Archivio del Tag ‘Borsa’
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Buoni propositi: le velleità dei 5 Stelle su Ue, Nato, mondo
Ancora incerto, il programma dei 5 Stelle. Ma forse un po’ meno vago, dopo la consultazione online che, secondo il blog di Grillo, attraverso la piattaforma “Rousseau” ha coinvolto quasi 25.000 iscritti, impegnati a esprimersi sulle linee generali da seguire in politica estera. Un’apertura di credito proviene da una fonte critica come “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e mostra un cauto interesse per il verdetto dei grillini: «Sicuramente non è un programma che piacerà all’establishment, alla Nato e all’Unione Europea che ha ingranato la quarta sul piano delle spese militari». Visto così, secondo “Contropiano”, il mondo entro cui dovrebbe articolarsi la politica estera del M5S «appare in aperta controtendenza con quella con cui i governi italiani di destra o centro-sinistra hanno ingabbiato e reso subalterno il paese nei decenni scorsi». Beninteso: «La politica estera del M5S non annuncia rotture, né verso la Nato né verso l’Unione Europea», ovviamente. Eppure, «parla di “adeguamento” della prima e di “riforma” della seconda». Per il newsmagazine “comunista”, si tratta di «un velleitarismo moderato che in qualche modo alimenta l’idea che tali apparati possano essere “riformati” sulle base di buone ragioni».Sulla Nato, 4.547 grillini “votano” per un «adeguamento dell’alleanza atlantica al nuovo contesto multilaterale», cioè «in un’ottica esclusivamente difensiva». L’impegno è a sottoporre al Parlamento «un’agenda per il disimpegno dell’Italia da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la lettera e lo spirito dell’articolo 11 della nostra Costituzione». In più, i grillini considerano il territorio italiano «indisponibile per il deposito e il transito di armi nucleari, batteriologiche e chimiche», nonché «per installazioni e addestramenti che ledano la salute degli italiani». Più popolare, nella consultazione interna, la mozione sull’Europa, scelta da 8.529 iscritti. Chiedono «un’Europa senza austerità», per la quale il Movimento 5 Stelle annuncia di voler farsi promotore «di un’alleanza con i paesi dell’Europa del Sud per superare definitivamente le politiche di austerità e rigore, facendo fronte comune per ottenere una profonda riforma dell’Eurozona e dell’Unione Europea».Si tratta di «argomentazioni non dissimili da quelle della sinistra europea», secondo “Contropiano”, che fa notare come «la Grecia di Tsipras le smentisce nei fatti, mentre il mondo non ha ancora notizia di un paese che sia riuscito a modificare la natura della Nato». Ecco il punto: «La vera incognita rimane quella della coerenza tra enunciazioni e fatti». E quello che s’è visto finora nel governo della capitale, da parte dei 5 Stelle, «non induce alla fiducia». Il problema è serio: «Sul piano locale come su quello internazionale, perseguire una rottura dell’esistente presuppone una solidità politica e personale e un impianto di idee consolidato che fino ad oggi non ha dato grandi prove di sé». In cima ai desiderata della base grillina, votato da oltre 10.000 attivisti, campeggia il capitolo “contrasto ai trattati internazionali come Ttip e Ceta” (in realtà il Ttip è tecnicamente defunto, sostituito dal Misds, di cui i 5 Stelle non parlano, così come del Ceta, l’insidioso trattato sulla privatizzazione dei servizi). Seguono il capitolo su “Europa senza austerità” e la voce “ripudio della guerra”. A seguire: “smantellamento della Troika”, “disarmo come premessa alla pace”, “Russia: un partner economico e strategico contro il terrorismo”. In coda: “riformare la Nato”, “risoluzione dei conflitti in Medio Oriente” e “nuovi scenari di alleanze per l’Italia”.In tema di sovranità, si parla di «cooperazione e dialogo tra le popolazioni», sorvolando però sulla forma più essenziale di sovranità, quella monetaria e finanziaria. Quallo allo “smantellamento della Troika”, il M5S sfodera toni bellicosi nella forma ma pletorici, innocui nella sostanza. Annuncia che «si opporrà in ogni modo a tutti quei ricatti dei mercati e della finanza internazionale travestiti da “riforme”», senza spiegare cosa opporrà, in concreto, al potere di ricatto della finanza privata. «In particolare», aggiunge la nota, il Movimento 5 Stelle «si impegnerà allo smantellamento del Mes (Fondo “Salva Stati”) e della cosiddetta “Troika”, organismi sovranazionali che hanno appaltato la democrazia delle popolazioni imponendo, senza nessun mandato popolare, le famigerate “rigorose condizionalità”», cioè le misure imposte dall’euro (di cui i 5 Stelle continuano a non parlare).Ai seguaci di Grillo, il menù “politica estera” è stato presentato direttamente dal leader, via web, mediante proposte già preconfezionate: solo su quelle era possibile pronunciarsi. Testi “facili” e infarciti di annunci poco impegnativi, del tipo: «Combatteremo in ogni sede possibile le pratiche oggi utilizzate dalle multinazionali per eludere il fisco mediante “triangolazioni internazionali”». Addirittura, i grillini aggiungono che “lavoreranno” «per la riforma dell’architettura finanziaria internazionale», aumentando a tal fine «la cooperazione con tutti quegli organismi, come il G7 più Cina, che si impegnano in questa direzione». Niente di pratico, insomma, per affrontare – per le corna – il toro della crisi europea, incarnato dalla privatizzazione della moneta. Nonostante la sua vaghezza, comunque, “Contropiano” non cestina la possibile agenda dei grillini, sforzandosi di scorgervi il bicchiere mezzo pieno: «Se su questo programma di politica estera il M5S mostrerà coerenza e conseguenza – scrive il newsmagazine – sarebbe indubbiamente un cambio di passo significativo per il dibattito pubblico sul nostro paese e le sue relazioni con il mondo».Ancora incerto, il programma dei 5 Stelle. Ma forse un po’ meno vago, dopo la consultazione online che, secondo il blog di Grillo, attraverso la piattaforma “Rousseau” ha coinvolto quasi 25.000 iscritti, impegnati a esprimersi sulle linee generali da seguire in politica estera. Un’apertura di credito proviene da una fonte critica come “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e mostra un cauto interesse per il verdetto dei grillini: «Sicuramente non è un programma che piacerà all’establishment, alla Nato e all’Unione Europea che ha ingranato la quarta sul piano delle spese militari». Visto così, secondo “Contropiano”, il mondo entro cui dovrebbe articolarsi la politica estera del M5S «appare in aperta controtendenza con quella con cui i governi italiani di destra o centro-sinistra hanno ingabbiato e reso subalterno il paese nei decenni scorsi». Beninteso: «La politica estera del M5S non annuncia rotture, né verso la Nato né verso l’Unione Europea», ovviamente. Eppure, «parla di “adeguamento” della prima e di “riforma” della seconda». Per il newsmagazine “comunista”, si tratta di «un velleitarismo moderato che in qualche modo alimenta l’idea che tali apparati possano essere “riformati” sulle base di buone ragioni».
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Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali
La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.Per arrivare a questo risultato la mobilitazione deve essere inedita, almeno per questi anni, e per ora questo non si è visto. La stessa definizione che Davide Casaleggio dà del Movimento 5 Stelle («siamo Netflix, mentre i partiti sono ancora Blockbuster») non pare adatta a suscitare questa mobilitazione. Confonde, infatti, l’immaginario dell’impresa della comunicazione con quello dell’impresa tout court e quello dell’impresa tout court con quello della società. L’idea di futuro di una impresa e quello di una società, per quanto intrisa di aziendalismo come la nostra, vanno separate. Lo stesso Berlusconi, che scese in campo portandosi dietro un immaginario di ricchezza non comparabile con quello della Casaleggio, per prendere voti di massa a livello di opinione dovette ricorrere alla coltivazione, reiterata, di un immaginario di maschio-alfa che stava molto più nel profondo della società italiana di quello dell’impresa. Cercare di costruire un futuro con un immaginario da start-up è, infatti, prepararlo allo stesso rischio di fine precoce che corrono questo tipo di aziende.Davide Casaleggio aveva poi aperto, sul “Corriere della Sera”, all’interrogativo principale della giornata di Ivrea: la rivoluzione robotica e il suo impatto nella società. Roba un po’ schematica, sulla velocità della rivoluzione tecnologica ci sarebbe più da ragionare che fare marketing, ma che sicuramente tocca la struttura della società italiana: dall’organizzazione del lavoro a quella dell’amministrazione dello Stato, della formazione, della ricerca scientifica e del diritto. Per non parlare del tipo di economia che si vuole, e in che modo produce ricchezza (e che tipo di ricchezza produce), in una società a forte tasso di invecchiamento. Questioni da far tremare i polsi, sulle quali non si è visto un lineamento di risposta, sempre tenute sullo sfondo grazie alla questione del “come” finanziare il reddito di cittadinanza. Quella del possibile impatto – sociale, economico, amministrativo – di questa misura rimane invece taciuta. E, essere generico su questi temi, non è solo un difetto di Casaleggio ma anche di tanta sinistra: pensare che il reddito di cittadinanza, misura comunque inevitabile, sia una sorta di derivato della carità (che una volta assolta fa sentire la società uguale a prima solo piu’ solidale) o una misura che riguarda comunque la periferia del corpo sociale.Non siamo più nel ‘900: il reddito di cittadinanza, se erogato davvero, non è una misura di equilibrio sociale che sta tra welfare e mercato. Di fronte a una rivoluzione tecnologica, che distrugge strutturalmente più posti di lavoro di quanti ne produce (a differenza, appunto, del ‘900), il reddito di cittadinanza ha un impatto fortissimo sul mercato del lavoro, sulla forma delle istituzioni e dell’amministrazione. Fa uscire strutturalmente dal lavoro, se è reddito di cittadinanza, non più una nicchia ma una parte consistente di società. In maniera inedita dalla rivoluzione industriale. Presupponendo cambiamenti tali da mettere in discussione anche la presa della forma impresa nelle pieghe della società e nella estrazione della ricchezza. È uno dei motivi, oltre al fatto che la ricchezza in Europa va nei paesi “core” come finiva nel nord ricco dell’Italia postunitaria, per cui questo paese non ha mai trasformato la propria struttura di welfare consociativo, tra le parti sociali come si era configurato nella sua epoca matura, in welfare di cittadinanza. Sarebbe saltata la struttura del potere reale tanto che gli attori in campo hanno preferito trasformare, di volta in volta, il welfare consociativo in uno strumento, in parte borbonico in parte neoliberista, di allineamento alle esigenze di sviluppo della Ue e dell’Eurozona. Insomma, problemi epocali ai quali è impossibile rispondere con un immaginario da start-up. Ma quando ti nutri, in modo totemico, del sapere dell’impresa certi salti in avanti non li puoi fare.Oltretutto, quando in tv Casaleggio jr. si è trovato davanti alla classica domanda, sul come finanziare il reddito di cittadinanza come antidoto alla disoccupazione tecnologica, ha risposto non cercando di conquistare nuovo pubblico ma parlando a quello già conquistato. Ha parlato infatti di «partire dal taglio delle pensioni d’oro», eccetera, ovvero la già vincente retorica sugli sprechi che, anche se fosse praticata allo spasimo, non arriverebbe mai a finanziare una posta di spesa così grande. Segno, perlomeno, di grande confusione, prima di tutto su cosa fare dopo l’evento epocale (e lo è) della rivoluzione tecnologica. Segno che, nonostante i desideri sul futuro, non si arriva a produrre novità politiche e non resta che parlare il solito linguaggio della “casta che ruba”. Davide Casaleggio ha anche aggiunto che, sul finanziamento del reddito di cittadinanza, in fondo, è una questione dei tecnici. Nel migliore dei casi siamo alla visione naif della politica che traccia un’idea e i tecnici la praticano. Quando invece ogni “dettaglio” tecnico porta, nel momento in cui va risolto, a drammatiche scelte politiche, oltretutto quando il provvedimento è destinato a produrre (complesse) ondate di impatto sulla struttura sociale e amministrativa.Qui ci vogliono non i tecnici ma idee di indirizzo politico chiare, e robustamente organizzate, per arrivare a praticare una riforma del welfare, dell’amministrazione e degli obiettivi dello Stato, tale è il reddito di cittadinanza altro che misura “tecnica”, che entrerebbero sicuramente in conflitto con Bruxelles e Francoforte (per non dire Berlino). Insomma, l’evento dell’associazione Gianroberto Casaleggio, che è distinta dal Movimento 5 Stelle, si è impantanato nei difetti della solita convegnistica di impresa che un giorno tocca l’idea di banda ultralarga e l’altro di Industria 4.0: un po’ di spettacolo, un tema di fondo magari azzeccato e tanta genericità a contorno dell’evento. L’invito al Ceo di Google Italia, al direttore della Trilateral e a quello del Tg7 (nonché a qualche sociologo che questa convegnistica se l’è fatta tutta in area Pd-Bassolino), da parte di Casaleggio, stavano in questa cornice. Il problema è che questo genere di convegnistica è fatta, soprattutto, per sviluppare il capitalismo di relazione in settori specializzati. Se il format viene riproposto per delineare il futuro di un paese, le crepe si vedono tutte. La forma start-up non è in grado di rappresentare la profondità di un paese come il nostro. Ma difficile che su quelle rive si cambi idea.Certo se dall’associazione Casaleggio c’è questa confusione in campo 5 Stelle, e ci riferiamo alla politica monetaria, le turbolenze non mancano. Il referendum, previsto come consultivo dal M5S, sulla permanenza nell’euro o meno assumerebbe, in questa cornice, i tratti della più spettacolare manna dal cielo per la speculazione finanziaria (che le borse “banchino” i referendum ormai è prassi consolidata) e quello della paralisi delle politiche di un paese in attesa del risultato. Sicuramente in tutto questo c’è molta propaganda ma anche occhi molto smaliziati stentano a trovarci coerenza e sostanza. Nessuno si augura un domani di riveder di nuovo pascolare i Gentiloni, i Renzi, gli Alfano, le Camusso. Ma bisogna anche essere consapevoli di cosa sta accadendo anche da altre parti della politica. Perché si sta preparando l’ennesima turbolenza per questo paese, comunque vada. E i convegni del genere “imprese per un paese che cambia” queste turbolenze non le governano, al massimo ne vengono governati. Oppure vengono spazzati via e avanti il prossimo.(“Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali”, da “Senza Soste” dell’11 aprile 2017).La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.
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Web, 10 milioni di voci libere: ecco perché il Ddl Gambaro
Se carico filmati erotici su YouTube mi chiudono l’account, se li carico su YouPorn posso fare milioni di visionamenti. Se pubblicizzo medicine che possono avere effetti dannosi è Ok, se informo sulla relazione tra vaccini e casi di autismo fuorvio l’opinione pubblica. Se insulto il Capo dello Stato su una pagina Facebook che ho aperto in Italia rischio sanzioni e galera, se lo faccio da una pagina aperta in un’altra nazione deregolata non mi succede niente. C’è qualcosa che non va. Gli estensori del Ddl Gambaro non se ne rendono conto? Strano! Nessuno può ancora pensare che noi siamo qui a discutere questioni risolvibili con leggi nazionali. Credo che siate d’accordo. La libertà e il controllo nel web, le norme che dovrebbero regolarlo, i grandi soggetti che lo hanno costruito e lo animano… e così via, sono a ogni effetto questioni e soggetti globali, quindi è meglio alzare il punto di vista dell’osservatore, il più in alto possibile, per cercare di avere una visione d’insieme di un fenomeno molto esteso, molto dinamico e complesso.Alle Nazioni Unite, per esempio, sin dal 1995 si pose la questione delle norme nel web. Dieci anni dopo – a seguito del debutto di YouTube, nel 2005, e poi di Facebook – una delle agenzie Onu, la International Telecommunications Union di Ginevra, cominciò a convocare tutti i soggetti interessati agli Igf, “Forum sulla Governance di Internet”. Proprio ieri si sono avviate le prime consultazioni dell’Igf 2017 a Ginevra e i lavori, in questo momento, sono in corso. Quali sono le aspettative e i risultati dopo 12 anni di incontri? Scarsi. Perché? Per tanti motivi. La materia è in costante progresso, coinvolge centinaia di trattati internazionali e contrappone gli interessi dei governi (e dei militari) a quelli dei mercanti e a quelli dei popoli. I mercanti non amano il metodo di voto dell’Onu dominato dalla presenza dei governi, quindi rallentano e impediscono le decisioni in nome della libertà di commercio e della frenetica innovazione tecnologica, e hanno fatto adottare all’assemblea il sistema multi stake holder. Questo modello di misurazione delle volontà riconosce agli stake holders, ovvero i portatori di interessi, pari peso e dignità.Chi sono gli stake holders? Governi, aziende (sia commerciali che tecnologiche), accademie e la società civile. Quindi, quando si tratta di decidere rispetto alla governance di Internet, un governo ha pari peso e dignità di una multinazionale. È così. Al tavolo è chiamata ad esprimersi anche la società civile, ma le sue rappresentanze non hanno fondi e spesso sono organizzate in grandi sigle internazionali che vivono ufficialmente di donazioni, ma in realtà sono interlocutori senza voce mossi da lobbisti occulti. Risultato? A parte qualche modifica dell’Icann – l’anagrafe planetaria del web, voluta dal ministero del commercio Usa, che attribuisce nomi e domini – ciò che si è ottenuto in 12 anni è stato solo il mantenimento e l’esaltazione del dialogo. Un risultato apprezzabile – dicono i liberisti – che ha consentito alla Rete di crescere, espandersi e di non spezzarzi in “N” tronconi: una rete cinese, una araba, una occidentale e così via. È così! Lo stato del dibattito è molto alto e vivace, durante gli Igf, ma non si arriva a nulla se non a fotografare ciò che i giganti del web modificano incessantemente a loro vantaggio. In sostanza la Rete (di tutti) è nelle salde mani di pochi, cosiddetti Over the Top, che ne fanno ciò che vogliono. È strano che i firmatari del Ddl Gambaro non lo sappiano.Passiamo all’Europa. Nel nostro continente le istituzioni preposte alla creazione di regole per il web sono apparse molto distratte, che strano!, e hanno tollerato l’insediamento dei giganti in territori fiscalmente agevolati e deregolati, quali l’Irlanda e il Lussemburgo, fino ad accorgersi recentemente che: 1) i giganti Over the Top, guarda caso, tutti originati in Usa, non pagano in Europa le tasse che dovrebbero. Secondo “Forbes”, nel 2016, si tratterebbe di cifre comprese tra 50 e 70 miliardi di euro/anno sottratti al fisco da quegli stessi soggetti ai quali qualcuno vuole affidare il controllo delle “fake news” in Rete. Strano anche questo. 2) L’Europa si è accorta anche che la Rete può essere la sede di attività losche e violente. In qualche anno si è passati dall’indignazione per gli schiaffoni in classe filmati e caricati su YouTube, alla scoperta del traffico di organi nel cosiddetto deep web e dei siti che organizzano stragi. A quel punto le istituzioni europee hanno cercato di correre ai ripari, ma non risulta che ci sia alle viste un testo di norme condivisibile da tutti gli Stati membri, pertanto ogni governo locale sta agendo in modo autonomo e diverso dagli altri.La vicenda del Ddl Gambaro si inscrive in questa scena. Poco più di un mese fa, il 25 gennaio 2017, l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, un organismo internazionale privo di poteri e che non ha niente a che fare con il Consiglio Europeo, ha approvato il rapporto “Media online e giornalismo: sfide e responsabilità”, presentato dalla senatrice Gambaro. Obiettivo: promuovere la disciplina dell’informazione online come avviene per quella offline, usando gli strumenti già a disposizione negli ordinamenti giuridici nazionali… e consentendo ai giganti del web l’uso di selettori software (algoritmi) per «rimuovere i contenuti falsi, tendenziosi, pedopornografici o violenti». La senatrice è tornata a casa con questa missione e che ha fatto? Il 7 febbraio ha presentato un Ddl al Senato che: ha molto poco a che vedere con il suo rapporto presentato al Consiglio d’Europa, in cui si disegnava una scena ben più ampia e complessa; sembra scritto da sacerdoti della Verità di Stato; utilizza gli ordinamenti giuridici nazionali soprattutto in chiave di repressione locale; adombra infine un sogno: la soluzione è il rilancio di un immenso Ordine dei giornalisti, disclipinati da una legge di 60 anni fa!Il ruolo e le responsabilità dei giganti del web non vengono mai menzionati. Strano! Eppure, lo sanno tutti, i maggiori players della vicenda Internet sono un drappello di corporations targate Usa. Tra queste: Google-YouTube (confluita in Alphabet), Facebook, Amazon, e-Bay, Yahoo, PayPal. Ognuno di loro, è stato ampiamente dimostrato, chi più chi meno, lavora alacremente a raccogliere Big Data e li passa poi ai pubblicitari e ai servizi segreti. Addirittura, per legge (il Patriot Act), li passa alla Nsa statunitense. Queste sono le loro principali ragion d’essere. Il loro ruolo, dopo una stagione di seduzione, di promesse di libertà di espressione e di uguaglianza e dopo la nascita dei social network, si è rivelato per quello che è: sono megastrutture “pompate nelle Borse”, grandi evasori fiscali, al servizio dei mercanti globali, alleate con alcuni governi e in guerra con altri. Il loro fine ultimo è concedere visibilità in cambio della gestione e del controllo della privacy, degli spazi pubblicitari e dell’e-commerce. In pochi anni hanno mutato la vita sociale, la produzione della cultura, il commercio, e hanno creato stili di vita sempre più uniformi.Grazie all’immenso fenomeno dei “contenuti generati dagli utenti”, ai sistemi di cross selling in rete, all’impero delle carte di credito, l’alleanza Ott–mercanti, a partire dal 2009 ha prodotto enormi risultati. Tra questi è rilevante l’avvenuta sudditanza dei media mainstream al potere, che era già in latenza ma si è conclamata, grazie alla sottrazione di risorse pubblicitarie che sono state destinate al web. Oggi nessun editore è ormai più indipendente, tutti vengono usati a sostegno della visione di potere… e forse questo è anche il motivo per cui il Ddl Gambaro li esclude dalle sanzioni? E arriviamo ai “contenuti generati dagli utenti”, i Cgu (blogs, pagine Fb, canali Yt). Credo sia la prima volta che vengono menzionati con tale dicitura – all’articolo 8 – in un Ddl. Le sanzioni e le pene sono pensate soprattutto per loro. Questo imponente fenomeno che coinvolge nel mondo 2 miliardi di utenti solo su Fb e Yt, riguarda in Italia 50 milioni di accounts. E di questi il 10% è considerabile “antagonista”. Il fenomeno non è mai stato analizzato a fondo da giuristi, economisti e politici. I Cgu hanno scardinato negli ultimi 12 anni alla radice la comunicazione di massa e quindi anche la politica e il costume. Ma ora si stanno rivelando un boomerang. Perché?Avendo ridotto di molto l’autorevolezza dei media tradizionali ed essendosi sostituiti ad essi in occasioni altamente strategiche grazie a testimonianze scritte e filmate imprevedibili e non controllabili, i Cgu hanno consentito la misurazione di una mente collettiva tumultuosa, non conformista, populista e non riconducibile alla divisione classica destra/sinistra. Però molto reale, attiva e determinante per l’organizzazione del consenso non solo elettorale (vedi Brexit, No alla riforma costituzionale, Trump e il dibattito su Europa matrigna, euro, signoraggio bancario, debito predatorio). Quindi il potere cerca di correre ai ripari. La domanda è: perchè non c’è stato il setaccio alle origini? Perchè non ci doveva essere. Almeno nella fase in cui gli Ott hanno usato i Cgu per raggiungere alcuni obiettivi prima impensabili, tra i quali la sudditanza generalizzata. Per diventare sudditi e partecipare all’orgia digitale bastava e basta un semplice “I accept”… “Io accetto le norme di chi mi ospita”. Oggi, però, su pressione di alcuni governi e potentati, gli Ott stanno cominciando a “setacciare”… tanto, gli obiettivi delle origini sono per loro stati raggiunti, i Big Data sono stati accumulati, la pubblicità ingannevole dilaga a costi minimi per gli inserzionisti; il mainstream è asservito, centinaia di milioni di umani vengono veicolati all’acquisto di merci e servizi di massa, globalizzati e inquinanti. I mercanti hanno vinto, ora “selezionano” le truppe digitali che appaiono non ossequiose.Accenniamo ora all’evanescente concetto di “fake news”, bufale, notizie vero/falso… questo tipo di comunicazione esiste da sempre (dai tempi di Nerone, dai tempi di Giordano Bruno). La novità è che la rete è un enorme amplificatore di tutto, quindi anche di “fake news”, le sue caratteristiche di velocità e ubiquità e possibile anonimità, la rendono una dimensione in cui il vero e il falso possono coincidere nello stesso spazio tempo. Questo determina aspetti politici e sociali inaspettati. Quando il potere planetario, organizzato nelle sue diverse aree di influenza, nonostante abbia sottratto sovranità ai governi locali, si accorge che i media al suo servizio non sono in grado di raggiungere un’organizzazione del consenso per esso soddisfacente; quando si accorge che esistono sacche quali Wikileaks e Anonimous e milioni di Cgu che sono incontrollabili e destabilizzanti, il potere planetario si innervosisce e tira le orecchie ai governi locali lanciando una semplice parola d’ordine, “meno libertà e più controllo… datevi da fare, ognuno sul proprio territorio”. E così si mette in moto la macchina del controllo e talvolta, come nel caso del Ddl Gambaro, va fuori strada e diventa la macchina della repressione.I firmatari tentano di addolcire la pillola con le proposte di alfabetizzazione e promozione dell’uso critico dei media online. Bene! Oltre che nelle scuole secondarie (se mai la faranno) la facessero in prima serata sulle reti Rai, visto che tanto paghiamo sempre noi. Ma diciamoci una verità: perchè il Ddl Gambaro non menziona e reprime le bufale diffuse dalla pubblicità e dai media mainstream? Perchè non controlla e reprime le migliaia di “fake news” che ogni giorno circolano in Rete mascherate da suggerimenti per fare affari nelle Borse? O addirittura per salvare i risparmi di una vita, mettendoli in realtà a rischio? Queste sì che sono fake news destabilizzanti. Eccome! Noi però non possiamo dimenticare che «la democrazia punisce i fatti compiuti mentre è la dittatura che punisce le opinioni».(Glauco Benigni, “I grandi mercanti del web ora vogliono setacciare gli utenti”, da “Megachip” del 3 marzo 2017. Benigni è presidente di Wac, Web Activists Community).Se carico filmati erotici su YouTube mi chiudono l’account, se li carico su YouPorn posso fare milioni di visionamenti. Se pubblicizzo medicine che possono avere effetti dannosi è Ok, se informo sulla relazione tra vaccini e casi di autismo fuorvio l’opinione pubblica. Se insulto il Capo dello Stato su una pagina Facebook che ho aperto in Italia rischio sanzioni e galera, se lo faccio da una pagina aperta in un’altra nazione deregolata non mi succede niente. C’è qualcosa che non va. Gli estensori del Ddl Gambaro non se ne rendono conto? Strano! Nessuno può ancora pensare che noi siamo qui a discutere questioni risolvibili con leggi nazionali. Credo che siate d’accordo. La libertà e il controllo nel web, le norme che dovrebbero regolarlo, i grandi soggetti che lo hanno costruito e lo animano… e così via, sono a ogni effetto questioni e soggetti globali, quindi è meglio alzare il punto di vista dell’osservatore, il più in alto possibile, per cercare di avere una visione d’insieme di un fenomeno molto esteso, molto dinamico e complesso.
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Vietato amare: così Ray Dalio metterà fine all’umanità
Che personalità deve avere un direttore dell’Fbi, cioè il reale Principe delle Tenebre della politica interna degli Stati Uniti dall’assassinio di Jfk e anche prima? Come dev’essere, nell’anima, uno che regge il potere assoluto? Risposta più che ovvia: «Non può essere un umano, deve essere una macchina senza scrupoli, un androide di spietata logica, occhi vitrei, implacabile. Oggi questo uomo si chiama James Comey». E allora, scrive Paolo Barnard, che effetto fa scoprire che «un siffatto micidiale androide», anni fa, fu assunto in un’organizzazione che lo ha fatto addirittura collassare? «Che razza di apocalittico luogo deve essere quello dove una macchina spietata come un direttore dell’Fbi non ce la fa, vacilla e fugge?». Si chiama Bridgewater. E’ il mondo di Ray Dalio. Bridgewater è un Hedge Fund, un fondo d’investimento dove i multimiliardari del pianeta mettono fortune con lo scopo di proteggerle da rischi e, al tempo stesso, di azzardare scommesse finanziarie mozzafiato per decuplicare i guadagni. Bridgewater è oggi il più potente Hedge Fund del mondo. «Perché? Il motivo è semplice ma centrale, in questo racconto dell’orrore che sarà la vita da incubo dei vostri figli». Bridgewater “indovina” sempre, non sbaglia mai. E Ray Dalio è il suo guru.Racconta Barnard, straordinario giornalista investigativo: «Lessi in un luogo oscuro una dichiarazione di Ray Dalio che parlava dell’amigdala, cioè della minuta porzione del cervello umano che si pensa gestisca le emozioni. E Dalio ne parlava, a lungo, nel corso di quella che invece doveva essere una nota sui mercati per gli investitori». Warning: «Ma che razza di viaggio lisergico è il gestore dell’Hedge Fund più miliardario del pianeta che invece di parlare agli investitori di spread, tassi, Bull Markets, trends, meccanismi di trasmissione monetaria o Credit Defaults, parla di amigdala cerebrale?». Cliccando sul sito di Bridgewater, si scopre che «lì dentro sta succedendo qualcosa d’indicibile, ma indicibilmente orrendo», perché «spazzerà via tutto ciò che dal 18esimo secolo si è aggregato attorno alla parola lavoro – tutto: leggi, filosofie, diritti, organizzazioni». Ray Dalio? «E’ l’esatto contrario dei suoi omologhi, cioè dei Blankfein, Soros, Fink, Mustier, Cuccia, Agnelli, che, com’è noto, passano o passarono la vita a “giocare a Dio”. Dalio passa la sua vita nella convinzione di essere talmente fallato, che solo un orwelliano lungo processo di aggregazione, limatura ed eliminazione dei suoi errori e dei suoi autoinganni potrà portare lui ad essere una Macchina infallibile, e Bridgewater al successo eterno».E infatti, continua Barnard, «Dalio aspira a morire nella carne solo dopo che la sua mente sarà stata trasformata in una Macchina, in una Machine, ma proprio alla lettera, perché Ray sostiene, ripeto, che solo un orwelliano lungo processo di aggregazione, limatura ed eliminazione degli errori e degli autoinganni, e quindi solo eliminando le falle umane di cui lui e noi tutti siamo zeppi per causa dell’amigdala emotiva, cioè divenendo Machines, si ottiene l’efficiente vittoria perpetua nella competizione». Ma attenti: Dalio non prepara solo la sua mutazione in Machine, ma la mutazione in Machines di chiunque respiri e lavori, e lavorerà. E non solo a Bridgewater. «Dovrà essere trasformato, e per prima cosa non deve avere l’amigdala delle emozioni». Sicché Dalio «non solo prepara, ma ha già pronto tutto il progetto di trasformazione». E qui sta il fatto agghiacciante: «Il mondo che conta, dalla Fiat Chrysler alla General Motors, dalla Sony Corp. alla Carrefour, dall’Eni a Google, da Goldman Sachs a Banca Intesa, lo stanno guardando e… hanno capito. Hanno capito che l’apocalittico disegno di Ray Dalio è un “Money Winner”, cioè vince nella gara dei soldi, e va copiato. Sarà copiato alla stessa velocità con cui si sparge un incendio dopo un anno di siccità».Il virus-Dalio «colerà a pioggia dai colossi dell’impiego ai gruppi minori fino all’azienda nostrana», e quindi «segnerà nella storia dell’umanità la fine del mondo del lavoro così come lo conosciamo, incenerendone ogni diritto o umanità rimasti. E vincerà anche perché il modello Ray Dalio-Bridgewater frantuma la storia del lavoro umano senza violare un singolo diritto sindacale, una singola legge, una singola Costituzione». A chi scrollerà il capo con scetticismo, Barnard ricorda nel 1946, «l’epoca delle radio gracchianti e dei telefoni a rotella», un uomo di nome George Orwell predisse che l’umanità fosse spiata da un Grande Fratello in ogni sua mossa. «Settant’anni dopo Edward Snowden rivelò al mondo che il Grande Fratello Nsa esisteva davvero». E come ci è arrivato, Ray Dalio, a concepire un mondo in cui si possa morire nella carne solo dopo essere diventati «Macchina che aggrega, lima ed elimina i suoi errori e i suoi autoinganni, senza Amigdale emotive di mezzo», anche a costo di perdere per strada i “deboli” come James Comey, ora capo dell’Fbi?La home page di Bridgewater, «che è un mostro di mercati, derivati, profitti, speculazioni mondiali sulle Borse e clienti colossali», è piena di foglie, alberi, magliette, jeans, ragazzi in riunioni rilassate, sorrisi. «Sembra la home di una clinica di psicoterapia, di un famoso centro di riabilitazione psicologica per giovani alcolisti, o tossicodipendenti, o problematici, o emotivamente instabili. Una clinica nel verde sereno. Cosa significa?». Questo, continua Barnard, non è affatto il solito “spin” (bluff) all’americana”. «La risposta è di una facilità sbalorditiva: Bridgewater lo è davvero una clinica, Ray Dalio più che sul denaro oggi lavora sulla psiche, e lì si è sviluppato quello che di certo è il più agghiacciante progetto di robotizzazione della personalità del dipendente nella storia dell’umanità». Oggi, Dalio «non può ancora ordinare al genere umano una modifica del codice Dna che elimini dai cervelli dei feti l’amigdala delle emozioni», ma può già «spegnerla con la sua filosofia applicata», che trasforma l’essere umano in Machine da lavoro. Lo ripete fino all’ossessione: «I cervelli umani sono macchine. Il mondo è una macchina. L’economia è una macchina. Se nutriamo queste macchine con un’immensa mole di dati, se eliminiamo l’emotività che porta a scelte irrazionali in politica ed economia, queste macchine non sbaglieranno quasi più».Questo che appare come un incubo per il futuro di qualsiasi dipendente, osserva Barnard, «sarà adottato alla velocità di un’epidemia da tutti i maggiori datori di lavoro del mondo, e a cascata anche dai medi e dai piccoli, perché è un incredibile “money winner”: credete che John Elkann non lo abbia già assorbito?». Ray Dalio, aggiunge Barnard, ripete ossessivamente i suoi tre mantra supremi: trasparenza, verità radicale, relazioni intense. «Sono tre punture di cianuro studiate con abilità che definire maligna è riduttivo». Ogni componente del pianeta va ridotto a Machine, e la Machine vince, «perché l’accumulo di dati incrociati e analizzati la rende invincibile, dice Ray». L’amigdala del cervello umano, però, mette i bastoni fra le ruote con l’emotività, che “personalizza” i dipendenti. «Essi allora, continua il Credo-Dalio, vanno totalmente spersonalizzati». In che modo? «Si usano pifferai magici che formulino parole e pratiche che incantano: Ray Dalio ne è il maestro». La decantata “trasparenza”? Suona bellissima, ma a Bridgewater «significa che esiste un sistema dove ogni singolo minuto di lavoro in ufficio è filmato e registrato, e tutto ciò è reso disponibile in una videoteca a chiunque nell’azienda, dal barista a Dalio».Il dipendente sa di essere “trasparente” «perché non può nascondere neppure un colpo di tosse di disapprovazione senza che tutta l’azienda possa vederlo». In più, Ray Dalio «ha dato ordine a tutti i suoi dipendenti di sfidare di continuo gli altri con giudizi o polemiche». E questo porta al Dalio-concetto di “verità radicale”: chi lavora sotto monitoraggio, incoraggiato a polemizzare con i colleghi, finisce maciullato «in una pubblica arena giornaliera per ogni respiro fatto e parola detta, in continue riunioni». Di qui le “relazioni intense”. nel Dalio-gergo: «Intense perché ti devastano ogni secondo, e ogni secondo devi poter attaccare o difenderti perché tutta l’azienda ha visto e udito ciò che hai ‘respirato’, detto o registrato in video e audio». Questa psicotizzante pratica, viene detto ai dipendenti, serve loro «per imparare che solo un orwelliano lungo processo di aggregazione, limatura ed eliminazione dei propri errori e dei propri autoinganni li potrà portare ad essere una Macchina infallibile, cioè li porterà al successo eterno che è prerogativa delle Machines. L’amigdala va polverizzata dalla storia, e se possibile dalla biogenetica in futuro. L’emozione è il nemico della Machine e del successo in ogni sfera del vivere. Questo viene detto ai dipendenti».Così Ray Dalio spersonalizza il dipendente, che diventa una Machine «perfetta per i suoi profitti, che fanno record mondiale». E così, domani, «faranno i datori di lavoro di tuo figlio e del figlio di tuo figlio». Il “Wall Street Journal”, tempo fa, scrisse che in realtà a Bridgewater «si udivano singhiozzi convulsi di dipendenti nascosti nei bagni, unici luoghi dove le registrazioni sono vietate». La risposta di Ray Dalio fu: «Talvolta i sentimenti di chi lavora con noi vengono toccati. Ma questo è causato dall’amigdala. La cose non sono come appaiono: i nostri dipendenti vedono le proprie debolezze e si emozionano. Ma poi prendono fiato, si calmano e diventano razionali». Ma i dipendenti, agiunge Barnard, non possono perdere il posto di lavoro, e quindi si adattano. «John Elkann o Benetton o l’imprenditore di Siena lo vedono, hanno questo potere di ricatto sui sottoposti, e capiscono il ‘genio’ di Ray». In più, Bridgewater sta sviluppando un software che riproduce i “princìpi” di Dalio: si chiama di PriOs, «cortesia di David Ferrucci, ex leader del progetto di intelligenza artificiale della Ibm». Profetizza Barnard: «PriOS, alla morte di Ray, diventerà l’amministratore delegato o presidente dell’azienda, supervisionerà ogni singola mossa o voce umana, interagirà sui tablet che i dipendenti sono costretti per contratto a tenere accesi per dirigerli o criticarli o sentire le loro voci, o registrare le loro critiche ai colleghi e trasmetterle a quei colleghi, o correggere le loro voci». Ma sempre secondo i “princìpi” di Ray Dalio: “Tu sei nato Macchina e grazie a questo sei destinato alla perfezione”.E’ un incubo, dice Barnard, che si avvererà presto: «PriOs sarà l’Ad di Fiat Chrysler, di Benetton, di Rizzoli Rcs, di Tods, di Pirelli, di Eni, di Poste Italiane, della Rai e di Mediaset, di Ipercoop. Sarà il tuo datore di lavoro anche a Perugia o Vicenza, Bergamo, Latina, Pescara». Si comincia prestissimo, a studiare per diventare Machine: «Ray Dalio aveva undici anni, 11, quando iniziò a interessarsi di mercati. Oggi è l’uomo più potente del mondo». Non solo per i 150 miliardi di dollari che gestisce ogni giorno, ma «soprattutto perché ha disegnato gli algoritmi che renderanno tuo figlio, e il figlio di tuo figlio, e il figlio del figlio di tuo figlio, degli psicotizzati servi del profitto, privi di amigdala, senza vita di emozioni: perché non si torna a casa dopo 5 o 6 giorni passati così e poi si è capaci di amare. Saranno le Ray-Machines per generazioni». Barnard rivendica di esser stato il primo, in solitudine, a lanciare l’allarme: «Vi avvisai vent’anni fa del Ttip, allora Wto, della globalizzazione, di chi ha pensato al Jobs Act». E chiosa: «Se per caso riesci a sollevare l’encefalo dalla Raggi o da Travaglio, ricordati di queste righe. Ricorda questo nome: Ray Dalio».Che personalità deve avere un direttore dell’Fbi, cioè il reale Principe delle Tenebre della politica interna degli Stati Uniti dall’assassinio di Jfk e anche prima? Come dev’essere, nell’anima, uno che regge il potere assoluto? Risposta più che ovvia: «Non può essere un umano, deve essere una macchina senza scrupoli, un androide di spietata logica, occhi vitrei, implacabile. Oggi questo uomo si chiama James Comey». E allora, scrive Paolo Barnard, che effetto fa scoprire che «un siffatto micidiale androide», anni fa, fu assunto in un’organizzazione che lo ha fatto addirittura collassare? «Che razza di apocalittico luogo deve essere quello dove una macchina spietata come un direttore dell’Fbi non ce la fa, vacilla e fugge?». Si chiama Bridgewater. E’ il mondo di Ray Dalio. Bridgewater è un Hedge Fund, un fondo d’investimento dove i multimiliardari del pianeta mettono fortune con lo scopo di proteggerle da rischi e, al tempo stesso, di azzardare scommesse finanziarie mozzafiato per decuplicare i guadagni. Bridgewater è oggi il più potente Hedge Fund del mondo. «Perché? Il motivo è semplice ma centrale, in questo racconto dell’orrore che sarà la vita da incubo dei vostri figli». Bridgewater “indovina” sempre, non sbaglia mai. E Ray Dalio è il suo guru.
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Mishra: l’età della rabbia, nell’Occidente senza più futuro
Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.Alla fine il vincitore nella Storia è uno sterile concetto di bonario Illuminismo. Nella norma, avrebbero dovuto prevalere il razionalismo, l’umanesimo, l’universalismo e la democrazia liberale. Ma sarebbe stato «chiaramente troppo sconcertante», scrive Mishra, «riconoscere che la politica totalitaria abbia cristallizzato le correnti ideologiche (razzismo scientifico, razionalismo sciovinista, imperialismo, tecnicismo, politica estetizzata, ingegnerie sociali)» che già scuotevano l’Europa alla fine del 19 ° secolo. Quindi, evocando T.S. Eliot, per poter inquadrare «quel mezzo sguardo all’indietro, sopra la spalla, verso il terrore primivito» che alla fine ha condotto all’Ovest contro il Resto del Mondo, dobbiamo tornare ai precursori. “Distruggi il palazzo di cristallo”. Prendete Pushkin, “Eugene Onegin”, «il primo di molti ‘uomini superflui’ della narrativa russa», con il suo cappello Bolivar, che tiene stretti a sé una statua di Napoleone e un ritratto di Byron, come la Russia, che tenta di recuperare il suo ritardo con l’Occidente, «gioventù senza radici, prodotto di massa con una concezione quasi “byroniana” di libertà, gonfiata ulteriormente dal romanticismo tedesco».I migliori critici dell’Illuminismo dovevano per forza essere tedeschi o russi, in ritardo nella modernità politico-economica. Dostoevsky: la società dominata dalla guerra di tutti contro tutti, dove la maggioranza era condannata a perdere. Due anni prima di pubblicare il sorprendente “Memorie dal Sottosuolo” Dostoevskij, durante il suo viaggio in Europa occidentale, aveva già osservato una società dominata da una guerra di tutti contro tutti, dove la maggior parte era condannata a perdere. A Londra, nel 1862, al Salone Internazionale al Crystal Palace, Dostoevskij ebbe un’illuminazione («E ti arriva un’idea colossale…che il trionfo e la vittoria erano lì. Quasi inizi a temere qualcosa»). Per quanto stupito, Dostoevskij fu molto acuto nell’osservare quanto la civiltà materialista si nutrisse non solo del suo proprio fascino, ma anche della sua potenza militare e marittima.La letteratura russa finì con il cristallizzare il crimine casuale come il paradigma dell’individualità che assapora l’identità e afferma la propria volontà (che poi ritroviamo nel 20° secolo nell’icona beat William Burroughs, il quale sosteneva che sparare a caso sulla folla fosse per lui il massimo del brivido). La pista era aperta: le orde di “mendicanti dissoluti” (Beggars Banquet) potevano iniziare a bombardare il Crystal Palace – anche se, ci ricorda Mishra, «gli intellettuali al Cairo, a Calcutta, a Tokyo e a Shanghai leggevano Jeremy Bentham, Adam Smith, Thomas Paine, Herbert Spencer e John Stuart Mill», per comprendere il segreto in eterna espansione della borghesia capitalistica. E questo dopo che Rousseau, nel 1749, aveva posto la prima pietra della rivolta moderna contro la modernità, ora ridotta in mille schegge, in un deserto di echi contrastanti, mentre ritroviamo il Crystal Palace riflesso in mille ghetti luccicanti in tutto il mondo.“Illuminato: sei morto”. Mishra attribuisce l’idea del suo libro a Nietzsche che commentava l’epica querelle tra l’invidioso plebeo Rousseau e il sereno aristocratico Voltaire – il quale salutò la London Stock Exchange, quando divenne pienamente operativa, come una realizzazione secolare dell’armonia sociale. Ma alla fine fu Nietzsche che si oppose in maniera esemplare, come feroce detrattore sia del capitalismo liberale che del socialismo, rendendo l’allettante promessa di Zarathustra un magnetico Santo Graal agli occhi dei bolscevichi (Lenin, tuttavia, lo detestava), della sinistra di Lu Xun in Cina, dei fascisti, degli anarchici, delle femministe e delle orde di esteti scontenti. Mishra ci ricorda anche come «gli antimperialisti asiatici e i baroni ladroni americani hanno attinto a piene mani da Herbert Spencer, il primo pensatore veramente globale», che dopo aver letto Darwin coniò il mantra della “sopravvivenza del più adatto”. Nietzsche fu l’ultimo cartografo del Risentimento. Max Weber inquadrò profeticamente il mondo moderno come una “gabbia di ferro” da cui può sfuggire solo un leader carismatico. E l’icona anarchica Michail Bakunin, da parte sua, nel 1869 aveva già concettualizzato il “rivoluzionario” come colui che recide «ogni legame con l’ordine sociale e con l’intero mondo civilizzato… Lui è il suo nemico più spietato e continua ad esistere per un unico scopo: distruggerlo».Sfuggendo all’Incubo della Storia del Modernista Supremo James Joyce – dalla gabbia di ferro della modernità, appunto – è scoppiata in modo incontrollato e ben al di fuori dei confini dell’Europa una secessione militante viscerale, «da una civiltà fondata sul progresso graduale controllato da fiduciari liberal-democratici». Ideologie anche radicalmente contrarie sono comunque sorte in simbiosi dal vortice culturale del tardo 19° secolo, dal fondamentalismo islamico al sionismo, dal nazionalismo indù al bolscevismo, dal nazismo al fascismo e al rinnovato imperialismo. Non solo la seconda guerra mondiale, ma anche l’attuale finale di partita è stato brillantemente visualizzato nel 1930 dal tragico Walter Benjamin, quando già metteva in guardia contro l’auto-alienazione del genere umano, finalmente in grado di «provare nella propria distruzione il massimo piacere estetico possibile». Gli jihadisti di oggi in streaming fai-da-te non sono altro che la sua versione pop, mentre l’Isis tenta di proporsi come negazione estrema delle miserie della modernità (neo-liberale).“L’era del Risentimento”. Tessendo flussi coloriti di politica e di impollinazioni incrociate letterarie, Mishra si prende il suo tempo per impostare la scena del Grande Dibattito tra quelle masse del mondo in via di sviluppo – la cui esistenza è stata etichettata dall’Occidente Atlantista («storie di violenza ancora largamente riconosciuta») e dalle élite della modernità liquida (Bauman) che hanno ceduto alla quella selezionata parte del mondo a cui si attribuiscono, dopo l’Illuminismo, le più grandi scoperte e innovazioni scientifiche, filosofiche, artistiche e letterarie. Questo va ben al di là di un semplice dibattito tra Est e Ovest. Non riusciremo a comprendere l’attuale guerra civile globale, questo «mix intenso di invidia e senso di umiliazione ed impotenza» post-modernista, e post-verità, se non tentiamo di «smantellare l’architettura concettuale e intellettuale dell’Occidente vincitore nella storia», che deriva dalla storia ipertrionfalista dei successi americani. Anche al culmine della guerra fredda, il teologo statunitense Reinhold Niebuhr si beffava dei «tiepidi fanatici della civiltà occidentale» e della loro fede cieca nel fatto che ogni società è destinata ad evolversi come hanno fatto, a volte, una manciata di paesi occidentali. E questo – ironia! – mentre il culto liberale internazionalista del progresso scimmiottava platealmente il sogno marxista della rivoluzione internazionale.(Pepe Escobar, “L’erà della rabbia”, da “Asia Times” del 4 febbraio 2017, tradotto da “Skoncertata63” per “Come Don Chisciotte”).Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.
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Ricchi mai così ricchi, e ora gli Obama passano alla cassa
Barack Obama ha certamente fatto la sua parte. Durante i suoi otto anni di mandato i profitti delle imprese sono aumentati. La ricchezza dei 400 americani più ricchi è cresciuta tra i 1.570 e i 2.400 miliardi di dollari. La disuguaglianza sociale è aumentata ad un ritmo sempre più veloce. Con Obama alla Casa Bianca, il mercato azionario ha vissuto una delle sue corse di maggior successo in tutta la storia (il Dow Jones Industrial Average è aumentato del 148 %, ancora più di quanto aumentò con Ronald Reagan). In soldoni, secondo “Cnn-Money”, «le partecipazioni al Dow di Jp Morgan Chase e Goldman Sachs sono schizzate alle stelle dopo il bailout [2008-2009] e non sono lontano dai loro massimi storici. Le azioni di Apple sono aumentate più del 415% da quando [Obama] è diventato presidente. Amazon di un sorprendente 900%. E Facebook, che si è messa sul mercato negli ultimi mesi del primo mandato di Obama nel 2012, è arrivata al 230% dal suo prezzo base». Il “New York Times” gongolava, l’anno scorso: «I fatti sono indiscutibili: gli anni di Obama sono stati tra i migliori di sempre per gli investitori azionari, fin dagli albori del 20° secolo».«Pensate solo che se io fossi stato abbastanza lungimirante da acquistare quote di un fondo azionario a basso costo il primo giorno di insediamento di Obama, il 20 gennaio 2009, avrei triplicato i miei soldi. Performance del mercato azionario a questo livello, sono state superate raramente». Anche “Time Magazine” aggiunge che, durante il periodo di Obama, «le azioni Usa hanno più che triplicato i soldi degli investitori, generando rendimenti totali (includoso il valore dei dividendi reinvestiti) del 235% … mentre azioni di società con sede in Europa, Giappone, e in altri paesi con economie sviluppate hanno guadagnato solo il 96% in totale». Così sembra giusto che, dopo aver fatto diventare ancora più ricchi i già immensamente ricchi, a spese della classe operaia, Obama dovrà ricevere una adeguata ricompensa. Sia lui che sua moglie sembrano essere, certamente, di questo parere. Di recente abbiamo letto un titolo sorprendente: “Obama potrebbe incassare fino a 242 milioni di dollari dopo aver lasciato Washington”. Il titolo si basa su uno studio condotto da un ricercatore della Business School della American University di Washington.Lo studio titolava – un po ‘meno clamorosamente: “Come i presidenti fanno i milioni”, e ritiene che «gli Obama potrebbero guadagnare fino a 242.500 milioni con discorsi, presentazioni di libri e pensioni (presumendo un’età di pensionamento di 70 anni). Non male, per una coppia che era entrata alla Casa Bianca con un patrimonio netto di 1,3 milioni di dollari». La grande domanda che si pone questo studio è se gli Obama supereranno i Clinton nell’accumulare ricchezza dopo aver lasciato la Casa Bianca. «Gli Obama potrebbero uguagliare o addirittura superare i 75 milioni che i Clinton hanno fatto nei primi 15 anni fuori dalla Casa Bianca? Sembra possibile. Il presidente Obama lascia il suo incarico con due bestseller da aggiungere ai circa 40 milioni di dollari in diritti d’autore che incasserà insieme a Michelle. Aggiungiamo 3 milioni in redditi da pensione e almeno 50 discorsi l’anno, per un minimo di 200.000 dollari l’uno, e si è già vicino ai 200 milioni al lordo delle imposte. Dovrebbe bastare per piazzare gli Obamas nella parte alta della lista delle più ricche ex prime famiglie».Il “Washington Post” suggerisce altre possibilità: «Qualsiasi multinazionale sarebbe felice di avere un ex presidente al tavolo della sua direzione. Questi incarichi sociali pagano bene, con stipendi a sei cifre più benefit e viaggi con jet privato da e per gli incontri. Obama ha detto che in futuro non vuole viaggiare su aerei commerciali». Gli Obama sono già ricchi. L’editorialista Andrew Lisa osserva: «Barack Obama ha guadagnato 400.000 dollari all’anno per otto anni. Il presidente riceve anche un rimborso spese di 50.000 dollari l’anno, un rimborso per spese di viaggio non tassabili per 100.000 dollari e un budget di spese di rappresentanza di 19.000 dollari». Il 15 aprile 2016, il presidente Obama ha presentato le dichiarazioni dei redditi 2015, che mostrano che lui e la first lady Michelle Obama hanno congiuntamente un reddito lordo di 436.065 dollari. Hanno pagato 81.472 dollari di tasse in base al loro tasso di imposta del 18,7 per cento.Secondo “CelebrityNetWorth.com”, Obama ha un patrimonio netto di 12.2 milioni di dollari e Michelle Obama non è da meno, con un patrimonio netto di 11,8 milioni. Le trattenute per la pensione di Obama per il 2017 saranno di 207.800 dollari.Dopo aver lasciato la Casa Bianca il 20 gennaio e dopo una vacanza a Palm Springs, in California, Obama e la sua famiglia hanno programmato di trasferirsi in un quasi-palazzo nella zona di Kalorama a nord-ovest di Washington, Dc. La casa, con nove camere da letto e otto bagni, è su tre piani, più un livello inferiore, per “Forbes”; è una «residenza lussuosa in un quartiere desiderabile, costruita nel 1928, su 760 metri quadrati», per “Business Insider”, che aggiunge: «Possono essere considerati nuovi vicini di casa degli Obama, a Kalorama, sia il fondatore di Amazon Jeff Bezos, che la famiglia di Ivanka Trump e Jared Kushner, in quanto tutti hanno recentemente comprato casa in quel quartiere. Gli Obamas affitteranno la casa da Joe Lockhart, che è stato addetto stampa alla Casa Bianca del presidente Bill Clinton e resteranno fino a quando la figlia minore, Sasha, finirà la high-school. La casa era stata messa in vendita a 5,3 milioni di dollari prima di essere ritirata dal mercato a maggio scorso». “Forbes” stima che la proprietà abbia un valore di 7 milioni, una cifra che dovrebbe aumentare di altri 300.000 dollari nel corso del prossimo anno.Gli Obama pagheranno un fitto mensile di 22.000 dollari per la loro residenza. Inoltre, possiedono una casa da 1,5 milioni a Chicago e, se dobbiamo credere al “Washington Post”, «Obama, che è un appassionato di golf, è stato visto alla ricerca di una casa a Rancho Mirage [nella zona di Palm Springs], dove il golf è considerato una religione». Il “Palm Desert Patch” dice che, secondo voci di corridoio, la famiglia Obama sta cercando di acquistare una casa a Rancho Mirage, possibilmente nell’esclusivo quartiere di Thunderbird Heights, «zona conosciuta come “il parco giochi dei presidenti”». Karl Marx e Friedrich Engels, più di un secolo e mezzo fa, dicevano che «il capo di uno Stato moderno» non era altro che «un funzionario che deve gestire gli affari di tutta la classe dirigente». Cosa che è più che mai oscenamente trasparente e vera: i funzionari di questo “esecutivo” sono quelli che vengono meglio pagati da sempre.(David Walsh, “Gli Obama passano alla cassa”, da “Wsws.org” del 3 febbraio 2017, post tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Barack Obama ha certamente fatto la sua parte. Durante i suoi otto anni di mandato i profitti delle imprese sono aumentati. La ricchezza dei 400 americani più ricchi è cresciuta tra i 1.570 e i 2.400 miliardi di dollari. La disuguaglianza sociale è aumentata ad un ritmo sempre più veloce. Con Obama alla Casa Bianca, il mercato azionario ha vissuto una delle sue corse di maggior successo in tutta la storia (il Dow Jones Industrial Average è aumentato del 148 %, ancora più di quanto aumentò con Ronald Reagan). In soldoni, secondo “Cnn-Money”, «le partecipazioni al Dow di Jp Morgan Chase e Goldman Sachs sono schizzate alle stelle dopo il bailout [2008-2009] e non sono lontano dai loro massimi storici. Le azioni di Apple sono aumentate più del 415% da quando [Obama] è diventato presidente. Amazon di un sorprendente 900%. E Facebook, che si è messa sul mercato negli ultimi mesi del primo mandato di Obama nel 2012, è arrivata al 230% dal suo prezzo base». Il “New York Times” gongolava, l’anno scorso: «I fatti sono indiscutibili: gli anni di Obama sono stati tra i migliori di sempre per gli investitori azionari, fin dagli albori del 20° secolo».
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Gli 8 super-miliardari? Dei poveretti, confronto ai Rothschild
Gli 8 super-ricchi della Terra? Poveracci, in confronto ai Rotschild. I media, è vero, hanno strombazzato la ricerca di Oxfam International, da cui risulta che la ricchezza degli 8 principali miliardari supera quella della metà povera della popolazione mondiale, 3,6 miliardi di individui. Al vertice dei “magnifici otto” c’è Bill Gates, il patron della Microsoft, con 75 miliardi di dollari. Poi lo spagnolo Amancio Ortega, della catena di abbigliamento Zara, con 67 miliardi. Quindi il finanziere Warren Buffett (60,8 miliardi) e il messicano Carlos Slim Helu, che ha messo insieme 50 miliardi con telefonia e finanza, tabacco e petrolio. Al quinto posto figura Jeff Bezos di Amazon (45,2 miliardi), seguito da Mark Zuckerberg, a cui Facebook ha fruttato 44,6 miliardi. Chiudono la lista un altro Re Mida del digitale come Larry Ellison di Oracle, con 43,6 miliardi, e un campione di Wall Street come Michael Bloomberg, coi suoi 40 miliardi. Sommate insieme, le loro ricchezze valgono 426,2 miliardi di dollari. Ma la vera notizia riguarda appunto i famosissimi, leggendari e vituperati Rotschild, da sempre in cima a tutte le classifiche della letteratura complottista. Loro sarebbero ben più ricchi: con un patrimonio cinque volte più grande di quelli dei “magnifici otto” messi assieme, cioè pari a 2 trilioni, duemila miliardi di dollari.Naturalmente, scrive Maurizio Blondet nel suo blog, è ovvio che nel novero dei primi otto non compaia il nome Rotschild. Per varie ragioni: «Qui non abbiamo a che fare con persone fisiche, ma con una dinastia, i cui membri presiedono a fiduciarie private a capitale fisso – niente società per azioni (scalabili), ma solo aziende familiari, accuratamente sottratte ai mercati finanziari “goyim”», cioè non-ebrei, «e partecipazioni incrociate». Insomma, quella dei Rotschild sarebbe ancora «la struttura instaurata dal capostipite del 18mo secolo, Mayer Amschel Rotschild». Basato in Germania, l’augusto antenato sparse i suoi cinque figli nelle diverse capitali europee, ciascuno munito di capitale e conoscenze per aprirvi una banca d’affari: Parigi e Francoforte, Londra, Vienna e Napoli (che allora era la capitale di uno degli Stati dalle finanze più prospere). «E’ stata dunque la prima multinazionale del credito, che profittò delle guerre europee scatenate dalla Rivoluzione giacobina e da Napoleone. Prestando agli Stati che la guerra indebitava (tipicamente, all’impero austro-ungarico e a quello britannico), da cui accettava titoli e buoni del Tesoro, e cogliendo tutte le buone occasioni per prendere il controllo finanziario delle più diverse industrie, a corto di liquidità».Il figlio che ebbe maggior successo, continua Blondet, fu quello che si stabilì a Londra, Nathan Meyer Rotschild: sposò Hanna Barent Cohen, da cui ebbe 7 figli e una cospicua dote finanziaria. «Nel 1811, durante le guerre napoleoniche, finanziò di fatto lo sforzo bellico britannico quasi da solo – senza trascurare di finanziare in segreto anche il Bonaparte». Il 18 luglio 1815, aggiunge Blondet, fu un corriere della Rothschild & Sons a informare il governo britannico che a Waterloo le cose si mettevano male per Napoleone: «Il governo non ci credette, e allora Nathan stette al gioco: si mise a svendere titoli del debito inglese, come se sapesse che presto sarebbero stati carta straccia. Gli altri ricchi inglesi, nel panico, lo imitarono, e la Borsa collassò». Mani anonime (agenti dei Rotschild) avevano già fatto incetta di titoli a prezzi da liquidazione: così, quando arrivò la notizia che a Waterloo Napoleone aveva davvero perso, «Nathan era il padrone della London Stock Exchange». La notizia pazzesca, dice sempre Blondet, è che, ancora nel 2015, il Regno Unito stava restituendo a rate i capitali ottenuti in prestito dai Rotschild nell’800.«Oggi, le ricchezze della dinastia restano inimmaginabili», sostiene Blondet. «Riesce in gran parte a dissimularle con il metodo delle ditte non quotate, dove non si pubblicano bilanci, dove lavorano e sono impiegati direttamente i membri della famiglia», con «matrimoni fra consanguinei ed eredi che continuano a collaborare strettamente». Va da sé che, «da due secoli, non è mai apparso alla luce un litigio fra i parenti, che abbia prodotto un frazionamento di ricchezze, capitali e imprese: non a caso il motto della famiglia, sotto lo scudo rosso, è (in latino) “Concordia, Integritas, Industria”». Oltre alla finanziaria N.M. Rotschild & Son di Londra e all’Edmond de Rotschild Group in Svizzera, la dinastia «ha incalcolabili partecipazioni in istituti di credito, nel settore immobiliare, minerario ed energetico». Quanto ai vigneti che l’uno o l’altro membro della famiglia ha in Francia, in Sudafrica, in California e in Australia, be’, «sono attività da tempo libero».Parlare dei Rotschild, però, non è mai semplice. Le loro partecipazioni che contano, in termini di investimenti globali, non sono affatto visibili. «Non è chiaro se i Rotschild siano oggi quello che fu la ditta di Nathan, che divenne praticamente il banchiere centrale d’Europa, coprendo debiti pubblici e salvando banche nazionali, ma anche finanziando infrastrutture pubbliche durante la rivoluzione industriale». Sicché, ammette Blondet, non si può valutare se dice il vero il sito “Investopedia”, che ha provato a fare una valutazione approssimativa, decretando (senza specificare i cespiti e le attività) che la ricchezza controllata dalla dinastia ammonterebbe a 2 trilioni di dollari. Una fortuna immensa, maturata però attraverso secoli, benché connessa alla famigerata creazione bancaria di denaro e debito. Quello dei baby-miliardari di oggi, in fondo, è un boom assai più strabiliante: Facebook è nato solo nel 2004.Gli 8 super-ricchi della Terra? Poveracci, in confronto ai Rothschild. I media, è vero, hanno strombazzato la ricerca di Oxfam International, da cui risulta che la ricchezza degli 8 principali miliardari supera quella della metà povera della popolazione mondiale, 3,6 miliardi di individui. Al vertice dei “magnifici otto” c’è Bill Gates, il patron della Microsoft, con 75 miliardi di dollari. Poi lo spagnolo Amancio Ortega, della catena di abbigliamento Zara, con 67 miliardi. Quindi il finanziere Warren Buffett (60,8 miliardi) e il messicano Carlos Slim Helu, che ha messo insieme 50 miliardi con telefonia e finanza, tabacco e petrolio. Al quinto posto figura Jeff Bezos di Amazon (45,2 miliardi), seguito da Mark Zuckerberg, a cui Facebook ha fruttato 44,6 miliardi. Chiudono la lista un altro Re Mida del digitale come Larry Ellison di Oracle, con 43,6 miliardi, e un campione di Wall Street come Michael Bloomberg, coi suoi 40 miliardi. Sommate insieme, le loro ricchezze valgono 426,2 miliardi di dollari. Ma la vera notizia riguarda appunto i famosissimi, leggendari e vituperati Rothschild, da sempre in cima a tutte le classifiche della letteratura complottista. Loro sarebbero ben più ricchi: con un patrimonio cinque volte più grande di quelli dei “magnifici otto” messi assieme, cioè pari a 2 trilioni, duemila miliardi di dollari.
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Barnard: leggete a chi vanno i miliardi della Bce. E vomitate
Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.La Banca Centrale Europea crea tutti gli euro che esistono. E’ una specie di governo di questa Ue. Dopo appena 13 anni la moneta unica aveva letteralmente fatto a pezzi ogni singolo paese dell’Eurozona, Germania inclusa (diedi i dati in Tv 3.000 volte). Tutto il mondo finanziario extra europeo sapeva (e sa) che l’euro è fallito. A quel punto l’unico modo perché l’unione monetaria non crollasse in una catastrofe economica da libri di storia era se il creatore dell’euro, la Bce, si metteva a comprare una gran massa dei beni finanziari emessi dagli Stati-euro che ormai erano visti come semi-spazzatura dal mondo. Questo per artificialmente tenerne i prezzi e gli interessi a un livello di decenza. Draghi con la Bce lo fece: l’operazione si chiama Quantitative Easing (Qe). Ma non bastò, anzi, le cose andarono anche peggio per motivi che già scrissi 3 milioni di volte. Il problema era che anche le aziende private nell’Eurozona andavano da vomitare.Dovete sapere che anche le aziende emettono beni finanziari, cioè titoli. E allora Draghi alla disperazione si presentò l’anno scorso a giugno e annunciò un altro Qe, però questa volta per le aziende, col nome di Cspp. E si mise a comprare miliardi in titoli di aziende per puntellarle anche se semidecomposte. Dovete capire che un’azienda ha in pratica due modi di finanziarsi con prestiti: chiedere in banca o emettere titoli. E Draghi annuncia che ora la Bce gli compra i titoli. Ok. Uno dice: be’, se serve a salvare il mobilificio di Ancona con 80 operai, perché no? La risposta è tragica e ci apre sulle porte dell’infamia della Bce. Le piccole aziende non possono emettere titoli, sono condannate alla gogna del prestito da banche, fine. Infatti la Bce di Draghi precisò che avrebbe acquistato titoli di aziende “corporate”. Che significa? Che avrebbe comprato i titoli dei cani grossi, come Telecom, o Vw. Ops! Ma per noi italiani già questa è una sciagura, perché da noi le piccole medie aziende sono il 98% delle imprese e creano il 78% della ricchezza dell’Italia. Sfiga. Crepate. Titoli Benetton? Certo che li compriamo, dice Draghi.E allora uno apre il pdf che mi arrivò a fine ottobre per mail, e scopre, transazioni bancarie alla mano, a chi stanno andando i 125 miliardi che Draghi ha programmato di sborsare per ‘puntellare’ le aziende. E uno vomita. Petrolieri, mega imprese di servizi, industrie di armi, auto di stralusso, nucleare, colossi delle privatizzazioni, giganti dal fashion o del farmaco, persino casinò e produttori di champagne. Centoventicinque miliardi di regali a ’sti tizi. Operaio, commessa, crepate in Liguria, Marche, Puglia… L’ipotermico di Teramo? Ma scherziamo? Mille eurooooo? Ma cosa pretende? Palate di miliardi di euro invece a Shell, Eni, Repsol, Total, una trentina di aziende spagnole di servizi del gas, produttori di centrali nucleari come Teollisuuden, come Siemens, e Urenco. Poi gli Agnelli con la finanziaria Fiat Exor (Ferrari), Renault, Mercedes, Vw. Poi criminali di guerra come Thales, che hanno venduto armi in Africa sulla puzza di milioni di cadaveri. Poi i nemici giurati dell’acqua pubblica, cioè i colossi francesi Vivendi e Suèz. E ancora i super-colossi: Solvay, Nestlé, Coca Cola, Unilever, Novartis, Michelin, Ryanair, Luis Vuitton, Danone, assicurazioni Allianz, Deutsche Telekom, Bayer, Telefonica, Moët & Chandon, e il mostro delle scommesse Novomatic…Soldiiiiiiiiiiiiii yes! La Bce fa proprio l’interesse del pubblico, con qualcosa come 17.900 piccole medie aziende europee che sono il cuore dell’impiego in Ue totalmente fuori dal festino. Ecco cosa dovete rispondere a chi vi rampogna “Ci vuole più Europa”. Basterebbe questo articolo per tagliargli la gola, a ’sti assassini. In Italia ’sta porcata vede fiumi di soldi versati in prima fila ai super big dell’energia, ma nessuno becca palate di liquidi come l’Eni; seguono Snam, Enel, Terna, Hera, e altri minori. Poi: Atlantia (Mediobanca, Goldman Sachs, BlackRock e Cassa Risp. Torino), le Generali, Telecom Italia, Luxottica, e i soliti Agnelli con Exor. E tu che cazzo vuoi? Tu chi sei, cittadino? Chi sei, sfigato piccolo imprenditore? Chi siamo noi, eh?, da quando Jaques Attali, uno dei padri della Bce, ci definì «la plebaglia europea»? Eccovi una notizia. Anche se, mi si perdoni, non sono immani tragedie come i 104 indagati del Pd di Travaglio-Gomez, la Raggi e la Cgil che fa i ruttini sul Job Act. Good luck Italians, good luck piccoli imprenditori e dipendenti che mai avete capito un cazzo.(Paolo Barnard, “A chi vanno i miliardi della Bce – zitta centrItalia, crepa”, dal blog di Barnard del 30 gennaio 2017).Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.
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Cancellare i fatti: Obama e il nuovo Ministero della Verità
Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?Prima di tutto all’ultima trovata delle governance mondiali e dei loro “presstitutes” (geniale sintesi che definisce la stampa prostituita al potere) vale a dire la crociata contro le fake news o post-verità, che via web rappresenterebbero una minaccia per le istituzioni. Pensate che il termine originale inglese, post-truth, è stato eletto parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary! Queste fake news irritano così tanto l’establishment che da diverse parti si invoca addirittura una sorta di commissione di controllo sulle opinioni espresse in rete. Un Ministero della Verità, insomma, di orwelliana memoria. Ora, considerando la costante e instancabile manipolazione che i mezzi d’informazione esercitano da sempre sull’opinione pubblica attraverso menzogne, falsificazioni dei fatti, mezze verità e fantasie, fa davvero sorridere che si identifichi nelle bufale – indubitabilmente presenti in rete – un rischio per la democrazia. Il fatto è che fino a poco tempo fa il fenomeno del cosiddetto ‘complottismo’ era confinato ad una nicchia di persone che iniziavano a fiutare odore di marcio proveniente dai media e cercavano quindi – visti i mezzi messi a disposizione dalla rete – di capire meglio certe situazioni quando i conti proprio non tornavano.Il fact-checking ha permesso allora a milioni di utenti del web di smascherare le vere e proprie bufale messe in onda dalle televisioni di mezzo mondo. Ma ad un certo punto, questo fenomeno del complottismo, della Conspiracy Theory, ha iniziato a diffondersi sempre di più, tracimando dalla rete ed entrando anche nei salotti buoni dei media mainstream. Fenomeno naturalmente irriso, denigrato e oggi criminalizzato. Certamente grazie anche a tutte le reali bufale presenti sul web, inserite ad arte da falsi idioti o da idioti autentici. Così Obama ha iniziato a fare pressioni su Google e Facebook che dovrebbero – a suo dire – esercitare un controllo su notizie false o presunte tali diffuse in rete. Ora, se i mezzi d’informazione ufficiali diffondessero sempre e solo notizie vere la preoccupazione del presidente americano uscente avrebbe una qualche credibilità ma, dato che è vero esattamente il contrario, questa operazione ha proprio l’aria di un intervento a gamba tesa su tutte quelle comunità virtuali che, collegate tra loro, iniziano a nutrire seri dubbi sulle versioni ufficiali. Pensate che io esageri affermando che “è vero esattamente il contrario”? Bene, allora state a sentire, e parlo solo delle fake news più recenti messe in giro dai media.Negli ultimi mesi i mezzi d’informazione del cosiddetto ‘mondo libero’ hanno ripetuto incessantemente che vi erano tra 250 mila e 300 mila civili intrappolati tutto i bombardamenti russi e siriani ad Aleppo Est, nonostante che le fonti d’informazioni siriane avessero più volte ribadito che il numero delle persone intrappolate non superava un terzo di quella cifra. Ebbene, una volta liberata la parte orientale di Aleppo è emerso che il numero dei civili che erano stati bloccati era inferiore alle 90 mila unità. Pensate che i media occidentali si siano peritati di riconoscere l’errore? No, neppure una riga. L’affermazione secondo la quale hacker russi avrebbero cercato di influenzare le elezioni americane è stata smentita sia da Assange che da Craig Murray – ex ambasciatore inglese in Uzbekistan che si è giocato la carriera quando ha accusato la Cia di complicità nelle torture nell’ex-repubblica sovietica – che ha fatto risalire a due fonti americane, una delle quali ha incontrato personalmente, il leak delle email che hanno inguaiato la Clinton. Risultato? Nessuno: Assange e Murray sono stati definiti spie russe. Così il presidente Obama ha appena firmato una legge di Difesa Nazionale che prevede un investimento di 160 milioni di dollari per nuove operazioni di propaganda Usa, dichiaratamente intese a contrastare la “propaganda russa”.Altre due prove di disinformazione da parte dei media: il risultato delle elezioni presidenziali americane e la Brexit. Nel primo caso non c’è stato un solo mezzo di informazione che non abbia ripetuto ad nauseam che non c’erano dubbi sulla vittoria della Killary. Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Quanto a Brexit (anch’essa data per inverosimile) le catastrofiche previsioni della vigilia sono state – a oltre sei mesi di distanza – ampiamente contraddette dai fatti. Mentre la quasi totalità degli economisti profetizzavano una flessione immediata, con relativi crolli di Borsa, l’economia britannica è cresciuta negli ultimi mesi, registrando un incremento del Pil rispettivamente dello 0,3% e dello 0,6% nei primi due trimestri del 2016, e dello 0,6% e dello 0,5% negli ultimi due, vale a dire nel semestre successivo all’esito del referendum grazie al quale il Regno Unito è uscito dalla Ue. Che ne dite, ci sono o no buoni motivi per diffidare delle fake news dei media?Ma i mezzi ufficiali d’informazione non ne vogliono sapere – loro non possono sbagliare per definizione – e così oggi ci troviamo di fronte ad una prima spinta censoria mirata direttamente a ostacolare quella libertà di pensiero e di espressione che oggi inizia a preoccupare l’establishment. Il quale non si sporca le mani con divieti palesi ma subdolamente e vigliaccamente interviene su motori di ricerca e social media. Ora, se il loro obiettivo fosse raggiunto, la ratio menzogna/verità dipenderebbe non dalla nostra personale indagine, ma da un algoritmo. In sostanza da una macchina. Questo non vi dice nulla? La seconda questione che mi riporta agli strange days è collegata ad alcuni avvenimenti la cui estrema gravità è passata – e continua a passare – quasi inosservata. Mi riferisco agli eventi che hanno contrassegnato le ultime elezioni americane. Ora, quanto è avvenuto e sta avvenendo sull’altra riva dell’Atlantico è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia americana. Mai, neppure nei periodi peggiori della guerra fredda con l’allora Unione Sovietica si è visto un tale palese odio e disprezzo verso la Russia come quello che oggi dilaga sui media americani.Neppure nei giorni più oscuri del trentennio che va dagli anni ’50 agli ’80 presidenti come Eisenhower, Nixon, Reagan si sono rivolti ad un presidente russo con termini come quelli che oggi usano politici come Obama, la Clinton, McCain, Clapper. Quell’Obama, su cui ironizza Ron Paul affermando che il Premio Nobel per la pace è il giusto riconoscimento per un presidente che ha bombardato 7 nazioni ed è stato il primo nella storia degli Stati Uniti ad essere stato in guerra ogni singolo giorno dei suoi otto anni di mandato. Mai una elezione fu così piena di colpi bassi come questa che ha portato The Donald alla Casa Bianca. Mai – anche se è risaputo che vi sono delle aspre rivalità tra i servizi di intelligence Usa – si era verificato uno scontro aperto tra Cia e Fbi come quello che abbiamo sotto gli occhi oggi. E ancora: mai un presidente eletto aveva pubblicamente screditato le motivazioni dei rapporti di intelligence di una delle più potenti strutture di potere come la Cia, affermando che alla base della conferma del presunto hackeraggio da parte dei russi che avrebbero influenzato le elezioni americane ci sono solo “ragioni politiche”.Si tratta di macro-eventi che indicano un cambio globale nella direzione che l’establishment americano sta imboccando, evidentemente obtorto collo. Un cambio di rotta che non viene digerito dalle strutture di potere consolidato che cercano freneticamente di intralciare e sabotare la nuova direzione della Casa Bianca. In tale chiave va vista l’ultima aggressione verbale a Putin con relativa espulsione di diplomatici. E i media mainstream come si sono comportati di fronte a questi veri e propri terremoti politici globali? Minimizzando la magnitudo degli eventi e distogliendo l’attenzione della gente dalle enormi implicazioni a livello mondiale. Attraverso delle vere e proprie armi di distrazione di massa, dunque. Ma al tempo stesso si fanno megafono di una chiamata alle armi contro le fake news. Quelle degli altri, naturalmente.(Piero Cammerinesi, “Strange days”, riflessione pubblicata da “Altrogiornale” il 12 gennaio 2017).Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?
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Nuova Tangentopoli, ci risiamo? Ma stavolta senza Piano-B
Vincenzo De Luca indagato per voto di scambio, Beppe Sala per l’Expo, la romana Paola Muraro per reati ambientali, Raffaele Marra per corruzione, Luca Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio. Sotto tiro un po’ tutti, da Renzi alla Raggi. «In meno di una settimana piovono avvisi di garanzia, arresti, interrogatori fiume: sembrano tornati i tempi di Mani Pulite», scrive Aldo Giannuli, che osserva: si tratta di casi non esattamente “freschi”, lasciati dormire per mesi e fatti esplodere solo dopo il referendum: «E’ come se il 4 dicembre sia scattato il via libera», così adesso «piovono sberle», con alcuni giornali che lasciano capire che «dopo Lotti seguirebbe il padre di Renzi, poi Renzi stesso». In attesa che emergano elementi certi, aggiunge Giannuli, «non possiamo non notare questa nuova somiglianza con il 1992-93: allora fu una ondata di inchieste giudiziarie che precedette un referendum chiave», quello sulla legge elettorale maggioritaria. «Ora sembra il contrario: un referendum che apre la strada ad una valanga giudiziaria». E se all’inizio degli anni ‘90 lo tsunami di Tangentopoli aiutò ad affermarsi «un nuovo ordine mondiale monopolare, in piena espansione finanziaria e con classi dirigenti che godevano di un sufficiente (se non ampio) consenso popolare», oggi è l’esatto contrario: «L’ordine mondiale monopolare è franato, ma non è stato sostituito da un diverso ordine mondiale multipolare».Gli Usa, scrive Giannuli sul suo blog, conservano ancora consistenti residui dell’ordine monopolare: il controllo della moneta di riferimento internazionale, una supremazia militare scossa dalle sconfitte mediorientali ma che ne fa ancora la maggiore potenza mondiale, militare e finanziaria, con peso preponderante negli organismi internazionali. Ma gli Stati Uniti «non hanno più la forza di imporre unilateralmente le decisioni della comunità internazionale, non riescono ad avere un colpo d’ala che li trascini fuori dalla crisi, e questo determina un malessere interno che si è espresso nell’elezione di Trump». D’altra parte, i Brics sono fortemente cresciuti: paesi emergenti come Messico, Indonesia e Corea si stanno affermando sul piano economico, India e Cina stanno diventando anche potenze militari, mentre la Russia lo sta ridiventando. Tuttavia «iniziano a risentire della crisi euro-americana», quindi «hanno perso lo slancio economico di otto anni fa», e ancora «non riescono a sovvertire la preponderanza americana». In altre parole, «gli Usa non hanno più la forza imperiale di vent’anni fa, ma hanno la forza per impedire che si affermi un equilibrio multipolare basato su grandi potenze regionali». A loro volta, «i Brics hanno la forza per impedire l’ordine monopolare, ma non quella per ricacciare gli Usa entro la rispettiva area regionale».Per di più, continua Giannuli, «c’è una profonda asimmetria fra i paesi occidentali, a regime liberaldemocratico e ad economia liberista, nei quali la finanza ha un forte potere condizionante, ed i paesi emergenti, in particolare Russia e Cina, dove il potere politico ha assai meno condizionamenti ed in cui sussistono molti elementi di capitalismo di Stato». E così «non abbiamo due ipotesi di ordine mondiale» ma, di fatto, «nessun ordine mondiale vigente», mentre i vari “attori” si sfidano indirettamente in tante crisi locali sempre più numerose: Ucraina, Siria, Iran, Oceano Pacifico, Oceano Indiano. Crisi che, «per ora, scaricano la tensione che si va accumulando», in una situazione di “stallo instabile”. A monte, s’è inceppato il motore dell’Occidente, «investito da una crisi finanziaria che è man mano divenuta economica, con i tassi occupazionali più bassi dell’ultimo trentennio, una massiccia erosione dei salari e una conseguente caduta dei consumi». Il suo eccezionale prolungamento – di fatto, questa è l’unica crisi paragonabile alla Grande Depressione del 1929 – sta ora ripercuotendosi sui paesi fornitori di materie prime (Brasile in primo luogo, ma anche Russia ) e sui paesi in cui era stata delocalizzata la manifattura (in particolare la Cina, che resiste in parte grazie alla tenuta del mercato interno).Di fronte a questo andamento economico-finanziario, continua il politologo dell’ateneo milanese, le banche centrali e quelle di investimento «non hanno trovato altro rimedio che continue ondate di liquidità che hanno avuto soprattutto l’effetto di ingigantire il debito grazie al meccanismo degli interessi». La sostanza è che «le classi dirigenti rifiutano di prendere atto dell’origine della crisi», cioè «la strutturazione iper-finanziaria dei mercati, che ha trovato sfogo prima nel crollo dei mutui sub-prime e dopo nello scoppio delle successive bolle delle materie prime e nel gonfiamento dei debiti pubblici». Dell’enorme massa di liquidità emessa, ben poco è andato all’economia reale (forse neppure il 10%) mentre il resto ha trovato re-impieghi finanziari: «Si è affermato un modello di “produzione di denaro a mezzo denaro” saltando il passaggio della merce che nessuno ha messo o mette in discussione». Allo stesso modo, nessuno ha contestato «l’assurdo ordinamento tributario punitivo nei confronti dei ceti medi e delle classi subalterne», che premia «le grandi centrali finanziarie».Globalizzazione finanziaria: «La mobilità incontrollata dei capitali ha di fatto concesso al grande capitale privato di scegliersi lo Stato cui pagare le tasse». L’inevitabile risultato «è stata una fortissima pressione fiscale dei paesi più indebitati (come Grecia, Portogallo e Italia) che sta soffocando ogni possibilità di ripresa di quei paesi». Non è strano che non ci siano stati ravvedimenti: «Rivedere le regole dell’ordinamento neoliberista implicherebbe una secca perdita di potere delle classi capitalistiche». D’altra parte, «la persistenza del sistema di potere neoliberista è anche prodotta dalla assenza di una opposizione interna al sistema politico: la completa omologazione delle socialdemocrazie al neoliberismo, di cui, ormai, sono solo una piccola variante, ha privato il sistema di ogni possibilità ai autocorrezione». E questo, conclude Giannuli, è il principale motivo dell’ondata neoliberista che si è scatenata tanto in Europa, quanto negli Usa. «La crisi continua a mordere, e non c’è una ipotesi riformista». Risultato: «L’elettorato vota partiti neo-populisti, prevalentemente di destra», protestando contro l’immigrazione di massa e contro un ordinamento che, «minando il principio di sovranità nazionale, svuota di significato il principio della sovranità popolare e, di conseguenza, la democrazia».Il fenomeno dell’immigrazione? «Un comodo nemico su cui scaricare la colpa di tutto, un po’ come con gli ebrei nella crisi degli anni Trenta», con l’aggravante che, oggi, «la coincidenza con il terrorismo jihadista fornisce alimento all’industria della paura». La sinistra non-liberista? Non pervenuta: sulla questione migranti, la sinistra europea – dalla Linke a “Podemos” – non va oltre «un genericissimo internazionalismo venato di buonismo», senza riuscire a prospettare «una concreta politica di accoglienza e integrazione». Silenzio anche su globalizzazione, Ue e euro: la sinistra «teme ogni presa di distanza», leggendola come «un ritorno al nazionalismo, di cui diffida». Il risultato è «una sostanziale paralisi, che rende irrilevante la sinistra che non vuole i tecnocrati di Bruxelles e le politiche di austerità, ma difende l’euro (come se le due cose fossero estranee l’una all’altra), e si accontenta di favoleggiare su “un nuovo euro” che nei fatti non può esistere». Così la piccola trincea della sinista diventa «irrilevante, nello scontro fra l’ondata populista e l’establishment». Per troppo tempo questa sinistra «ha smesso di studiare», di capire la crisi. E ora subisce anch’essa «una ondata di protesta che delegittima le classi dirigenti dall’interno», creando «una condizione favorevole al crollo del sistema politico italiano ancora più spiccata che nel 1992-93».Vincenzo De Luca indagato per voto di scambio, Beppe Sala per l’Expo, la romana Paola Muraro per reati ambientali, Raffaele Marra per corruzione, Luca Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio. Sotto tiro un po’ tutti, da Renzi alla Raggi. «In meno di una settimana piovono avvisi di garanzia, arresti, interrogatori fiume: sembrano tornati i tempi di Mani Pulite», scrive Aldo Giannuli, che osserva: si tratta di casi non esattamente “freschi”, lasciati dormire per mesi e fatti esplodere solo dopo il referendum: «E’ come se il 4 dicembre sia scattato il via libera», così adesso «piovono sberle», con alcuni giornali che lasciano capire che «dopo Lotti seguirebbe il padre di Renzi, poi Renzi stesso». In attesa che emergano elementi certi, aggiunge Giannuli, «non possiamo non notare questa nuova somiglianza con il 1992-93: allora fu una ondata di inchieste giudiziarie che precedette un referendum chiave», quello sulla legge elettorale maggioritaria. «Ora sembra il contrario: un referendum che apre la strada ad una valanga giudiziaria». E se all’inizio degli anni ‘90 lo tsunami di Tangentopoli aiutò ad affermarsi «un nuovo ordine mondiale monopolare, in piena espansione finanziaria e con classi dirigenti che godevano di un sufficiente (se non ampio) consenso popolare», oggi è l’esatto contrario: «L’ordine mondiale monopolare è franato, ma non è stato sostituito da un diverso ordine mondiale multipolare».
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Draghi: ora vi taglio i viveri, così imparate a votare No
«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, prounciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».Si tratta di «un vero proprio disegno politico», contenuto nei dettagli operativi illustrati da Draghi nell’ultima riunione del consiglio direttivo della Bce. Un evento solo in apparenza tecnico, avverte “Micromega”, in un’analisi firmata “Raro”. Draghi ha annunciato che l’autorità monetaria proseguirà il programma di acquisto di titoli pubblici, come tutti si aspettavano, oltre la scadenza inizialmente prevista per il marzo prossimo, «ma ha aggiunto un elemento di novità in cui pochi credevano: il flusso di liquidità con cui la banca centrale sta tenendo a bada gli spread inizierà a ridimensionarsi, già a partire da aprile». Ciò significa che «la Bce prefigura, per la prima volta, un progressivo alleggerimento dello stimolo monetario garantito da ormai due anni all’Eurozona». Ed è così che, «mentre politici e governanti europei vengono impietosamente travolti dall’onda anomala del populismo antisistema, l’autorità monetaria si profila come l’unica soggettività politica capace di elaborare una qualche forma di reazione della classe dirigente d’Europa».Dopo due anni relativamente tranquilli, scrive “Micromega”, la progressiva riduzione del sostegno ai titoli di Stato «determinerà, nei prossimi mesi, una minore liquidità del debito pubblico europeo e non potrà che portare con sé un rialzo nei tassi di interesse pagati dai governi della periferia, a discapito della stabilità finanziaria». La Bce ha poi esteso il programma sia sul fronte delle scadenze, includendo titoli a più breve termine (fino ad un anno), che sul fronte dei tassi, rendendosi disponibile all’acquisto di titoli caratterizzati da un rendimento inferiore al già negativo tasso sui depositi presso la banca centrale. «Il significato di queste rifiniture del quantitative easing appare chiaro», osserva “Micromega”: «Dal momento che la stragrande maggioranza dei titoli pubblici con rendimenti negativi è ascrivibile alla Germania, e in particolare alle sue scadenze a breve termine, le modifiche apportate al programma di acquisti perseguono l’obiettivo di assicurare a Berlino una quota consistente della liquidità residua che arriverà nei prossimi mesi. Dunque, proprio mentre procede a ridurre la portata del suo supporto alla generalità dei debiti pubblici europei, l’autorità monetaria mette in chiaro che non sarà la Germania a soffrire di questa minore copertura».Al contrario, come i movimenti di Borsa stanno segnalando in queste ore, si assiste già ad una contrazione del rendimento dei titoli tedeschi a fronte di un leggero rialzo di quelli italiani: «Si riaffaccia, in Europa, il fantasma dello spread, ovverosia l’ampliamento del divario tra il costo del debito pubblico dei paesi centrali e quello dei paesi periferici». Per “Micromega”, dunque, «inizia così ad emergere, dal complesso intreccio delle specifiche tecniche della manovra di politica monetaria appena varata, un dato politico». Corsi e ricorsi: fu proprio sulla scia di un repentino ampliamento degli spread che, ad Atene nel lontano 2009, «si è aperta per l’Europa la stagione dell’austerità». Una fase storica «caratterizzata dall’applicazione simultanea, nei principali paesi europei, del medesimo indirizzo politico: abbattimento dello stato sociale, contrazione dei diritti dei lavoratori e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti». Un indirizzo politico che, «a dispetto del suo marcato carattere antipopolare», di fatto «non ha incontrato alcuna resistenza significativa per quasi cinque anni, grazie soprattutto al clima emergenziale imposto dai mercati attraverso la frusta dello spread».Tuttavia, «gli esiti socialmente disastrosi di questa violenta accelerazione della globalizzazione hanno fatto maturare un rifiuto dell’austerità e delle sue istituzioni», che ha trovato espressione prima in Grecia, nell’estate 2015, dove l’ennesimo programma “lacrime e sangue” è stato rispedito (invano) al mittente con un referendum, poi in Gran Bretagna un anno dopo con la Brexit, e infine in Italia, con la recente bocciatura della riforma costituzionale promossa dal governo. «Dopo cinque lunghi anni di austerità – continua l’analista di “Micromega” – una borghesia impoverita e un esercito di venti milioni di disoccupati hanno iniziato ad alzare la voce: approfittando dei tre grandi referendum popolari, queste vittime del neoliberismo europeo hanno inferto tre durissimi colpi al progetto di integrazione europea». E attenzione: «È esattamente a questo punto della storia che interviene la mossa decisa da Draghi giovedì scorso: la stretta monetaria programmata per i prossimi mesi si configura come la prima, violenta risposta delle élite europee alla marea antisistema che le sta minacciando».Si tratta di una reazione che «rischia di compromettere la stabilità finanziaria dell’Europa», e proprio su questo punto «si misurerà l’intraprendenza della Bce». La stretta monetaria, infatti, «è pensata per aumentare il grado di esposizione dei governi alla disciplina dei mercati: tolta la protezione del quantitative easing, il debito pubblico dei paesi periferici tornerà ad essere pienamente vulnerabile ai venti della speculazione». Nei progetti dell’autorità monetaria, «la pressione esercitata dai mercati attraverso gli spread può riuscire laddove le regole, da Maastricht al Fiscal Compact, hanno fallito: costringere la periferia d’Europa sulla strada delle riforme e dell’austerità senza ulteriori esitazioni, e dunque senza quella prudenza che l’avanzata dei populismi sembra suggerire alla classe politica europeista». Nel promuovere l’austerità attraverso la disciplina degli spread, Draghi «si pone alla testa di quella classe politica e la trascina sul rischioso crinale dello scontro frontale con gli sconfitti della globalizzazione e le loro rivendicazioni». L’impatto, per “Micromega”, «potrebbe trascinare ancora più a fondo l’Europa».«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, pronunciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».
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Sfatiamo un mito: i Rothschild e Big Pharma ci temono
Attenti all’Uomo Nero: se lo fate diventare un’ossessione, potreste arrivare a crederlo invincibile, proprio come vuole lui. Ma la realtà è un’altra: persino i super-campioni del massimo potere sono vulnerabili. E’ per questo che si affannano tanto a controllarci: i loro immensi privilegi non sono affatto al sicuro. Ci temono, gli Uomini Neri, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Lo sostiene Paolo Barnard, autore di devastanti denunce proprio contro l’oligarchia planetaria: libri, reportage, inchieste, saggi taglienti e profetici come “Il più grande crimine”, che mette a fuoco – con largo anticipo sulla cronaca – la genesi europea della “dittatura” tecnocratica dell’euro, progettata dalla destra economica in combutta con la sinistra “rinnegata”, reclutata segretamente dall’élite per demolire la democrazia sociale in Occidente. Lo stesso Barnard, oggi, avverte: «Nell’immaginario di tanto pubblico c’è un errore tragico, che peraltro devasta le reali possibilità delle opinioni pubbliche di migliorare la propria vita. Si pensa, infatti, che gli agglomerati della ricchezza privata siano padroni del mondo. I Rothschild! Le multinazionali! I big media! Balle. Non lo sono».Naturalmente i grandi poteri «ci provano a esserlo», padroni incontrastati del pianeta. Ci provano eccome, «e con ogni sorta di lobby, ricatto, corruzione». Ma, per il giornalista, la verità fondamentale rimane un’altra. Questa: «I governi glielo permettono». Ma attenzione: «Se vogliono, i governi sono ancora i padroni del mondo. E questo può ancora salvare noi persone». Non ci credete? «Chiedetelo alla GlaxoSmithKline, quel tirannosauro da 24 miliardi di dollari all’anno, tutti in farmaci». Domanda: «Perché questa nozione è di fondamentale importanza da tenere a mente? Perché i governi sono sempre dipendenti dalle opinioni pubbliche, anche se queste troppo spesso se lo dimenticano, per viltà». Se ne deduce, «senza ombra di dubbio», che – visto che i governi sono ancora «i padroni del mondo» – di fatto «risponderebbero alle opinioni pubbliche, se queste si facessero sentire». E allora «è vero che l’uomo e la donna della strada», teoricamente e tecnicamente, «hanno il potere ultimo, in realtà». Solo che «non lo vogliono esercitare», convinti come sono che «il padrone del globo è Rothschild, cioè il potere privato».Il barone Jacob Rotschild? «Potentissimo», certo, «ma neppure lui è riuscito a bloccare la mano dei politici, quando nel trattato sovranazionale che creò la Bce, cioè il Tefu, scrissero quel codicillo maledetto che mette nelle mani della Bce il potere di bloccare qualsiasi mega-banca in Europa». Quel codicillo si chiama “risk control framework”. Risultato: in Europa, oggi, le grandi banche «hanno una mina in pancia che le può far saltare da un momento all’altro per volere politico» (in Europa «ma poi anche in Usa, per leggi diverse»). Il mitico Rotschild «di certo può influenzare Mario Draghi, ma il bottone rosso non ce l’ha». E chi potrebbe riscriverlo, quel codicillo? «I governi». Che, fino a prova contraria, sono ancora organismi elettivi. Lo dimostra il caso della Glaxo, dice Barnard: la “onnipotente” multinazionale del farmaco è stata letteralmente strapazzata dai governi, a cominciare da quello cinese. Se vogliono, sono ancora loro a comandare. E non c’è nessun Uomo Nero che possa impedirlo.«Tutto parte da un Tweet di Bernie Sanders, l’ex candidato alla Casa Bianca, che in ’sti giorni si è messo a bersagliare i giganti del farmaco», racconta Barnard, ricostruendo il caso. «Bernie si sveglia la mattina e scrive un Tweet dove critica ad esempio la multinazionale Eli Lilly, e le azioni di questa crollano. Qualche giorno fa ha sparato contro la GlaxoSmithKline e di nuovo crash in Borsa di questa». Ma su Glaxo pesano spettacolari retroscena. «La Glaxo è un colosso, abituata a fare il bullo nel mondo da sempre. Si presenta ai governi, agli amministratori sanitari, ai singoli medici, e corrompe, impone terapie, ma fa anche di peggio, come tutte le sue colleghe multinazionali». Un giorno la Glaxo arriva in Cina e, come al solito, distribuisce mazzette. «Ma a Londra il N.1 della Glaxo, Andrew Witty, fa l’errore della sua vita, cioè non studia geopolitica, e non si accorge che la Cina sta cambiando immensamente». Ovvero: «Xi Jinping, il presidente, non scherza per un cazzo. E allora ecco che iniziano i guai. Tutto parte dal “whistleblower” di turno, un anonimo hacker che spedisce sia al governo di Pechino che a Witty a Londra delle mail con una storia di corruzione da parte della Glaxo in Cina che fa vomitare». E cioè: «I top manager del colosso inglese in Cina pagavano mazzette ad amministratori, a medici, attraverso prestanome in agenzie di viaggio, se la spassavano con prostitute, e tutto a spese degli ammalati come al solito».E qui la forbice si divarica, continua Barnard: «Mentre gli uomini di Xi Jinping quatti quatti si leggono le mail, quel fesso di Witty e il consiglio d’amministrazione a Londra se ne fottono, anzi». La Glaxo «prova di tutto per insabbiare la cosa, assolda un investigatore privato per depistare le prove, e non smette affatto di corrompere, anzi, corrompe per comprare il silenzio dei cinesi». Errore madornale. «Sono le 5 del mattino di un giorno d’agosto del 2013, le porte dei lussuosi appartamenti dei top manager della Glaxo a Shanghai o Pechino vengono sfondate, gli inglesi gettati a terra e scaraventati in pochi minuti in fetide celle, fra cui il notorio palazzo 803 dove vengono interrogati i dissidenti. La notizia arriva a bomba a Witty a Londra, panico totale». I cinesi di Xi Jinping fanno sul serio, «le prove ci sono ancor prima di interrogare sia i manager britannici che l’investigatore privato, poi le confessioni degli arrestati vengono trasmesse in Tv, live». Una catastrofe: «Le prove sono così schiaccianti che Witty piega immediatamente la testa con una conferenza stampa dove, letteralmente, ’sto ultra-potente amministratore di un gigante mondiale, bela pietà e scuse».Conseguenze: 500 milioni di dollari di multa alla Glaxo; espulsione di alcuni manager fra sputacchi pubblici, e altri a marcire in galera. «La Glaxo corre, sudando ghiaccio, a riscrivere tutti i suoi codici di condotta in Cina, e abbassa i prezzi dei suoi farmaci per Pechino». A cascata: «Gli altri colossi mondiali come Pfizer o Novartis immediatamente ripuliscono i loro affari con la Cina». Ma non finisce qui: «Microsoft drizza le orecchie perché messa sotto inchiesta dai cinesi; Disney trema; la Apple corre ad autodenunciarsi per evasione fiscale in Cina». Ma peggio: «Sull’onda del pugno duro del governo cinese, anche quello americano ha trovato la forza di prendere a calci in culo i super-colossi del farmaco, come Pfizer, Eli Lilly e di nuovo la Glaxo, che si è vista arrivare un verbale da Washington della bellezza di 3 miliardi di dollari per condotte improprie». Aggiunge Barnard: «Penso che Andrew Witty sia passato nell’arco di pochi mesi da tronfio ‘Rothschild del farmaco’ a una pecora zoppa che suda freddo la notte e, come lui, altri amministratori delegati delle più potenti multinazionali del mondo».Ora, si potrebbe argomentare che «la Cina è ormai un tale mostro di potere che, assieme agli Usa, il suo governo si può permettere di sottomettere anche l’imperatore dell’universo». Errore: «Anche la Svezia poteva fare esattamente ciò che ha fatto Pechino, e per due motivi chiari». Primo: oggi, «se gli scandali vengono resi pubblici», succede che «vanno a impattare mostruosamente sugli investitori, che non ci pensano un attimo a fottere le mega-aziende o le mega-banche in Borsa». Basta vedere i “rimbalzi” dopo il Tweet di Bernie Sanders. Secondo motivo: «Con sovranità monetaria il governo della Svezia, come la Cina, non teme il ricatto economico tipico della multinazionale – che è “se mi tocchi ritiro gli investimenti” – semplicemente perché non esiste al mondo un potere economico di alcun tipo che possa avere il potere di fuoco di una banca centrale in coordinamento col ministero del Tesoro». In altre parole: in condizioni di sovranità monetaria, la banca centrale di un paese benestante «può, schiacciando un bottone, distruggere in un pomeriggio la rivalità di Apple, Microsoft, Volkswagen, Jp Morgan, Goldman Sachs e Toyota messi assieme». Quindi, un governo che lo volesse «potrebbe schiacciare qualsiasi Rotschild di qualsiasi potere privato, punto». Perché non lo fanno più spesso? «Troppa poca pressione dalle opinioni pubbliche». E allora, conclude Barnard, «possiamo forse prendercela col quarto barone Jacob Rothschild? Macché, siamo noi, fessi vili orde di ebeti che sediamo su una miniera d’oro e pensiamo che sia un bidè».Attenti all’Uomo Nero: se lo fate diventare un’ossessione, potreste arrivare a crederlo invincibile, proprio come vuole lui. Ma la realtà è un’altra: persino i super-campioni del massimo potere sono vulnerabili. E’ per questo che si affannano tanto a controllarci: i loro immensi privilegi non sono affatto al sicuro. Ci temono, gli Uomini Neri, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Lo sostiene Paolo Barnard, autore di devastanti denunce proprio contro l’oligarchia planetaria: libri, reportage, inchieste, saggi taglienti e profetici come “Il più grande crimine”, che mette a fuoco – con largo anticipo sulla cronaca – la genesi europea della “dittatura” tecnocratica dell’euro, progettata dalla destra economica in combutta con la sinistra “rinnegata”, reclutata segretamente dall’élite per demolire la democrazia sociale in Occidente. Lo stesso Barnard, oggi, avverte: «Nell’immaginario di tanto pubblico c’è un errore tragico, che peraltro devasta le reali possibilità delle opinioni pubbliche di migliorare la propria vita. Si pensa, infatti, che gli agglomerati della ricchezza privata siano padroni del mondo. I Rothschild! Le multinazionali! I big media! Balle. Non lo sono».