Archivio del Tag ‘campagna elettorale’
-
Non basta uscire da Facebook, va chiusa anche WhatsApp
Non è così facile “mollare” Facebook e la sua rete di collegamenti: per uscire dal “radar” del più vasto social network al mondo, infatti, non basta cancellare il proprio profilo. Lo spiega Paolo Magliocco sulla “Stampa”, pensando soprattutto all’esodo di massa che sarebbe in corso: molti utenti sono infatti intenzionati ad abbandonare la piattaforma digitale più diffusa sul pianeta, dopo lo scandalo Cambridge Analytica: i dati di 50 milioni di statunitensi registrati da Facebook sono stati poi utilizzati da una società privata per la campagna elettorale presidenziale del 2016 ch ha incoronato Donald Trump. L’accusa: trasferendo i Big Data, Facebook ha consentito agli uomini reclutati da Steve Bannon di conoscere in anticipo l’orientamento elettorale di milioni di americani, “leggendo” alla perfezione anche il loro profilo psicologico, le loro abitudini, le loro intenzioni e forse anche i loro pensieri più reconditi, neppure ancora espressi. Alcuni utenti di Facebook adesso «hanno scoperto che i dati conservati dal social network sono molto più ampi di quanto immaginato». Dati che infatti «comprendono il registro di telefonate e messaggi di ogni genere, da Messenger a Whatsapp e agli Sms». Il movimento “#deletefacebook” ha raccolto adesioni di persone note, come la cantante Cher, l’industriale Elon Musk (proprietario di Tesla e SpaceX) e il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton.Il patron di Facebook, Mark Zuckerberg, ha detto al “New York Times” di non ritenere che ci sia stato un numero significativo di abbandoni di Facebook. Molti siti, aggiunge “La Stampa” hanno intanto spiegato che, in realtà, cancellare il proprio account non è sufficiente per smettere di fornire dati al social network. La canadese “Ctv News” ricorda (pubblicando il contenuto anche su Facebook) che la società di Zuckerberg ha acquisito Instagram nel 2012 e poi i sistemi di messaggistica Cros e Whatsapp, nonché la società per lo sviluppo di realtà virtuale OculusVr e lo stesso Tbh, il social network usato soprattutto dai più giovani. L’amara soerpresa? «I termini per l’uso dei dati e la privacy di queste società permettono lo scambio di dati con Fb», scrive Magliocco. «La società di Zuckerberg, quindi, continuerebbe a raccogliere informazioni sulle persone attraverso queste altre app, se non vengono anch’esse abbandonate». E non è tutto: pure utilizzare il proprio account di Facebook per risparmiare tempo quando ci si iscrive ad altre applicazioni, come Airbnb, «probabilmente mette in collegamento i dati registrati da queste app con il social network». Se si vuole sapere quali siano queste applicazioni “contagiose” si può accedere al loro elenco attraverso il menù “impostazioni”.Inoltre, come ha dimostrato proprio il caso di Cambridge Analytica, i dati possono essere raccolti anche attraverso il collegamento con gli altri, aggiunge la “Stampa”: «Per essere certi che le proprie informazioni siano al sicuro non bisognerebbe essere in contatto con altre persone attraverso applicazioni che, nelle impostazioni usate da queste persone, siano potenzialmente collegate con Facebook». Ma ci vuol altro, per scoraggiare gli utenti di Facebook – ormai 2 miliardi, in tutto il mondo. Il quotidiano torinese cita lo psicanalista Aaron Balick, autore del libro “The Psychodynamics of Social Networking”, intervistato dall’edizione britannica di “Wired”. Per Balick, il problema nel lasciare Facebook sarebbe soprattutto di ordine psicologico: la preoccupazione per la propria privacy non supererebbe ancora la comodità di mantenere rapporti attraverso il social network, perché «a questo punto Facebook è integrato nelle nostre vite di relazione». Come dire: sappiamo di essere in trappola, ma ci restiamo tranquillamente. E pazienza se ogni nostro sospiro viene schedato e tradotto in numeri, a beneficio del marketing o del controllo politico.Non è così facile “mollare” Facebook e la sua rete di collegamenti: per uscire dal “radar” del più vasto social network al mondo, infatti, non basta cancellare il proprio profilo. Lo spiega Paolo Magliocco sulla “Stampa”, pensando soprattutto all’esodo di massa che sarebbe in corso: molti utenti sono infatti intenzionati ad abbandonare la piattaforma digitale più diffusa sul pianeta, dopo lo scandalo Cambridge Analytica: i dati di 50 milioni di statunitensi registrati da Facebook sono stati poi utilizzati da una società privata per la campagna elettorale presidenziale del 2016 ch ha incoronato Donald Trump. L’accusa: trasferendo i Big Data, Facebook ha consentito agli uomini reclutati da Steve Bannon di conoscere in anticipo l’orientamento elettorale di milioni di americani, “leggendo” alla perfezione anche il loro profilo psicologico, le loro abitudini, le loro intenzioni e forse anche i loro pensieri più reconditi, neppure ancora espressi. Alcuni utenti di Facebook adesso «hanno scoperto che i dati conservati dal social network sono molto più ampi di quanto immaginato». Dati che infatti «comprendono il registro di telefonate e messaggi di ogni genere, da Messenger a Whatsapp e agli Sms». Il movimento “#deletefacebook” ha raccolto adesioni di persone note, come la cantante Cher, l’industriale Elon Musk (proprietario di Tesla e SpaceX) e il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton.
-
Francesi contro Macron, Sarkozy (e attentati) per distrarli
Con una certa lungimiranza, nell’ottobre 2017, Nicolas Sarkozy aveva già lanciato un monito al neo-inquilino dell’Eliseo: «Ça va très mal finir». Finirà molto male, notava pessimista l’ex-presidente della Repubblica, perché Emmanuel Macron è sconnesso dal paese, rappresenta soltanto l’élite del denaro, è sordo alle grida che si alzano dalla società in ebollizione. C’è rischio di una «éruption politique». Ciò che Sarkò ignorava è che lui stesso sarebbe finito male, dato in pasto alla magistratura e all’opinione pubblica, proprio per distogliere le attenzioni dalle crescenti difficoltà che sta incontrando la presidenza Macron. Appena conosciuto l’esito delle elezioni francesi, nel maggio dello scorso anno, avevamo anticipato l’evoluzione della presidenza di Macron, dall’alto dell’esperienza maturata in Italia: forti erano, infatti, le analogie tra la stella di “En Marche” e l’ex-presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Entrambi giovani, entrambi “rottamatori”, entrambi “modernizzatori”, entrambi dotati di un illimitato capitale politico appena entrati nella stanza dei bottoni: come Renzi l’aveva dilapidato in mille giorni, impiccandosi al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, così, dicevamo, sarebbe successo a Macron. Quanto sta accadendo in Francia sembra confermare le nostre previsioni.È un regime, quello macronista, simile alle presidenze di Georges Pompidou e di Valéry Giscard d’Estaing (cui si deve la legge del 1973 che separò il Tesoro dalla Banca di Francia, con effetti simili a quelli prodotti in Italia con l’analogo provvedimento di Beniamino Andreatta) o al regno di François Mitterrand (cui si devono le grandi privatizzazioni di fine anni ‘80 ed il nulla osta alla nascita dell’euro): è il regime dell’alta finanza parigina, dei Rothschild, dei ricchi notabili cosmopoliti. Creato dal nulla pochi mesi prima delle elezioni, “En Marche” è studiato per subentrare ai socialisti di François Hollande, ormai esausto dopo cinque anni all’Eliseo: a colpi di scandali mediatico-giudiziari (l’eliminazione di François Fillon) e di demonizzazione degli avversari (la minaccia “nera” di Marine Le Pen), Macron è fortunosamente paracadutato ai vertici della Francia, perché portanti avanti “le riforme” di cui la Francia ha bisogno. Sono le classiche ricette di svalutazione interna, con cui la Francia deve smettere di “vivere al di sopra delle proprie possibilità” (si veda la voragine nella bilancia commerciale), cosicché possa rimanere agganciata alla Germania e all’euro-marco.È un compito titanico perché, come testimoniano i diversi andamenti del debito pubblico (esploso in Francia dopo l’introduzione dell’euro e oramai vicino al 100% del Pil, sotto il 70% in Germania e in calo da anni) e i diversi tassi di disoccupazione (9% contro 3,5%2) il motore franco-tedesco è sbiellato. Ciononostante, il giovane e ambizioso Macron si cimenta nell’impresa, prendendo ovviamente di mira la bestia più odiata dagli ambienti dell’alta finanza: lo Stato, che irradiandosi da Parigi all’ultimo dei dipartimenti, rappresenta l’orgoglio della Francia sin dai tempi di Luigi XIV. È lo Stato che con le partecipazioni statali consente di presidiare tutti settori strategici dell’economia, che consente alla Francia di avere il più alto tasso di fecondità d’Europa grazie ai generosi servizi elargiti alle famiglie, che garantisce opportunità di lavoro anche nelle zone più disagiate. Contro questo «kombinat tecnico-burocratico», che per l’“Huffington Post” «assorbe il 57% del Pil, della ricchezza nazionale» (che “assorbe” e non “produce”, si noti), l’ex-banchiere della Rothschild & Cie promette di agire con sega e bisturi: 120.000 licenziati tra i dipendenti pubblici in cinque anni, blocco degli stipendi, sospensione del turnover, lotta ai “regimi speciali” di cui godono una trentina di categorie di lavoratori pubblici.La lotta ai “privilegiati dello Stato”, in particolare, porta Macron in rotta di collisione con il potente sindacato dei ferrovieri, quei “cheminots” che possono vantare un regime previdenziale molto generoso (età pensionabile a 52 anni, contro i 62 delle altre categorie) e che garantiscano ogni anno lo spostamento di 1,4 miliardi di persone. Attaccare il sindacato dei ferrovieri significa correre il rischio di paralizzare letteralmente la Francia, isolando Parigi dal resto del paese e le comunicazioni dentro la stessa Île-de-France. Il 22 marzo, Macron affronta così la prima prova di piazza: dipendenti di ferrovie, scuole, ospedali e aeroporti incrociano le braccia. Si tratta peraltro soltanto di un “avvertimento”, perché lo sciopero dei ferrovieri si estenderà da inizio aprile a fine giugno, al ritmo di due giorni di sciopero ogni cinque. Si prospetta quindi una primavera bollente per il regime macronista, che guarda con terrore il saldarsi delle diverse proteste (Sncf, Air France, sanità, educazione pubblica, etc.): come nel caso di Hollande, la stagione degli scioperi rischia di affondare una presidenza già oggi compromessa, che raccoglie il giudizio negativo della maggioranza dei francesi (57% di insoddisfatti secondo un recente sondaggio).Dopo Macron, è però quasi impossibile che l’establishment francese riesca a trovare un candidato per frenare l’onda nazional-populista: il suo quinquennio è l’ultima occasione per attuare con successo quelle riforme indispensabili per tenere la Francia al passo con la Germania. Tutto deve essere fatto per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla manifestazioni di piazza e dalle montanti tensioni sociali: come la Francia ha eletto Macron in pieno “stato d’emergenza”, così è facile il paese, man mano che il regime macronista incontra resistenza, precipiti di nuovo in quella condizione. Il primo a essere immolato è stato Nicolas Sarkozy: il 20 marzo, due giorni prima del “giovedì nero” dei trasporti, la stampa annuncia che l’ex-presidente della Repubblica è in stato di fermo, sottoposto a interrogatorio per i finanziamenti illeciti ricevuti da Muammar Gheddafi per la campagna elettorale del 2007. Nonostante ci siano pochi dubbi sull’effettiva ricezione dei fondi e sulla bassezza morale di Sarkozy, mandante dell’omicidio del rais libico (ucciso da agenti francesi), è ormai chiaro che “l’affare libico”, aperto dalla magistratura nel 2013, torna a galla quando è più comodo all’establishment: successe così nell’autunno 20178, alla vigilia delle primarie del centrodestra, e succede così nel marzo 2018.L’annuncio sulla messa sotto indagine dell’ex-presidente della Repubblica è dato alla vigilia dello sciopero del 22 marzo e consente, così, di calamitare l’attenzione dei media lontano dalla mobilitazione dei sindacati. Più grave e sfacciato ancora è l’immediato rigurgito del terrorismo “islamico” che, dalla strage di Charlie Hebdo in avanti, ha accompagnato la declinante presidenza di Hollande sino a culminare con la mattanza del Bataclan e la proclamazione dello stato d’emergenza: non trascorrono neppure 24 ore dalla conclusione delle grandi manifestazioni sindacali che l’Isis, “dormiente” per buona parte del 2017, torna a colpire la Francia. Un 26enne di origine marocchina, già noto ai servizi e schedato per radicalizzazione, ruba una macchina, ferendo il conducente e uccidendo un passeggero, colpisce alcuni agenti e si barrica in supermercato di Trèbes, sud-est della Francia, dove uccide altre due persone prima di essere liquidato dalle teste di cuoio. Macron è avvisato della situazione davanti alla telecamere, quando si trova a fianco di Angela Merkel per la conferenza congiunta al termine del Consiglio Europeo.Si rifà viva anche la solita Rita Katz, che non si dice sorpresa perché, dopo la bonaccia del 2017, c’erano segnali di una ripresa di attività dell’Isis: è sufficiente infatti che i servizi occidentali liberino qualche terrorista allevato ad hoc. Se per l’Italia sono in serbo altri piani (un governo M5S, l’ultimo saccheggio dei risparmi pubblici e dei beni statali, l’uscita caotica dall’euro ed un possibile default), nel caso francese c’è, invece, la volontà di tenere Parigi agganciata a Berlino: ecco perché, man mano che il regime macronista procede con “le riforme”, affondando parallelamente negli indici di gradimento, è pressoché certo che si assista ad una nuova recrudescenza del terrorismo, distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica dalle tensioni sociali in rapido aumento. Allo scellerato Sarkozy si può rinfacciare tutto, ma bisogna riconoscergli di aver azzeccato almeno una previsione: «Ça va très mal finir».(Federico Dezzani, “Francia, il regime macronista alla prova della piazza”, dal blog di Dezzani del 23 marzo 2018).Con una certa lungimiranza, nell’ottobre 2017, Nicolas Sarkozy aveva già lanciato un monito al neo-inquilino dell’Eliseo: «Ça va très mal finir». Finirà molto male, notava pessimista l’ex-presidente della Repubblica, perché Emmanuel Macron è sconnesso dal paese, rappresenta soltanto l’élite del denaro, è sordo alle grida che si alzano dalla società in ebollizione. C’è rischio di una «éruption politique». Ciò che Sarkò ignorava è che lui stesso sarebbe finito male, dato in pasto alla magistratura e all’opinione pubblica, proprio per distogliere le attenzioni dalle crescenti difficoltà che sta incontrando la presidenza Macron. Appena conosciuto l’esito delle elezioni francesi, nel maggio dello scorso anno, avevamo anticipato l’evoluzione della presidenza di Macron, dall’alto dell’esperienza maturata in Italia: forti erano, infatti, le analogie tra la stella di “En Marche” e l’ex-presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Entrambi giovani, entrambi “rottamatori”, entrambi “modernizzatori”, entrambi dotati di un illimitato capitale politico appena entrati nella stanza dei bottoni: come Renzi l’aveva dilapidato in mille giorni, impiccandosi al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, così, dicevamo, sarebbe successo a Macron. Quanto sta accadendo in Francia sembra confermare le nostre previsioni.
-
Uranio e vaccini, 7.000 i militari malati (più 1000 già morti)
Linfomi e leucemie: è salito a 7.000 il numero dei militari italiani colpiti da tumori e patologie degenerative, mentre i soldati già morti sono diventati un migliaio, nel 2017. Una strage silenziosa, che colpisce le nostre forze armate: sono oltre 400 i soli marinai colpiti da mesotelioma pleurico, il cancro provocato dal contatto con l’amianto, mentre a trasformare un ragazzo nel fiore degli anni in un malato grave, spesso terminale, sono l’uranio impoverito e altri materiali letali presenti negli armamenti (e nei poligoni di addestramento) insieme alla somministrazione approssimativa di troppi vaccini, spesso inoculati senza adeguate precauzioni. Lo afferma Ivan Catalano, vicepresidente della commissione difesa guidata da Gian Pietro Scanu, protagonista a febbraio di una clamorosa denuncia ampiamente silenziata dai media: il clima della campagna elettorale ha “imposto” il quasi-silenzio sul dramma dei militari italiani, a maggior ragione (dopo il decreto Lorenzin) su quelli colpiti da patologie che la commissione non esclude siano correlate con la somministrazione inappropriata dei vaccini. Risultato: migliaia di militari nei guai, insieme alle loro famiglie. «All’angoscia per la salute del congiunto si somma la sua solitudine di fronte allo Stato, che rifiuta di riconoscere il problema: così, ai soldati ammalatisi “per cause di servizio” non viene assicurato il trattamento speciale, assistenziale e previdenziale, cui avrebbero pieno diritto».Inutili le pressioni esercitate sull’allora ministro della difesa Roberta Pinotti, alla quale la commissione ha chiesto di fermare l’azione della potentissima avvocatura dello Stato: «Comprensibile che gli avvocati governativi (che dispongono di un budget illimitato) trovino ogni mezzo per evitare esborsi, ma non è giusto che un militare colpito da malattie “professionali” così gravi non venga riconosciuto come vittima da tutelare e risarcire», afferma Catalano, in un incontro pubblico promosso a Torino dal Movimento Roosevelt. «Abbiamo vagliato casi-limite particolarmente eloquenti: sono stati bollati come “renitenti” anche quei giovani ammalatisi improvvisamente, ragazzi che in pochi mesi hanno perso 20-30 chili di peso». Sono in gioco diritti fondamentali, «ed è assurdo che i nostri militari siano considerati cittadini di serie B». Nel settore difesa non esiste terzietà né possibilità di contraddittorio, sono militari anche i sanitari e le commissioni preposte a vagliare i singoli casi. «Chiediamo invece che i vaccini vengano somministrati ai militari dalle autorità sanitarie civili: solo nel caso dei carabinieri – afferma Catalano – abbiamo verificato che le vaccinazioni sono correttamente tracciate, mentre nelle altre forze armate non è sempre possibile risalire alla storia vaccinale del singolo militare, col rischio (non infrequente) che allo stesso soldato vengano inoculate più volte le medesime vaccinazioni, spesso senza precauzioni e magari alla vigilia di missioni all’estero, senza cioè il tempo materiale di verificarne le eventuali reazioni avverse, sul piano della salute».Proteggere i nostri militari: un impegno per il quale Catalano (eletto nei 5 Stelle, poi passato al gruppo misto) si è battuto come un leone, insieme ai colleghi della commissione difesa: «Tutto inutile, però: non siamo riusciti a ottenere un’apposita legge, né a far inserire nell’ultima finanziaria l’emendamento su “tutela assistenziale, previdenziale e sicurezza sul lavoro del personale militare”». Obiettivo: estendere anche ai soldati e alle forze di polizia le norme “salvavita” (infortuni sul lavoro e malattie professionali) che tutelano i lavoratori civili. «Un militare in missione sa perfettamente di essere in pericolo: fa parte del gioco, a patto che la minaccia provenga da un soggetto ostile, da un terrorista. Non è accettabile che soldati, avieri e marinai italiani rischino di veder pregiudicata per sempre la loro salute, a vent’anni, dal contatto improprio con armamenti “sporchi” o da vaccinazioni somministrate in modo inadeguato». In 8 casi su 10, poi, per andare incontro a rischi mortali non c’è bisogno di partire per l’Afghanistan: il “fuoco amico” è nettamente più pericoloso delle pallottole dei Talebani. E’ notoriamente scandaloso l’inquinamento permanente di poligoni di artiglieria come quelli del Salto di Quirra e di Capo Teulada in Sardegna. I soldati operano su terreni non bonificati, sui quali cadono migliaia di missili. «Il Movimento Roosevelt nasce per tutelare i diritti dell’uomo», ricorda Patrizia Scanu: «Tra questi, rientrano certamente anche quelli dei nostri militari, non adeguatamente riconosciuti, nonostante l’enorme lavoro di Ivan Calatano e degli altri parlamentari della commissione difesa. Un impegno, il loro, che provvederemo a ricordare al nuovo Parlamento: l’Italia deve assolutamente arrivare a tutelare nel modo migliore i suoi militari».Linfomi e leucemie: è salito a 7.000 il numero dei militari italiani colpiti da tumori e patologie degenerative, mentre i soldati già morti sono diventati un migliaio, nel 2017. Una strage silenziosa, che colpisce le nostre forze armate: sono 570 i soli marinai colpiti da mesotelioma pleurico, il cancro provocato dal contatto con l’amianto, mentre a trasformare un ragazzo nel fiore degli anni in un malato grave, spesso terminale, sono l’uranio impoverito e altri materiali letali presenti negli armamenti (e nei poligoni di addestramento) insieme alla somministrazione approssimativa di troppi vaccini, spesso inoculati senza adeguate precauzioni. Lo afferma Ivan Catalano, vicepresidente della commissione difesa guidata da Gian Pietro Scanu, protagonista a febbraio di una clamorosa denuncia ampiamente silenziata dai media: il clima della campagna elettorale ha “imposto” il quasi-silenzio sul dramma dei militari italiani, a maggior ragione (dopo il decreto Lorenzin) su quelli colpiti da patologie che la commissione non esclude siano correlate con la somministrazione inappropriata dei vaccini. Risultato: migliaia di militari nei guai, insieme alle loro famiglie. «All’angoscia per la salute del congiunto si somma la sua solitudine di fronte allo Stato, che rifiuta di riconoscere il problema: così, ai soldati ammalatisi “per cause di servizio” non viene assicurato il trattamento cui avrebbero pieno diritto, anche in termini previdenziali».
-
Il Grande Fratello sa tutto di noi, soprattutto grazie a noi
Facebook avrebbe “passato” a Cambridge Analytica 51 milioni di profili. Destinazione, la campagna pro-Brexit e quella pro-Trump, consentendo ai persuasori di mirare con precisione, fino a centrare in modo selettivo il target desiderato: appelli politici per convincere utenti già “schedati” dal social network, presentati (a loro insaputa) come “clienti” teoricamente disponibili, in base alle loro preferenze: idee espresse nei commenti, tipologia dei consumi dichiarati. Da qui la mappatura virtuale del “cliente”: se so cosa ti piace oggi, il mio sistema deduce al volo ciò che ti piacerà domani. Si grida allo scandalo: Steve Bannon, l’ex guru di Trump, è uno stregone della manipolazione. «Non lo faremo più», promette Zuckerberg. Scandalo? Bannon fa il suo mestiere: portare voti ai politici per cui lavora. Anche Zuckerberg fa il suo mestiere: vendere al marketing i profili degli utenti, che sono ormai 2 miliardi di persone, in tutto il mondo. Rivelazioni: il potente algoritmo messo in campo da Cambridge Analytica permette di “scannerizzare” all’istante, incrociando dati, anche le intenzioni degli ignari utenti, scoprendo in anticipo chi voterà per chi. Ma né Bannon né Zuckerberg hanno mai estorto alcunché: la fornitura dei dati-chiave è volontaria, da parte degli utenti.Gli utenti di Facebook, poi, sanno benissimo (o dovrebbero sapere) che non sono proprietari dei contenuti delle loro “pagine”: dal punto di vista legale, in base al diritto editoriale, tutto ciò che viene pubblicato – parole e pensieri, immagini e video – non appartiene in nessun caso a loro, ma solo a Facebook. In quanto editore unico e senza vincoli, il social network è liberissimo di rimovere i contenuti quando vuole, senza neppure l’obbligo di lasciarne una copia, privata, a disposizione dell’utente. Quasi un terzo dell’umanità ormai utilizza Facebook, affidando alla piattaforma social la rappresentazione pubblica – più o meno realistica – della propria identità personale. Facebook offre una vasta gamma di servizi – a costo zero per l’utente, ma remunerati in altro modo: è ovvio che faccia gola, al marketing, la più grande banca dati del pianeta. Perché stupirsene? Se si fa una qualsiasi richiesta a Google, il motore di ricerca la registra, classificando subito l’utente e proponendogli – sotto forma di proposta pubblicitaria – merce analoga a quella già cercata. Anche Google “sa” chi siamo e cosa ci piace. Anche Google svolge un servizio gratuito per l’utente. Un servizio prezioso, ormai imprescindibile, e remunerato altrimenti, cioè mettendo il profilo psicologico del potenziale cliente a disposizione del mercato.Con l’avvento degli smartphone, oggi il sistema sa anche – sempre – dove siamo. Attraverso i social, le chat, le email, il sistema sa cosa pensiamo, dove andiamo, chi incontriamo. Anni fa, fece scalpore la rivelazione – esternata dal solo Marcello Foa – del capo dei servizi segreti svizzeri: spiegò che ogni parola in uscita dai nostri computer finisce in due immensi archivi, dislocati a Londra e a Washington. Il Grande Fratello è in ascolto, certo: ma qualcuno può davvero stupirsene? Smentendo il vittimismo complottistico, un osservatore atipico come Paolo Franceschetti (avvocato, autore si studi scomodi sui misteri italiani) offre la seguente riflessione: perché ci illudiamo che in passato la situazione del “popolo” fosse migliore? Fino a ieri non ci voleva molto per rischiare il carcere, bastava mancare di rispetto al sovrano (e l’altro ieri peggio ancora, si finiva sul rogo per il solo fatto di aver manifestato idee difformi dal dogma vigente). Oggi, al contrario, si assiste a una diffusione di opinioni quale mai s’era vista, in migliaia di anni. Circolazione istantanea di idee, libera e planetaria. Osservata e spiata? Vietato meravigliarsene.Quanto a Facebook, parla da sola la sua data di nascita. Serviva un sistema per raccogliere dati e schedare milioni di persone, in modo da trarre d’impaccio l’intelligence Usa, in enorme imbarazzo dopo la storica débacle dell’11 Settembre. Zuckerberg ha offerto la soluzione più brillante, a costo zero per lo Stato: sarebbero stati direttamente i cittadini a raccontare tutto di sé – chi sono, dove vivono, in cosa credono, che amici hanno. Facebook ha raccolto milioni di confidenze, che oggi sono diventate miliardi. Ma non le ha carpite: gli sono state offerte spontaneamente. Il sistema ha solo creato uno spazio (pubblico) per esprimerle e condividerle. Uno spazio che prima non esisteva, e di cui gli Zuckerberg del pianeta avevano intuito il bisogno, la necessità percepita. Parlare, raccontarsi: prima dell’avvento dell’email (non secoli fa: si parla della vigilia del Duemila) le persone avevano smesso di scriversi lettere. Hanno ricominciato a scrivere proprio grazie alla posta elettronica. Milioni di persone hanno ristabilito contatti epistolari frequenti, recuperando anche il gusto della scrittura. Facebook e gli altri social media completano l’offerta, realizzando un diario digitale personale ma condivisibile, arricchito da segnalazioni e link, veicolando in questo modo l’altra grande fonte recente di idee e informazioni: i blog.Nella sua ricostruzione della storia del Cristianesimo, formulata da un punto di vista ruvidamente anticlericale, un’autrice come Laura Fezia sostiene che il “format” cristiano sia stato inoculato come un virus nell’imperialismo romano, per corroderlo dall’interno fino a farlo crollare. Tradotto: se non riesci a battere il nemico in campo aperto, ti conviene infiltrarlo. E’ nemico, oggi, il web? E’ sicuramente padrone: compra, vende, orienta, controlla, manipola. Non è un amico disinteressato: se l’ha fatto credere, bluffava. Ma spesso (quasi sempre) è un alleato di cui non si può fare a meno. E’ un orizzonte sistemico, nel quale vivere, e in cui – come in ogni altra cosa – convivono due modi di intendere e volere. Il bene e il male? Dipende sempre dal punto di vista: il male della gazzella coincide con il bene dei cuccioli della leonessa. Sarà anche una savana, il web, ma non è senza padroni: è anzi un giardino zoologico severamente protetto e custodito dai grandi proprietari dell’infrastruttura strategica, da cui ormai dipende il pianeta, che è diventato infinitamente e istantaneamente manipolabile. Sono infatti tramontate le fiabe ingenue sull’innocenza della Rete, utilizzate anche in Italia a fini politici. Ma la Rete resta, e – con i suoi limiti – è ancora disposizione: per ospitare idee, magari, oltre che immagini delle vacanze e piatti “stellati”, fotografati al ristorante.Facebook avrebbe “passato” a Cambridge Analytica 51 milioni di profili. Destinazione, la campagna pro-Brexit e quella pro-Trump, consentendo ai persuasori di mirare con precisione, fino a centrare in modo selettivo il target desiderato: appelli politici per convincere utenti già “schedati” dal social network, presentati (a loro insaputa) come “clienti” teoricamente disponibili, in base alle loro preferenze: idee espresse nei commenti, tipologia dei consumi dichiarati. Da qui la mappatura virtuale del “cliente”: se so cosa ti piace oggi, il mio sistema deduce al volo ciò che ti piacerà domani. Si grida allo scandalo: Steve Bannon, l’ex guru di Trump, è uno stregone della manipolazione. «Non lo faremo più», promette Zuckerberg. Scandalo? Bannon fa il suo mestiere: portare voti ai politici per cui lavora. Anche Zuckerberg fa il suo mestiere: vendere al marketing i profili degli utenti, che sono ormai 2 miliardi di persone, in tutto il mondo. Rivelazioni: il potente algoritmo messo in campo da Cambridge Analytica permette di “scannerizzare” all’istante, incrociando dati, anche le intenzioni degli ignari utenti, scoprendo in anticipo chi voterà per chi. Ma né Bannon né Zuckerberg hanno mai estorto alcunché: la fornitura dei dati-chiave è volontaria, da parte degli utenti.
-
Si fa presto a dire Cottarelli, un alibi per tagliare il welfare
Non c’è dubbio che le politiche di austerity abbiano aggravato il tasso di disoccupazione e ridotto la sicurezza di spesa (e non solo) dei cittadini. Storicamente quando la disoccupazione è alta si crea una competizione al ribasso di diritti e salari, resa ancor più ingente in presenza di eccessiva immigrazione; e puntualmente in Italia un governo ha approvato il Jobs Act confermando quanto previsto da Gianni Agnelli (“la profezia del caro estinto”). In Italia infatti i sacrifici più controproducenti a livello socioeconomico li hanno imposti i governi di centro-sinistra rappresentati dal “combinato disposto” banche-apparato di partito, di cui il duo Matteo Renzi – Maria Elena Boschi è stato solo un esempio più eclatante rispetto ad altri meno appariscenti perché magari meglio protetti e ammanigliati (Ciampi, Prodi, D’Alema, Amato ecc). Prima della recessione, a riconsegnare al paese prezzi fuori misura furono le dinamiche eccessivamente inflazionistiche, mentre un po’ più recentemente fu il passaggio lira/euro gestito in modo scellerato dal governo Berlusconi che abolì il doppio prezzo nei negozi troppo frettolosamente (il modo più opportuno per evitare l’escalation non erano tanto i controlli, quanto il mantenere a lungo il doppio prezzo lira/euro).
-
Reddito e Flat Tax: Di Maio e Salvini devono imporsi all’Ue
«La mancanza di copertura che la Lega ha presentato sulla Flat Tax – avvertono ambienti di Bankitalia – non è dissimile dalla mancanza di coperture del reddito di cittadinanza dei 5 Stelle». Vista l’aria che tira, i vincitori delle elezioni riusciranno a dribblare i sommi sacerdoti dell’austerity, già all’opera da Bruxelles a Roma? Ce la faranno, Lega e 5 Stelle, a mettersi d’accordo «agendo, una volta tanto, nell’interesse dell’Italia e non dell’Unione Europea?». L’appello è rivolto a tutti – grillini e leghisti in primis – ma anche ai perdenti: cioè «la “famiglia” Soros-De Benedetti-Bonino», alias «Pd and friends», cioè «la “cosa grassa” di D’Alema», nonché «la “famiglia” Berlusconi-Lupi-Fitto», anch’essa ormai giunta all’irrilevanza. Da Vincenzo Bellisario una proposta secca, anzi due: accordo tra Salvini e Di Maio su un unico punto (cambiare la legge elettorale, mettendo il vincitore in condizioni di governare) o accordarsi per modificare i trattati europei. Obiettivo: rendere finanziabili misure come il reddito di cittadinanza e la Flat Tax. «Basta una settimana, per trovare una soluzione». Unico scenario da evitare: la palude, nella quale si sta lentamente inabissando il risultato delle urne, con gravi rischi innanzitutto per le due formazioni uscite vincitrici dal test elettorale. Il 55% degli elettori ha votato Di Maio, Salvini e Meloni per dire “no” al rigore. Esiste un modo per tradurre in pratica il mandato ricevuto, ma bisogna agire subito.Sul blog del Movimento Roosevelt, Bellisario avverte i grillini: «Avete proposto per circa 12 anni un reddito di cittadinanza, un reddito per tutti: non potete tirarvi indietro, o farlo a metà, perché la “gente normale” vi ha votato solo per quello». Dovrebbe essere il primo pensiero, per un movimento che si è dipinto “alternativo” e oggi rischia di farsi ingabbiare nei “giochetti” per la presidenza delle Camere. Il rischio? Deludere gli elettori, e quindi fare la fine della Bonino, sostenuta da George Soros, o del Pd sorretto da Carlo De Benedetti. E’ lo stesso Salvini a proporre uno spiraglio: basterebbe una settimana per votare un emendamento al Rosatellum, che introduca un premio di maggioranza per chi arriva primo. Obiettivo: tornare al voto di corsa, per offrire al paese un risultato più chiaro (e un governo coerente con il voto). Oppure, Piano-B: un accordo fondato su appena 4 punti, due indicati da Di Maio e due dalla Lega, per rendere attuabili le proposte lanciate durante la campagna elettorale. Come? Nel solo modo possibile: mettendo mano alla complessa procedura che consente la revisione dei trattati europei a partire da quello di Maastricht, che obbliga lo Stato a contenere la spesa pubblica entro il 3% del Pil. L’Ue boccerebbe il ricorso? «E allora bisogna essere pronti a togliere il disturbo: ciao, Bruxelles».Negli ultimi 26 anni, dopo Tangentopoli, l’Unione Europea ha avuto il coltello dalla parte del manico: ha imposto e ottenuto tutto quello che voleva. Come affermare le proprie ragioni in sede comunitaria? «Semplicemente – scrive Bellisario – trattiamo quelli dell’Ue come loro hanno trattato noi negli ultimi 26 anni. Ma se “se la tirano troppo”, nel giro di poche ore possiamo salutarli a colpi di decreti, avendo una maggioranza assoluta decisa a impugnare il famoso coltello dalla parte del manico». Altre soluzioni, semplicemente, non esistono: a lungo andare, la Lega appassirebbe all’ombra del Muro di Bruxelles, non potendo attuare le proprie proposte di salvataggio dell’economia basate sul taglio verticale delle tasse. Peggio ancora il Movimento 5 Stelle, che ha quasi il 33% dei voti ed è esposto da più tempo alle aspettative degli elettori, accese dal reddito di cittadinanza: guai, se non lo si potesse applicare integralmente, e in tempi rapidissimi. L’esasperazione sociale è al limite. Lo stesso Grillo, nel suo blog, scrive: «Si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita. Soltanto così la società metterà al centro l’uomo e non il mercato». Non ci provi, il Movimento 5 Stelle, a tirarsi indietro proprio adesso. Finirebbe in barzelletta: “Mamma, ho perso il reddito!”.«La mancanza di copertura che la Lega ha presentato sulla Flat Tax – avvertono ambienti di Bankitalia – non è dissimile dalla mancanza di coperture del reddito di cittadinanza dei 5 Stelle». Vista l’aria che tira, i vincitori delle elezioni riusciranno a dribblare i sommi sacerdoti dell’austerity, già all’opera da Bruxelles a Roma? Ce la faranno, Lega e 5 Stelle, a mettersi d’accordo «agendo, una volta tanto, nell’interesse dell’Italia e non dell’Unione Europea?». L’appello è rivolto a tutti – grillini e leghisti in primis – ma anche ai perdenti: cioè «la “famiglia” Soros-De Benedetti-Bonino», alias «Pd and friends», cioè «la “cosa grassa” di D’Alema», nonché «la “famiglia” Berlusconi-Lupi-Fitto», anch’essa ormai giunta all’irrilevanza. Da Vincenzo Bellisario una proposta secca, anzi due: accordo tra Salvini e Di Maio su un unico punto (cambiare la legge elettorale, mettendo il vincitore in condizioni di governare) o accordarsi per aggirare dichiaratamente i trattati europei. Obiettivo: rendere finanziabili misure come il reddito di cittadinanza e la Flat Tax. «Basta una settimana, per trovare una soluzione». Unico scenario da evitare: la palude, nella quale si sta lentamente inabissando il risultato delle urne, con gravi rischi innanzitutto per le due formazioni uscite vincitrici dal test elettorale. Il 55% degli elettori ha votato Di Maio, Salvini e Meloni per dire “no” al rigore. Esiste un modo per tradurre in pratica il mandato ricevuto, ma bisogna agire subito.
-
Giannuli: Di Maio, neoliberismo populista funzionale all’élite
Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.«Aleggiava un certo odore neoliberista, che poi Di Maio provvedeva ad amplificare con dichiarazioni del tipo “dobbiamo metterci in testa che i governi devono accettare l’andamento dei mercati finanziari senza pretendere di influenzarli” o giù di lì». Il che, aggiunge Giannuli nel suo blog, «fa pensare che se il Pd (riposi in pace) fu la “socialdemocrazia neoliberista”, il M5S si candida ad essere il “populismo neoliberista”». E la scelta dei ministri, aggiunge il politologo, conferma purtroppo questa impressione. «I tre ministri dell’economia vengono dipinti come keynesiani o neo-keynesiani e si invocano le ombre di Krugman e di Stiglitz, ma sia l’uno che l’altro sono sostanzialmente dei neoliberisti che cercano di innestare quote di keynesismo nel neoliberismo, e non sono affatto fautori del superamento di questo sistema». Sempre che un governo Di Maio poi effettivamente nasca, continua Giannuli, staremo vedere come Fioramonti «pensa di abbattere del 40% il debito pubblico in 10 anni, di dare il reddito minimo di cittadinanza (che peraltro è una ricetta neoliberista), e di abbattere la pressione fiscale. Non è che le promesse son state troppe?». E poi, come ci si regola con l’Europa e con gli apparati ministeriali italiani?Quanto alla squadra di governo, Giannuli teme ci siano troppi “tecnici” (e di dubbia competenza), che farebbero tremendamente somigliare l’esecutivo Di Maio «ad un governo Monti in carta 5 Stelle» (Gioele Magaldi l’ha definito «un governo Monti senza Monti»). E al di là degli aspetti di linea politica, Giannuli ricorda che il Movimento 5 Stelle ha una serie di gravi handicap nel suo modello organizzativo: «Il debolissimo radicamento territoriale, il carattere di movimento di opinione assai volatile e il forte rischio di essere “scalato”», visti i meccanismi di selezione dei candidati: «Se il “controllo di qualità” è quello che abbiamo visto, la prossima volta nelle liste ci troviamo Dracula e Jack lo Squartatore!». Tutte cose che, per Giannuli, «minacciano la statica del Movimento, anzi del partito, che tale è al di là dei nominalismi». Un raggruppamento fortissimo sul piano elettorale ma assai fragile su quello politico. E quel che è peggio, con le idee tutt’altro che chiare sulla politica economica. Grosso rischio: l’entusiasmo degli elettori – 11 milioni di italiani, un votante su tre – potrebbe rapidamente trasformarsi in delusione, e quindi in rabbia. In altre parole: la vittoria è insidiosa, va maneggiata con cura.Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.
-
Vietato volare, l’Ue presenta già il conto a Salvini e Di Maio
Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».Le scadenze europee sono molteplici e tutte ravvicinate, annota Cingolani: di qui al Consiglio Europeo di giugno c’è il completamento dell’Unione Bancaria istituendo la garanzia depositi, poi il futuro Fondo Monetario Europeo, la riforma della Convenzione di Dublino sugli immigrati, il bilancio pluriennale dopo il 2020 che porta con sé i fondi strutturali che il Sud ha utilizzato solo per il 4%. «Nei prossimi 18 mesi, il nuovo governo dovrà mercanteggiare le seguenti nomine: presidente della Bce dopo l’uscita di Mario Draghi nell’autunno 2019, due terzi del consiglio esecutivo della Bce (ci sarà un rappresentante italiano, e chi?); il presidente della Commissione Ue; il presidente del Consiglio Europeo e, dulcis in fundo, il commissario italiano dopo l’uscita di Federica Mogherini». Domanda: «Che cosa potrà ottenere un paese che non crede più nell’euro, rifiuta il bail-in, i parametri di Maastricht e la responsabilità di bilancio o che vuole respingere gli immigrati non solo verso l’Africa, ma verso il nord e l’est dell’Europa?».Secondo Cingolani, né Di Maio né Salvini sono in grado di colmare il fossato tra Roma e Bruxelles: «La loro linea è sempre stata accusare l’austerità per i mali italiani, sfuggendo alla verifica dei fatti: dal 2013 al 2017 il saldo primario tra entrate e spese pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico in Spagna è passato dall’1,2% del Pil a meno 0,6%, quello dell’Italia dal 4,3% a sotto il 2%. La politica fiscale, dunque, è stata relativamente espansiva, ma nello stesso periodo la Spagna è cresciuta complessivamente dell’11,2%, l’Italia del 3,5%. Su queste basi sarà difficile trovare una solidarietà latina». E’ vero che l’Ue ha concesso a Renzi più flessibilità, e anche adesso sembra disposta a dare all’Italia un margine di tempo, visto che la Germania ha impiegato cinque mesi prima di formare una nuova grande coalizione. «Tuttavia la situazione politica italiana è molto più simile a quella spagnola». In più, il rischio di nuove elezioni (anch’esse inconcludenti, se resta la staessa legge elettorale) è molto forte. E Mario Draghi ha già acceso i riflettori sui rischi di una prolungata instabilità politica.«Sarà davvero difficile, insomma, incidere subito sulla qualità della vita degli italiani, come promette Di Maio con evidente immaginazione». Il Def rischia di essere un appuntamento impossibile per saggiare la nuova politica economica, «anche perché dovrà tener conto della stretta, sia pur prudente e progressiva, della politica monetaria, già annunciata da Draghi». Oggi, continua Cingolani, non è possibile sapere quanto costerà il debito pubblico alla fine di quest’anno e soprattutto nel prossimo, perché non conosciamo di quanto saliranno i tassi d’interesse. «Dal 2012, quando Draghi ha impresso la svolta espansiva, il servizio del debito è sceso da 83 a 60 miliardi di euro l’anno, una cifra che è comunque superiore a quanto si è speso per la scuola. In 20 anni sono stati pagati per interessi 1.700 miliardi di euro (cifra superiore all’intero prodotto lordo annuo); 760 miliardi negli ultimi dieci anni in cui i tassi sono scesi. Quasi un euro su venti di ricchezza annua prodotta serve a pagare i creditori italiani o esteri, riducendo le risorse pubbliche per consumi e investimenti». Più il tempo passa, aggiunge Cingolani, più crescono le aspettative (e con esse le eventuali delusioni). Facile profezia: «L’onda che prima ha spazzato gli equilibri della Seconda Repubblica è destinata a spostarsi dalla politica all’economia, alle imprese, alle banche, ai manager pubblici e privati, ai patron, verso quel 10% che possiede metà della ricchezza».Non è un caso che tanti esponenti del mondo industriale e finanziario si siano lanciati sui carri dei vincitori (sul Carroccio soprattutto al Nord e sul carro dei 5 Stelle nel Mezzogiorno). «Dovremo attenderci un innalzamento della conflittualità sociale, non governata dai sindacati confederali», ormai indeboliti. Sono centinaia le vertenze industriali già aperte al ministero dello sviluppo, e altre ne arriveranno. «Ma le promesse talvolta mirabolanti distribuite a man bassa durante la campagna elettorale hanno suscitato attese che in qualche modo andranno soddisfatte, almeno in parte. Non si può cavalcare la frustrazione dei precari senza poi trovare nuovi posti di lavoro. Il M5S li vuole pagati da tutti i contribuenti, la Lega spera nella ricaduta del taglio fiscale, solo che lo Stato non ha mezzi sufficienti e le imprese possono espandersi (segnali chiari già ci sono nel Nord-Est) solo quando avranno recuperato produttività, altrimenti la riduzione delle tasse si trasformerà in aumento dei risparmi, ma non in investimenti espansivi creatori di occupazione». Se poi quest’anno passerà tra manovre politiche includenti, «rinviando tutto alla primavera 2019, magari con un “election day” insieme con le elezioni europee, lo tsunami dello scontento continuerà a crescere». L’incertezza economica e il malcontento sociale daranno a Salvini e Di Maio il tempo di cui hanno bisogno, per dare la spallata decisiva?Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».
-
Addio Pd, la finta sinistra può solo scegliere come suicidarsi
Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.Ma queste cose (campagna elettorale sbagliata e legge elettorale demenziale ed autolesionistica), che pure ci sono, sono solo una piccolissima parte delle ragioni del tracollo; quantomeno ci sarebbe da considerare la sconfitta del 4 dicembre 2016 sulla indecente riforma costituzionale, e poi ancora i 4 anni obbrobriosi di governo di Renzi. Ma anche questo non è sufficiente a spiegare il tutto. E’ una sconfitta che viene da lontano, da molto lontano, quantomeno da Occhetto. A volte per capire un quadro bisogna allontanarsi per vederlo nella sua interezza, e spesso le cause di una dinamica risalgono a molto tempo prima, perché i processi a volte sono molto lunghi nel loro svolgimento. In fondo la storia serve a questo (permettetemi di difendere l’utilità della mia disciplina contro lo scemenzaio recentista tipico del tempo del neoliberismo). Il Pci fu un partito popolare a trazione burocratica: la base era robustamente operaia, con fasce di piccolissima borghesia, guidata da un ceto funzionariale autoritario ma che sapeva aver cura del suo seguito. Dopo, a partire dalla metà anni settanta, iniziò una metamorfosi grazie all’espansione della sua base elettorale verso i ceti medi e medio-alti. Ma la svolta decisiva venne negli anni Ottanta e un ruolo decisivo lo ebbe “Repubblica”, la cui cultura politica era quella della destra azionista (La Malfa, Cianca, Tarchiani) ed il cui obiettivo era quello di una sorta di Pri di massa.L’operazione in gran parte riuscì e il risultato venne conclamato con Occhetto. Il Pds fu un partito sempre a base popolare (per quanto più ridotta) ma a trainarlo non era più l’apparato dei funzionari, quanto una certa borghesia professionale, accademica, giornalistica, manageriale. Fu il tempo della sinistra da salotto e da terrazza romana, che celebrò i suoi fasti al tempo di Veltroni. Si trattava di uno strato sociale di carrieristi, faccendieri, affaristi e, al bisogno, anche di tangentari grandi e piccoli. Gente priva di una sostanziale cultura politica, che non poteva sentir parlare di lotta di classe e che non aveva nessun senso della politica, ma che era in sintonia con lo spirito del tempo neoliberista. Pretendevano di essere loro la sinistra, anzi la nuova sinistra degli anni duemila, i blairiani d’Italia. Innamorati della finanza e allergici al lavoro, spinsero il partito a diventare il principale interlocutore del capitale finanziario in Italia.E anche questo era nello spirito dei tempi e rifletteva il nuovo compromesso socialdemocratico fra l’internazionale socialista e l’iper-capitalismo finanziario. La cosa ha funzionato per un quindicennio, poi… è venuta la crisi. Il modello si è incarognito e ha tagliato tutti gli spazi di mediazione riformistica, obbligando i partiti socialisti al governo (vale anche per Tsipras) a politiche apertamente antipopolari. E il meccanismo non ha più funzionato, come dimostrano i risultati ad una cifra di quasi tutti i partiti socialisti europei, dalla Spagna all’Austria, dalla Francia alla Grecia, dal Belgio alla Repubblica Ceca. La loro base popolare è risucchiata dall’ondata populista. Quel modello è fallito, in Europa e ora anche in Italia, nella quale la stagione renziana è stata solo una bizzarra anomalia subito normalizzata. E questa è la sorte odierna del Pd, destinato rapidamente a scendere a un risultato ad una cifra e all’assoluta irrilevanza politica: capolinea, signori si scende!(Aldo Giannuli, “Pd, la fine di un mondo”, dal blog di Giannuli del 9 marzo 2018).Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.
-
Bannon, il risveglio dell’Italia e l’astuto marketing 5 Stelle
Steve Bannon è un genio e lo ha dimostrato anche in Italia in una recente intervista non appena sbarcato. Bannon ha spiegato come le dinamiche di disinformazione di cui l’Italia è intrisa, tra cui la retorica su razzismo, su fascismo e comunismo (nel 2018), sul populismo, sul femminismo, eccetera, siano un fenomeno conosciuto e digerito in Usa, e denuncia come esse rappresentino le stesse con cui Trump ebbe a che fare in campagna elettorale prima della sua vittoria. La perfezione non esiste, ma non c’è dubbio che in Italia siano rari uomini di valore come questo americano, probabilmente soffocati dall’“eccesso dell’apparenza”, dalla melassa radical chic. In questo paese (e forse non solo) l’umanesimo, nato dall’Illuminismo, anziché stimolare l’approfondimento e la conoscenza è stato declassato in una funzione di ottundimento delle menti; il pericolo che ravvedo è che a capo di questo paese, oggi o domani, si piazzi una qualche oligarchia che costruisca (nell’immagine) in modo impeccabile politici incompetenti e li sfrutti in cambio di ingenti quantità di danaro erogate da soggetti esteri, in una sorta di “esternalità di mercato”.Non sarebbe probabilmente nemmeno una novità: si pensi a come il rapporto di ingresso in euro (marco = 990 lire) abbia danneggiato il nostro paese in favore della Germania (quando era cosa nota essere un valore ribassato di circa 200 punti dal doping finanziario) e di come nessun politico o giornalista lo abbia fatto presente all’epoca: tale rapporto fu festeggiato con giubilo – ricordo gli articoloni di “Repubblica” e “Corsera”. Troppe volte vediamo tematiche secondarie enfatizzate a spese di quelle serie, sconosciute ai più (dove, lì sì, ballano miliardi di euro); pare invece di assistere al meccanismo “trasmissione, ricezione, reazione, subcultura” presente nei reality come il Grande Fratello (che è certamente più seguito e consultato di questo articolo). Tornando a Bannon, nonostante il solco che si è scavato tra lui e Trump, ivi comprese accuse e parole grosse volate, si percepisce intatto in lui il rispetto (e la stima) verso il grande uomo, verso il presidente; e questo altissimo senso del valore è un feedback nei due sensi con quello delle istituzioni: è ciò che non si vede davanti ai riflettori.Evidentemente gli Usa, essendo un territorio meno densamente abitato del nostro (non esistono solo le metropoli) e quindi più anarchico/naturale, mantengono vivo il senso dell’“io sono americano!” (“America First”) e nonostante un senso civico in molti casi carente, permettono all’essere umano di riflettere in maniera molto più autonoma e libera che in Italia, dove invece è presente una forma di controllo e di reciproca influenza. Non è un caso che le dinamiche di gruppo stiano prevalendo in modo massiccio sull’indole autentica e libera dell’essere umano. In “Psicologia sociale dei gruppi” di Rupert Brown si chiarisce che chi ha una consistente impronta individuale difficilmente tradisce i valori in cui crede per piacere agli altri. Chi ha invece un più marcato senso del ruolo sociale si adatta all’assemblea, alla classe, al gruppo (o al branco) ed è pronto a cambiare repentinamente tipologia di rapporto con l’altro: perfino calpestando legami quali amicizia e stima proprio perché meno profondi. Questi meccanismi di norma sono evidenti in presenza di un mutato ruolo o “status” gerarchico. I gruppi possono diventare perciò formidabili centri di controllo: ormai sono in mano alle tv e al tasto “condividi” di Facebook; lascio a voi presagire cosa ciò possa comportare (vedasi discorso oligarchie).Lo stesso senso delle istituzioni qui accennato, in Italia, è lasciato in pasto all’immagine, alla forma, al marketing pilotato dagli esperti e dall’alto: il manichino con la cravatta, l’uso di terminologie complesse (spesso sconosciute in chi le usa), gli atteggiamenti distanti. Il valore che si respira nelle parole di Bannon in Italia è praticamente estinto e lascia il posto all’apparenza e quindi inevitabilmente alle sparate. Ho sentito dire addirittura (non cito la fonte) che saremmo entrati nella “Terza Repubblica”, un insulto all’educazione civica di base, quella delle scuole medie (!). A poco serve conoscere che affinché si entri in una Nuova Repubblica sia necessario modificare radicalmente la Costituzione: per finalità di marketing politico per far passare un messaggio (“faremo giustizia delle vostre sofferenze”) si arriva a tanto (e state certi che, in spregio al senso civico, questo messaggio passa). Non è un caso che Bannon comunichi agli italiani: «Siete un grande popolo, non vi percepite più come tali e dovete tornare a farlo, tutto il mondo vi guarda». Se notate sono iniezioni di quel senso dello Stato che i gangli dell’establishment hanno disperso, inquinato, ammorbidito in Italia introducendosi nelle facoltà universitarie, nei Tg, nei salotti buoni, nelle istituzioni, nelle scuole, e questo al ben noto scopo di abbattere ogni resistenza delle nazioni al predominio selvaggio della finanza (niente di più, niente di meno).Anche lo stesso uso di terminologie anglosassoni ha lo scopo di infonderci un senso di inferiorità (“siamo colpevoli, siamo corrotti”) e molti, quando votano, lo fanno in base proprio a questo senso di sudditanza: peccato che il debito estero, per fare un esempio, prima dell’euro in Italia (praticamente) non esistesse… A tal proposito, sappiamo tutti Mani Pulite a cosa sia servita: a portarci dentro la moneta unica allo scopo di alimentare un sistema di svendita costante del paese; ogni volta che qualcuno enfatizza la lotta alla corruzione in realtà ha come scopo svendere i nostri assets pigiando sul tasto “siamo colpevoli”: il malessere non lo si combatte ma si alimenta facendo credere che il problema sono i vitalizi che pesano 70 milioni (quanto il cartellino di Alex Sandro della Juve) quando sono attive leggine volute dall’establishment finanziario internazionale che pesano per decine di miliardi di euro l’anno. Non si rende un buon servizio al paese nemmeno prendendo di mira l’ultima ruota del carro bancario/finanziario, e cioè le banche italiane (allo scopo di isolarle per anticiparne la svendita all’estero). Queste banche sono state portate al collasso dalla recessione.La crisi è stata causata da quegli stessi soggetti internazionali che adesso pretendono (con l’appoggio dichiarato di Di Maio e Fioramonti) la riscossione forzata delle sofferenze bancarie (crediti). La causa delle sofferenze bancarie però non è l’avidità di qualche banchiere di Arezzo sicuramente da arrestare, ma il fatto che i cittadini non depositano, ma anzi prelevano, danaro dalle banche non arrivando alla fine del mese; se non onorano mutui e prestiti è perché hanno perso il lavoro o chiuso l’attività. Questo paese non è nelle peste per i ladri (studi empirici mostrati ad esempio da Bagnai dimostrano che pesino alla voce debito per un 5-10%) bensì per i venduti (vecchi e nuovi) che hanno accettato condizioni insostenibili per l’Italia forti del senso di autocommiserazione e della credulità popolare. Tornando a Steve Bannon quindi, egli commette due errori: essendo un uomo concreto ben distante dalle retoriche radical chic, funzionali ai poteri finanziari, utilizza il termine “populismo” come “politica nell’interesse del popolo” in contrapposizione a quella “nell’interesse della finanza internazionale”. In realtà questo da lui indicato non è “populismo”; il populismo infatti è ben altro, e cioè l’utilizzo della comunicazione per dirigere le masse verso finalità spesso oligarchiche.Ha citato come forze “populiste” Lega e 5 Stelle, e questo è il secondo errore. E’ vero che la popolazione italiana votando Lega e 5S abbia mandato un segnale inequivocabile, ancor più che nel 2013, contro l’establishment (pur in larga parte non rendendosi conto del profondo e inscindibile legame tra euro e lo stesso) ma se la Lega rappresenta il “populismo buono”, cioè quello definito da Bannon, i 5 Stelle, un po’ come il colesterolo, rappresentano l’altro populismo, quello “cattivo”, cioè una grande operazione di canalizzazione della protesta (che infatti, secondo me, verrà premiata da Mattarella con l’incarico). Mi riferisco al populismo come comunicazione finalizzata a dirigere le masse per finalità oligarchiche: per legittimare l’ennesima forzatura di un capo dello Stato contro la democrazia creando un governo 5S-Pd, le Tv stanno manipolando (in chiave establishment) la percezione del risultato elettorale, ignorando che il centrodestra (37% e oltre) è compatto nell’indicazione di Matteo Salvini come premier e cercando di inculcare che le elezioni le abbiano vinte i 5 Stelle, che invece stanno dietro a debita distanza. Se ciò avverrà, se l’incarico sarà dato a Di Maio per governare col Pd, i 5 Stelle utilizzeranno sempre il marketing per ingannare una base a cui è già stato fatto passare di tutto sopra la testa (vedasi discorso inerente i ruoli sociali dei gruppi) senza il minimo disordine: uno di questi stratagemmi sarà mostrare che Renzi non c’è più, ma la sostanza sarà il tradimento di un voto democratico che pretende che l’establishment internazionale (da cui Bannon ci mette in guardia) diventi opposizione.(Marco Giannini, “Bannon, il risveglio dell’Italia e l’astuto marketing 5 Stelle”, da “Libreidee” del 7 marzo 2018. Autore di saggi in materia economica, Giannini è stato vicino al Movimento 5 Stelle fino alla svolta ultra-europeista dei grillini al Parlamento Europeo).Steve Bannon è un genio e lo ha dimostrato anche in Italia in una recente intervista non appena sbarcato. Bannon ha spiegato come le dinamiche di disinformazione di cui l’Italia è intrisa, tra cui la retorica su razzismo, su fascismo e comunismo (nel 2018), sul populismo, sul femminismo, eccetera, siano un fenomeno conosciuto e digerito in Usa, e denuncia come esse rappresentino le stesse con cui Trump ebbe a che fare in campagna elettorale prima della sua vittoria. La perfezione non esiste, ma non c’è dubbio che in Italia siano rari uomini di valore come questo americano, probabilmente soffocati dall’“eccesso dell’apparenza”, dalla melassa radical chic. In questo paese (e forse non solo) l’umanesimo, nato dall’Illuminismo, anziché stimolare l’approfondimento e la conoscenza è stato declassato in una funzione di ottundimento delle menti; il pericolo che ravvedo è che a capo di questo paese, oggi o domani, si piazzi una qualche oligarchia che costruisca (nell’immagine) in modo impeccabile politici incompetenti e li sfrutti in cambio di ingenti quantità di danaro erogate da soggetti esteri, in una sorta di “esternalità di mercato”.
-
Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
-
Foa: il 55% degli italiani ha rottamato i media pro-inciucio
Tanti sconfitti, da Renzi a Berlusconi, e due vincitori – Di Maio e Salvini – condannati però a non poter governare insieme: alleanza che «nuocerebbe a entrambi e verrebbe osteggiata dal Quirinale e da Bruxelles, ovvero dalle istituzioni a cui guarda il leader del Movimento 5 Stelle», scrive Marcello Foa, secondo cui è «molto più verosimile» un maxi-ammucchiata “obbligatoria”, data la legge elettorale, che metta insieme i 5 Stelle ed Emma Bonino, quel che resta di “Liberi e Uguali” e anche «un Pd guidato da un nuovo segretario», dopo la rottamazione definitiva di Renzi, “asfaltato” dagli italiani il 4 marzo. Ma in attesa che Mattarella provi a mettere insieme un puzzle di governo, da un Parlamento in cui non emerge nessun vincitore assoluto (nessuna forza o coalizione con i numeri per governare da sola), Foa legge nel voto una data storica, per tre ragioni: il trionfo dell’ondata “populista” data per morta, la sconfitta bruciante dei media mainstream che volevano l’inciucio Renzi-Berlusconi e l’incoronazione di Salvini come leader autorevole del nuovo centrodestra post-berlusconiano. Un dato su tutti? Il “no” dell’elettorato al sistema uscente: 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia rappresentano il 55% dei votanti, la maggioranza assoluta.«L’establishment si era illuso che con la vittoria di Macron, la cosiddetta onda “populista”, alzatasi in occasione della Brexit e della vittoria di Trump avesse esaurito la sua forza propulsiva», scrive Foa. «Il simultaneo successo del Movimento 5 Stelle e della Lega dimostra che non è così, per una ragione molto semplice: quando il malcontento sociale è profondo e duraturo, non basta un po’ di cosmesi per controllare l’elettorato». Risultato politico e aritmetico: «La maggioranza degli italiani ha votato contro le forze che hanno governato fino ad oggi l’Italia», vale a dire «contro i Monti, i Letta, i Renzi, i Gentiloni, ma anche contro Berlusconi», che (a quasi 82 anni) si era illuso di poter sedurre ancora l’elettorato, come ai tempi in cui la grande crisi non aveva ancora esasperato gli italiani. «Non è un voto di protesta», sottolinea Foa: «E’ sulla carta, una maggioranza schiacciante». E gli unici a non “vederla” sono stati proprio i professionisti dell’informazione, «che hanno abdicato ancora una volta al proprio ruolo di cani da guardia della democrazia, prestandosi invece a manovre strumentali a sostegno dell’establishment».Durante tutta la campagna elettorale, scrive Foa, le grandi testate «si sono prodigate da un lato ad alimentare lo spettro di un inesistente rigurgito fascista, dall’altro a screditare il Movimento 5 Stelle, soffiando sul fuoco dello scandalo dei rimborsi», badando anche «a oscurare l’incredibile seguito popolare di Matteo Salvini, che per due mesi ha riempito le piazze senza che i media lo dicessero». Media che invece «si sono scoperti improvvisamente e incredibilmente filoberlusconiani, perché il Cavaliere era indispensabile per realizzare il progetto di una “Grosse Koalition” tra Pd e Forza Italia». Il disegno era: fuoco sui 5 Stelle, oscurare Salvini, esaltare Berlusconi. «Poi, quando il declino di Renzi è parso evidente, hanno giocato la carta Bonino, sostenuta da ingenti quanto oscuri finanziamenti, peraltro tardivamente». Tutto inutile: «I media mainstream sono i grandi sconfitti, al pari di Forza Italia e del Pd». Motivo del loro fallimento: «Non c’è propaganda che tenga, quando il malessere è davvero profondo».Tanti sconfitti, da Renzi a Berlusconi, e due vincitori – Di Maio e Salvini – condannati però a non poter governare insieme: alleanza che «nuocerebbe a entrambi e verrebbe osteggiata dal Quirinale e da Bruxelles, ovvero dalle istituzioni a cui guarda il leader del Movimento 5 Stelle», scrive Marcello Foa, secondo cui è «molto più verosimile» un maxi-ammucchiata “obbligatoria”, data la legge elettorale, che metta insieme i 5 Stelle ed Emma Bonino, quel che resta di “Liberi e Uguali” e anche «un Pd guidato da un nuovo segretario», dopo la rottamazione definitiva di Renzi, “asfaltato” dagli italiani il 4 marzo. Ma in attesa che Mattarella provi a mettere insieme un puzzle di governo, da un Parlamento in cui non emerge nessun vincitore assoluto (nessuna forza o coalizione con i numeri per governare da sola), Foa legge nel voto una data storica, per tre ragioni: il trionfo dell’ondata “populista” data per morta, la sconfitta bruciante dei media mainstream che volevano l’inciucio Renzi-Berlusconi e l’incoronazione di Salvini come leader autorevole del nuovo centrodestra post-berlusconiano. Un dato su tutti? Il “no” dell’elettorato al sistema uscente: 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia rappresentano il 55% dei votanti, la maggioranza assoluta.