiesto, una settimana prima di morire – e per poterla realizzare sono state spese le energie di 30-40 uomini, suoi amici – è che fosse portato a Firenze, di notte, e che si riuscisse ad aprirgli Santa Croce: prima di morire, Mazzini voleva vedere la tomba di Ugo Foscolo. E Ugo Foscolo è uno di quei ragazzi di quelle due generazioni. Se n’era andato a di casa a 18 anni, per non tornarci più: esule. Ugo Foscolo è uno di loro.L’Unità d’Italia, certo: perché comunque, per tutti, gli ideali rimanevano quelli – libertà, giustizia e solidarietà. Gli Stati territoriali di ciò che oggi chiamiamo Italia erano tutti, direttamente o indirettamente, proprietà e comproprietà di paesi stranieri: la Francia, la Germania, la Spagna. Da secoli, erano così. Ed erano tutti a regime strettamente, rigidamente oppressivo. Nessuno di quei giovani pensava, ragionevolmente, di poter ottenere una vera Costituzione, un vero suffragio universale, un vero piano di giustizia e un vero piano di equità, se non attraverso la cacciata dei regimi stranieri, coloniali, e l’instaurazione di un regno che non poteva appartenere a nessuna delle casate che mantenevano un regime di spietato egoismo dinastico. Questa era l’Italia unita. L’unico modo per raggiungere questo ideale era quello: un anno via l’altro c’erano insurrezioni, sommosse e rivoluzioni. E quando si dice che è stata una minoranza, a volere l’Unità d’Italia, si dice la più grande menzogna – ma si dice anche una verità: perché la gran parte di quei rivoluzionari erano ragazzi, che poi sono diventati uomini. A 18 anni si partiva, sulla strada che avrebbe portato all’esilio, o alla morte.Due generazioni: 1821, i primi segni di rivolta; 1828, le grandi rivolte; 1831, le rivoluzioni al meridione d’Italia, in particolare in Sicilia. Se avete letto un po’ di storia, alle scuole medie, non vi viene in mente una cosa? Tre anni prima, a Vienna, tutti i potenti d’Europa si mettono d’accordo per stabilizzare il continente, in modo tale da assicurare a se stessi la garanzia che quello sarà un sistema di equilibri che durerà in eterno. Al Congresso di Vienna si chiude – per sempre, dicono: definitivamente – un’epoca di rivoluzioni, l’epoca della Rivoluzione Francese, e si instaura il Nuovo Ordine d’Europa, basato su equilibri così stabili che potrà durare in eterno. Questo dicono gli uomini riuniti a Vienna. Tre anni dopo, cominciano i casini. Dieci anni dopo siamo in pieno casino. Trent’anni dopo, in Europa succede una cosa che ricordiamo ancora adesso, volenti o nolenti: succede il ‘48, è successo un Quarantotto. Cioè: nel 1848, nessuno dei principi, nessuna delle illusioni, nessuna delle certezze di Vienna stava ancora in piedi – finito, tutto. Niente, nel ‘48, aveva più senso, di quello che sembrava avere senso in eterno.Io incontro tanta gente, ogni giorno, e vedo sguardi e occhi avviliti, scorati, depressi. E’ lo scoramento di chi dice: non c’è niente da fare, non c’è nessuna possibilità. E io penso a quanto erano tronfi, tranquilli e sicuri i re, gli imperatori, le regine, le troie di regime, i chierici e i cardinali di corte, nel 1818. E come potessero essere frustrati, i reduci della Rivoluzione Francese e quelli di Napoleone (che anche lui i suoi vizi li aveva, in fatto di assolutismo). Ma son bastati pochi anni: cosa vuol dire, “non c’è niente da fare”? Pensate a come poteva essere più oppressivo di oggi, il clima europeo del 1819, ‘20, ‘21 e ‘22. Eppure, già dieci anni dopo, tutta l’Italia e gran parte dell’Europa erano in movimento. Una generazione nata lì – sedicenni, diciassettenni, diciottenni – era già in movimento. E perché questo non può più accadere? Chi lo dice? Loro non avevano contro la televisione, è vero, però avevano altro: avete idea di che lavoro facessero, dal punto di vista “televisivo”, i 300.000 sacerdoti sparsi per l’Italia, nel 1818, 1819 e 1820? Non tutti, certo. Ma pensate a Garibaldi, che in punto di morte disse: fatemi di tutto, ma non mettetemi davanti un prete. Lo scrisse: non fatemi vedere un prete un punto di morte. Eppure, lui doveva la sua vita a un prete.Garibaldi doveva la vita a Don Verità. E conoscete Ugo Bassi? Io ci avevo la scuola, in via Ugo Bassi. Sapete chi era? Era un prete che in Romagna, insieme a Don Verità, aiutò Garibaldi a sfuggire all’accerchiamento delle truppe papali e austriache. Don Verità è riuscito a cavarsela, dopo essersi portato Garibaldi in spalla, per mezza nottata. Bassi non se l’è cavata: è stato fucilato dagli austriaci, per aver aiutato Garibaldi. Certo, se l’Unità d’Italia è quello Stato che, per prima cosa, ha come effetto il raddoppio e la triplicazione degli affitti dei fondi agricoli, che significa mettere alla fame i contadini; se è quello Stato dove i parlamentari che fanno le leggi vengono eletti soltanto dai grandi proprietari terrieri e dell’esigua grande borghesia cittadina, cioè appena l’1,8% dei potenziali aventi diritto al voto; se è l’Italia che stabilisce la legge marziale al meridione contro le sommosse per la terra e aumenta la tassa sul macinato, quella è l’Italia voluta da quei proprietari terrieri. Gli aventi diritto al voto erano quelli: una piccola minoranza, che è diventata la classe dirigente unitaria. Ma l’Unità d’Italia come baluardo, come certezza contro qualunque regime oppressivo e totalitario, come autodeterminazione di un popolo che non c’era ma che andava facendosi, “dagli atrii muscosi, dai fori cadenti”, come unica chance in nome della giustizia, della libertà e dell’equità, ebbene, quell’Italia la voleva la stragrande maggioranza della gente.E la Repubblica Romana? Lo so, al Nord abbiamo dei romani l’impressione di gente, come dire, poco attiva – sbagliato, sbagliatissimo. Andatevi a leggere le corrispondenze dei giornali francesi, americani, inglesi. Andatevi a leggere i rapporti degli ambasciatori, dei viaggiatori, dei turisti che erano a Roma nel ‘49. E’ straordinario, dicono: non avremmo mai creduto che la Repubblica avesse così tanta popolarità tra i ceti inferiori della società. Non avremmo mai immaginato che potesse essere governata in modo così equo e così tollerante. Scrive il “Times”: «Ci dice il nostro primo ministro che Giuseppe Mazzini è un sanguinario rivoluzionario, ma nei suoi atti e nei suoi decreti si trova più tolleranza che nel nostro paese, che pure è democratico dal 1.000 dopo Cristo». La Repubblica Romana era vista da tutta Europa come un esperimento straordinario di autodeterminazione del popolo. C’erano i danesi, che venivano a vedere la Repubblica Romana: volevano capire come poter fare. C’erano gli ungheresi, c’erano i polacchi. Perché c’erano i greci, gli ungheresi e i polacchi a cercare di dare una mano alla Repubblica Romana? Perché avrebbero voluto anche loro poter sviluppare una cosa così incredibile e grandiosa come l’autodeterminazione democratica. Sapete qual è la prima legge emanata dalla Repubblica Romana? La libertà di espressione religiosa. E la sera dell’emanazione della legge, vengono aperte le porte del ghetto ebraico.Quanti traditori ha avuto il Risorgimento? Quanti delatori? Quante spie? Mazzini aveva costantemente due spie alla porta. Metternich affermava di aver speso più soldi per le spie dietro a Mazzini che per i suoi servizi segreti personali. Metternich e Pio IX hanno letto, finché le ha scritte, tutte le lettere d’amore di Mazzini. Oggi ci lamentiamo della privacy, diciamo basta al gossip – ma era Pio IX, che si leggeva le lettere d’amore di Mazzini! E Mazzini ha avuto una sola storia d’amore, nella sua vita. E quella donna, Giuditta, l’avrà incontrata in tutta la sua vita forse dieci volte. Si sono solo scritti lunghe lettere d’amore: lunghe, bellissime, caste lettere d’amore. Giuditta aveva marito, ma allora c’era la rivoluzione. A 18 anni, Pisacane era già in galera per adulterio. E’ straordinario come, nel liberarsi dell’energia, della forza intellettuale, politica, ideale, si liberino anche un sacco di altre energie. Il Sessantotto ha portato questo? Ma c’era già nel Quarantotto, ragazzi. Quante donne hanno abbandonato i loro mariti, per arruolarsi volontarie nella Repubblica Romana o nella spedizione dei Mille? La Della Torre s’era vestita da ammiraglio per andare a Calatafimi (e ha finito la sua vita in manicomio, perché poi tutto è stato “messo via”).Tutto è stato “messo via” perché era intollerabile che potesse essere permesso il sopravvivere di una memoria collettiva – che ci fu. Fino al 1880, i siciliani e i calabresi venivano “sparati” quando cercavano di andarsi a prendere un pezzo di terra da un latifondo. Sapete cosa pensavano? Che Garibaldi sarebbe tornato. E quando Garibaldi morì, nessuno ci credette: perché Garibaldi era il Redentore, e il Redentore non muore. Il Redentore non può abbandonare. Il Redentore torna: questo pensavano. E’ ingenuo. E’ stupido, forse. E’ una follia stupida. Ma guardate, nella leggenda nazionale della Fiandra, che adesso è metà olandese e metà belga – la leggenda di Thyl Ulenspiegel, il contadino che da solo combatte contro il Duca d’Alba, contro la grande oppressione papista, spagnola, delle Fiandre – quest’uomo viene bruciato, alla fine, insieme alla sua donna. Però la leggenda finisce dicendo: ma lui non è morto, tornerà. Ecco, questo è stato spento. Questa memoria è stata spenta. E chi ha fatto l’operazione più geniale è stato certamente Benito Mussolini – che se l’è ripreso, il Risorgimento, per spegnerlo definitivamente. Ma la memoria è stata spenta ancora prima, quando il Regno d’Italia appena unito è stato diviso in due dalla legge marziale.Sapete cos’è la legge marziale? Si può sparare a chiunque. I carabinieri sparavano e tagliavano le teste, poi le mettevano nelle gabbie e le appendevano all’ingresso dei paesi. Certo, teste di banditi e di assassini – tanti lo erano. Quando si fa una rivolta di contadini, bisogna sapere (parafrasando Mao) che i contadini non sanno nemmeno cos’è, un invito a cena. Quanto è stato rubato, di tutto questo? Sapete qual è stata l’attività principale di Giuseppe Mazzini, oltre a scrivere lettere? Quello che ha fatto più a lungo, per tutta la vita, è stato il maestro. Giuseppe Mazzini, carne macinata per l’universo, ha fondato alla fine degli ‘40, in Inghilterra, una scuola popolare per i bambini-schiavi italiani. Negli anni ‘40 dell’800, a Londra, era calcolato che ci fossero migliaia di bambini venduti in Italia – venduti come schiavi – e portati dagli scafisti italiani a Londra, dov’erano trattati da schiavi (tutti morivano prima della maggiore età) e giravano per Londra. Si chiamavano “i bambini dell’organetto”: chiedevano l’elemosina suonando l’organetto. Quando Mazzini apre la sua scuola, tutti gli dicono: non è possibile, non verrà nessuno, quei bambini hanno troppa paura dei loro padroni. Quella scuola verrà incendiata decine di volte, e risorgerà sempre. Uno dei suoi costanti finanziatori è stato Charles Dickens – e chi, se non lui, poteva avere in simpatia una scuola popolare per bambini schiavi?Un mese dopo l’apertura, in quella scuola c’erano 200 bambini. Si reggeva sul volontariato: chiunque avesse titoli, andava a insegnare. Tutte le domeniche, Giuseppe Mazzini – per trent’anni – è andato a insegnare in quella scuola: carne macinata per l’universo. Giuseppe Garibaldi sapete di cosa viveva? Viveva del soldo militare, che prendeva una volta sì e l’altra no. Il suo soldo militare, Garibaldi l’ha speso per la sua follia. Tutti erano uomini folli. La sua follia era poter vivere in un posto dove sentirsi, sempre e comunque, libero. La sua follia era vivere in un posto di granito, battuto dai venti, dove poter far crescere la vigna e il grano e le greggi. Non c’è mai riuscito. Ci ha messo tutto quello che aveva, e non ci è mai riuscito. Andate a Caprera, a vedere com’è possibile. Eppure, mangiava solo di quello che coltivava e di quello che pescava. E sua figlia lo sgridava sempre: perché veniva gente, e a pranzo si mangiava due gamberi crudi sopra un foglio di giornale. Bene, Garibaldi è diventato ricco in fin di vita. E’ diventato ricco perché gli è stato imposto – da Depretis, che era un suo amico: Depretis, il fondatore della vergogna politica nazionale, un uomo tra i più spregevoli della storia nazionale, quello che ha inventato (da primo ministro) il trasformismo – prima, da ragazzo, era un garibaldino. Depretis è andato da Garibaldi a dirgli: per favore, prendi la pensione. Perché Garibaldi non aveva mai voluto la pensione del re. Alla fine l’ha presa, perché il re d’Italia aveva paura di essere svergognato in tutta Europa, perché a Garibaldi stavano pignorando l’isola, per debiti.Il 2 agosto, a Cesenatico, c’è un’esplosione di fuochi d’artificio, ci sono stormi di piade e piadine che a migliaia sorvolano tutto il paese, ripiene di salsiccia, di formaggio e di prosciutto, tra lo scoppiare delle orchestre, della bande musicali e dei fuochi d’artificio. Non è la festa del turista, è la festa della Trafila. La “trafila” è passarsi oggetti di mano in mano, come quando una casa brucia e ci si mette in fila passandosi i secchi d’acqua. Il 2 agosto, in quella piccola comunità di Cesenatico, ci si ricorda di una delle storie più belle, più affascinanti, più ricche e più straordinarie, una delle diecimila meravigliose storie delle rivoluzioni che chiamiamo Risorgimento italiano. Ed è la storia di tutto un popolo, il popolo romagnolo – contrabbandieri fluviali, contadini braccianti, notai, preti (Don Verità e Don Bassi), custodi delle chiuse polesane, cavallari. Tutti: tutto il popolo di Romagna che, per 13 giorni e 13 notti, si è passato di mano in mano Giuseppe Garibaldi, sua moglie Anita e il colonnello Leggero – un sardo che a 12 anni si era arruolato come mozzo in marina e a 16 anni aveva già disertato per andare con Garibaldi, per questo condannato a morte. Era il suo luogotenente: “leggero”, perché era alto un metro e venti. Morirà credo a 90 anni, con una moglie di 60 anni più giovane di lui – perché i garibaldini, sapete…Dicevo, la Trafila: per 13 giorni e 13 notti, Garibaldi, Anita e il “minuto” vengono passati di mano in mano per sfuggire all’accerchiamento dell’esercito papista e austriaco. Garibaldi, 1849: la Repubblica Romana è persa. Lui scappa, ma non torna a casa. Non torna a Montevideo, dove già allora è considerato eroe nazionale. Se ne va a Venezia, perché la Repubblica Veneziana resiste (“sul ponte sventola bandiera bianca”). Ma lì non c’era ancora, la bandiera bianca. E Garibaldi, con la moglie incinta di sei mesi, vuole andare a combattere per la repubblica veneta. A San Marino viene circondato. E’ spacciato? No. Tutto il popolo di Romagna si organizza clandestinamente, e Garibaldi e sua moglie – con una fatica immensa: siamo in pieno agosto – riescono in 13 tappe ad essere portati, di mano in mano, come figli. Tra le tante cose orrende della cultura popolare c’è un catechismo garibaldino. Nel catechismo a un certo punto c’è la domanda: chi è la santissima trinità? La risposta garibaldina è: nella persona di Giuseppe Garibaldi si “sustanziano” il padre della patria, il figlio del popolo, lo spirito della libertà. Portato di mano in mano, come un figlio. Muore Anita – per la sete, la fatica, lo sfinimento. Muore in una capanna, in mezzo al Polesine. Ma negli stessi giorni, in un vallone lucano, tutto il popolo (diretto ancora oggi da Michele Placido) si mette in costume e rappresenta l’ultima grande battaglia – e l’ultima sconfitta – di Carmine Crocco e degli altri briganti (figli del popolo, spirito di libertà) distrutti dall’esercito unitario sabaudo.(Maurizio Maggiani, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della conferenza “Risorgimento senza memoria” al Salone del Libro di Torino, 16 maggio 2010. Autore di bestseller come “Il coraggio del pettirosso”, “La regina disadorna” e “Il viaggiatore notturno”, Premio Strega 2005, Maggiani ha scritto “Quello che ancora vive”, dedicato alla memoria garibaldina della Trafila romagnola, mentre opere più recenti come “I figli della Repubblica” e “Il romanzo della nazione” sviluppano personalissime riflessioni sul carattere del popolo italiano).Sono tornato in via Filippo Buonarroti, sono tornato in via Ferrari, in piazza Garibaldi e dove ho fatto le scuole, in via Ugo Bassi. Qualcuno di voi si ricorda di chi era Filippo Buonarroti? Un anarchico rivoluzionario? No, non era proprio un anarchico, perché allora, quando lui era in vita, l’anarchia non si era ancora compiuta in un qualche pensiero. Ma in tutte le città d’Italia c’è una via intitolata a Filippo Buonarroti. Qualcuno ha avuto la forza, il desiderio di intitolargliela. Intorno agli anni ‘20 del 1800, Filippo Buonarroti è stato considerato, dai giornali conservatori di tutta Europa, il più grande rivoluzionario europeo vivente. Filippo Buonarroti ha fatto una cosa che nessun altro uomo ha osato compiere, nella storia dell’umanità. Ha fondato e costituito un paese a totale regime comunista: Oneglia. Lui, come prefetto robesperriano della Rivoluzione Francese, è stato mandato a governare Oneglia – sapete, Oneglia, in fondo alla Liguria, che allora era francese. E lì costituì un paese totalmente comunista, con l’estinzione della proprietà privata e il ricalcolo dei beni, a tutti. Guardate che i paesi che noi chiamiamo comunisti non si sono mai chiamati comunisti, si chiamavano “paesi socialisti verso il comunismo” (verso il baratro, poi). A Oneglia, invece: redistribuzione delle terre e istruzione obbligatoria fino al più alto grado, per tutti. E’ stato un paese comunista che è durato 9 mesi.
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I periodi di unipolarità? Sono sempre durati solo un attimo
Ai dirigenti, ai politici, agli opinion leader e agli ‘esperti’ americani piace parlare del “momento di unipolarità” e della posizione di “iper-potenza” di cui, nella loro immaginazione, godrebbero nel mondo gli Stati Uniti. Da questa fantasia vengono completamente esclusi tutti i fatti storici ad essa poco convenienti. Il momento unipolare degli Stati Uniti (ammesso e concesso che sia mai esistito) è durato meno di un decennio, dal disfacimento dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991, al 15 giugno 2001. Il “momento” degli Stati Uniti è riuscito a malapena ad arrivare alle soglie del 21° secolo. In quel fatidico 15 giugno 2001 si erano verificati due eventi di grande importanza. Primo, il presidente americano George W. Bush aveva tenuto un discorso a Varsavia in cui dichiarava che l’obbiettivo strategico più importante degli Stati Uniti era l’integrazione nella Nato dei tre staterelli baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Nello stesso giorno, Russia e Cina davano vita, insieme ad altre quattro nazioni dell’Asia Centrale, allo Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, la più popolosa e potente organizzazione per la sicurezza internazionale della storia. Quest’anno, lo Sco ha raddoppiato la sua popolazione grazie all’ingresso, in contemporanea, di India e Pakistan, due grandi potenze nucleari con una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, quasi il 40% della razza umana.Con la creazione dello Sco, destinato fin dalle origini a preservare e a proteggere un mondo multipolare dalla dominazione di un’unica potenza, il momento unipolare degli Stati Uniti si è ritrovato morto e sepolto. Questo dato di fatto era stato confermato tre mesi dopo, quando l’attacco terroristico di Al-Qaeda dell’11 settembre 2001 aveva causato la morte di circa 3000 persone. Quel giorno erano morti più americani che durante l’attacco giapponese a Pearl Harbor, nel 1941. George W. Bush avrebbe dovuto essere messo sotto impeachment per la sua grande incapacità. Invece la sua popolarità era salita alle stelle. Pensando che il momento (o l’era) unipolare fosse ancora nel suo pieno splendore, alla fine di quell’anno aveva invaso l’Afghanistan e, meno di due anni dopo, l’Iraq. Gli Stati Uniti sono ancora perennemente impantanati in quelle guerre di cui non si vede la fine. Gli schemi della storia, completamente ignorati dai media, dalla casta degli opinion leader e dal mondo politico americano, questa lezione, invece, ce la insegnano di continuo. Negli ultimi 1500 anni si sono verificati diversi momenti unipolari per quelle grandi potenze che cercavano di dominare il mondo, ma tutte sono collassate nel giro di pochi anni.Quando la Spagna degli Asburgo e i suoi alleati ebbero definitivamente sconfitto la grande flotta del potente Impero Ottomano nella Battaglia di Lepanto, nel 1571, il dominio imperiale della Spagna su tutta l’Europa sembrava assicurato. Ma la Spagna era già invischiata in una rivolta olandese che era iniziata nel 1588. Nei decenni successivi (questa ribellione) si sarebbe rivelata più massacrante degli attuali interventi americani in Afghanistan e in Iraq. Il sogno della dominazione spagnola di Re Filippo II sarebbe stato definitivamente seppellito solo 17 anni dopo Lepanto, nel 1588, con la distruzione dell’Invincibile Armada, la flotta che avrebbe dovuto conquistare l’Inghilterra. Poi era stato il turno della Francia. Il suo dominio sull’Europa sembrava essere stato sancito dalla Pace di Vestfalia, nel 1648. Ma, fra il 1660 e il 1670, Luigi XIV, il re pazzo per la gloria, soprannominato “Re Sole” aveva già ripetuto l’errore della Spagna e aveva impantanato la nazione in una serie di guerre che sarebbero durate quasi mezzo secolo in quelli che ora sono Belgio, Olanda e Germania meridionale. Il momento unipolare della Francia era durato meno di vent’anni.Dopo erano arrivati gli inglesi. Anche dopo aver vinto le guerre napoleoniche contro la Francia, si erano resi conto di non poter dominare il mondo da soli ed erano stati costreti a dividerlo con le assai più conservatrici grandi monarchie d’Europa: la Russia, l’Impero Austro-Ungarico e la Prussia. Nel 1848, i re di Francia, dell’Impero Austro-Ungarico e della Prussia avevano perso molti dei loro poteri o erano stati detronizzati da rivoluzioni popolari e liberali. A quel punto, gli inglesi avevano pensato, proprio come avevano fatto gli americani nel 1989-1991, che fosse finalmente arrivato il loro momento di unipolarità e che sarebbe durato per l’eternità. Il mondo intero avrebbe guardato a Londra per avere guida e saggezza. Non era andata così. Nel 1871, la Prussia, guidata dal suo Cancelliere di Ferro, Otto von Bismarck, aveva unificato la Germania, e sconfitto la Francia, alleata della Gran Bretagna, togliendo in modo umiliante all’Inghilterra ogni possibilità di potere e influenza sull’Europa continentale. Quando gli era stato chiesto che cosa avrebbe fatto se il minuscolo esercito inglese avesse per caso invaso la Germania del Nord, Bismarck aveva risposto che avrebbe mandato la polizia ad arrestarlo. Dopo la Sconfitta della Germania imperiale nella Prima Guerra Mondiale, alla Gran Bretagna era sembrato di poter godere di un altro momento di iper-potere.Gli Stati Uniti con il loro isolazionismo e l’Unione Sovietica [alle prese con i suoi problemi interni] si erano entrambi ritirati temporaneamente dalla scena mondiale. In ogni caso, questa fantasia britannica non era durata neanche fino all’ascesa di Hitler, nel 1933. Due anni prima, nel 1931, il Giappone imperiale aveva occupato la Manciuria, una grossa porzione dalla Cina nord-orientale: i capi militari inglesi erano stati costretti ad ammettere con il Primo Ministro, Ramsay MacDonald, che non c’era nulla che si potesse fare a riguardo. Il momento unipolare della Gran Bretagna era durato solo 12 anni, dal 1919 al 1931. Una volta capiti questi fatti storici, è facile rendersi conto del perché il momento unipolare degli Stati Uniti sia stato anche più breve di quello inglese del 20° secolo, meno di un decennio. Dal 2001 in poi, gli Stati Uniti si sono dissanguati e sfiniti, proprio come avevano fatto la Spagna degli Asburgo, la Francia borbonica e l’Inghilterra post-vittoriana in tentativi inutili, assurdi e ricoli per negare e cercare di opporsi agli inevitabili ricorsi della storia. Questo non dovrebbe sorprenderci, del resto Friedrich Hegel ci aveva avvertito: «L’unica cosa che impariamo dalla storia è che dalla storia non impariamo nulla».(Martin Sieff, “I periodi di unipolarità sono sempre durati solo un momento”, da “Strategic Culture” del 22 settembre 2018, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Ai dirigenti, ai politici, agli opinion leader e agli ‘esperti’ americani piace parlare del “momento di unipolarità” e della posizione di “iper-potenza” di cui, nella loro immaginazione, godrebbero nel mondo gli Stati Uniti. Da questa fantasia vengono completamente esclusi tutti i fatti storici ad essa poco convenienti. Il momento unipolare degli Stati Uniti (ammesso e concesso che sia mai esistito) è durato meno di un decennio, dal disfacimento dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991, al 15 giugno 2001. Il “momento” degli Stati Uniti è riuscito a malapena ad arrivare alle soglie del 21° secolo. In quel fatidico 15 giugno 2001 si erano verificati due eventi di grande importanza. Primo, il presidente americano George W. Bush aveva tenuto un discorso a Varsavia in cui dichiarava che l’obbiettivo strategico più importante degli Stati Uniti era l’integrazione nella Nato dei tre staterelli baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Nello stesso giorno, Russia e Cina davano vita, insieme ad altre quattro nazioni dell’Asia Centrale, allo Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, la più popolosa e potente organizzazione per la sicurezza internazionale della storia. Quest’anno, lo Sco ha raddoppiato la sua popolazione grazie all’ingresso, in contemporanea, di India e Pakistan, due grandi potenze nucleari con una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, quasi il 40% della razza umana.
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L’onesto criminale Quintino Sella e la legge Fornero dell’800
Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.Migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, si ammalarono e morirono per quella tassa. Intere popolazioni si ribellarono ad essa, e contro di loro ci furono le spietate repressioni del generale Raffaele Cadorna, il braccio armato della tassa sul macinato. Per questo l’onestissimo ministro Sella va considerato socialmente un criminale. Risanò i conti pubblici facendo morire di fame, e di pallottole regie, tanta gente. Alla fine la tassa sul macinato fu abolita da Agostino Depretis, un politico molto meno onesto di Sella, anzi un corrotto e corruttore. In questa storia sta un po’ il peccato originale del nostro paese, dove periodicamente il rigore e l’onestà vengono separati e anzi contrapposti alla questione sociale, con la regressione complessiva di tutta la società. Oggi in Italia i tagli alle pensioni hanno la stessa funzione della tassa sul macinato. Che era comoda e facile da riscuotere perché tutti dovevano mangiare. Oggi il sistema pensionistico pubblico è diventato il bancomat dei governi. All’Inps i soldi si trovano subito, basta un decreto legge e lo Stato ce li ha, pronta cassa.Ora la Ue e il Fmi, che han bisogno di altri soldi per finanziare le loro politiche di austerità, chiedono nuovi tagli alle pensioni; e con il loro caravanserraglio di esperti ammaestrati riprende a spiegarci che la previdenza costa troppo. I dati che usano sono falsi e falsificati. Se dalla spesa per la previdenza togliamo i quasi 50 miliardi di tasse che tutti gli anni i pensionati versano allo Stato, tale spesa scende sotto la media europea. Se togliamo l’assistenza, che dovrebbe essere pagata da tutti e non solo dai lavoratori, il bilancio annuale dell’Inps va in attivo. Un attivo sufficiente a pagare l’abolizione della legge Fornero. Anche perché il pensionato italiano maschio, prima di passare a miglior vita, usufruisce dell’assegno pensionistico per 16 anni, mentre la media europea è di 18. E le donne, che (colpevolmente?) vivono di più, vengono pagate per 21 anni contro i 23 degli altri paesi Ue. Quindi già oggi lo Stato italiano si prende due anni di vita in più dai suoi pensionati. Non sappiamo se all’epoca della tassa sul macinato Quintino Sella e gli altri usassero dati falsi per affermare le proprie ragioni. Forse allora non ce n’era tanto bisogno, visto che solo i ricchi votavano. Ma certo l’argomento di fondo era quello stesso di oggi: o i poveri pagano, o lo Stato salta per aria.Per questo l’abolizione della legge Fornero è la cartina di tornasole della politica italiana. Non è una misura sufficiente a far cambiare le cose, bisogna abolire anche Jobsact e Buonascuola, bisogna ricostruire diritti e stato sociale, bisogna rompere con l’austerità Ue e con il pareggio di bilancio. Non è una misura sufficiente, ma è necessaria per indicare che la politica liberista del rigore contro i poveri non può più essere continuata. Se, sulle pensioni, il Parlamento e le forze vincitrici delle elezioni cederanno al ricatto della Ue e della Troika, avranno già concluso la loro funzione. Poi potranno pure tagliare vitalizi e stipendi dei commessi delle Camere, ma questa non sarà giustizia ma solo una misura di facciata per coprire la continuazione del massacro sociale. La stessa facciata dei monumenti all’onestissimo affamatore di poveri Quintino Sella.(Giorgio Cremaschi, “La legge Fornero è la moderna tassa sul macinato”, da “Micromega” del 27 marzo 2018).Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.
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Totò Riina, un progetto organico al tritacarne del potere
Totò Riina? E’ stato un progetto di potere, inserito in uno schema. «Dobbiamo immaginare lo schema del potere come una specie di enorme tritacarne. Lo scopo del potere è realizzare la carne tritata. E’ indifferente di chi sia, la carne, nel senso che poi il potere utilizza di volta in volta schemi, persone, associazioni». E in Sicilia, storicamente, il potere ha utilizzato la mafia. Parola di Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” e del nuovissimo “Il compasso, il fascio e la mitra”, che illumina i retroscena dell’origine del fascismo. «Sicuramente – dice – Riina ha risposto allo schema generale del potere, che di volta in volta attiva i personaggi che gli sono funzionali». L’ex super-boss di Corleone è stato accusato di oltre 100 omicidi? «Era il capo, di basso livello, di una associazione criminale che ha commesso quegli omicidi, ma che rispondeva comunque a uno schema di ordine superiore». Ingranaggi di un meccanismo infernale: quei personaggi che stanno al di sopra di Riina hanno certamente preordinato le varie azioni, «ma anche loro sono burattini, in mano a uno schema astratto». Semplice manovalanza criminale, Riina? «Sì, e anche di basso livello, oserei dire», afferma Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La narrativa sul “boss dei boss”? In parte, creata solo per depistare l’opinione pubblica: la fabbricazione dell’Uomo Nero, l’incarnazione del male.«Il potere – spiega Carpeoro – cerca sempre di additare un responsabile con cui te la devi prendere, altrimenti fininisci per mettere in discussione il vero potere: l’autoconservazione del potere impone che tu te la prenda con qualcuno, non con qualcosa». Per contro, aggiunge, per uno Stato che si ponga obiettivi di progresso «è necessario sgominare un’organizzazione criminale come quella di Totò Riina». E’ esistita una trattativa Stato-mafia? «Sì, più volte», risponde Carpeoro. «Nel momento in cui la mafia ha un riferimento nel potere politico che governa, di questi accordi ce ne saranno stati migliaia». Molte volte, addirittura, «è stata la mafia stessa a consegnare alla pubblica gogna (e alle forze dell’ordine) alcuni suoi esponenti divenuti ingombranti, indifendibili e ingestibili, troppo nell’occhio del ciclone». E l’ha fatto «con l’obiettivo (concordato) di tacitare tutte le altre iniziative di contrasto della criminalità mafiosa». Aggiunge Carpeoro: «Se uno vuole fare davvero la lotta alla mafia, deve combattere lo schema di potere che ha deciso di utilizzare la mafia, così come si è configurata nell’arco di decenni», a partire dallo sbarco alleato in Sicilia nella Seconda Guerra Mondiale.«Per gestire anche la mafia – aggiunge Carpeoro – gli americani hanno creato appositamente una loggia massonica: hanno dato vita al cosiddetto Progetto Colosseum, da cui sono nate numerose logge». Gli statunitensi «hanno utilizzato la mafia anche a scopi bellici, per assicurarsi un’invasione indisturbata della Sicilia (a fin di bene, in quel caso, perlomeno rispetto al contrasto del nazifascismo)». I rapporti tra gli Usa e Cosa Nostra sono sempre stati organici, dice Carpeoro: «Non a caso Andreotti, nel suo processo d’appello, per ottenere l’assoluzione ha citato come testimoni consoli, diplomatici e alti dirigenti degli Stati Uniti d’America». I politici uccisi dalla mafia, da Salvo Lima a Piersanti Mattarella? «Alcuni erano obiettivi tattici, cioè davano fastidio in quel momento; altri erano obiettivi strategici, cioè rappresentavano battaglie da dissuadere fin dall’inizio». Dipende dalle circostanze, dal periodo: «Ci sono stati dei momenti in cui alla mafia è convenuto essere meno visibile, e altri momenti in cui la mafia ha valutato invece che riaffermare le proprie prerogative sul territorio comportasse una certa visibilità».Cosa conteneva la famosa Agenda Rossa di Borsellino? «Elementi delle sue indagini, credo», ipotizza Carpeoro. «Non penso fosse arrivato a indicazioni generali; credo abbia indagato sui rapporti tra la mafia e una certa politica siciliana, e che fosse andato molto avanti, in questa direzione. Non scordiamoci che quel tipo di politica, in realtà, è indispensabile per vincere le elezioni, in Sicilia: quel tipo di politica utilizza anche la mafia, il voto di scambio, tant’è vero che troviamo continuamente casi di politici siciliani coinvolti». Storicamente, continua Carpeoro, la mafia in Sicilia è stata sempre collegata alla Democrazia Cristiana: «Quindi, basta andare appresso agli ex democristiani e si trovano le radici del problema. Borsellino poi indagò anche su Forza Italia, ma perché Forza Italia, in Sicilia, per vincere le elezioni si fece infiltrare da quel tipo di politica democristiana». Le indagini di Borsellino potevano illuminare anche i retroscena della grande svendita finanziaria dell’Italia? «Quelle sono logiche che poi si sono sovrapposte, nel potere. Esistono logiche generali e logiche locali; a volte queste logiche coincidono, e allora si creano questi coaguli di pressione».Il pentito Vincenzo Calcara parla della mafia come di una “entità” accanto ad altre, come la massoneria e il Vaticano. «Tutto ciò che gestisce potere, alla fine, finisce nel tritacarne», insiste Carpeoro: «Tutto il tritato generale della nostra vita civile è fatto di tante componenti; nel momento in cui un certo modo di fare politica ha infiltrato anche la massoneria, la stessa massoneria (almeno quella locale, non so quella nazionale) è diventata uno dei gangli di questo schema di potere. D’altro canto, la stessa massoneria internazionale si è resa “fruibile”, da parte di meccanismi di potere, quindi la cosa non mi meraviglia minimanente». Mafia Capitale a Roma? «Interpretare il termine “mafia” in senso estensivo, cioè riferibile a qualunque associazione criminale, è possibile in linea teorica ma non so quanto sia utile sul piano pratico: perché la mafia, pur essendo diventata di portata ultra-nazionale, è pur sempre un fenomeno molto radicato su territori». La mafia siciliana come prodotto dell’Italia unita? «Cerchiamo di capirci: tutti quelli che collegano la mafia all’Unità d’Italia dicono un cazzata», sostiene Carpeoro, sottolineando che, prima dell’Unità d’Italia, nel Meridione, il potere era in mano ai latifondisti, i cosiddetti baroni, con i loro temutissimi “camperi”.«Il principale alleato del barone era il capobastone del posto», ricorda Carpeoro, «perché la polizia borbonica non era così efficiente e ramificata da garantire l’ordine pubblico. E quindi in ogni paese c’era uno – più furbo, più arrogante, più violento, magari anche dotato di un certo magnetismo nei confronti di coloro che formavano la sua banda – che garantiva ai latifondisti l’esercizio di un potere incontrastato e lo sfruttamento indisturbato delle altre persone. Questa era già mafia», inutile negarlo. Nel momento in cui si crea l’Unità d’Italia, poi, la mafia diventa brigantaggio, «nella dissidenza di quelli a cui il potere è stato tolto». Ma attenzione: «C’è anche una vasta area di trasformazione e di coesione di questi vecchi sistemi nei confronti del nuovo assetto politico: per cui, poi, si creerà il nuovo asse, sul territorio, tra il potere politico e la mafia». Nell’atroce storia mafiosa, suscitano orrore delitti come l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino rapito a 13 anni e poi, dopo oltre 700 giorni di prigionia, ucciso da Brusca e altri complici, che ne sciolsero il corpo nell’acido. «Come leggere un delitto di questo tipo? Come una barbarie, ricollegabile al basso livello della manovalanza mafiosa – basso livello da ogni punto di vista: non solo etico, ma anche pratico e strategico». Eppure, sottolinea Carpeoro, bisogna ricordarsi che la mafia di Brusca e Riina è stata usata e incorporata nello schema di potere dell’Uomo Nero, quello che fa in modo che ce la prendiamo sempre con qualcuno, non con il sistema stesso. E’ così che il gioco è destinato a non finire.Totò Riina? E’ stato un progetto di potere, inserito in uno schema. «Dobbiamo immaginare lo schema del potere come una specie di enorme tritacarne. Lo scopo del potere è realizzare la carne tritata. E’ indifferente di chi sia, la carne, nel senso che poi il potere utilizza di volta in volta schemi, persone, associazioni». E in Sicilia, storicamente, il potere ha utilizzato la mafia. Parola di Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” e del nuovissimo “Il compasso, il fascio e la mitra”, che illumina i retroscena dell’origine del fascismo. «Sicuramente – dice – Riina ha risposto allo schema generale del potere, che di volta in volta attiva i personaggi che gli sono funzionali». L’ex super-boss di Corleone è stato accusato di oltre 100 omicidi? «Era il capo, di basso livello, di una associazione criminale che ha commesso quegli omicidi, ma che rispondeva comunque a uno schema di ordine superiore». Ingranaggi di un meccanismo infernale: quei personaggi che stanno al di sopra di Riina hanno certamente preordinato le varie azioni, «ma anche loro sono burattini, in mano a uno schema astratto». Semplice manovalanza criminale, Riina? «Sì, e anche di basso livello, oserei dire», afferma Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La narrativa sul “boss dei boss”? In parte, creata solo per depistare l’opinione pubblica: la fabbricazione dell’Uomo Nero, l’incarnazione del male.
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Contropiano: ma dentro la Ue siamo tutti come i catalani
Se il governo regionale della Catalogna è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Ue, vuol dire che nulla sarà come prima: quello che sta avvenendo in questi giorni intorno a Barcellona e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico, scrive Dante Barontini su “Contropiano”: «E’ la prima volta, infatti, che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale». Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei “nemici”. «Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia», ricorda “Contropiano”, facendo notare che «se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”». Una conferma implicita: quello Ue è un sistema sovranazionale «creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici».Quella di Barcellona è un’indipendenza formale, non effettiva, perché la Catalogna «non aveva e non ha la possibilità materiale di far rispettare a tutti questo nuovo status», precisa Barontini: niente frontiere protette né esercito, niente moneta autonoma, nessun controllo sui movimenti di capitale e delle imprese. Sarà la prima volta che dirigenti politici democratici chiederanno ufficialmente asilo politico? «Per la sottile ironia della storia – aggiunge l’analista – proprio questa fuga riporta la contraddizione all’interno del cuore dell’Unione Europea, a Bruxelles, costringendo gli algidi burocrati a districarsi con il problema di un governo democratico che chiede asilo politico per sfuggire ai mandati di cattura emessi da un paese membro della stessa Unione – la Spagna di re Felipe e del franchista Rajoy – che non viene classificata di certo tra le “dittature”». Non è invece la prima volta, aggiunge Barontini, che la rivendicazione di indipendenza assume connotati apertamente progressisti e di classe, invece che quelli “populisti di destra” che tanto piacciono all’establishment europeo per “spaventare” le popolazioni sottoposte alla riduzione dei diritti, dei salari e del welfare.Questa Unione Europea, ricorda “Contropiano”, non è altro che «un sistema di trattati vincolanti, che espropriano gli Stati nazionali di molte prerogative-chiave, a partire dal controllo del bilancio pubblico». Proprio questo mostro tecnocratico produce il nemico che sostiene di voler combattere, cioè il razzismo e il neofascismo, «moltiplicando disuguaglianze reddituali, seminando precarietà e insicurezza sociale che poi cerca di capitalizzare militarizzando la società». Alternative alla rottuna, in Catalogna? Debolissime. La parte più moderata del movimento indipendentista, rappresentata da Carles Puigdemont, coltivava un’illusione “riformista” rivelatasi un tragico equivoco, «quello di poter passare da regione autonoma di uno Stato membro della Ue a Stato indipendente, restando completamente dentro le regole Ue già definite», e quindi mantenendo trattati, contratti e moneta, senza alcun trauma». Dopo il referendum, Barcellona sperava in un compromesso con il governo centrale spagnolo, anche a costo di non proclamare formalmente l’indipendenza. Ma non ha funzionato.Puigdemont e compagni «si sono trovati davanti a un muro incompreso, imprevisto, sottovalutato, invalicabile». Ovvero: «Nessuna “riforma” è possibile, nessun compromesso teso a guadagnare respiro». Proprio questo muro, aggiunge “Contropiano”, ha costretto il governo catalano a portare fino in fondo – obtorto collo – il processo istituzionale sfociato nella dichiarazione d’indipendenza. «Non c’è stata la capovolta di Tsipras, non c’è stata la resa plateale che disarma un intero popolo e soprattutto le figure sociali più colpite dalle politiche europee». Di sicuro la fuga in Belgio non è un atto eroico, «ma non è neppure paragonabile al trasformarsi in macellaio della propria gente». E’ un fatto: è avvenuto. «Ma ogni fatto storico di questa portata cambia la situazione», scrive Barontini. D’ora in poi, si tratta di mettere a fuoco «il nemico principale», ovvero quello con cui tutti ci troviamo a fare i conti, «magari senza aver ancora capito che (quanto a condizioni oggettive, in questo continente) oggi siamo davvero tutti come i catalani», di fronte all’aberrante regime di Bruxelles: il vero avversario comune, infatti, è proprio l’Unione Europea.Se il governo regionale della Catalogna è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Ue, vuol dire che nulla sarà come prima: quello che sta avvenendo in questi giorni intorno a Barcellona e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico, scrive Dante Barontini su “Contropiano”: «E’ la prima volta, infatti, che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale». Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei “nemici”. «Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia», ricorda “Contropiano”, facendo notare che «se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”». Una conferma implicita: quello Ue è un sistema sovranazionale «creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici».