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La Troika mollerà Renzi, ormai gli italiani credono a Salvini
La sera di martedì 28 aprile, tornato a casa dall’ufficio e costatato che il nipotino se ne stava tranquillo, già addormentato fra le braccia di suo padre (mio figlio, che teneva il bambino perché mia nuora era al lavoro), ho fatto una cosa che raramente oso fare, un po’ per “snobbismo” e molto di più per disgusto: ho guardato quasi per intero un talk-show alla tv. Cosa c’è di martedì? “Di Martedì” su La7, appunto, del pessimo ma astuto Giovanni Floris, un ex della Rai a suo tempo soprannominato “il vespino della sinistra”. Ciò che è accaduto nel mondo virtuale di Floris – parte integrante dello spettacolo sistemico – mi ha fatto riflettere, portandomi a trarre conclusioni piuttosto inquietanti. Voglio condividere, di seguito, le mie riflessioni con i lettori di “Pauperclass”, che so essere pochi ma buoni. Mi sono visto il confronto fra Salvini, in collegamento esterno da Strasburgo, e una giornalista radical chic di “Repubblica” (principale rotolo di carta igienica della sinistra euroserva, buonista e pro-troika), tale insignificante Annalisa Cuzzocrea, presente in studio. La querelle era sugli immigrati clandestini che stanno arrivando a frotte nel nostro paese.L’attacco a Matteo Salvini da parte di Cuzzocrea, per la verità scontato e piuttosto prevedibile, verteva proprio su questo tema. Il segretario leghista ha distinto, come fa ultimamente con un po’ di retorica, fra gli immigrati regolari, che lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola, eccetera, e quelli clandestini che rappresentano un problema, per i populisti ma soprattutto per il popolo. Cuzzocrea, non trovando di meglio, ha obbiettato che anche i regolari possono essere entrati come clandestini, prima di regolarizzarsi con difficoltà. Matteo Salvini si è smarcato abilmente, in perfetta linea con quello che è il “sentiment” popolare di questi tempi, vincendo il confronto (almeno a mio dire) davanti agli occhi della cosiddetta opinione pubblica. Forse un po’ banale, vagamente propagandistico, ma sicuramente efficace: «Possiamo ospitare qualche altro milione di clandestini, in attesa che si regolarizzino e trovino un lavoro che non hanno neanche gli italiani? Vada a spiegarlo, signora, agli immigrati che sono qua regolarmente con i documenti a posto che stanno perdendo il lavoro, che non sanno come tirare a fine mese… Vada a spiegare a loro che l’Italia può ospitare altre migliaia … non so quante, decine, centinaia di migliaia – non so quante, mi dica lei un numero – di immigrati senza nessun tipo di titolo».E’ intervenuto Floris, a quel punto, forse in soccorso alla debole Cuzzocrea dagli argomenti scontati, cianciando qualcosa a riguardo di quelli che fanno lavorare in nero i clandestini, subito rintuzzato da un Salvini in forma, che non si è lasciato confondere o attirare in tranelli. Del resto, un altro giornalista che ha fatto domande al segretario leghista era Sergio Rizzo del “Corsera”, che però non sembrava intenzionato a mettere troppo in difficoltà Matteo Salvini, il quale ha fatto nel complesso una buona figura. All’inizio dell’intervista, Giovanni Floris dialogando con Salvini non ha “calcato troppo la mano”, lasciando il Matteo anti-Matteo piuttosto libero di dire la sua e anzi concludendo che Salvini «ha fatto una sorta di indice dei temi che tratteremo» (nel lungo talk-show). Bene Salvini, dunque, ma poi? Per farla breve, perché non voglio commentare tutto il lungo talk-show, le veline piddiote di Renzi, Alessandra Moretti, candidata alle regionali in Veneto, e Alessia Rotta della segreteria piddì (mi scappa una battuta, dato il cognome, ma mi trattengo per ragioni di stile), sono state letteralmente contraddette, sbugiardate e persino massacrate dai giornalisti presenti, come Mario Giordano direttore del Tg4 che ha “curato” particolarmente la Moretti, e da altri ospiti, come ad esempio l’agguerrito sindaco forzaitaliota di Ascoli Piceno, Guido Castelli, che stigmatizzava i drammatici tagli (renziano-piddini) alla spesa degli enti locali, o Massimiliano Fedriga capogruppo leghista alla Camera, che non mancava di assestare i suoi colpetti.In particolare Alessia Rotta è stata ben maciullata da uno scatenato Andrea Scanzi, del “Fatto Quotidiano”, che l’ha persino definita una dei “droidi televisivi” di Renzi, senza che il furbo e controllato Floris s’inquietasse più di tanto. Tutti, o quasi, contro la Moretti e la Rotta, questa ultima anello più che debole della catena renziana, soprattutto davanti a un “professionista della polemica” come Andrea Scanzi. Tanto più che Scanzi, di certo non favorevole alla Lega, ha detto che quelli di sinistra potrebbero riconoscersi nelle parole di Salvini, che ha accennato a problemi reali come quello degli esodati e della “legge Fornero”, della pressione fiscale insostenibile, degli studi di settore, eccetera. Massimiliano Fedriga, leghista, dichiarava di apprezzare le uscite di Scanzi, e Mario Giordano, in collegamento esterno, si inseriva per tirare qualche mazzata anche lui. Ebbene, mi sono chiesto perché mai uno come Floris, apparatchik massmediatico al servizio del potere, ha graziato il “cattivo” Salvini, che nel complesso ne è uscito bene, e ha permesso che dei professionisti del talk-show, molto agguerriti come Scanzi e Giordano, assieme ad altri soggetti più o meno ostili alle veline renziane, facessero a fettine i “droidi televisivi” di Renzi (secondo l’indovinata espressione del giornalista del “Fatto Quotidiano”).Intuendo che uno come Floris difficilmente rischierebbe la sua brillante e remunerativa carriera se non avesse ricevuto qualche input dall’alto, posso concludere che l’aria, forse, sta cambiando e il futuro ci riserverà qualche sorpresa. Anzitutto, ci sono sondaggi segreti – non diffusi mediaticamente, ma a uso e consumo delle sub-élite italiane – che avvertono di un vero e proprio collasso nei consensi per Renzi e per il piddì? E’ possibile che sia così e ciò non potrebbe essere ignorato dai manovratori sopranazionali e dai loro collaborazionisti locali, che dovrebbero correre ai ripari. Non è che in questi sondaggi segreti, molto più aderenti alla realtà di quelli a uso e consumo della neoplebe, Salvini stia crescendo più di quello che mediaticamente i sondaggisti ammettono? Anche questo è possibile, nonostante oggi si sbandieri – sempre a “beneficio” del popolo bue – una certa ripresa di consensi per l’esausto Grillo. Cosa ancor più importante, c’è un’incertezza che riguarda la sorte della martoriata Grecia. Nonostante Tsipras abbia abbassato la testa davanti alla troika (come avevo previsto), da bravo mentitore sinistroide addirittura sostituendo il fido Varoufakis, la Grecia potrebbe riservare nuove sorprese e innescare una violenta crisi in Europa.La crisi colpirebbe inevitabilmente, con brutali impennate dello spread e degli interessi sul debito, anche la sottomessa Italia. E le menzogne renziano-piddine non avrebbero più l’effetto imbonitore, sul volgo, che oggi osserviamo. Si diffonderebbe la paura, mista a un senso di totale impotenza politica che caratterizza i nostri anni, e il famigerato governo-troika commissariale, con la presenza di “tecnici”, stranieri e commissari europei potrebbe diventare, in poche settimane, una realtà. Con o senza il passaggio delle elezioni politiche. Si sta avvicinando per Renzi – parliamo più ragionevolmente di mesi che di settimane – il momento di lasciare il governo, anticipatamente rispetto al 2018? Forse. Potrebbe essere “in cantiere”, per decisione degli occupatori dell’Italia, il passaggio dai governi-Quisling (gli ultimi tre) al governo-troika terminale. I segnali più potenti saranno quasi sicuramente, da un punto di vista economico-finanziario, l’innalzamento repentino dello spread con il bund (non necessariamente e non soltanto “per colpa” della Grecia), che potrà arrivare a quattro volte il livello attuale, e pesanti attacchi speculativi internazionali, accompagnati da una campagna terroristica dei media per impaurire la popolazione e farle accettare, senza reagire, il governo-troika deciso nelle capitali che contano.Un mio interlocutore, tale Maurizio, ha ipotizzato che i signori della finanza che manovrano Renzi e il piddì potrebbero seguire una strada ancor più tortuosa e subdola, per chiudere definitivamente nella morsa l’Italia. L’Italicum dovrebbe essere approvato in breve, a colpi di fiducia, senza nuovi passaggi al Senato per modifiche indesiderate nel testo; ma anche questo non è certo, nonostante la viltà e la malafede delle “opposizioni” interne al piddì e visto il voto segreto. Comunque sia, niente è irreversibile e l’Italicum emana un forte tanfo d’incostituzionalità, cosa che potrebbe fargli fare la fine del Porcellum (ma più rapidamente), nonostante lo straordinario “allineamento astrale” di tutte le istituzioni sotto l’egida della troika. Il “percorso” potrebbe essere quello di permettere una vittoria elettorale – più che di Grillo, il quale ha già vinto senza ottenere risultati – dell’“astro nascente” dell’opposizione parlamentare a Renzi, cioè Matteo Salvini. Si tratterebbe, poi, di affondare il suo governo “populista” e “euroscettico” (e ovviamente il suo consenso) a colpi di spread e di speculazione finanziaria, imponendo a stretto giro di posta un governo-troika, con il paese scivolato nel panico e attraversato dalla paura, da commissariare definitivamente.Le ipotesi che ho presentato fin qui sembrano inverosimili? Non credo, perché le élite finanziarie che tirano i fili del piddì si sono mostrate prive di scrupoli in molte occasioni, e lo saranno anche nei confronti dell’Italia. Se Renzi dovrà lasciare la presidenza del Consiglio (e probabilmente la segreteria piddina) lo farà obbedendo agli ordini. Se Salvini dovrà essere utilizzato come “vittima sacrificale” per arrivare al governo-troika commissariale, non avrà modo di evitarlo, e così Grillo con il cinque stelle, nel caso in cui i maggiori consensi dovessero riversarsi su di lui e non sul segretario leghista. Oppure, in modo meno indiretto, se ci dovesse essere un brutto Grexit, Renzi potrebbe essere costretto a mollare la poltrona a causa dello spread alle stelle (ironia della sorte, lo stesso pretesto usato contro Berlusconi) e l’occasione sarebbe ghiotta per imporre all’Italia un governo di commissari della troika.(Eugenio Orso, “Dal governo Renzi al governo troika’”, da “Pauperclass” del 30 aprile 2015).La sera di martedì 28 aprile, tornato a casa dall’ufficio e costatato che il nipotino se ne stava tranquillo, già addormentato fra le braccia di suo padre (mio figlio, che teneva il bambino perché mia nuora era al lavoro), ho fatto una cosa che raramente oso fare, un po’ per “snobbismo” e molto di più per disgusto: ho guardato quasi per intero un talk-show alla tv. Cosa c’è di martedì? “Di Martedì” su La7, appunto, del pessimo ma astuto Giovanni Floris, un ex della Rai a suo tempo soprannominato “il vespino della sinistra”. Ciò che è accaduto nel mondo virtuale di Floris – parte integrante dello spettacolo sistemico – mi ha fatto riflettere, portandomi a trarre conclusioni piuttosto inquietanti. Voglio condividere, di seguito, le mie riflessioni con i lettori di “Pauperclass”, che so essere pochi ma buoni. Mi sono visto il confronto fra Salvini, in collegamento esterno da Strasburgo, e una giornalista radical chic di “Repubblica” (principale rotolo di carta igienica della sinistra euroserva, buonista e pro-troika), tale insignificante Annalisa Cuzzocrea, presente in studio. La querelle era sugli immigrati clandestini che stanno arrivando a frotte nel nostro paese.
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Partiti fantasma, a pezzi, per una democrazia senza popolo
Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere. Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.Lo iato tra livello nazionale e “periferia” non potrebbe essere più vistoso, dal Veneto alla Puglia. Ma rischia di suggerire una contrapposizione tra due fenomeni in realtà speculari. L’esplosione dei legami dentro e tra i partiti non è soltanto la certificazione del fallimento di un’idea di federalismo. Riflette anche le scissioni sociali che sono avvenute in questi anni in un’Italia affacciata sul vuoto dell’azione politica. Sono la versione minore e moltiplicata delle migrazioni parlamentari registrate in questi anni alle Camere: indizi di un malessere ormai cronico. Le spaccature e le riaggregazioni locali nel centrodestra, nella Lega, perfino nel Pd, imitano alla perfezione i conflitti alla Camera e al Senato. Replicano “cambi di casacca” che non sono solo frutti dell’opportunismo: rivelano un trasversalismo privo di nobiltà, e alimentato da identità debolissime e stralunate. Il cemento è il micro-interesse, e tanti micro-narcisismi collettivi che rendono difficile qualunque aggregazione forte e duratura.La domanda è se e chi riuscirà a ricompattare questo magma centrifugo. In apparenza, il modello verticale di Matteo Renzi lo sta facendo. Ma la distanza tra il premier o il capo della Lega, Matteo Salvini, o Beppe Grillo, i tre oggi in auge, e il caotico agitarsi di anonimi candidati regionali, non esalta solo la loro capacità di leadership. Finisce anche per sottolineare i loro limiti: quasi l’impossibilità, oltre che l’incapacità, di trasformare dall’alto una realtà prosaicamente mediocre e fuori controllo. La politica nazionale inspira a pieni polmoni i miasmi locali anche perché non appare in grado di trasmettere messaggi forti di rinnovamento come quelli che si sforza di offrire all’Europa. Il risultato è che a vincere sembra sia la “periferia” non governata, immutabile e misteriosa nei suoi gangli più oscuri: quelli che solo la magistratura finora tende a portare alla luce, delegittimando partiti che arrivano sempre dopo; e che mostrano riflessi difensivi automatici, lasciando ai giudici una supplenza di fatto che assume contorni ambigui e mostra limiti oggettivi, seguendo logiche non politiche. Sono fenomeni che corrodono quotidianamente la credibilità degli eletti, e si proiettano sulle scelte nazionali.Vedremo come si evolverà la campagna elettorale. Ma il turbinìo di liste, unioni e rotture trasmette una pessima impressione. Il crollo della partecipazione a livello locale che si è registrato negli ultimi anni non è un segno di modernità “all’americana”: anche per la rapidità con la quale sta avvenendo, suona come la risposta patologica ad una rappresentanza inadeguata e malata. Se si dovesse confermare a maggio, significherebbe un rifiuto di metodi e di formazioni non disinvolti ma, appunto, ormai percepiti come “impazziti”. Sarebbe una sconfitta che nessuna riforma elettorale, né la prevalenza di uno schieramento sull’altro, potrebbero attenuare o nascondere. Il guaio maggiore, tuttavia, non sarebbe il fallimento di una politica locale che per paradosso oggi fornisce tanti governanti, premier compreso; né la scissione di alcuni partiti, ridotti a gusci di identità irriconoscibili. Il rischio vero è quello della scissione tra l’elettorato e chi non è in grado di offrirgli una scelta degna di questo nome. Sarebbe la premessa di una pericolosa democrazia con sempre meno popolo.(Massimo Franco, “Piccole miserie locali”, dal “Corriere della Sera” del 15 aprile 2015).Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere. Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.
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La Warren contro l’élite? Il mainstream la fa già a pezzi
Ricordate quel fortunato motivetto che concludeva un famoso spot pubblicitario con la frase “dove c’è Barilla, c’è casa”? Mi è tornato in mente ragionando sugli eventi che stanno scuotendo la Turchia, regno di Recep Tayyip Erdoğan, già affiliato presso la famigerata Ur-Lodge Hathor Pentalpha di George H. W. Bush e Dick Cheney. Allo stesso modo, sulla scia della strage francese riguardante l’eccidio dei giornalisti in forza al giornale satirico “Charlie Hebdo”, è tornato guarda caso prepotentemente sulla scena politica transalpina il marito di Bruni Carlà, ovvero Nicolas Sarkozy, anch’egli affiliato al pari di Erdoğan all’interno della già menzionata superloggia “del sangue e della vendetta”. L’esempio fornito dagli attentati compiuti l’11 settembre del 2001, voluti e pianificati da membri apicali della loggia fondata da Bush padre, ha fatto scuola, incoraggiando evidentemente le gesta di molti emulatori e tardi epigoni. Quindi, parafrasando la frasetta ricordata in apertura di articolo, verrebbe voglia di canticchiare adesso a reti unificate“dove c’è Hathor, c’è strage”.Lo schema, già applicato con successo anche in Italia negli anni in cui imperava la P2 (filiale della ben più potente loggia “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller), è sempre uguale: problema-reazione-soluzione. E se il problema non c’è, qualcuno dovrà pur sobbarcarsi l’ingrato compito di crearne uno alla bisogna, non vi pare? Da quando Jeb Bush, fratello dell’ex presidente George W. Bush, ha annunciato la sua discesa in campo in vista delle presidenziali americane del 2016 il mondo è diventato d’incanto un luogo meno sicuro. Ci penserà poi Jeb, una volta arrivato malauguratamente al potere, a rimettere le cose a posto “a modo suo”. Problema-reazione-soluzione. Quale politico democratico sfiderà il prossimo anno l’uomo della Hathor Pentalpha per contendergli la conquista della Casa Bianca? I giornali di regime, quelli che fomentano perlopiù il terrorismo economico (“oddio lo spread!”), tifano chiaramente per Hillary Clinton, moglie di Bill, ex presidente rimasto famoso per via della nota passione per il “blowjob” e la “deregulation finanziaria”.L’impoverimento del ceto medio e la conseguente crisi che attanaglia il modello di vita occidentale è diretta conseguenza delle scellerate scelte di indirizzo politico volute negli anni ’90 proprio dal consorte di Hillary, così miope da archiviare lo Steagall Act di rooseveltiana memoria e ridurre la politica ad ancella e serva di poteri ingordi, antidemocratici e plutocratici. La Clinton, non particolarmente carismatica nonché facilmente bollabile come mera emanazione degli interessi degli speculatori di Wall Street, avrebbe a mio avviso poche probabilità di sconfiggere nelle urne il candidato del partito repubblicano, favorito in partenza dal clima di disillusione e dal desiderio di discontinuità lasciato in eredità dal mediocre Barack Obama. Altra cosa è Elizabeth Warren, vero astro nascente della politica statunitense in grado di riaccendere l’entusiasmo popolare e condurre il partito democratico verso una vittoria altrimenti problematica.La Warren piace a molti, tranne naturalmente agli squali apolidi che usano ovunque lo spauracchio dei “mercati” per aumentare le disuguaglianze e schiavizzare i ceti deboli. Commentiamo ora insieme un pezzo vergato da Maria Laura Rodotà sul “Corriere della Sera”, organo semi-ufficiale dell’ O.U.O. (oligarchia universale organizzata, ndm). Già dalla lettura del solo incipit si coglie il desiderio di mistificare in capo alla giornalista esperta in problemi di cuore: «Elizabeth Warren fa sognare i repubblicani ed innervosisce i banchieri». E perché mai la Warren, in testa a tutte le classifiche di gradimento, dovrebbe far sognare gli avversari? La spiegazione, particolarmente risibile, la Rodotà la fornisce dopo poche inutili righe: «E’ la candidata presidenziale a sorpresa che i repubblicani vorrebbero: facile da accusare di bolscevismo, utile per attrarre ancora più finanziamenti elettorali da banchieri e grandi imprenditori». Ovvio, no? «Venerdì scorso», continua Rodotà trattenendo a stento l’entusiasmo, «rappresentanti di Goldman Sachs, Citigroup, Jp Morgan e Bank of America si sono riuniti per discutere su come ammorbidire Warren»La nostra giornalista-fashion omette purtroppo di indicare le possibili soluzioni individuate sul finire di simile sobrio e nobile simposio. Resta quindi sospeso il dubbio: cosa possono fare i banchieri per “ammorbidire Warren”? Possono forse farla cadere in una vasca riempita con detersivo Coccolino per poi simulare un incidente domestico? O sono addirittura solleticati dall’idea di riproporre strategie già viste ai tempi di J.F. Kennedy e Martin Luther King? Maria Laura, lei che dice? Le sembra normale che alcuni gruppi di pressione dicano chiaramente di voler “ammorbidire” un rappresentante del popolo non particolarmente gradito? La sovranità, che fa rima con Rodotà, appartiene ancora ai cittadini, o è stata già di fatto trasferita nelle mani di banchieri armati di provvidenziale “ammorbidente”? Rodotà si rassegni: il voto per censo non esiste più da un pezzo.(Francesco Maria Toscano, “Dove c’è Hathor Pentalpha, c’è strage. Chi fermerà la corsa di Jeb Bush alla Casa Bianca?”, dal blog “Il Moralista” del 1° aprile 2015. Toscano è segretario del Movimento Roosevelt, co-fondato con Gioele Magaldi).Ricordate quel fortunato motivetto che concludeva un famoso spot pubblicitario con la frase “dove c’è Barilla, c’è casa”? Mi è tornato in mente ragionando sugli eventi che stanno scuotendo la Turchia, regno di Recep Tayyip Erdoğan, già affiliato presso la famigerata Ur-Lodge Hathor Pentalpha di George H. W. Bush e Dick Cheney. Allo stesso modo, sulla scia della strage francese riguardante l’eccidio dei giornalisti in forza al giornale satirico “Charlie Hebdo”, è tornato guarda caso prepotentemente sulla scena politica transalpina il marito di Bruni Carlà, ovvero Nicolas Sarkozy, anch’egli affiliato al pari di Erdoğan all’interno della già menzionata superloggia “del sangue e della vendetta”. L’esempio fornito dagli attentati compiuti l’11 settembre del 2001, voluti e pianificati da membri apicali della loggia fondata da Bush padre, ha fatto scuola, incoraggiando evidentemente le gesta di molti emulatori e tardi epigoni. Quindi, parafrasando la frasetta ricordata in apertura di articolo, verrebbe voglia di canticchiare adesso a reti unificate“dove c’è Hathor, c’è strage”.
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Lettera a un partito mai nato: abbandoniamo questo Pd
Siamo un gruppo di iscritti e fondatori del Pd, abbiamo partecipato con entusiasmo e impegno alla nascita del Pd nel 2007 cercando in questi anni ripetutamente, nelle varie sedi istituzionali e di partito, di orientare le scelte del partito verso la tutela dell’ambiente, lo sviluppo sostenibile, la tutela del lavoro e delle regole della concorrenza, una sanità trasparente ed efficiente, il rispetto della legalità, la questione morale, la certezza del diritto ed il rispetto dei valori costituzionali dettati dai nostri padri fondatori. In occasione dell’ultimo congresso nazionale abbiamo sostenuto la candidatura di Pippo Civati. Nel corso degli anni ci siamo imbattuti costantemente in una resistenza dell’apparato politico del partito, impermeabile a qualsiasi critica e cambiamento. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un’ulteriore involuzione del Partito democratico, ridotto ormai ad un vero e proprio comitato elettorale che ha volutamente dimenticato le radici “uliviste” che avevano contribuito in modo determinante alla sua nascita.Le regole statutarie vengono spesso eluse ed il metodo di selezione della classe dirigente è ormai delegato al segretario di turno. Non ci sono “cambiamenti di verso” e meno che mai ci sono state le famose rottamazioni. Le leggi delega votate dal Parlamento sono diventate vere e proprie cambiali in bianco nelle mani dell’esecutivo e le slides di slogan come nuova fonte del diritto. Gran parte della vecchia classe dirigente è passata con armi e bagagli sul “carro renziano”, trovando ampi spazi politici. Al contrario, ogni forma di dissenso sulle scelte governative viene vista con fastidio, impedendo, di fatto, un serio e costruttivo confronto negli organismi di partito ed istituzionali competenti. Da dicembre ad oggi abbiamo assistito attoniti ed increduli alla approvazione, a colpi di fiducia, della legge di stabilità, del decreto “sblocca Italia”, del “Jobs Act” e della riforma costituzionale. Tutti atti che non porteranno nessun vantaggio concreto ai cittadini o lo snellimento della macchina burocratico-amministrativa. Al contrario, il risultato sarà un minor controllo degli elettori nei confronti dell’operato del governo.Non abbiamo voluto partecipare, per protesta, alle primarie per la scelta del segretario comunale di Livorno, perché avevamo capito che non esistevano più le condizioni minime di rappresentanza politica. Il risultato finale ha dimostrato per l’ennesima volta l’inamovibilità del sistema fondato su puri tatticismi di potere. I cittadini livornesi hanno manifestato ampiamente il loro dissenso nei confronti di questo partito democratico, alle scorse amministrative e in queste ultime primarie, stante la scarsissima affluenza al voto. Riteniamo dunque non più eludibile dare un segnale di forte discontinuità con questo sistema, che non ci appartiene, dimettendoci da tutti gli organismi in cui siamo stati eletti in occasione dell’ultimo congresso territoriale. Pertanto, in coerenza con quanto scritto sopra, non rinnoveremo l’iscrizione al Pd. Riteniamo infatti più costruttivo confrontarci con i cittadini sui temi amministrativi che caratterizzano il nostro territorio, non essendo mai stati politici di professione e meno che mai dipendenti direttamente o indirettamente dalla politica. Con l’occasione salutiamo tutti i compagni ed amici che abbiamo conosciuto e con cui abbiamo lavorato in questi anni.(“Lettera a un partito mai nato”, da “Livorno Possibile” del 28 marzo 2015, lettera aperta e firmata da Antonio Ceccantini, Oriana Rossi, Marco Di Bisceglie, Alessandra Calcagno, Andrea Colli, Giuseppe Sansò, Elena Betti, Fabio Bernardini, Carlo Santucci, Ilaria Porciani).Siamo un gruppo di iscritti e fondatori del Pd, abbiamo partecipato con entusiasmo e impegno alla nascita del Pd nel 2007 cercando in questi anni ripetutamente, nelle varie sedi istituzionali e di partito, di orientare le scelte del partito verso la tutela dell’ambiente, lo sviluppo sostenibile, la tutela del lavoro e delle regole della concorrenza, una sanità trasparente ed efficiente, il rispetto della legalità, la questione morale, la certezza del diritto ed il rispetto dei valori costituzionali dettati dai nostri padri fondatori. In occasione dell’ultimo congresso nazionale abbiamo sostenuto la candidatura di Pippo Civati. Nel corso degli anni ci siamo imbattuti costantemente in una resistenza dell’apparato politico del partito, impermeabile a qualsiasi critica e cambiamento. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un’ulteriore involuzione del Partito democratico, ridotto ormai ad un vero e proprio comitato elettorale che ha volutamente dimenticato le radici “uliviste” che avevano contribuito in modo determinante alla sua nascita.
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Mosler: milioni di posti di lavoro, alzando il deficit all’8%
Se l’Unione Europea dovesse permettere all’Italia di aumentare il deficit pubblico all’8% in rapporto al Pil, oppure se l’Italia lasciasse l’euro, ritornasse alla lira ed effettuasse in autonomia un aumento del deficit pubblico all’8%, allora il settore privato ritornerebbe immediatamente alla prosperità. I fatturati aumenterebbero e gli imprenditori avrebbero bisogno di assumere gente. A quel punto il problema consisterebbe nel fatto che a nessuno piace assumere persone che siano state disoccupate da troppo tempo e per questo motivo è assolutamente essenziale fornire un’attività di transizione ai disoccupati – i quali sono per definizione ovviamente parte del settore pubblico, visto che se sei disoccupato di sicuro non fai parte del settore privato – al fine di effettuare una transizione dalla disoccupazione all’occupazione attraverso un programma lavorativo ideato a tale scopo e tenendo inoltre conto che in una simile situazione anche il settore privato mostrerebbe un atteggiamento di maggiore disponibilità nell’assumere persone. Sicché, il modo per far questo è che il settore pubblico offra un’attività lavorativa di transizione con un pagamento, ossia uno stipendio, che sia solo leggermente al di sotto (cioè quasi in linea) con il salario minimo del settore privato.Per mantenere facili i calcoli, poniamo che tale stipendio sia di 10 euro l’ora (o di 10 lire l’ora, nel caso di ritorno alla lira con conversione iniziale di un euro per una lira). A tutti coloro che siano disponibili e abbiano voglia di lavorare viene così offerta un’attività lavorativa finanziata dal settore pubblico e pagata 10 euro (o 10 lire) l’ora. Pertanto ciò che si verificherà è che chi era in precedenza disoccupato, e accetterà un lavoro di transizione, potrà così essere identificato e assunto dal settore privato effettuando quindi proprio quella transizione da disoccupazione a occupazione nel settore privato di cui parlavo poc’anzi. In altre parole stiamo praticamente riplasmando quella che è la situazione del cosiddetto “serbatoio”, o “riserva-cuscinetto”, contiguo al mercato del lavoro che Karl Marx chiamava “esercito industriale di riserva”, ossia una moltitudine di disoccupati che potrebbe essere impiegata nel settore privato ma che il settore privato tende a non voler assumere.Permettere volontariamente l’accesso a un programma lavorativo di transizione a tutti coloro che siano disponibili e abbiano voglia di lavorare rende estremamente più semplice, per il settore privato, l’assunzione di persone, in quanto diviene sufficiente pagarle di più, ad esempio 12 euro l’ora, onde traghettarle via dai programmi lavorativi di transizione e inserirle in un settore privato di nuovo economicamente in espansione. Questo è stato provato negli ultimi venti anni in varie parti del mondo, ottenendo in maniera sistematica esclusivamente successi. E per tale motivo si può affermare che siffatta soluzione si sia dimostrata efficace oltre ogni ragionevole dubbio. In sintesi, primo: il limite sul deficit va innalzato dal 3 all’8%; secondo: fornire a chiunque sia disponibile e abbia voglia di lavorare l’accesso a un programma lavorativo di transizione, finanziato dal settore pubblico, onde aiutare la transizione dalla disoccupazione all’occupazione nel settore privato.Ciò che ho proposto per gli Stati Uniti d’America potrebbe essere valido anche per l’Italia, ossia: dare la possibilità alle amministrazioni locali e regionali – o statali, come le chiamiamo noi negli Stati Uniti – di assumere, in un programma lavorativo di transizione finanziato dal governo centrale, le persone a questo minimo salariale orario di 10 euro (o 10 lire). A condizione che gli stipendi non superino tale minimo salariale, si deve porre le amministrazioni nelle condizioni di poter assumere il numero più alto possibile di persone per questi lavori di transizione. Non sono previsti trattamenti particolari e non ci si deve aspettare un aumento di stipendio, visto che si dovrebbe trattare di una occupazione di transizione senza una permanenza di lunga durata, al massimo uno o due anni, in quanto sarà in futuro il settore privato ad attingere da tale serbatoio le risorse umane, semplicemente pagandole di più. In questo modo le persone sarebbero appunto in grado di trovare un posto di lavoro vicino a casa. Una volta fatto questo, qualora vi fossero ancora persone alla ricerca di una occupazione, vi è la possibilità di coinvolgere anche determinate associazioni senza scopo di lucro. Negli Stati Uniti vi sono organizzazione non-profit (così come ve ne sono in Italia) nelle quali è possibile fare attività di volontariato, ad esempio la Croce Rossa. Si potrebbe quindi far sì che tali organizzazioni siano parte attiva di un programma lavorativo di transizione.Che si parli di pubblica amministrazione a livello locale oppure nazionale, ci deve essere uno sforzo di collaborazione e partecipazione che investa l’intera società. Si tratta di quell’impegno cooperativo su cui la nostra società si fonda, e pertanto è necessario incentivare maggiormente la collaborazione e la partecipazione delle persone in maniera che si accresca la loro conoscenza e consapevolezza dei temi di interesse generale e delle posizioni espresse da ciascun candidato politico e che possano essere poste nelle condizioni migliori per prendere delle decisioni con cognizione di causa. Si tratta di un processo in evoluzione, in quanto gli Stati sono necessari, altrimenti ritorneremmo in una società come ad esempio quella somala, dove non esiste un organismo centrale delegato a mantenere l’ordine e che permetta alla gente di rendersi produttiva senza aver paura di subire atti di violenza. Lo Stato serve a organizzare le forze di pubblica sicurezza e di difesa, i trasporti e l’istruzione. Pensiamo anche alla sanità pubblica, ad esempio. Questi servizi sono necessari, non si può farne a meno.Ritengo che il meglio che si possa fare è cercare di agire in modo da essere più partecipativi in tutti i processi organizzativi e in tutti gli ambiti della gestione della cosa pubblica affinché con l’assennatezza e attraverso l’implementazione di incentivi a tutti i livelli sia possibile ottenere che il buon senso e l’interesse generale divengano le forze alla guida del settore pubblico. Mi rendo ben conto che non sia un obiettivo facile da conseguire. È un traguardo che non solo è difficile da raggiungere al giorno d’oggi bensì è da millenni che si rivela essere un’impresa ardua, quindi probabilmente dovremo persistere a combattere per migliorare la situazione ancora per lungo tempo. Quando si capisce che il deficit pubblico è il risparmio privato, ad esempio, non si torna indietro: a questo serve l’informazione diffusa dagli attivisti della Mmt, Modern Money Theory. Questo deve servire a valutare ogni candidato a incarichi di pubblica responsabilità. Sulla base di queste nuove informazioni, potremo capire quali siano – e quali non siano – i candidati che sono i più adatti a plasmare la società in cui noi avremmo piacere di vivere. E quindi sostenere i candidati che siano in grado di organizzare il settore pubblico al meglio, nella maniera in cui noi vorremmo.(Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a Francesco Chini per l’intervista “Progresso sociale e prosperità per tutti”, pubblicata da “Bottega Partigiana” il 13 febbraio 2015).Se l’Unione Europea dovesse permettere all’Italia di aumentare il deficit pubblico all’8% in rapporto al Pil, oppure se l’Italia lasciasse l’euro, ritornasse alla lira ed effettuasse in autonomia un aumento del deficit pubblico all’8%, allora il settore privato ritornerebbe immediatamente alla prosperità. I fatturati aumenterebbero e gli imprenditori avrebbero bisogno di assumere gente. A quel punto il problema consisterebbe nel fatto che a nessuno piace assumere persone che siano state disoccupate da troppo tempo e per questo motivo è assolutamente essenziale fornire un’attività di transizione ai disoccupati – i quali sono per definizione ovviamente parte del settore pubblico, visto che se sei disoccupato di sicuro non fai parte del settore privato – al fine di effettuare una transizione dalla disoccupazione all’occupazione attraverso un programma lavorativo ideato a tale scopo e tenendo inoltre conto che in una simile situazione anche il settore privato mostrerebbe un atteggiamento di maggiore disponibilità nell’assumere persone. Sicché, il modo per far questo è che il settore pubblico offra un’attività lavorativa di transizione con un pagamento, ossia uno stipendio, che sia solo leggermente al di sotto (cioè quasi in linea) con il salario minimo del settore privato.
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Comprereste un’auto usata da quest’uomo? Sì, purtroppo
Su Facebook sta furoreggiando un video di Matteo Renzi, colto in palese contraddizione sulle pensioni d’oro dalla trasmissione “Presa Diretta”, che ha trasmesso un’intervista rilasciata a Bruno Vespa un anno e mezzo fa quando Renzi era in corsa per la leadership del Partito democratico e poi, sempre a Vespa, qualche tempo fa, nelle vesti di premier. La contraddizione è palese: il Renzi del dicembre 2013 cavalca l’onda dell’antipolitica e proclama la necessità di tagliare senza pietà le pensioni sopra i 3.500 euro netti. Il Renzi premier, nemmeno un anno dopo, nel settembre 2014, afferma esattamente il contrario, ovvero che pensioni oltre i 2.800 euro non sono d’oro e non vanno assolutamente tagliate. Cambia anche l’entità della manovra. Prima Renzi assicurava che tagliando le pensioni d’oro si potevano risparmiare addirittura dai 4 ai 12 miliardi di euro, poi il beneficio per le casse pubbliche si riduce ad appena 100 milioni di euro.Renzi è stato giustamente massacrato dal popolo di Internet. Sono fioriti gruppi su Facebook che grondano indignazione per quella che viene considerata una presa per i fondelli. Ma a interessarmi non è tanto la sua giravolta, che può sorprendere solo chi ancora non ha capito la natura del personaggio e la sua inconsistenza politica, quanto le sue tecniche di comunicazione. Ascoltatelo bene. Renzi parte sempre evocando un luogo comune, un sentore comune, scandendo bene le parole, come se stesse parlando al bar. Conquistato l’assenso implicito dell’ascoltatore, lancia il suo proclama presentandolo sempre come la cosa più ovvia del mondo, o meglio la cosa giusta da fare per chi – ovviamente come lui – persegue il bene del paese. E lasciando intendere che lui è di quella idea da sempre. Renzi è un parlatore innato ma ha evidentemente affinato la propria oratoria con tecniche di persuasione tipiche degli spin doctor. Sa che la gente ha la memoria cortissima e che da sempre, anche in Italia, si lascia incantare da chi parla bene; anzi da chi la vende bene. La bufala, ben inteso.In America a lungo i candidati presidenziali per screditare i propri rivali hanno chiesto agli elettori: comprereste un’auto usata da quest’uomo? Aggiorno lo slogan. E voi, di Renzi? E’ superfluo che indichi la mia risposta. Ma gli italiani? Se non fosse stato per il servizio di Riccardo Iacona e della sua squadra, il clamoroso dietrofront di Renzi sarebbe passato inosservato. In realtà è passato comunque inosservato, perché gli altri media non hanno ripreso il servizio di “Presa Diretta”, che ha avuto eco solo su Facebook, raggiungendo alcune centinaia di migliaia di persone. Troppo poco per cambiare il percepito degli elettori. E allora la risposa è: sì, gli italiani ancora gli credono. E continueranno fino a quando non scopriranno che l’auto comprata con tanto entusiasmo da quel simpatico venditore toscano che assomiglia a Mister Bean e fa le smorfie mentre parla, li avrà lasciati a piedi. Ma a quel punto sarà troppo tardi per recriminare. E il danno ormai compiuto.(Marcello Foa, “Tagli pensioni d’oro: Renzi rinnega Renzi, ma gli italiani se ne accorgono?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 27 febbraio 2015).Su Facebook sta furoreggiando un video di Matteo Renzi, colto in palese contraddizione sulle pensioni d’oro dalla trasmissione “Presa Diretta”, che ha trasmesso un’intervista rilasciata a Bruno Vespa un anno e mezzo fa quando Renzi era in corsa per la leadership del Partito democratico e poi, sempre a Vespa, qualche tempo fa, nelle vesti di premier. La contraddizione è palese: il Renzi del dicembre 2013 cavalca l’onda dell’antipolitica e proclama la necessità di tagliare senza pietà le pensioni sopra i 3.500 euro netti. Il Renzi premier, nemmeno un anno dopo, nel settembre 2014, afferma esattamente il contrario, ovvero che pensioni oltre i 2.800 euro non sono d’oro e non vanno assolutamente tagliate. Cambia anche l’entità della manovra. Prima Renzi assicurava che tagliando le pensioni d’oro si potevano risparmiare addirittura dai 4 ai 12 miliardi di euro, poi il beneficio per le casse pubbliche si riduce ad appena 100 milioni di euro.
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Wall Street Journal: le armi della Cia ai tagliagole dell’Isis
Già nel 2012 osservatori indipendenti come Thierry Meyssan l’avevano annunciato: centinaia di jihadisti provenienti dalla Libia erano stati segretamente trasferiti in Siria, attraverso la Turchia, per dare il via all’operazione degli Usa contro il governo Assad, travestita da “rivoluzione democratica”. Ora la partita è persa, ammesso che la Russia – assediata al confine con l’Ucraina – riesca a mantenere la sua assistenza alla Siria. Punto di svolta, la strage di civili del 2013 sterminati dai “ribelli” col gas nervino per tentare di incolpare il governo di Damasco. Il casus belli perfetto per inennescare i bombardamenti della Nato, fermati in extremis nel settembre del 2013 da un’inedita alleanza: i milziani libanesi di Hezbollah e le truppe speciali inviate dall’Iran in Siria, il “no” di Papa Francesco e quello del Parlamento britannico, le navi da guerra dislocate dalla Cina nel Mediterraneo in appoggio alla flotta del Mar Nero schierata da Putin a protezione dei siriani. Adesso che l’operazione è fallita, lo ammette anche il “Wall Street Journal”: sono stati gli Usa ad armare i “ribelli” che, vista la mala parata in Siria, ora combattono in Iraq sotto il nome di Isis.
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La scheda bianca di Silvio e il colpo di spugna che arriverà
Il “Patto Mattarella” svela il piatto forte del Patto del Nazareno: Berlusconi non ha voluto votare l’uomo del Colle per poter poi rivendicare il diritto di nomina dei due giudici costituzionali mancanti. Obiettivo: utilizzare la Consulta per neutralizzare la retroattività della legge Severino che esclude i condannati, e quindi ridiventare eleggibile e tornare in Parlamento. Lo sostiene Olinda Moro, rileggendo le tappe fondamentali della “resistenza” del Cavaliere contro la magistratura e il recente accordo sotterraneo con Renzi, fino alla scelta di «un nome secco, quello di Mattarella, votato da tutti e non concordato con nessuno, neanche con il proprio partito». Salendo al Quirinale, Mattarella lascia libera la poltrona di giudice costituzionale. Se fino a ieri alla Corte mancava un magistrato, ora i nuovi giudici da eleggere sono dunque due, entrambi di nomina parlamentare. Già così, la Consulta potrebbe non essere anti-Cavaliere, grazie ai giudici nominati da Napolitano. Se poi fosse proprio Berlusconi a proporre i due nomi mancanti, per la legge Severino i giorni potrebbero essere contati. Ecco dunque il “Patto Mattarella”?Berlusconi ha ripetutamente denunciato la “dittatura dei giudici” nel paese che governava, ricorda Olinda Moro su “Megachip”. Nel 2011 arrivò a lamentarsi con Obama di «una dittatura dei giudici di sinistra». E due anni prima aveva spiegato alla Merkel che «la sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito dei giudici», perché la Corte Costituzionale «ha 11 componenti su 15 che appartengono alla sinistra». Di questi, «cinque sono di sinistra in quanto di nomina del presidente della Repubblica: e noi abbiamo avuto purtroppo tre presidenti della Repubblica consecutivi tutti di sinistra». Oggi la Corte deve decidere sulla retroattività della legge Severino che, come noto, a seguito della condanna definitiva per frode fiscale, ha determinato la sua decadenza dal Senato e la sua incandidabilità per sei anni. Cinque giudici sono nominati dal presidente della Repubblica, cinque sono eletti dai magistrati di ciascuna delle tre magistrature superiori e cinque sono eletti dal Parlamento in seduta comune, cioè dalle due Camere riunite. Vale la maggioranza dei due terzi nei primi tre scrutini e poi dei tre quinti (circa 570 parlamentari su 950) dal quarto scrutinio in poi.Ogni giudice è nominato per nove anni. La lunga durata del mandato (originariamente 12 anni) è superiore a quella di ogni altro mandato elettivo, proprio per assicurare l’indipendenza dei giudici anche dagli organi che li designano. La stessa Corte, sul proprio sito, chiarisce che «i cinque giudici nominati dal Capo dello Stato sono scelti normalmente in funzione di integrazione o di equilibrio rispetto alle scelte effettuate dal Parlamento, in modo tale che la Corte Costituzionale sia lo specchio il più possibile fedele del pluralismo politico, giuridico e culturale del paese». E’ chiaro, aggiunge Olinda Moro, che una forte inclinazione del bilanciamento e dell’equilibrio costituzionale l’ha determinata l’anomala rielezione di Napolitano, confermato peraltro da un Parlamento con un premio di maggioranza dichiarato anticostituzionale dalla Corte medesima. E Napolitano si è dimesso «solo dopo avere esercitato in fretta e furia il suo potere di nomina (novembre 2014) di ulteriori due giudici (Nicolò Zanon e Daria De Pretis)», dopo aver già nominato nel 2013 Giuliano Amato, in aggiunta agli altri due nomi indicati nel primo settennato (Paolo Grossi e Marta Cartabia).«Insomma, alla faccia dell’equilibrio costituzionale e del bilanciamento delle garanzie – scrive la Moro – oggi abbiamo una Corte Costituzionale con cinque giudici eletti da un solo uomo, ovvero dal medesimo presidente della Repubblica». Questo strapotere esercitato sulla Consulta potrebbe avere i connotati di incostituzionalità, aggiunge l’analista. «Certamente è un chiaro cortocircuito costituzionale, su cui il Parlamento non ha avuto il coraggio di indagare e risolvere: sarà solo un caso che sul sito della Presidenza della Repubblica sono riportati solo i primi tre nominati?». Inoltre, due giudici nominati da Napolitano (Zanon e Amato) hanno già espresso pubblicamente dubbi sulla costituzionalità della legge Severino e in particolare riguardo al caso di Berlusconi, il che fa sorgere perplessità anche sulle altre nomine fatte da Napolitano in seno alla Consulta: «Dopo questo “regio” capolavoro abbiamo quindi 14 giudici, di cui 5 nominati dal medesimo presidente Napolitano e di cui, almeno l’altro giorno, 4 eletti dal Parlamento: Mattarella e Sciarra (in quota centrosinistra), Napolitano e Frigo (in quota centrodestra)». La Corte decide in modo collegiale, ma se non trova un accordo delibera a maggioranza. «Oggi i giudici sono in 13, di cui 5 nominati da Napolitano e 2 di area centrodestra. Attualmente la maggioranza per accogliere una decisione è di 7».A questo punto, continua Olinda Moro, «potrebbe essere utile ma forse neanche necessaria la nomina dei 2 giudici mancanti». E laddove sia necessaria, «è evidente che la rivendicazione a scegliere i giudici mancanti da parte di chi, almeno ufficialmente, si è tirato fuori dall’elezione del presidente della Repubblica sarà la prova provata del vero Patto del Nazareno». Se cioè la Corte dovesse dichiarare l’incostituzionalità della legge Severino nella parte in cui prevede la decadenza dalla carica di parlamentare e l’incandidabilità di 6 anni per coloro che abbiano avuto condanne definitive superiori ai due anni e per fatti antecedenti all’entrata in vigore della legge, «allora Berlusconi rientrerebbe in Senato in pompa magna e potrebbe ricandidarsi liberamente». Quando fu stanata la “manina” che cercava di cancellare il reato di evasione e di frode per importi non superiori al 3% dell’imponibile, «un colpo di spugna finalizzato non solo a dare agibilità politica ma a garantire la partecipazione nella compagine societarie a Berlusconi e tanti altri», Renzi ripeteva che non avrebbe «mai modificato la legge Severino», nonostante la “manina” fosse diretta a cancellare un reato di frode e di evasione fiscale e non a modificare la legge. «Excusatio non petita, accusatio manifesta: si sentiva stanato su altre manovre?».Il “Patto Mattarella” svela il piatto forte del Patto del Nazareno: Berlusconi non ha voluto votare l’uomo del Colle per poter poi rivendicare il diritto di nomina dei due giudici costituzionali mancanti. Obiettivo: utilizzare la Consulta per neutralizzare la retroattività della legge Severino che esclude i condannati, e quindi ridiventare eleggibile e tornare in Parlamento. Lo sostiene Olinda Moro, rileggendo le tappe fondamentali della “resistenza” del Cavaliere contro la magistratura e il recente accordo sotterraneo con Renzi, fino alla scelta di «un nome secco, quello di Mattarella, votato da tutti e non concordato con nessuno, neanche con il proprio partito». Salendo al Quirinale, Mattarella lascia libera la poltrona di giudice costituzionale. Se fino a ieri alla Corte mancava un magistrato, ora i nuovi giudici da eleggere sono dunque due, entrambi di nomina parlamentare. Già così, la Consulta potrebbe non essere anti-Cavaliere, grazie ai giudici nominati da Napolitano. Se poi fosse proprio Berlusconi a proporre i due nomi mancanti, per la legge Severino i giorni potrebbero essere contati. Ecco dunque il “Patto Mattarella”?
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Non c’è speranza, l’Italia applaude i suoi macellai golpisti
Lo scenario italiano attuale ha due poli emergenti: da un lato abbiamo una situazione economica strutturalmente grave, con tendenze sfavorevoli, non sostenibile soprattutto in quanto a disoccupazione e pensioni; dall’altro lato abbiamo il combinato della riforma costituzionale ed elettorale detta Italicum. Un combinato che concentra tutti i poteri – legislativo, esecutivo e di controllo, cioè di garanzia – nelle mani del segretario del partito di maggioranza relativa. Questi, prendendo anche solo in teoria il 25% dei suffragi, si aggiudica il controllo delle camere, del governo, delle commissioni anche di garanzia, della nomina del presidente della Repubblica, di giudici costituzionali e di componenti del Csm. In più, quale segretario del partito, forma le liste elettorali del suo partito, cioè decide chi si candida e con quali chances. Quindi i parlamentari eletti hanno un vincolo di mandato, ma non nei confronti degli elettori, bensì del segretario del partito. Una vera mostruosità giuridico-costituzionale, senza pari nel mondo ritenuto civile.Un ritorno massiccio e deciso a prima della separazione dei poteri statuali, cioè a un modello di Stato di tipo assolutistico, cioè a oltre due secoli fa. Aggiungiamo che la riforma elettorale non solo dà il premio di maggioranza al partito che prende anche solo il 25% dei suffragi, ma anche, per effetto dell’attribuzione del premio di maggioranza non a una coalizione bensì al singolo partito, risulta congegnata per far sì che ci sia un partito fisso di maggioranza, cioè un partito-Stato – il Partito Democratico (e come altro potrebbe chiamarsi?) – più alcuni piccoli partiti in funzione di alleati mobili e clientelari del partito di maggioranza, più ancora un partito medio-grosso di opposizione perenne. Insomma, in previsione di una situazione economica e sociale sempre peggiore e tale da generare forti tensioni e forse rotture sociali, viene costituito, con la massima precedenza, un apparato statuale autocratico e bloccato, per garantire alla buro-partitocrazia parassitaria e criminale le sue rendite, le sue poltrone, le sue impunità anche nel disastro nazionale; e insieme per garantire il dominio sul paese ai grandi interessi finanziari stranieri, con la possibilità di completare l’estrazione o l’acquisizione degli asset nazionali e dei mercati nazionali ancora appetibili attraverso il controllo del suo governo e del suo capo di Stato.Per fare queste importanti riforme, e per eleggere un adeguato Capo di Stato che funga da raccordo tra la casta nazionale e i superiori potentati europei e americani, cioè un presidente di garanzia per il suddetto assetto, niente di meglio dell’attuale Parlamento di nominati, illegittimo perché eletto con legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Aiuta anche la “condizionabilità” giudiziaria, e non solo giudiziaria, del leader del primo o secondo partito di “opposizione”: nove o dieci milioni di voti controllati o neutralizzati così. La precisa e chiarissima scelta di concentrare i poteri di legislazione, governo e controllo in un’unica persona, toglie ogni dubbio sul progetto dittatoriale: non esiste in Europa, neanche in Russia, qualcosa di simile. Neanche il fascismo la realizzò. La passività e la ignavia via con cui la popolazione italiana accetta tutto ciò, l’assenza di obiezioni e anzi l’incoraggiamento da parte dell’Europa verso tale mostruosità giuridica, confermano che il destino dell’Italia è già stato deciso, che non vi è spazio per un’alternativa, e che quindi l’unica via razionale, per chi può, è l’emigrazione.Impossibile è giustificare le riforme suddette dicendo che sono indispensabili per assicurare la governance e l’efficacia della politica: come ho spiegato in precedenti articoli, questo obiettivo si può raggiungere con un sistema bicamerale differenziato: una Camera della governabilità, eletta con sistema maggioritario e premio di maggioranza, la quale vota i governi e le leggi, e una Camera della rappresentanza e delle garanzie, eletta con metodo proporzionale e senza soglie, la quale elegge gli organi di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, commissioni di sorveglianza) e vota le leggi costituzionali nonché quelle elettorali e concernenti la cittadinanza. Quindi la giustificazione suddetta, in nome della governabilità, è falsa. Ma lo è anche perché la politica nazionale ha ben poco da decidere, essendo guidata da vincoli e dettami esterni, rispetto ai quali ha una funzione perlopiù esecutiva. La realtà è che, in Italia e in altri paesi deboli e arretrati, il capitalismo finanziario globale sta instaurando regimi autoritari al fine di usarli per imporre, rapidamente e senza possibilità di opposizione, leggi e riforme strumentali ai suoi interessi e al suo potere, come il famigerato Ttip, oggi in gestazione.(Marco Della Luna, “Disastro e dittatura”, dal blog di Della Luna del 15 gennaio 2015).Lo scenario italiano attuale ha due poli emergenti: da un lato abbiamo una situazione economica strutturalmente grave, con tendenze sfavorevoli, non sostenibile soprattutto in quanto a disoccupazione e pensioni; dall’altro lato abbiamo il combinato della riforma costituzionale ed elettorale detta Italicum. Un combinato che concentra tutti i poteri – legislativo, esecutivo e di controllo, cioè di garanzia – nelle mani del segretario del partito di maggioranza relativa. Questi, prendendo anche solo in teoria il 25% dei suffragi, si aggiudica il controllo delle camere, del governo, delle commissioni anche di garanzia, della nomina del presidente della Repubblica, di giudici costituzionali e di componenti del Csm. In più, quale segretario del partito, forma le liste elettorali del suo partito, cioè decide chi si candida e con quali chances. Quindi i parlamentari eletti hanno un vincolo di mandato, ma non nei confronti degli elettori, bensì del segretario del partito. Una vera mostruosità giuridico-costituzionale, senza pari nel mondo ritenuto civile.
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Ida Magli: governati da servi ignoranti che ci disprezzano
C’è un’indifferenza a qualsiasi fatto che possa far ripensare a quello che hanno progettato. Sento citare di nuovo Romano Prodi come candidato alla presidenza della Repubblica: il responsabile del nostro ingresso nella moneta unica. Oggi, con l’euro, siamo tutti più poveri. Ci arrabattiamo. L’Europa unita? Era un progetto sbagliato. L’Europa è giunta a essere quella che è per la storia delle varie nazioni che la compongono, che è storia di civiltà, di arte, di lingua. C’è un itinerario di identità dei singoli popoli e non si può sommare l’Italia con la Francia, l’Inghilterra con il Belgio. Ogni popolo la propria letteratura, la propria arte, la propria lingua. E che facciamo? Buttiamo Goethe? Perché Goethe non è europeo, è tedesco! Scrive in tedesco! Il punto è che non esisteva un’idea di Europa. Ho fatto tante ricerche ma non ho mai trovato il delinearsi di un popolo europeo. Fin dalle origini. Nemmeno nell’Impero Romano che era lo stesso a Parigi, a Londra, a Francoforte come a Roma, c’era questa idea. Semmai, appunto, potrebbe essere l’Italia a rivendicare qualcosa in questo senso. È che siamo governati da gente che ci disprezza e che è veramente fuori dalla storia.Unificare è stato un errore. Non era possibile farlo se non perdendo tutte le ricchezze europee. Quale lingua parleremo negli Stati Uniti d’Europa? Nella testa dei politici sarà l’inglese, cioè l’americano. E allora perderemo la ricchezza delle letterature nelle varie lingue del Vecchio continente, da Voltaire a Cervantes, da Kafka a Pirandello. Si pensa di poter fare l’unità così. Così come si è pensato di fare lo stesso con la moneta unica, dimenticando che la moneta è lo strumento di un popolo e non la si può imporre fuori dall’economia dei singoli Stati. Lo dicevo da antropologa ma l’hanno detto anche molti economisti. L’obiezione è che questo processo lo hanno fatto gli americani, certo con meno storia sulle spalle? Gli americani non avevano storia letteralmente, erano tutti immigrati e gli indigeni sono stati annientati quasi subito. Annientati con la violenza di chi conquista. E poi avevano un territorio immenso. Ho spesso detto che quello dell’unificazione è un progetto massonico. E ora c’è un libro di un massone, Gioele Magaldi, che lo conferma (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, Chiarelettere). L’ho letto e riletto.E’ anche un’operazione intrigante. La tesi è la seguente: la massoniera ha vinto, tutti i suoi progetti sono stati realizzati, ora esca allo scoperto e lavori con trasparenza. Secondo quel libro, tutti sarebbero massoni. Certo fa dei nomi: Romano Prodi, Enrico Letta, Mario Monti. Che non hanno neppure sentito il bisogno di replicare. Si saranno messi d’accordo per non reagire in alcun modo. Comunque, prescindendo da questo, noto che Prodi torna in un momento in cui lo si dava per politicamente finito. E Matteo Renzi è al servizio della Commissione. Le sue riforme, come ammette Pier Carlo Padoan, sono dettate dai commissari. Un esempio, tratto dalla Legge di Stabilità: la depenalizzazione di alcuni reati. Il reato di omissione di soccorso in Congo non c’è. La coscienza individuale sta anche in un codice. Avere valori significa avere un codice. Depenalizzare i piccoli furti che opprimono le persone, rubare la borsetta dove ci sono gli affetti più cari sarebbe un limpida conquista? Se la giustizia è intasata, che si aumenti il numero dei magistrati. Depenalizzare, amnistiare non è una giustificazione delle civiltà ma mancanza dello Stato. Si vuole l’imbarbarimento degli italiani, dei belgi, degli inglesi.Uno Stato non ha l’obbligo di essere umanitario. Deve difendere i cittadini, il territorio, l’indipendenza. Sono convinta che gli Italiani siano all’ultima fase. Perché nessuno li difende. Silvio Berlusconi vuol salvare se stesso e s’è messo a praticare le larghe intese, che sono la fine della democrazia. Ha portato alla fine del suo partito, benché all’interno di Forza Italia ci fosse chi lo metteva sull’avviso. Beppe Grillo? All’inizio ci contavo, e invece… si barcamena pure lui: oggi dice una cosa, domani un’altra. Ecco, su di lui mi sono sbagliata. La selezione fatta sul web: errore clamoroso, mettendo insieme gente che non sa quello che fa, trapiantati dal nulla si trovano serviti e riveriti, con stipendi incredibili. Matteo Salvini? Forse ha delle idee, forse. Ma ha anche una presunzione tale che ralizzarle sarà difficile. Qui non si sono fatte le elezioni e, come ha dimostrato la Consulta, sono tutti illegittimi, compreso Giorgio Napolitano, che è stato eletto da quel Parlamento. E invece di preoccuparsi di legittimare, hanno tutti approfittato dello sgangheramento delle democrazia per cambiare la Costituzione a quattro mani.La riforma del Senato e del Titolo V: è fatta da un governo ignorante, nel senso che nessuno dei ministri di Renzi ha una competenze specifica per quello che è chiamato a fare. I politici di una volta venivano fuori dalle scuole della Dc e del Pci, facevano anni di commissioni interne e di governi ombra. Ora abbiamo un ministro della sanità, Beatrice Lorenzin, che non è laureata: è umiliante per medici, ricercatori, biologi. Renzi è una persona furba, non intelligente. Che butta lì ogni tanto delle battute, un po’ sbruffone. E dicono che è il suo stile. Ma nessun capo di Stato fa cose simili. Per stare nel mondo di Bruxelles devi essere stupido, nel senso di essere obbediente alla lettera. Il progetto europeo punta a tenere al guinzaglio la Germania e quei paesi che sono il serbatoio della civiltà. Anche Renzi finge di essere indipendente. E non c’è nessun complotto, è tutto alla luce del sole.(Ida Magli, dichiarazioni rilasciate a Goffredo Pistelli per l’intervista “L’Europa è un continente inventato”, pubblicata da “Italia Oggi” il 27 dicembre 2014).C’è un’indifferenza a qualsiasi fatto che possa far ripensare a quello che hanno progettato. Sento citare di nuovo Romano Prodi come candidato alla presidenza della Repubblica: il responsabile del nostro ingresso nella moneta unica. Oggi, con l’euro, siamo tutti più poveri. Ci arrabattiamo. L’Europa unita? Era un progetto sbagliato. L’Europa è giunta a essere quella che è per la storia delle varie nazioni che la compongono, che è storia di civiltà, di arte, di lingua. C’è un itinerario di identità dei singoli popoli e non si può sommare l’Italia con la Francia, l’Inghilterra con il Belgio. Ogni popolo la propria letteratura, la propria arte, la propria lingua. E che facciamo? Buttiamo Goethe? Perché Goethe non è europeo, è tedesco! Scrive in tedesco! Il punto è che non esisteva un’idea di Europa. Ho fatto tante ricerche ma non ho mai trovato il delinearsi di un popolo europeo. Fin dalle origini. Nemmeno nell’Impero Romano che era lo stesso a Parigi, a Londra, a Francoforte come a Roma, c’era questa idea. Semmai, appunto, potrebbe essere l’Italia a rivendicare qualcosa in questo senso. È che siamo governati da gente che ci disprezza e che è veramente fuori dalla storia.
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Praticamente mezzo paese, un noir sull’Italia che affonda
L’assassino non è il maggiordomo, è il sindaco. O il braccio destro dell’ex vicesindaco. O la moglie, l’amante, l’ex prostituta, la figlia che non studia e non lavora. L’assassino è il figliolo trascurato, il becchino mezzo matto, il barista di uno qualsiasi dei 41 bar che affollano il centro storico. La lista dei sospettati è sterminata. “Praticamente mezzo paese”, per dirla con Elisa Bevilacqua, che – al suo libro d’esordio – tratteggia una provincia italiana molto riconoscibile, a tratti opulenta, sfigurata dal cemento ma non ancora dalla crisi, nella perdurante illusione che il futuro possa dipendere davvero da un piano regolatore, dai favori elargiti in modo clientelare, da una licenza frettolosamente accordata a una inquinante “fabbrica” di polli in batteria. C’è anche il morto, naturalmente. Agiato, mediamente colto e politicamente moderato, piccolo campione di una middle class piemontese periferica e residuale, quella che convive da anni coi “marziani” NoTav della valle di Susa senza ancora aver capito veramente chi sono, per cosa lottano, in nome di quale universo civile tentano di battersi, con l’anima offesa di chi si sente tradito nella sua semplice vocazione di cittadino.Di altri analoghi tradimenti racconta “Praticamente mezzo paese”, che in 160 pagine dipana una trama avvolgente, senza cadute di ritmo, che attorno all’indagine strapaesana sulla tragica dipartita dell’ex vicesindaco, ucciso alla vigilia delle elezioni, mette in scena la strana alleanza tra un solitario capitano dei carabinieri, laconico per indole e per ufficio, e una giovane giornalista precaria e chiacchierona, in possesso del vasto background sul malaffare che regna nella cittadina, così prezioso per illuminare il terreno di caccia in tempo utile. Si tenta infatti di risolvere il caso in extremis, prima del voto, per restituire al rito elettorale il suo sacro potere democratico, quello del microcosmo che si autogoverna scegliendo direttamente i propri rappresentanti. E qui la narrazione si inoltra in una galleria di piccoli orrori tristemente casalinghi, fatta di lusinghe e minacce, ritorsioni, prebende e tangenti, nel grigio orizzonte dell’assalto edilizio che ha ridotto il verde territorio prealpino a un labirinto di villette a schiera “color giallo Paperopoli”, arricchendo una casta di privilegiati quasi mai in regola con la legge.Se ne accorge ben presto il capitano, che cerca un assassino e invece inciampa di continuo in nient’altro che piccoli predatori, occupati soltanto a mettere in salvo il proprio conto corrente e non l’ospedale, declassato per colpa di quella che ancora non si chiamava “spending review” ma già minava la sopravvivenza di una provincia fino a ieri prospera, e oggi presidiata quasi solo da palazzinari e baristi, senza trascurare le parrucchiere a cui le signore ricorrono per “essere in quadro” nei giorni di festa. Un Piemonte italianissimo e sfregiato da una modernità farlocca, dalla caricatura del marketing territoriale tenuto in piedi dalle ricette della nonna, mentre qualcuno uccide un candidato alle elezioni – non un eroe, un italiano normale – sulla cui morte si scatena l’ignobile speculazione dei concorrenti. Brutto spettacolo: ai veterani, con alle spalle anni di malversazioni alla corte del Feudatario, il “sindaco sempiterno”, si oppongono esordienti già accecati dall’ambizione e dalla presunzione.Il sistema è marcio, dice Elisa Bevilacqua, che provvede a irrigare di abbondante ironia il suo noir patriottico sullo stato delle cose, senza mai allontanarsi dalle procedure di un’indagine che mette a nudo la fragilità inconfessabile dietro alla quale si nasconde la normalità quotidiana dei discorsi ufficiali, quelli a cui tutti fingono ancora di credere, danzando su un Titanic in tricolore. Il sistema è marcio, quindi è debole: chiunque potrà farne un sol boccone. Ed è esattamente quello che sta accadendo, all’Italia tutta. Per fortuna, il poco che resta vale molto: l’affetto, i sentimenti, i legami familiari. La dedizione alla verità, che la giovane giornalista ha pagato di persona, anche con la perdita del posto di lavoro. E l’integrità di uomini silenziosi come l’ufficiale dei carabinieri. Si cercano, si trovano. In fondo, li accomuna la stessa nostalgia per un’Italia migliore: che entrambi hanno conosciuto, almeno per sentito dire.(Il libro: Elisa Bevilacqua, “Praticamente mezzo paese”, edizioni Graffio, 160 pagine, euro 13,50).L’assassino non è il maggiordomo, è il sindaco. O il braccio destro dell’ex vicesindaco. O la moglie, l’amante, l’ex prostituta, la figlia che non studia e non lavora. L’assassino è il figliolo trascurato, il becchino mezzo matto, il barista di uno qualsiasi dei 41 bar che affollano il centro storico. La lista dei sospettati è sterminata. “Praticamente mezzo paese”, per dirla con Elisa Bevilacqua, che – al suo giallo d’esordio – tratteggia una provincia italiana molto riconoscibile, a tratti opulenta, persino comica, sfigurata dal cemento ma non ancora dalla crisi, nella perdurante illusione che il futuro possa dipendere davvero da un piano regolatore, dai favori elargiti in modo clientelare, da una licenza frettolosamente accordata a una inquinante “fabbrica” di polli in batteria. C’è anche il morto, naturalmente. Agiato, mediamente colto e politicamente moderato, piccolo campione di una middle class piemontese periferica e residuale, come quella che convive da anni coi “marziani” NoTav della valle di Susa senza ancora aver capito veramente chi sono, per cosa lottano, in nome di quale universo civile tentano di battersi, con l’anima offesa di chi si sente tradito nella sua semplice vocazione di cittadino.
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Luttwak: ok Prodi al Quirinale, a un patto: rinneghi l’euro
Romano Prodi al Quririnale, con l’appoggio degli Usa? A una condizione su tutte: deve rinnegare l’orrore monetario rappresentato dall’euro, che sta decretando la fine del benessere in Europa. «Prodi è un economista provato e una persona onesta. E di onestà, nella politica italiana, non c’è un’offerta illimitata. Però lui dovrebbe dire: sono onesto e competente, ma ho fatto un grave errore: l’euro». Parola di Edward Luttwak, intervistato da “Italia Oggi”. «Traducendo liberamente dall’inglese-americano all’italiano», ad Aldo Giannuli suona così: “Prodi è stato un nostro nemico e un fautore di quella porcheria di moneta, però è uno dei pochi in Italia che capisca qualcosa di economia, per cui, se non si intestardisce a fare il filo-tedesco e a difendere l’euro, se ne può discutere”. Per orientarsi nella battaglia che sta per iniziare intorno al Quirinale, aggiunge Giannuli, occorre capire che c’è una novità rispetto al passato: questa volta il presidente della Repubblica, molto più che da Montecitorio e Palazzo Madama, scaturirà da telefonate tra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.Oggi, continua Giannuli sul suo blog, la globalizzazione impone dinamiche diverse: il Quirinale è diventato più interessante di Palazzo Chigi anche in ragione della stabilità settennale del primo e della precarietà del secondo. Al centro della crisi mondiale, la guerra valutaria in atto, in cui il dollaro non è più il signore incontrastato di un tempo: «Oggi il dollaro deve fare i conti con lo yuan renminbi cui è legato da un perverso intreccio: il secondo si tiene volutamente sotto-apprezzato per favorire le esportazioni, ma inizia ad essere accettato come moneta di scambio internazionale (come è accaduto da ultimo nel contratto sino-russo per il gas e da altre intese con paesi asiatici e latino-americani)». Cercare di destabilizzarlo, secondo Giannuli «sarebbe non solo difficile e poco utile, ma anche pericoloso, visto che, nella pancia della banca centrale cinese riposano tremila miliardi di dollari fra banconote e T-bond pronti ad essere riversati sul mercato, con gli effetti che è facile immaginare».D’altro canto, «anche ai cinesi non conviene tirare la corda più di tanto, perché, se il dollaro va a fondo, quei tre milioni di miliardi vanno in fumo, e poi si brucia il principale mercato di sbocco delle sue merci». Ai cinesi dà fastidio che gli americani emettano liquidità “facile”, con l’effetto di svalutare i loro stessi crediti, ma poi, alla fine, conviene acconciarsi in un equilibrio precario, che non esclude i colpi bassi, ma non può mai saltare del tutto. «Come terzo incomodo fra i due colossi c’è l’euro, una moneta sbagliata che non dovrebbe esistere e invece esiste», e rischia di rendere «molto più precario» l’equilibrio fra dollaro e yuan. «Non è un mistero che una parte degli americani vedrebbe volentieri sparire questa moneta», mentre altri temono che il crollo dell’euro potrebbe innescare un effetto domino. «Ma, sia che si voglia far fuori l’euro, sia che lo si voglia solo ridimensionare (come si fece con lo yen nel 1985), occorre metterci le mani su, e il modo migliore è controllarne il punto debole». Se la Germania è il punto forte, l’Italia è quello debole: la Grecia, il Portogallo e forse la Spagna «possono rappresentare malanni seri ma curabili», mentre l’Italia, «con il suoi 2.000 e passa miliardi di debito, rappresenta il vero rischio mortale: a un default italiano, l’euro non sopravvivrebbe».Senza più moneta sovrana, si sa, il debito pubblico – risorsa fondamentale e leva strategica per lo sviluppo dell’economia – diventa invece un problema. Non potendo più ricorrere alla libera emissione di valuta per sostenere la spesa pubblica, «la pressione fiscale indotta dal peso degli interessi condanna la nostra economia a lenta morte per asfissia», con il Pil condannato a scendere e quindi il debito destinato a crescere ancora in rapporto al Pil. Senza contare la scure finale dell’Ue, pareggio di bilancio e Fiscal Compact: «C’è chi pretende che troviamo altri 100 miliardi all’anno per rispettare il patto di stabilità che prevede il dimezzamento del debito entro un certo numero di anni: follie». L’Italia straziata dall’euro è diventata «un cadavere tenuto a galla con interventi-tampone»? Prima o poi, allora, «è di qui che occorrerà partire per rifare l’ordine monetario del continente». In questo quadro, continua Giannuli, Napolitano ha agito come sorta di garante-commissario, diventando il vero interlocutore a livello internazionale, mentre Berlusconi, Monti, Letta e Renzi si succedevano l’uno all’altro. «Si capisce che, per il sistema internazionale, un interlocutore stabile sia una esigenza di primaria importanza. Ed è importante che il presidente sia “la persona giusta”, capace di usare i “poteri silenti” previsti dalla Carta Costituzionale. Di qui le crescenti interferenze su una questione che, in altri tempi, sarebbe stata assai meno notata nell’agenda internazionale».Chi lo ha capito per primo, fra i candidati, è stato proprio Prodi, «che ha iniziato una complessa manovra avvolgente proprio sul piano internazionale, capendo che i voti necessari si possono raccogliere più facilmente fuori che in Italia». Dopo la visita di Prodi a Mosca, dall’amico Putin, «il Cavaliere ha esplicitamente lasciato cadere il veto su di lui dicendosi pronto a discuterne, mentre Minzolini e Rossella hanno esplicitamente invitato Berlusconi a far sua questa candidatura». Sicuramente, aggiunge Giannuli, «Prodi non ha problemi a farsi appoggiare da Berlino, di cui è stato sempre tanto amico. E anche da Francoforte non dovrebbe mancare la simpatia. In fondo, poi Prodi potrà sdebitarsi con Draghi assicurandogli l’appoggio italiano per la candidatura al Fmi». Il problema più serio? E’ il nulla osta a stelle e strisce. «Per quanto russi, tedeschi e Bce possano essere autorevoli, sarebbe dura spuntarla contro un veto americano». Inoltre, Prodi non è il candidato naturale di Renzi: il premier «capisce perfettamente che, con Prodi al Quirinale, la sua permanenza a Palazzo Chigi potrebbe durare meno di un mese».Renzi potrebbe tentare di convincere gli americani e «ostentare la più schietta ortodossia atlantica, pur di evitare che la “mortadella dal volto umano” si insedi sul Colle». Viceversa, se ci fosse una pressione congiunta dei russi, dei tedeschi e della Bce, «con un appoggio americano anche solo tiepido», alla fine Renzi sarebbe costretto ad accettarlo e magari a proporlo, «per evitare di subirlo apertamente». Ma gli americani che pensano di Prodi? «E’ sempre stato amico della Germania, da sette-otto anni lo è pure della Cina», in più «tresca con i russi ed è stato ostile alla guerra del Golfo». Con questi precedenti non dovrebbe avere speranza alcuna. «Ma, in politica, mai dire mai». Specie dopo le parole di un uomo come Luttwak, ben addentro all’establishment di Washington. Insomma, conclude Giannuli, «non è detto che dal Potomac debba necessariamente arrivare un “niet”», e d’altra parte gli americani non saprebbero che farsene di una Pinotti, di un Veltroni o di un Franceschini. Serve un candidato di caratura internazionale. Prodi saprà convincere i suoi vecchi antipatizzanti? Per Giannuli, «la partita è molto più aperta di quel che si pensi». Potrebbero spuntare Amato, D’Alema, Cassese, forse Gentiloni. Ma intanto «l’unica candidatura in pista a livello internazionale è quella di Prodi: per ora, è il solo nome che si fa».Romano Prodi al Quririnale, con l’appoggio degli Usa? A una condizione su tutte: deve rinnegare l’orrore monetario rappresentato dall’euro, che sta decretando la fine del benessere in Europa. «Prodi è un economista provato e una persona onesta. E di onestà, nella politica italiana, non c’è un’offerta illimitata. Però lui dovrebbe dire: sono onesto e competente, ma ho fatto un grave errore: l’euro». Parola di Edward Luttwak, intervistato da “Italia Oggi”. «Traducendo liberamente dall’inglese-americano all’italiano», ad Aldo Giannuli suona così: “Prodi è stato un nostro nemico e un fautore di quella porcheria di moneta, però è uno dei pochi in Italia che capisca qualcosa di economia, per cui, se non si intestardisce a fare il filo-tedesco e a difendere l’euro, se ne può discutere”. Per orientarsi nella battaglia che sta per iniziare intorno al Quirinale, aggiunge Giannuli, occorre capire che c’è una novità rispetto al passato: questa volta il presidente della Repubblica, molto più che da Montecitorio e Palazzo Madama, scaturirà da telefonate tra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.