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Magaldi: Pd senza idee progressiste, non lo salverà Minniti
Spera davvero di cavarsela, il Pd, usando Marco Minniti per tentare di riempire il vuoto cosmico della sua non-politica, ridotta a semplice esecuzione delle direttive impartite dall’élite neoliberista? Ci vorrebbe ben altro che un vecchio arnese dalemiano come l’ex ministro dell’interno, per restituire una vera offerta politica a quei milioni di elettori che nel 2008 avevano salutato con simpatia e speranza la nascita del Pd. Ci vorrebbero ad esempio parole sferzanti come quelle appena usate da una giovane dirigente, Katia Tarasconi, che ha accusato il vertice del partito di aver curato solo gli interessi dell’oligarchia, trascurando il popolo. E soprattutto, servono idee: come declinare la grande eredità democratica del socialismo, nell’Europa del 2018? E invece niente: silenzio di tomba, al di là del ronzio e del gossip su questioni irrilevanti, il deprimente derby tra renziani e anti-renziani, Minniti contro Zingaretti (e magari Martina a fungere da cuscinetto). Per fare cosa, poi? Per andare dove? Restano senza risposta, per ora, le domande che Gioele Magaldi rilancia: dovrebbero essere il punto di partenza, per tentare di far uscire il Pd dallo stato di coma in cui si trova. Ma all’orizzonte non si vedono segnali di alcun genere: avanti così il partito corre verso l’estinzione, tra la desolazione dei suoi ex elettori.Come si può pensare che Marco Minniti possa rappresentare una novità? L’ex ministro, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, è stato un colonnello di D’Alema quando “baffino” era in auge, quindi «ha vissuto una stagione dalemiana di ferro» (era soprannominato Lothar, richiamando la coppia con Mandrake). Poi si è riciclato nel renzismo, «tanto che oggi diversi dirigenti del Pd dipingono la sua come una candidatura filo-renziana e anti-zingarettiana, anche se Minniti assicura che così non è». Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo, «nell’agone di questo momento difficile e crepuscolare del Pd». Gli uomini sono sempre gli stessi e le donne restano in minoranza: i media mainstream concedono solo minuscole finestre alle pochissime voci dissonanti come quella della Tarasconi («magari ce ne fossero altre, in grado di parlare un linguaggio così diretto»). Ma non è questione di uomini o donne, insiste Magaldi: il problema è l’assenza di idee. «Non si assiste a un reale rinnovamento ideologico». Ovvero: qual è l’identità del Pd? Qual è la proposta politica dei candidati?». Cosa distingue, davvero, Zingaretti da Minniti? «Di cosa si fanno promotori? Qual è la loro idea di governo della cosa pubblica? A me pare che la grande assenza sia quella delle idee», sottolinea Magaldi: «Manca un ripensamento approfondito di una prospettiva democratica».Per il presidente del Movimento Roosevelt «assistiamo a uno stranissimo paradosso: il Pd renziano ha voluto entrare nel partito socialista europeo, ma poi non si è fatto carico di elaborare, nel XXI secolo, una proposta democratica e liberale di tipo socialista». Nel Pd non c’è più nulla, di quella tradizione. «La verità è che nel mondo politico europeo e occidentale c’è stata ormai da decenni una chiara subalternità all’unico modello politico-economico, quello neoliberista (sul piano strettamente economico) e neo-aristocratico (sul piano politico)». Da qui, infatti, la denuncia della Tarasconi, che rinfaccia al partito di essere agli ordini dell’élite. Non è il solo, peraltro: in questi decenni, ricorda Magaldi, «abbiamo assistito a due versioni di un unico paradigma: quella incarnata dal cosiddetto centrodestra e quella interpretata dal sedicente centrosinistra». Diversi gli attori, ma identico il copione. «Recuperare una tradizione socialista – aggiunge Magaldi – significa richiamarsi ai personaggi che ad esempio il Movimento Roosevelt ha iniziato a ripresentare alla coscienza pubblica: Carlo Rosselli, Olof Palme, Thomas Sankara e altri come loro, da Roosevelt a John Rawls, che sono le uniche possibili bussole per recuperare una tradizione autenticamente socialista, in senso liberale e democratico».Rialzare la testa, tornare a inquadrare l’orizzonte? Impossibile, a quanto pare: «Fa un po’ tristezza osservare come, invece di guardare a quei modelli, il dibattito politico all’interno del Pd si riduca alla contrapposizione tra piccoli leader». Non ci si rende conto che «questo volare basso, questa assenza di riferimenti» è fatale, per un partito che si candidi a rappresentare un’alternativa al governo gialloverde. E a proposito di riferimenti ideali: «Ricordo che la confusione ha regnato sovrana per anni, nel Pd, quando un Boccia poteva proporre Friedrich von Hayek come punto di riferimento del nuovo centrosinistra». Von Hayek, ovvero uno dei padri del neoliberismo, insieme a Milton Friedman: il vero ispiratore della destra economica, «incardinato in una visione neo-aristocratica». Lo stesso von Hayek si definiva “un old whig”, un vecchio ultra-conservatore, «facendo riferimento a Edmund Burke, fiero avversatore della Rivoluzione Francese». E in mezzo a tanta povertà politica, cosa potrà mai fare l’ex braccio destro del D’Alema convertito al neoliberismo, l’uomo che si vantò di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank realizzando il record europeo delle privatizzazioni?«Non credo affatto che Minniti possa essere una novità, è un personaggio che già ha vissuto tante vite», ribadisce Magaldi. «Certo – aggiunge – non è l’unico a non avere “idee chiare e distinte”, in senso cartesiano, da offrire alla platea della pubblica opinione: se gli elettori del Pd non avvertono il problema di chiedere alla propria dirigenza una chiarezza metodologica sulla prospettiva politica, è chiaro che i dirigenti non la daranno». Ultimamente, peraltro, è pur vero che «i simpatizzanti questa richiesta l’hanno fatta, molti facendo mancare il loro voto al Pd, la cui base elettorale si è ristretta». Altri – come Katia Tarasconi – stanno davvero cercando di alimentare un cambio di passo reale, benché siano «silenziati dai grandi media, preoccupati di offrirci il solito pastone in cui ci domanda se Renzi farà un nuovo partito e se Martina resterà in corsa: tutti discorsi inessenziali per il futuro dell’Italia e dell’Europa». Tradotto: riguardo al ruolo del nostro paese nell’Ue, «non è di nessun interesse capire qual è il ruolo di questo o di quello, nella filiera delle poltrone da occupare». Molto più importante, dice Magaldi, è capire «dove vorranno condurre l’Italia ed eventualmente l’Europa i nuovi dirigenti del Pd, quelli che insieme al nuovo segretario che dovesse essere eletto avranno una enorme responsabilità: ridare un senso al Pd o affossare definitivamente quell’esperienza politica, perché le cose che perdono di senso poi si logorano e muoiono per consunzione».Molta della visibilità mediatica di Minniti deriva dalla compostezza con la quale, da ministro, si dice che Minniti abbia gestito il problema migranti (oggi addirittura rivendica una sorta di imprimatur sulla spigolosa fermezza esibita da Salvini). Anche su questo fronte, però, secondo Magaldi siamo fuori strada: «Respingere senza prospettiva e come accogliere senza prospettiva». Doppia miopia, identica: «E’ ormai noto a tutti che proprio l’Africa, ricchissima di risorse ma mantenuta artificiosamente in stato di povertà, è il convitato di pietra del terzo millennio: lo dimostra l’enorme interesse da parte della Cina, che in Africa ha stanziato colossali investimenti, e lo conferma anche l’atteggiamento neo-coloniale della Francia, denunciato da personalità come quella del panafricanista Mohamed Konare». Domanda: perché fingere che il problema si risolva respingendo barconi, magari cavandosela con slogan del tipo “aiutiamoli a casa loro”? «Bisogna cominciare a farlo davvero, per esempio con una sorta di Piano Marshall per l’Africa, che sviluppi anche la necessaria educazione democratica per fare piazza pulita dell’esigua élite africana tuttora complice del neo-colonialismo occidentale».Per il presidente del Movimento Roosevelt, la vera opposizione è sempre la stessa: democrazia contro oligarchia. «Viviamo in un mondo nel quale si distrugge l’immagine di un grande attore come Kevin Spacey perché, nella serie televisiva “House of Cards”, ha osato evocare il Bohemian Club, santuario del massimo potere super-massonico neo-aristocratico». E’ esattamente il tema affrontato dalla giovane Katia Tarasconi, nel bocciare in blocco la nano-dirigenza del Pd: inutile far finta che il vero potere non sia in pochissime mani. Stupido, poi, schierarsi con il rigore Ue contro il governo gialloverde: semmai, un partito progressista dovrebbe rimproverare a Lega e 5 Stelle di essere troppo timidi, rispetto a Bruxelles, essendosi accontatentati di quel misero 2,4% di deficit per il 2019. Ma appunto, ci vorrebbe un partito progressista – non il Pd di Minniti e Renzi, Martina e Zingaretti. Neoliberismo, privatizzzazioni, dominio dell’élite imposto a suon di dogmi da un soggetto che ci si ostina a chiamare “l’Europa”. Oggi, ripete Magaldi, la prima cosa che dovrebbe fare l’Italia è questa: proporre una Costituzione Europea democratica, con un governo europeo finalmente eletto dall’europarlamento votato dagli elettori. Lontano anni luce da idee come queste, restano i Lothar e gli Zingaretti a contendersi i rottami del fu Pd.Spera davvero di cavarsela, il Pd, usando Marco Minniti per tentare di riempire il vuoto cosmico della sua non-politica, ridotta a semplice esecuzione delle direttive impartite dall’élite neoliberista? Ci vorrebbe ben altro che un vecchio arnese dalemiano come l’ex ministro dell’interno, per restituire una vera offerta politica a quei milioni di elettori che nel 2008 avevano salutato con simpatia e speranza la nascita del Pd. Ci vorrebbero ad esempio parole sferzanti come quelle appena usate da una giovane dirigente, Katia Tarasconi, che ha accusato il vertice del partito di aver curato solo gli interessi dell’oligarchia, trascurando il popolo. E soprattutto, servono idee: come declinare la grande eredità democratica del socialismo, nell’Europa del 2018? E invece niente: silenzio di tomba, al di là del ronzio e del gossip su questioni irrilevanti, il deprimente derby tra renziani e anti-renziani, Minniti contro Zingaretti (e magari Martina a fungere da cuscinetto). Per fare cosa, poi? Per andare dove? Restano senza risposta, per ora, le domande che Gioele Magaldi rilancia: dovrebbero essere il punto di partenza, per tentare di far uscire il Pd dallo stato di coma in cui si trova. Ma all’orizzonte non si vedono segnali di alcun genere: avanti così il partito corre verso l’estinzione, tra la desolazione dei suoi ex elettori.
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Carpeoro: contro Bruxelles, l’Italia la spunta se resta unita
Curiosi, gli allarmisti che ipotizzano di dover portare i soldi all’estero perché saremmo governati da pericolosi incapaci: ma se se è proprio “l’estero” che vuole i tuoi soldi, tu che fai, glieli porti? Certo, ora l’Ue farà scattare la procedura di infrazione, perché cercano di fare dei danni all’Italia prima delle europee. L’attuale assetto europeo capisce che potrebbe pagare dazio, alle elezioni, e quindi accelererà il più possibile le procedure di infrazione. Bisogna vedere noi come riusciremo a rispondere: sarà interessante assistere. Questo scontro può portare a situazioni difficili, anche a livello bancario, come il blocco dei conti correnti? Dipende: se riusciranno a metterci in croce come la Grecia, sì. Ma questo dipende anche da noi. Se credessimo nel nostro governo e nel nostro Stato, saremmo al sicuro: gli italiani avrebbero la forza economica di respingere qualunque attacco. Il risparmio privato degli italiani è praticamente pari al debito pubblico. Invece, anziché difendere il governo del proprio paese dagli attacchi esterni, le opposizioni si alleano con i nemici dello Stato: è successo e succederà ancora, l’Italia è fatta così. Per questo è un paese debole. Tutto è pericoloso, virtualmente: se gli italiani sono i primi a non credere nel proprio Stato, è giusto che il loro Stato soccomba. Noi stiamo pagando i nostri errori e le nostre debolezze: se non smettiamo di accumularne, poi non ci possiamo meravigliare.Mattarella? Farà un po’ di capricci ma poi la firmerà, la manovra finanziaria del governo. E’ vero, è stato detto che lui è espressione dei poteri europei oggi ostili all’Italia, ma in questo caso non può fare diversamente. E’ il presidente della Repubblica, e la volontà politica del Parlamento è questa: come fa, a non firmare? Se ci fosse un “grave pericolo” per il paese? E’ una situazione molto delicata, costituzionalmente. Mattarella potrebbe cercare una sponda nella Corte Costituzionale: se la trova può non firmare – ma se non la trova, no. Le turbolenze nel governo gialloverde? Tra Salvini e Di Maio c’è una competizione in corso, e credo che Di Maio si sia reso conto di aver perso troppo terreno nei confronti della Lega a beneficio di Salvini, e questo incrudelisce un po’ la situazione. Sul fronte opposto spunta Minniti, candidato da una robusta quota di amministratori che ben rappresentano una parte importante del Pd. Minniti può rappresentare una svolta interessante, per la segreteria del partito. E’ un uomo forte, nel Pd, che con lui rischia di avere un leader vero. Finora ha lavorato bene. Certo, è un vecchio collaboratore di D’Alema – che comunque aveva stoffa, come leader politico: paragonarlo a Renzi e a quelli che sono venuti dopo è penoso per quelli a cui lo si paragona.Quantomeno, Minniti potrebbe essere una mera speranza di sopravvivenza, per la cosiddetta sinistra. Peraltro, continuò l’opera avviata da D’Alema quand’era alla guida del Copasir: fece un bel repulisti nei nostri servizi segreti, che infatti da vent’anni funzionano benissimo e hanno evitato all’Italia di subire attentati. Mi preoccupa che il governo gialloverde sia intenzionato a cambiare il vertice dei servizi, che in questi anni hanno dimostrato un’efficienza straordinaria nel garantire la nostra sicurezza. Il terrorismo Isis improvvisamente scomparso, dopo aver prodotto gli effetti che in Europa probabilmente qualcuno attendeva? Io credo che questi riflussi, queste onde, siano anche figlie di un momento particolare che poi, una volta passato, non c’è più bisogno di sollecitare. In questo momento c’è uno stallo, che vede tanti protagonisti: l’atlantismo (l’America), le due facce dell’Asia (Cina e Russia), un certo tipo di Europa, e un’ondata montante – eversiva – di paesi dell’altra sponda del Mediterraneo (che però, non riusciendo a coordinarsi, non riescono ancora a sedersi al tavolo per stabilire degli equilibri). E allora probabilmente questo stallo, oggi, comporta il fatto che determinate attività eversive vengano in qualche modo abbassate di tono.(Gianfranco Carporo, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della conversazione in web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, con Fabio Frabetti di “Border Nights” il 18 novembre 2018).Curiosi, gli allarmisti che ipotizzano di dover portare i soldi all’estero perché saremmo governati da pericolosi incapaci: ma se se è proprio “l’estero” che vuole i tuoi soldi, tu che fai, glieli porti? Certo, ora l’Ue farà scattare la procedura di infrazione, perché cercano di fare dei danni all’Italia prima delle europee. L’attuale assetto europeo capisce che potrebbe pagare dazio, alle elezioni, e quindi accelererà il più possibile le procedure di infrazione. Bisogna vedere noi come riusciremo a rispondere: sarà interessante assistere. Questo scontro può portare a situazioni difficili, anche a livello bancario, come il blocco dei conti correnti? Dipende: se riusciranno a metterci in croce come la Grecia, sì. Ma questo dipende anche da noi. Se credessimo nel nostro governo e nel nostro Stato, saremmo al sicuro: gli italiani avrebbero la forza economica di respingere qualunque attacco. Il risparmio privato degli italiani è praticamente pari al debito pubblico. Invece, anziché difendere il governo del proprio paese dagli attacchi esterni, le opposizioni si alleano con i nemici dello Stato: è successo e succederà ancora, l’Italia è fatta così. Per questo è un paese debole. Tutto è pericoloso, virtualmente: se gli italiani sono i primi a non credere nel proprio Stato, è giusto che il loro Stato soccomba. Noi stiamo pagando i nostri errori e le nostre debolezze: se non smettiamo di accumularne, poi non ci possiamo meravigliare.
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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Carpeoro: S&P, l’America è con l’Italia (cioè contro Draghi)
Il verdetto di Standard & Poor’s è un segnale importante, perché vuol dire che c’è una frattura, all’interno delle Ur-Lodges reazionarie, e che l’America non segue completamente l’Europa e la linea Draghi, di sconfessione del governo italiano, ma furbescamente si posiziona a metà strada: non toglie all’Italia l’etichetta di paese dal rating ancora accettabile, ma in compenso cambia le previsioni, nel senso che ci vede nero (quindi, un colpo al cerchio e uno alla botte). Sta di fatto, però, che gli ambienti finanziari americani non solo completamente allineati a quelli europei, e questo è un segnale da registrare. Un segnale non necessariamente positivo, ma nemmeno negativo come quelli degli ambienti finanziari europei. Ne è consapevole, il nostro governo? Non ci mettono molto, a capirlo, se il loro unico neurone funziona. Poteva andare peggio, dite? No: “doveva” andare peggio, perché il “fratello” Draghi non se l’aspettava, questa botta. La sovragestione non è granitica, quei poteri discutono e litigano, hanno interessi diversi. Poi, l’Italia ha lanciato un messaggio giusto: perché, prima di questo giudizio, Conte è andato da Putin. Era un modo per non far emettere a Standard & Poor’s una sentenza negativa.Un verdetto totalmente negativo avrebbe avuto, come conseguenza, di far salire ulteriormente lo spread, o comunque di non farlo salire quanto sarebbe salito in caso di verdetto negativo. Un aiutino al governo? Per certi aspetti sì, ma è un aiutino basato sulle menzogne. Lo spread stesso è una menzogna. Soprattutto, vorrei contestare ufficialmente, a Draghi, di essere un bugiardo. Se rivelo pubblicamente la sua idenità massonica, è perché lui stesso è venuto meno alle regole della massoneria. Tutti quelli che stanno facendo questa operazione sono dei bigiardi: lo spread non può incidere sui risparmi degli italiani, che sono in euro, e l’euro non si è mai svalutato in vita sua. Quindi la smettano, di mentire. Quella sullo spread è una manipolazione, anche mediatica. Con Berlusconi gli era pure andata bene. Allora la cosiddetta opinione pubblica si allarmò molto. Questa volta lo spauracchio dello spread farà presa quasi solo nell’elettorato del Pd? Be’, le iniziative giudiziarie allora intraprese nei confronti di Berlusconi mi sembrano di entità ben diversa, rispetto a quelle nei confronti di Conte, Salvini e Di Maio. All’epoca avevano creato il terreno, per la capitolazione.Dove porterà l’asse con Putin? Innanzitutto, Putin si è prestato ad aiutarci lanciando il segnale. Poi, vedremo dove questo potrà portare. Standard & Poor’s è un organo occulto del governo americano. E’ un organo di governo, non un’entità indipendente come si vorrebbe far credere: ha sempre fatto quello che conviene al governo statunitense. Attraverso S&P, è come se il governo americano dicesse: attenzione, l’Italia appartiene alla Nato, quindi non possiamo permettere che l’emergenza induca gli italiani a stringere legami forti con i russi, quindi vediamo di fare qualcosa che non crei all’Italia una situazione straordinariamente difficile, costringendola poi a dichiararsi alleata di Putin in tutto e per tutto. Trump e Putin? Hanno interessi comuni e interessi opposti. I loro rapporti sono molto controversi. Putin ha avuto interesse che Trump venisse eletto, anche perché Trump ha fatto un dispetto a tutti i partiti americani: era odiato dagli stessi conservatori, di cui pure fa parte. Dopodiché, candidandosi, Trump aveva fatto un accordo sulla base della previsione di non essere eletto (non di esserlo: non se l’aspettava neanche lui, l’elezione). Poi lo scenario è cambiato, e adesso Trump deve difendersi anche da un’accusa di connivenza con i russi sulla sua elezione, quindi Trump e Putin devono anche mostrarsi ostili – ma la loro non è un’ostilità profondissima.Se lo stesso spread può essere considerato un’applicazione della sovragestione, un altro caso di sovragestione è quello della Banca Centrale Europea – che non è un organo politico né un organo democratico, eppure governa l’Europa. Sempre a proposito di sovragestione: vi chiedete che fine ha fatto l’Isis? E’ dormiente, prima o poi si sveglierà. Certo, ieri l’Isis è stato usato per finalità oscure, di potere, e oggi non sta avvenendo. L’Isis resta uno strumento: e la sovragestione non lo usa, uno strumento, quando non le serve. Sarebbe “utile”, da parte di qualcuno, rispolverare lo strumento degli attentati terroristici, magari per colpire l’Italia anche da quel lato? Secondo me, no: perché oggi il pericolo, per l’establishment, sono i partiti cosiddetti sovranisti, ed eventuali attentati targati Isis li aiuterebbero. Piuttosto, consiglio al governo di non toccare i servizi segreti. Ho sentito parlare di rimozioni e sostituzioni, ma sarebbero un errore. Da anni, i servizi italiani sono leali verso lo Stato e straordinariamente efficienti: ci hanno risparmiato decine di attentati, lavorando per la nostra sicurezza quotidiana.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate nel corso della conversazione con Fabio Frabetti di “Border Nights” durante la diretta in web-streaming “Carpeoro Racconta”, il 27 ottobre 2018 su YouTube).Il verdetto di Standard & Poor’s è un segnale importante, perché vuol dire che c’è una frattura, all’interno delle Ur-Lodges reazionarie, e che l’America non segue completamente l’Europa e la linea Draghi, di sconfessione del governo italiano, ma furbescamente si posiziona a metà strada: non toglie all’Italia l’etichetta di paese dal rating ancora accettabile, ma in compenso cambia le previsioni, nel senso che ci vede nero (quindi, un colpo al cerchio e uno alla botte). Sta di fatto, però, che gli ambienti finanziari americani non solo completamente allineati a quelli europei, e questo è un segnale da registrare. Un segnale non necessariamente positivo, ma nemmeno negativo come quelli degli ambienti finanziari europei. Ne è consapevole, il nostro governo? Non ci mettono molto, a capirlo, se il loro unico neurone funziona. Poteva andare peggio, dite? No: “doveva” andare peggio, perché il “fratello” Draghi non se l’aspettava, questa botta. La sovragestione non è granitica, quei poteri discutono e litigano, hanno interessi diversi. Poi, l’Italia ha lanciato un messaggio giusto: perché, prima di questo giudizio, Conte è andato da Putin. Era un modo per non far emettere a Standard & Poor’s una sentenza negativa.
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D’Attorre: folle rigore Ue, ma a dirlo sono solo i gialloverdi
In questi giorni ho ricevuto osservazioni anche da persone e compagni che stimo, i quali mi dicono che è sbagliato esprimere sostegno alla scelta del governo di non rispettare il Fiscal Compact e di impegnare più risorse, perché questo impedirebbe poi di esprimere una critica di merito ai contenuti del Def della legge di bilancio. Ecco, a quanti mi hanno rivolto questa osservazione dico che, a mio giudizio, hanno colto l’aspetto decisivo, ma lo hanno esattamente capovolto rispetto al compito politico che abbiamo. Se il 4 marzo segna uno spartiacque, se davvero vogliamo fare i conti con le istanze che gli elettori hanno espresso (anzitutto tantissimi ex elettori di sinistra), se non vogliamo definitivamente chiuderci nel recinto identitario di una sinistra “benpensante” che considera interamente irrecuperabili i quasi due terzi degli elettori che oggi manifestano sostegno al governo, una cosa non possiamo fare: dire che qualcosa è sbagliato solo perché lo fa un governo di cui siamo oppositori.Allora, se conveniamo che una delle ragioni fondamentali della catastrofica sconfitta della sinistra in tutte le sue articolazioni (Pd, LeU, Pap) è stata l’incapacità di trasmettere un messaggio chiaro e coerente sull’insostenibilità economica e democratica degli attuali vincoli europei, il primo passo da compiere è assumere un atteggiamento che su questo tema renda evidente la discontinuità la comprensione della lezione del 4 marzo. Se è così, la precondizione necessaria affinché la critica agli aspetti sbagliati della politica economica del governo torni ad apparire minimamente credibile ai ceti medi e popolari che ci hanno voltato le spalle, è quello di collocarsi dalla parte giusta rispetto allo scontro in atto. E la parte giusta non è quella di Dombrovskis, di Moscovici, di Juncker e di una Commissione Europea ormai priva di qualsiasi credibilità e autorevolezza, dopo quello che ha combinato sulla Grecia e dopo che da anni consente alla Francia di ignorare le regole sul deficit e alla Germania quelle (ancora più importanti) sul surplus commerciale.Solo se renderemo inequivocabilmente chiaro che noi non saremo mai più dalla parte del Fiscal Compact, del pareggio di bilancio, della favola dell’austerità espansiva, di un’applicazione del regole europee insieme ottusa e discriminatoria, le critiche che dobbiamo fare alla manovra del governo sul fisco, sui rischi di ulteriori tagli a sanità e istruzione pubblica, sul troppo debole rilancio degli investimenti, sulla previsione di nuove privatizzazioni avranno il tono della sincerità e dell’onestà intellettuale. Per essere chiari, la partita politica si può riaprire e si può tornare a contendere il voto popolare alla destra solo se ci mettiamo dal lato del cambiamento, non della restaurazione. L’illusione che basti gridare (peraltro non si capisce da quale pulpito…) alla cialtroneria e all’incompetenza dei nuovi governanti per riconquistare la fiducia degli italiani, per favore, lasciamola a Renzi.(Alfredo D’Attorre, riflessioni su Europa, Pd e “gialloverdi”, riprese sul gruppo Facebook del Movimento Roosevelt. Giovane storico della filosofia e già parlamentare “bersaniano” del Pd, D’Attorre alle ultime elezioni era candidato con “Liberi e Uguali” in Calabria).In questi giorni ho ricevuto osservazioni anche da persone e compagni che stimo, i quali mi dicono che è sbagliato esprimere sostegno alla scelta del governo di non rispettare il Fiscal Compact e di impegnare più risorse, perché questo impedirebbe poi di esprimere una critica di merito ai contenuti del Def della legge di bilancio. Ecco, a quanti mi hanno rivolto questa osservazione dico che, a mio giudizio, hanno colto l’aspetto decisivo, ma lo hanno esattamente capovolto rispetto al compito politico che abbiamo. Se il 4 marzo segna uno spartiacque, se davvero vogliamo fare i conti con le istanze che gli elettori hanno espresso (anzitutto tantissimi ex elettori di sinistra), se non vogliamo definitivamente chiuderci nel recinto identitario di una sinistra “benpensante” che considera interamente irrecuperabili i quasi due terzi degli elettori che oggi manifestano sostegno al governo, una cosa non possiamo fare: dire che qualcosa è sbagliato solo perché lo fa un governo di cui siamo oppositori.
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Cottarelli e Macron, il vero partito che rema contro l’Italia
Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattuasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.Lo stesso Ferraù definisce l’inquilino dell’Eliseo «un antipopulista a vocazione continentale che fa il populista alla bisogna, approfittando del fatto che il suo paese è ancora troppo importante per fallire». Macron e Cottarelli, sottolinea il professor Mangia, fanno parte dello stesso disegno anti-italiano: non ordito “dalla Francia” o “dalla Germania”, bensì da un cartello di poteri economici, che agiscono – inseguendo esclusivamente i propri interessi privatistici – all’insaputa degli stessi francesi e tedeschi. «In realtà – afferma Alessandro Mangia – ad essere vincitore, oggi, in Europa, è soltanto un blocco industriale e finanziario che dall’unificazione europea ha tratto solo vantaggi e ha distribuito gli svantaggi in modo più o meno equo tra i vari paesi d’Europa». Oggi Macron annuncia un’espansione del deficit francese, mentre Cottarelli tuona contro la ventilata (minima) crescita del disavanzo italiano? Niente di strano: quei poteri hanno bisogno che la Francia non crolli, per questo le consentono di sostenere la propria economia con una dose maggiore di debito pubblico. L’Italia, invece, “deve” crollare: a questo servono le prediche a reti unificate di Cottarelli, contro l’aumento della spesa invocato da Di Maio e Salvini per finanziare Flat Tax, pensioni e reddito di cittadinanza. La filosofia di Cottarelli? Quella, fallimentare, del Fmi: se infatti si taglia la spesa produttiva, decresce automaticamente il Pil e l’economia peggiora, aggravando il peso del debito pubblico.Dopo che Macron ha comunicato di voler aumentare il deficit fino al 2,8% per tagliare 25 miliardi di tasse, Di Maio ha detto: «Facciamo anche noi il 2,8% come loro». Domanda: perché l’Italia non può imitare i francesi? «Perché la Francia, nell’assetto attuale d’Europa – spiega Mangia – è un elemento essenziale per la tenuta del sistema di potere che si è instaurato dopo la crisi del 2010-2011». E quindi, chiarisce il professore, le va lasciato margine di manovra. Anche perché, senza la foglia di fico (francese) del famoso “asse franco-tedesco”, sarebbe evidente a tutti chi domina e chi è dominato, in Europa: «E l’Europa si ridurrebbe alla sola Germania e ai suoi sottoposti». In altre parole: in cambio di una parte in commedia, alla Francia viene lasciata maggiore libertà di bilancio. Solo che, «stanti le caratteristiche strutturali della moneta unica», questa maggiore libertà «si traduce in maggior debito e maggior deficit sull’estero». La spesa aggiuntiva francese, argomenta Mangia, viene fatta acquistando beni esteri — cioè tedeschi e italiani — perché costano meno di quelli francesi. Sicché, Macron potrà anche «tirare a campare, politicamente, come ha cercato di fare Hollande con l’esito che sappiamo», ma non farà altro che «aggravare la situazione e accumulare passivi sull’estero».E questo, sottolinea il professore, è esattamente ciò che succede da anni alla Francia, che «dopo sforamenti superiori al 5% (che noi ci sogneremmo) è su una china assai peggiore di quella dell’Italia: solo che non si può dire, se no viene giù tutta la messinscena dell’asse franco-tedesco e non si può più fare la voce grossa con Italia e Spagna». In più, se Bruxelles è di manica larga con Parigi, è anche per sostenere il suo uomo – Macron – ormai inviso al 70% dei francesi. La Francia, ricorda Alessandro Mangia, da oltre 10 anni sfora il tetto del 3% sul rapporto debito-Pil. Il paese è stabilmente in disavanzo commerciale sull’estero. Inoltre «ha un debito pubblico prossimo al 100% con un trend di stabile crescita e un volume superiore a quello italiano». La disoccupazione è stabile al 9% (in Italia è attorno all’11) con una manifattura «ormai secondaria, nel continente». Ancora: la Francia «è in stato d’emergenza dai tempi del Bataclan, e cioè dal novembre 2015, e ne è uscita (a parole) con il trucchetto di trasformare la legislazione d’emergenza in legislazione ordinaria, con quel che ne viene in termini di poteri della polizia su libertà personale e di riunione». Non solo: la Francia «riesce ad avere un governo solo grazie agli artifici di una legge elettorale a doppio turno, fatta apposta per drogare il consenso del vincitore».Come se non bastasse, l’Eliseo «sta cercando di approvare una riforma costituzionale osteggiata persino in quell’Assemblea nazionale dove la maggioranza drogata di “En Marche” dovrebbe essere netta e sicura». A fronte di tutto questo, aggiunge il professor Mancia, come stupirsi del fatto che Macron abbia problemi di popolarità? Tutto sommato, aggiunge, a Macron «sta andando ancora bene», se consideriamo che quel presidente, eletto in quel modo e con quell’esiguo consenso, «si è messo in testa di fare ai lavoratori francesi quello che è stato fatto ai lavoratori italiani dai governi Monti e Renzi in nome di “debito” e “competitività”, senza tener conto del fatto che sciopero generale e resistenza popolare fanno parte del mito repubblicano su cui si regge la Francia». Gli scandaletti come quello che ha coinvolto Macron e la sua guardia del corpo Alexandre Benalla? Un pretesto fisiologico per esprimere la protesta contro le scelte (politiche, non private) del presidente, «in un sistema istituzionale bloccato dalla mancanza di un voto di sfiducia, come è quello presidenziale della V Repubblica», dove «l’unico modo di liberarsi di un presidente è quello di costringerlo alle dimissioni». Mancando la possibilità del voto parlamentare di sfiducia, «poi si finisce con il parlare di stagiste e guardie del corpo come se fossero affari di Stato».Ma la Francia ha comunque due potenti frecce al suo arco: i 500 miliardi di euro che sottrae ogni anno a 14 ex colonie africane, più il fatto di essere rimasta – dopo la Brexit – l’unica potenza nucleare europea. «Nonostante le figuracce rimediate in Siria», afferma Mangia, la Francia è l’unica nazione in Europa a disporre di un deterrente nucleare, Per questo «è essenziale per calciare il barattolo europeo in avanti, parlando di Unione di Difesa, sessant’anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa». Tant’è vero che da qualche settimana, in Germania, «si parla di munire la Bundeswehr di armi nucleari tattiche, per non lasciare il monopolio del nucleare alla Francia». Il che, aggiunge Mangia, «dà la misura di quanto le attuali classi politiche europee siano stralunate, fino a diventare visionarie, ipotizzando un futuro indipendente dall’ombrello Usa», come se la Nato non esistesse più. E comunque, «la Francia è l’unico Stato dell’Unione ad avere una proiezione extracontinentale, vuoi per i territori d’oltremare, vuoi per l’aggancio valutario dei paesi subshariani attraverso il sistema del franco Cfa, perfettamente convertibile in euro a condizione che le ex-colonie depositino metà delle loro riserve valutarie in un conto in Francia».E guarda caso, puntualizza il professor Mangia, «stiamo parlando di quegli stessi paesi che da qualche anno ci inondano di profughi che naturalmente scappano da fame e guerra». Che la Francia abbia qualcosa a che fare con quello che viene presentato come un inarrestabile evento naturale che si produce – combinazione – proprio nelle sue ex colonie? «Non possiamo stupirci che, nell’insieme, la Francia abbia ancora un margine di manovra di fronte alla Commissione in tema di bilancio», ribadisce il professore. «A reggere la Francia è la sua proiezione di potenza, non la sua economia, che è messa male almeno quanto la nostra, anche se per ragioni diverse». E che posto ha l’Italia in questo gioco di poteri? «La Francia serve alla Germania, anche se l’unico paese dove può espandersi è ormai soltanto l’Italia, naturalmente con l’attiva collaborazione di buona parte delle nostre élites politiche». Fateci caso, osserva Alessandro Mangia: «Avete mai visto quanti e quali esponenti politici italiani sono stati insigniti della Legion d’onore? E’ impressionante». Tra i nomi più in vista svettano quelli di Massimo D’Alema e Franco Bassanini, Emma Bonino, Piero Fassino e Walter Veltroni, Dario Franceschini, Enrico Letta. E poi il renziano Sandro Gozi, Giovanna Melandri, Roberta Pinotti, Romano Prodi, i sindaci milanesi Giuliano Pisapia e Beppe Sala.«Qualcuno si è mai chiesto – si domanda Mangia – per quali ragioni la Francia dovrebbe conferire quella che, dai tempi di Napoleone, è la massima onorificenza della nazione a una schiera di politici italiani? Solo per spirito europeo?». L’amara verità, aggiunge il professore, è che in questa Europa ci sono paesi «più sovrani degli altri». Il risultato? E’ sotto i nostri occhi: ormai, a votare in massa per i cosiddetti sovranisti, o populisti – in Italia ma anche in Francia, Germania, Austria, Svezia – è quello che fino a dieci anni fa era ancora “ceto medio”, e oggi, «oltre ad essere impoverito, è insultato quotidianamente sui giornali». Viene bollato come “ignorante, incolto e xenofobo”, da quegli stessi media che accolgono come rivelazioni sensazionali le palesi falsità spacciate da Cottarelli, che “vende” come virtù il “risparmio” nei conti pubblici, paragonando il bilancio statale a quello di una famiglia o di un’azienda. «Semplici slogan che non hanno nessun fondamento economico», protesta Alessandro Mangia: «Gli Stati, se sono Stati, non possono essere equiparati a una famiglia per il semplice fatto che, in genere, le famiglie non possono stamparsi il denaro che gli serve per vivere, mantenersi e investire. Gli Stati, se sono davvero Stati, la moneta se la stampano. E il limite è dato da congiuntura economica e andamento generale dell’economia, come è sempre stato in Italia fino al divorzio Tesoro-Bankitalia».Il punto, aggiunge il professore, è che «la moneta unica ha ridotto gli Stati a dover dipendere dai fornitori di moneta, esattamente come le famiglie, e ha trasformato il debito virtuale di uno Stato nel debito reale di una collettività». E’ stato questo il vero passaggio dalla valuta nazionale all’euro: si è ottenuta «la creazione di un debito reale in capo alle collettività nazionali, in cambio di un ribasso temporaneo dei tassi di interesse». Dovremmo “ringraziare” a lungo chi ci ha portati in questa situazione, «che ha ucciso ogni libertà politica». E cioè: ha ucciso «la libertà di scegliere le politiche da praticare con l’esercizio del diritto di voto». Svuotamento della democrazia: «Certo, oggi si può ancora votare – aggiunge Mangia – ma alla fine le scelte possibili sono solo quelle dettate dalle regole europee sul bilancio. E mi sembra che i discorsi di questi giorni sullo “zero virgola” e sulla dialettica Tria-Di Maio ne siano la più perfetta dimostrazione». Ribellarsi a questo falso paradigma, basato sulla mistificazione ideologica del neoliberismo? Facile a dirsi, ma prima bisogna sbarazzarsi del cartello-ombra costituito da potenti connazionali che “remano contro” il nostro paese.«Esiste un partito, che diviene sempre più incalzante – scrive Ferraù, sul “Sussidiario” – per il quale il taglio del debito è divenuta una ricetta trans-economica, un credo, un obbligo morale, un modo di salvare l’Europa e l’Italia attenendosi, senza se e senza ma, alle direttive di Bruxelles e di Berlino». Come potrebbe spuntarla, il governo gialloverde, se il ministro Giovanni Tria appare sempre più nella veste del “pilota automatico”, sulle orme di Mario Draghi? Come ogni ministro del bilancio da Maastricht in poi, cioè dal 1992 – dice il professor Mangia – anche Tria «si trova a dover mediare tra quelle scelte politiche che i cittadini credono ancora di fare, quando vanno a votare, e i vincoli che la Commissione impone al bilancio, interpretando, modulando, calibrando i vincoli formali, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact». Gli interlocutori di Tria? «Non sono solo Di Maio e Salvini, ma la Commissione e gli altri ministri dell’Eurogruppo, che sono lì solo per fare gli interessi dei paesi di provenienza». L’unica domanda è: «Quand’è che noi smetteremo di fare gli interessi degli altri e di produrre – malamente, e con quello che passa il convento, che non è proprio granché – i nostri piccoli “Manchurian candidates”, cui affidare la continuazione di queste politiche? All’orizzonte ne vedo almeno uno», chiosa il professore. Non ne fa il nome, non ce n’è bisogno: per scoprire chi è basta accendere il televisore.Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattutasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.
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Casalino e il Deep State. Mazzucco: che ingenui, i 5 Stelle
«Posso non commentare le parole di Rocco Casalino?». Sdegnoso silenzio, solo perché a Casalino si rinfaccia sempre di aver partecipato al “Grande Fratello”? «Appunto: chi si sarebbe accorto di lui, se non fosse stato al “Grande Fratello”? Una volta i dirigenti politici venivano da scuole serie: i comunisti dalle Frattocchie, i democristiani dalla Fuci». Gianfranco Carpeoro, opinionista e saggista, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” si rifiuta, per decenza, di intervenire sulla polemica innescata dall’improvvida sortita dell’ex comunicatore dei 5 Stelle, ora portavoce del premier Conte: in un fuori-onda ha preannunciato un repulisti, a tappeto, tra i funzionari del ministero dell’economia, chiamandoli «quei pezzi di merda». Nell’audio (rubato, in violazione della privacy), parlando con due giornalisti, Casalino li invita ad annunciare che, se le richieste dei 5 Stelle non verranno esaudite dal ministero di Tria, nel 2019 i pentastellati “bonificheranno” gli uffici dai tecnocrati che “remano contro” i gialloverdi, scatenando una terribile «vendetta». Apriti cielo: la tempesta ormai grandina a reti unificate su tutti i media. «Piuttosto ingenui, i 5 Stelle», osserva il documentarista Massimo Mazzucco, sempre in video-chat con Frabetti: «Possibile che non sapessero, fin dall’inizio, cosa li attendeva nei palazzi romani?».Mazzucco è un abile demistificatore: ben attento a non finire nel variopinto girone del complottismo “gridato”, si dedica da anni a studiare meticolosamente i complotti veri. E’ stato tra i primi a dimostrare che la versione ufficiale sull’11 Settembre fa acqua da tutte le parti. E nell’ultimo film, “American Moon”, certifica che le storiche immagini dell’allunaggio, purtroppo, non sono state affatto realizzate sulla Luna, ma in studi cinematografici o in teatri di posa. Fa sempre notizia il lavoro di Mazzucco, sia che si tratti della “nuova Peral Harbor” scatenata a Manhattan e comodamente attribuita ad Al-Qaeda, sia che sul monitor compaia una seria indagine sulle cure alternative per il cancro. E a proposito di salute: non certo ostile ai 5 Stelle, Mazzucco ha aspramente criticato il clamoroso voltafaccia sui vaccini, coi pentastellati prima tiepidi sul decreto Lorenzin e poi in confusione assoluta, ora che – con Giulia Grillo – avrebbero in mano le leve ministeriali del governo della sanità. Solo che, tra il dire e il fare, c’è appunto di mezzo la politica: «Me ne sono sempre tenuto alla larga, proprio perché temo quell’ambiente», confessa Mazzucco: «In passato ho anche rifiutato di impegnarmi personalmente, quando mi è stato chiesto di candidarmi, perché so che, per come sono fatto, essere costretto a confrontarmi con certe dinamiche mi farebbe perdere il sonno. Non fa per me, ecco tutto».Se però stiamo parlando di un soggetto politico come i 5 Stelle, aggiunge Mazzucco, le cose cambiano: «Nel momento in cui ti candidi a rivoluzionare l’Italia, non puoi non sapere che tipo di ostacoli incontrerai. I tuoi elettori, per primi, si aspettano che tu sappia perfettamente come muoverti. Bel guaio, se adesso scoprono che non sai bene che pesci pigliare». Un intero ministero che “rema contro” ostacolando lo stesso ministro, come nel caso di Tria, secondo la versione di Casalino? «Ma è ovvio, scusate», protesta Mazzucco: «Funziona così persino negli Usa», dove pure c’è un forte spoil-system e un robusto ricambio di funzionari, scelti dal politico che ha vinto le elezioni. «Il fatto è che puoi cambiare il ministro della difesa, non i generali: quelli restano. E se vogliono fare una guerra, prima o poi il ministro lo tirano dalla loro parte». Si chiama Deep State, ed è il potere che avrebbe bypassato lo stesso Bush durante la crisi dell’11 Settembre, per poi bivaccare alla Casa Bianca con Obama. Un potere, sempre lo stesso, che sta cercando di mettere in croce l’imprevedibile Donald Trump, finora sfuggito al suo controllo (e quindi braccato dal fantasma dell’impeachment). Come si può pensare che in Italia, a maggior ragione, non valgano le stesse regole? Come sperare che il Deep State euro-italico ceda docilmente il timone del dicastero dell’economia, teleguidato da Bruxelles?Appena quattro mesi fa, a fine maggio, Luigi Di Maio giunse ad annunciare ben altre dimissioni: non voleva mettere in stato di accusa oscuri funzionari, ma addirittura il capo dello Stato. La “colpa” di Mattarella? Aver impedito alla nascente alleanza gialloverde di insediare al ministero dell’economia Paolo Savona, fortemente avversato da Mario Draghi tramite il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Proprio da Visco, irritualmente, Mattarella “spedì” in udienza l’allora premier incaricato, Conte, perché prendesse nota delle raccomandazioni della banca centrale: guai a sforare il tetto (più che esiguo) imposto alla spesa pubblica dai super-poteri europei, pena lo tsunami dello spread. Nel giro di ventiquattr’ore, Di Maio ingoiò il rospo: rinunciare a Savona, pur di far nascere il governo. Giovanni Tria? Lo stesso Savona fu tra quanti ne approvarono la designazione, rivela Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: «Massone, Tria si dichiarò di opinioni progressiste, disponibile a infrangere – dopo inziali rassicurazioni – l’assurdo vincolo di spesa imposto dall’élite neoliberista che manovra le sedicenti istituzioni europee». Ora però lo stesso Magaldi è perplesso, su Tria: «Si decida a operare nel senso inizialmente concordato, viceversa i gialloverdi dovranno scegliere: o lui, o gli italiani (a cui hanno promesso Flat Tax, reddito di cittadinanza e pensioni dignitose, cancellando la legge Fornero)».Il guaio? Lo scomodissimo endorsement che l’euro-tecnocrate numero uno, «il gran maestro Mario Draghi, supermassone neo-aristocratico», ha tributato a Tria: apertamente elogiato, dal presidente della Bce, per la prudenza sui conti pubblici, ancora una volta improntati alla linea di rigore pretesa da Bruxelles. La battaglia è proibitiva: a “remare contro” il cambio di paradigma – più spesa pubblica, per rianimare l’economia – non sono solo Draghi, Visco e i fantomatici funzionari del ministero di Tria: tutto il mainstream giornalistico sta sparando ad alzo zero contro il nuovo governo. Ogni scusa è buona, a cominciare dall’intransigenza di Salvini sull’allegro “caos all’italiana” nella non-gestione dei migranti. E in questo pozzo di veleni, l’audio di Casalino irrompe come un petardo, per la gioia di telegiornali e talkshow. Tutto fa brodo, pur di continuare a non ragionare. Personaggi come Ferruccio De Bortoli (assistito nientemeno che da Piero Angela, su “Rai News 24”) arriva a rimpiangere la formidabile “ripresa” assicurata all’Italia dai compianti governi Renzi e Gentiloni, con all’economia Pier Carlo Padoan, ennesimo yesman di quel potere europeo che predica le virtù metafisiche del digiuno (altrui). Brutta bestia, il neoliberismo. Il suo capolavoro letterario, basato su conti truccati? La teoria – genere fantasy – della “austerity espansiva”, spacciata da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, da Harvard: fategli saltare i pasti, e l’affamato guarirà miracolosamente.L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt e allievo del keynsiano Federico Caffè, interviene spesso nel dibattito pubblico per correggere le “fake news” immesse nel sistema da Carlo Cottarelli, tecnocrate di scuola Fmi e venerato dal Deep State (e dai media) come una sorta di vestale dei conti pubblici. Lo stesso Mattarella sventolò la “nomination” di Cottarelli a Palazzo Chigi per indurre a più miti consigli i gialloverdi, che all’economia volevano Savona. E’ semplicissimo, il ragionamento di Galloni, suffragato da prove incontrovertibili: ogni euro ben speso sotto forma di deficit “renderà” 3 o 4 volte tanto, l’anno seguente, in termini di lavoro, fatturato, assunzioni, gettito fiscale. E dato che la spesa pubblica produttiva fa crescere il Pil, il risultato è automatico: il debito pubblico, di colpo, farà meno paura (proprio perché supportato dalla famosa crescita, quella che forse – durante i governi Renzi e Gentiloni – De Bortoli avrà al massimo intravisto, lontana anni luce dall’Italia, solo grazie al potente telescopio di Piero Angela). Lo scomposto, imbarazzante Casalino? Perfetto, per permettere ai media di continuare – come sempre – a guardare il dito, anziché la Luna (quella vera, non la “American Moon” del film di Mazzucco). Tradotto: fino a quando un signore come Mario Draghi darà bei voti al nostro ministro dell’economia, per gli italiani saranno rogne. Meno soldi per tutti. “Austerity espansiva”: uno strano Ramadan, imposto da oligarchi che nessuno ha mai eletto. Una piovra tenace, con tentacoli ovunque – a partire dai ministeri economici. Appunto: possibile che i 5 Stelle non lo sapessero fin dall’inizio?«Posso non commentare le parole di Rocco Casalino?». Sdegnoso silenzio, solo perché a Casalino si rinfaccia sempre di aver partecipato al “Grande Fratello”? «Appunto: chi si sarebbe accorto di lui, se non fosse stato al “Grande Fratello”? Una volta i dirigenti politici venivano da scuole serie: i comunisti dalle Frattocchie, i democristiani dalla Fuci». Gianfranco Carpeoro, opinionista e saggista, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” si rifiuta, per decenza, di intervenire sulla polemica innescata dall’improvvida sortita dell’ex comunicatore dei 5 Stelle, ora portavoce del premier Conte: in un fuori-onda ha preannunciato un repulisti, a tappeto, tra i funzionari del ministero dell’economia, chiamandoli «quei pezzi di merda». Nell’audio (rubato, in violazione della privacy), parlando con due giornalisti, Casalino li invita ad annunciare che, se le richieste dei 5 Stelle non verranno esaudite dal ministero di Tria, nel 2019 i pentastellati “bonificheranno” gli uffici dai tecnocrati che “remano contro” i gialloverdi, scatenando una terribile «vendetta». Apriti cielo: la tempesta ormai grandina a reti unificate su tutti i media. «Piuttosto ingenui, i 5 Stelle», osserva il documentarista Massimo Mazzucco, sempre in video-chat con Frabetti: «Possibile che non sapessero, fin dall’inizio, cosa li attendeva nei palazzi romani?».
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Se Foa viene eletto, Vietnam in Rai. Ma i 5 Stelle lo votano?
Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.La vera fonte del “sogno”? La prestigiosa loggia rosacrociana “Tre Globi” di Berlino, alla quale Carpeoro – a sua volta massone, già a capo del Rito Scozzese italiano – è rimasto legato. La sconcertante esternazione d’inizio estate, osserva Frabetti, è stata taciuta dai media mainstream (con la sola eccezione del quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro), ma non è certo passata inosservata ai piani alti del potere. Ex caporedattore del “Giornale” e allievo di Indro Montanelli, Marcello Foa è l’autore del dirompente saggio “Gli stregoni della notizia”, che mette alla berlina il sistema-media, accusato di fabbricare “fake news”. Ora Foa potrebbe dunque salire finalmente sul gradino più alto della nomenklatura Rai? Nel caso, dice Carpeoro sempre in streaming web con Frabetti, non avrà vita facile: se la “Three Eyes”, foss’anche per colpa dell’imbarazzante “sogno della peperonata”, si vedesse costretta a non ostacolare più l’ascesa di Foa, il neo-presidente sarebbe comunque “assediato”, da subito, dall’ostilità accanita dello stesso establishment che sta “braccando” Salvini, tallonato da vasti settori della magistratura. Ma non è detto che Foa riesca davvero a diventare presidente: tecnicamente, secondo Carpeoro, potrebbe addirittura sbattere contro l’ipotetico veto dei 5 Stelle, in sede di commissione parlamentare di vigilanza.«Chi ha ritenuto che il mio non fosse un sogno ma la verità – dice oggi Carpeoro – può aver pensato che forse, in quel momento, qualcuno lo stesse “sputtanando”». Insomma, la trama della “Three Eyes” era ormai venuta allo scoperto. « Bisogna capire però se l’effetto-sputtanamento è stato solo un modo per guadagnare tempo, per poi vedere di “vendere” in un altro modo il siluramento di Foa, o se invece abbiano proprio deciso di “mollare il colpo”, per poi gestire la faccenda diversamente». Oggi, aggiunge Carperoro, «l’unico modo per silurare ugualmente Foa è premere sui 5 Stelle affinché siano loro a farlo fuori: e quel tipo di potere, questa possibilità ce l’ha». Gli unici che possono affondare la candidatura di Foa, insiste Carpeoro, sono proprio i pentastellati: «Non può più farlo Forza Italia, perché sarebbe una conferma della “peperonata”. Non può farlo Salvini, perché sarebbe una sconfitta troppo grossa, per lui. E non hanno la forza di farlo i vari residui di opposizione». I 5 Stelle, dunque? «Sono gli unici che hanno la possibilità di silurare Foa, ma non so se ne abbiamo la motivazione». Tuttavia potrebbero piegarsi «di fronte a una coercizione grande, da parte di un soggetto come una Ur-Lodge».Attenzione, precisa Carpeoro: «Non dico che lo vogliano fare o che lo faranno, dico solo che – ex ante – gli unici che hanno questa possibilità sono loro: una possibilità concreta, politica, non necessariamente una volontà o un’inclinazione». Morale, il destino di Foa sembra a un bivio: «O viene silurato dai 5 Stelle adesso, o viene eletto. Ma ovviamente, un secondo dopo l’eventuale elezione, entrerebbe in una specie di Vietnam, di Cambogia, dove qualcuno punterà la clessidra e preparerà un conto alla rovescia». Quanto all’affidabilità dei 5 Stelle, non da oggi lo stesso Carpeoro esprime perplessità – soprattutto sul conto di Luigi Di Maio, che considera esser stato ampiamente “sovragestito” proprio da quel genere di poteri forti evocati dal famoso “sogno della peperonata”. Prima ancora delle elezioni, Carpeoro dichiarò ripetutamente che Di Maio entrava e usciva dall’ambasciata Usa di via Veneto a Roma, e che ad accompagnarlo a Washington nei santuari delle Ur-Lodges neo-aristocratiche fosse il politologo Michael Ledeen. Esponente di vertice della supermassoneria sionista, Ledeen è citato da Carpeoro nel suo saggio sui legami fra massoneria e terrorismo islamico targato Isis: lo mette addirittura in relazione all’omicidio del premier svedese Olof Palme, nell’ambito di un opaco circuito di cui facevano parte Licio Gelli e l’allora parlamentare statunitense Philip Guarino.A evocare nuovamente l’ombra delle Ur-Lodges è anche Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un autorevole esponente. Magaldi ha attaccato direttamente il ministro dell’economia, Giovanni Tria: «Un massone non dichiarato ma presentatosi come progressista, eppure oggi allineato al rigore europeo promosso dal supermassone Draghi, che infatti lo ha apertamente elogiato». Carpeoro invita a fare un passo indietro: «I 5 Stelle – ricorda – hanno subito il siluramento del precedente candidato al ministero dell’economia». Si tratta di Paolo Savona, bloccato dal “niet” di Mattarella. «Quindi – prosegue Carpeoro – Tria è la conseguenza di una scelta di campo che i 5 Stelle hanno condiviso, o sbaglio?». In altre parole: l’accettazione di una linea più morbida con Bruxelles, imposta tramite il Quirinale. «A questo punto – conclude Carpeoro – o cambiano idea, o si tengono Tria. Bisogna capire perché dovrebbero cambiare idea (perché si potrebbero tenere Tria, invece, lo sappiamo già)». Quello di Tria è ovviamente un ruolo di garante: tramite minacce, come l’impennarsi dello spread, «il potere che “sovragestisce” l’Europa ha fatto sapere ai 5 Stelle che, senza la presenza di un suo garante, sarebbe cominciata una specie di guerra totale, contro l’Italia, e quindi è passato Tria». Ora, bisogna vedere se è cambiata la situazione: «I 5 Stelle rivendicheranno una maggiore indipendenza? Io ne dubito». Sarebbe quindi possibile mettere sotto pressione Di Maio e soci, al punto da indurli a boicottare Foa?Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.
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Corbyn: web di Stato, libero e trasparente, per i cittadini
Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).Quanto al funesto impatto che un sistema così articolato di collezione dei dati personali avrebbe avuto sulla salute nostre democrazie, nessuno se ne è occupato, salvo poi indignarsi in coro di fronte non ad una questione di etica pubblica o di tutela dei cittadini, ma all’effetto che i social network hanno direttamente o indirettamente avuto: l’elezione di Donald Trump. Ma qui non si vuole discutere su come le nuove reti sociali abbiano esacerbato dei problemi più o meno latenti della civiltà occidentale, favorendo l’ascesa di nuove élite reazionarie. Si vuole piuttosto introdurre nel dibattito pubblico, dopo il totale silenzio dei media, dei partiti e in generale dei principali mezzi di informazione e formazione dell’opinione pubblica nella nostra penisola, un nuovo modo di affrontare quella che è una delle questioni più importanti del nuovo millennio. Di fronte a un tale quadro desolante infatti, una risposta sembra provenire dalla Gran Bretagna. Jeremy Corbyn, il leader del Partito Laburista, già noto per le sue proposte di nazionalizzazione dei servizi pubblici principali, in alcune sue dichiarazioni ha avanzato una strategia per far fronte alla realtà che si è solidamente affermata con Internet.E il fatto che una simile novità provenga da lui è un’indicazione circa la lucidità e lo stato di salute dei laburisti inglesi, attualmente una delle poche forze politiche di sinistra, in Europa, che potrebbero affermarsi alla guida di un paese. Partendo dal presupposto che il Regno Unito non deve sedersi e restare guardare come poche mega aziende risucchiano diritti digitali, asset e, in definitiva, i nostri soldi, Corbyn ha proposto di affiancare, alla già esistente “Bbc” (British Broadcasting Corporation), una “Bdc” (British Digital Corporation). Tale ente, rigorosamente pubblico, sarà una sorta di grande archivio culturale, centralizzato, per offrire alla popolazione un punto di accesso per le conoscenze, le informazioni e i contenuti attualmente conservati negli archivi della “Bbc”, nella British Library e nel British Museum. Un’istituzione pubblica per definizione non persegue le finalità di un’organizzazione privata. Piattaforme come Google e Facebook erogano sì gratuitamente i loro servizi agli utenti, ma lo fanno solo dopo che questi ultimi hanno acconsentito – e questa è una condizione necessaria e impossibile da contrattare – al trattamento dei loro dati personali per fini quantomeno commerciali.Nell’idea di Corbyn, esclusa la logica del profitto, occorrerebbe sfruttare i big data a fin di bene. Sì, ma come? In due modi, entrambi rivoluzionari. In primo luogo una “Bdc” potrebbe sviluppare nuove tecnologie, e utilizzare le informazioni di cui entra in possesso, per la creazione dei programmi in base all’orientamento del pubblico e perfino un social network pubblico, che garantisca la privacy degli utenti e abbia il controllo su quei dati che rendono Facebook e altri così ricchi. Il tema della nazionalizzazione di Facebook diventa sempre più incalzante, dal momento che la conoscenza così accurata di una popolazione può servire a fini tutt’altro che trasparenti: al controllo sociale, per condizionamenti di massa, a bombardamenti mediatici mirati o ad instillare l’odio, inquietudini morali e paure striscianti in grado di modificare i comportamenti, le abitudini, il modo di pensare – o di votare – dei più. Non vogliamo essere apocalittici o tendere necessariamente a scenari di orwelliana memoria, ma occorre stare all’erta: si tratta di cose già successe e che, verosimilmente, senza le opportune contromisure, riaccadranno.In seconda misura un ente pubblico digitale potrebbe aprire nuovi spazi per la democrazia diretta, a partire dalla creazione di nuove modalità di coinvolgimento, supervisione e controllo delle leve chiave della nostra economia da parte della popolazione. Tutto ciò si inquadra, nell’ottica di Corbyn, in un più ampio piano di gestione della cosa pubblica. La “Bdc” lavorerà in stretta sinergia con altre istituzioni che il prossimo governo laburista istituirà, come la National Investment Bank, il National Transformation Fund, lo Strategic Investment Board, la Regional Development Banks, fornendo così un collegamento base tra di esse ai fini di una maggiore trasparenza e democrazia. La nuova istituzione è anche un tassello chiave per il rilancio attivo del ruolo dello Stato che, su un piano di servizi e commerciale, potrebbe arrivare ad essere concorrenziale con l’estero e con i privati. Essa infatti potrebbe utilizzare tutte le nostre migliori menti, le tecnologie più recenti e le risorse pubbliche disponibili non solo per fornire informazioni e intrattenimento come quelli di Netflix e Amazon, con la possibilità di competere e vendere bene anche Oltreoceano.Le proposte del leader dei Labour, seppur ancora vaghe e poco articolate, sembrano già molto interessanti. L’articolo apparso sul Guardian[2] non ha però praticamente trovato alcuna risonanza in Italia.[3] Si spera che le forze comuniste e della sinistra popolare presenti nella penisola rispondano alle idee proveniente da Oltremanica elaborandone di nuove e più definite, studiando per esempio un sistema di controlli e garanzie per fare in modo che l’enorme mole di dati personali, non più in mani private, non finisca per essere a disposizione dei governi per spiare e monitorare i comportamenti della propria popolazione. Ovviamente questa è solo una delle tante possibilità. Compito nostro è quello di accogliere il contributo iniziale di Corbyn e formulare una proposta politica adatta a contribuire al dibattito e ad arricchirlo.(Massimiliano Romanello, “Buone notizie da Oltremanica”, dal blog della Fcgi del 2 settembre 2018).Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).
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Il volto della nuova élite che pilota il populismo gialloverde
Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.Pensiamo a quel novembre del 2011, in cui la destituzione di Berlusconi e l’insediamento di Monti alla presidenza del Consiglio segnarono la vittoria dell’élite tecnocratica, loden, austerity, Bruxelles e rigorismo, sull’élite berlusconiana – élite imprenditoriale, delle telecomunicazioni, del porno-divertentismo. Questa élite antipolitica («meno tasse per tutti») a sua volta aveva guerreggiato con l’élite post-comunista che dal Pci era approdata fino al Pd (passando per Psd e Ds), un’élite politica (con le sue scuole di formazione, la sua gavetta interna). Poi avvenne un altro scontro. Il Commissario Monti, e il suo successore Letta, fronteggiarono una nuova élite, diversa dalle precedenti. Si tratta di una banda di ruba galline proveniente da Firenze e dintorni: è il giglio magico (Carrai, Lotti, Boschi&family), è il dream team renziano. Dopo il loden, il risvoltino. La parola magica per spaccare la vecchia egemonia socialdemocratica (D’Alema, Prodi, Bersani) è quella di “rottamazione”.Ecco che questa élite di estrazione provinciale (spregiudicata, trasformista, ignorante, legata a banche di credito e a cooperative) ha sfruttato la debolezza della vecchia politica dei partitocrati, degli imprenditori e dei tecnocrati, a suon di un populismo che Revelli ha giustamente definito “ibrido”, dall’alto, né identitario né indignato, e crollato su se stesso perché incapace di sanare le sue contraddizioni interne: obbligato a giostrarsi tra le richieste di Draghi, la vecchia guardia del Pd, l’elettorato e il patto del Nazareno, tra le promesse fatte in sede europea e il calo dei consensi in casa propria. Le élites, come abbiamo visto, sono diverse fra loro, adottano formule, discorsi, narrazioni diverse. Ma perché oggi tutta quella élite che possiamo riconoscere nell’establishment politico è in crisi? Ce lo spiegava con anticipo qualche anno fa un sociologo americano, Christopher Lasch, nel suo saggio, “La ribellione dell’élite”. Lasch, sulla falsariga di Pareto, aveva intuito che un’élite, nel momento in cui si allontana oltremodo dalla collettività e dal territorio di cui dovrebbe difendere gli interessi, soffre una crisi di legittimità.Questa élite, spesso infiacchita dai privilegi e dagli onori, finisce per perdere le virtù civiche, per avere inclinazioni cosmopolite, atteggiamenti snobistici, e al buonsenso sostituisce un discorso sofisticato, subendo così l’«invasione di sentimenti umanitari e di morbosa sensibilità» (Pareto) di cui il popolo non sente il bisogno concreto. Perde quindi quella facoltà di dominare le formule vincenti e quella di individuare un nemico, entrambi fattori che determinano il suo consenso tra la popolazione. Ecco che, inversamente a questa crisi, abbiamo vissuto l’ascesa del fenomeno populista – utilizziamo il termine in un’accezione neutra – coronato dal suo successo elettorale, e quindi conclusosi con la sua istituzionalizzazione. Quindi al momento in Italia la situazione è paradossale. C’è un élite senza popolo (e perciò in declino) che adotta pose populiste per recuperare i consensi perduti – si veda l’atteggiamento di tutti i partiti tradizionali nei confronti del nuovo governo, e insieme tutta la parabola renziana (inaugurata da un monito che se si fosse realizzato sarebbe risultato imprudente: «La mia scorta sarà la gente») contraltare dell’antipolitica berlusconiana e ultimo canto del cigno di una sinistra incapace di sintetizzare il malessere del paese.Poi abbiamo, dall’altro lato, un populismo che ha fondato la sua vittoria ideologica nella lotta contro l’élite politica e finanziaria e adesso si vede costretto a cercare le sue élite di governo proprio tra quella élite politica e finanziaria – si pensi alla scelta di Conte a premier, di Savona e poi di Tria all’economia, dell’ex montiano e atlantista Moavero Milanesi alla Farnesina. Come è possibile che da due entità populiste, le più populiste che l’Italia abbia conosciuto, sia venuto fuori il più tecnico dei governi politici? Questo elemento deve portarci a riflettere sulle contraddizioni del populismo. Può, un populismo che ha fatto protesta contro le élites, farsi istituzione senza diventare élite a sua volta? Senza élites la politica è impraticabile, perché la politica è gestione del potere, e il potere non è equamente divisibile, quindi, dobbiamo ammettere che anche il populismo gialloverde, nonostante abbia fondato la sua mitopoiesi sulla lotta contro le élites – la casta per i grillini, l’oligarchia europea per la Lega – rientra nel discorso di Pareto e di Michels: «Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia».Perciò, ci sembra chiaro, noi non stiamo assistendo a nessuna rivoluzione, a nessun cambiamento nello schema classico della circolazione delle élite. Tuttavia, dobbiamo notare le novità apportate dalle modalità populiste di conquista del potere, ossia negando, o occultando, la propria impostazione, fatalmente elitaria. Si legga quanto veniva scritto sul Blog di Beppe Grillo nel 2013: «Il MoVimento 5 stelle è un movimento senza. Senza contributi pubblici, senza sedi; senza strutture; senza giornali; senza televisioni; senza candidati pregiudicati; […] senza compromessi; senza inciuci; senza leader; senza politici di professione; […] senza ideologie; […] senza banche». Il M5S ha fatto di una pletora di giovani disoccupati la sua classe dirigente dall’oggi al domani. Privi di qualsiasi formazione politica, imbevuti di un corso accelerato di democrazia diretta, gli eletti dei Cinque Stelle ragionano con quelle 4 o 5 linee guida ricavate dal mito dell’onestà, dalla lotta alla casta e altre menate urlate da un capo carismatico Grillo, teorizzate da un capo occulto, Casaleggio, con una sana ma ridotta spruzzata di massimofinismo.Il M5S tuttavia nasce tra diversi chiaroscuri, ed effettivamente il suo non è solo populismo, non è solo adesione incondizionata alle istanze provenienti dalla sempre tirata in ballo “base”, non c’è solo l’interpretazione e la politicizzazione degli umori diffusi tra la popolazione, nel M5S c’è un sostrato ideologico architettato da un’élite che Pareto avrebbe annoverato tra le “élite non di governo”, quella della Casaleggio Associati, che ai temi cari al populismo tenta di conciliare in una versione New Age e un po’ strampalata – pensiamo al video Gaia – alcuni temi del neoliberismo (la smartnation, l’universalismo, la governance globale). Non sappiamo quanta influenza abbia sugli eletti del movimento, e non vogliamo scadere in dietrologie, ma ci sembra chiaro che, di fronte alle ambiguità elettorali della piattaforma di voto interna al movimento, di fronte allo scandalo delle esplusioni, anche il M5S non sia immune a una tendenza élitaria.La Lega ci offre invece un esempio di populismo per certi versi immacolato, intriso della retorica piccolo-borghese poujadista, dei toni provocatori del qualunquismo di Giannini, e nonostante le diverse esperienze di governo, è un partito ancora poco a suo agio all’interno delle istituzioni. La Lega infatti nasce come outsider della politica, è un partito arrembante, cresciuto anno dopo anno a Pontida, grazie alle abilità oratorie di un leader, Bossi, di una classe politica fuoriuscita dai margini dei partiti tradizionali, e di una classe amministrativa emanazione per lo più dalla piccola imprenditoria padana, un po’ parrocchiale, abituata a gestire la cosa pubblica come si fa con un’azienda agricola. Tuttavia anche la Lega pur rimanendo sempre affezionata ad una narrazione vernacolare, localistica, popolare, anti-élitista – ricordiamo Bossi che si reca nella villa di Berlusconi in canottiera, come per sottolineare la differenza tra lui, l’uomo qualunque, e l’arricchito prestato alla politica – rispetta, in quanto partito, la «legge ferra dell’oligarchia» di cui parlava Michels.Perciò, siamo tentati dal dire che il populismo come ideologia – la contrapposizione popolo/élites – è una truffa, o più semplicemente una strategia di conquista del potere che un’élite mette a frutto per ribaltare l’élite precedente e da forza di protesta diventare istituzione. La sua tattica è quella di dimostrarsi più sensibile nei confronti di un popolo di cui si impegna a sintetizzare meglio i discorsi, intuirne i problemi e le paure, origliarne i disagi, fino ad accaparrarsi il monopolio delle “formule” vincenti. Ma adesso che da movimento è diventato regime, vediamo la trasformazione (non priva di incognite) del populismo. Di fatto chi si scandalizza per l’inversione di rotta da parte dei grillini sulla questione dell’alleanza con Salvini, o sulla nomina di un premier non eletto dal popolo «è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato». Così come chi crede a quanto dice Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump, ossia che «i Davos Man (le élite, NdR) hanno paura del populismo perché hanno paura che il potere arrivi al popolo. E che succeda quello che è successo in Italia» è un po’ ingenuo.Le élite possono aver paura di essere sostituite da altre élite, il che nella storia è avvenuto soltanto all’indomani di violente rivoluzioni, ma non dal popolo. Nella maggior parte dei casi, i meccanismi sono più complessi, e le nuove élites tendono ad essere assimilate. Il populismo, perciò, è stato gestito da un’élite che non era a-élitaria, ma solo nemica (e neanche troppo) delle élites precedenti, un’élite in via di formazione politica e ideologica che non sappiamo se stia facendo scouting tra altre élite da cooptare al suo interno per mantenere gli equilibri di potere con delle élite più forti (quelle sovranazionali, finanziarie, atlantiche) che ne possono determinare la caduta, oppure se stia venendo cooptata da queste ultime. Tutto il problema tempistico della scelta del governo è dipeso da questa contraddizione, dal difficile equilibrio tra i programmi della nuova élite populista nata dalle piazze e imbottita di protesta, ancora vicina al territorio, alle istanze e ai malumori del popolo, e i giochi di Palazzo in cui deve giostrarsi.La nostra fortuna, che è insieme la nostra disgrazia, è l’inadeguatezza di questa nuova élite, ancora inconsapevole di esserlo. Livellando il discorso verso il basso – privi di un laboratorio culturale, dotati solo di una leadership carismatica – questi populismi non hanno fatto altro che appaltare molta della propria elaborazione ideologica al popolo del web, a tante piccole realtà intellettuali – testate, blog, singoli influencer – che hanno animato il dibattito politico, hanno sabotato l’informazione mainstream, hanno diffuso notizie diverse tra la popolazione, hanno creato una narrazione alternativa dei fatti, e hanno anche inquinato molti temi, hanno diffuso rabbia, malcontento, frustrazione, confusione, hanno dato via libera a troll e fanatici, complottismi e dietrologie, analisti improvvisati, studenti impreparati, incompetenti di buona volontà, animatori nerd di pagine facebook che hanno agitato il basso ventre del web a suon di Meme, ma anche a tanti think thank preparati, professori universitari non allineati, giornalisti e reporter seri, associazioni che hanno fatto un buon lavoro culturale sul proprio territorio occupando quegli spazi disimpegnati dalle sedi di partito.Questa élite è ancora legata alla base da cui proviene, ed è perciò in una fase di assestamento. Non è un’élite da salotto, da club del golf, da circolo della caccia, non è un’élite ripiegata su sé stessa, chiusa, ma può dimostrarsi permeabile e sensibile a talune istanze popolari di cui si è fatta latrice. Eppure, se questa sostanziale inadeguatezza è il risultato di una politica nata dalla piazza, dalla protesta, e perciò davvero vicina agli appelli della cittadinanza, è sempre questa inadeguatezza – l’idea grillina di fare politica in base al criterio dell’onestà (criterio etico, ma non politico), le antinomie di una Lega identitaria ma liberista – che ha obbligato l’élite populista ad aggregare dei tecnici e dei membri dell’élite precedente nel proprio governo, e a fare una serie di compromessi che ne sconfessano, da subito, i motivi della propria elezione. Asseconda di come si risolverà questa contraddizione potremo giudicare l’operato di questa élite.Contraddizione che trabocca da ovunque, dalle dichiarazioni di Tria, per esempio, del prima e dopo G7, laddove inizialmente parlava di «un vasto programma di investimenti pubblici infrastrutturali attuato e finanziato in deficit senza creare un problema di sostenibilità dei debiti pubblici», oggi afferma che «non puntiamo al rilancio della crescita tramite deficit spending». A chi guarda l’attuale governo – a questo ibrido concentrato di socio-securitarismo, liberista in economia e conservatore nel costume, euroscettico senza essere sovranista, russofilo ma atlantista – con ottimismo, con la convinzione che abbia vinto il popolo, chi pensa a un governo del cambiamento, a tutti costoro consigliamo di rileggere Pareto, ma anche Tomasi di Lampedusa. A Freccero e Magris che fanno l’elogio del populismo, e che Pareto lo hanno letto bene e che di un’élite intellettuale fanno parte, chiediamo se abbiano già cominciato a circolare.(Lorenzo Vitelli, “Il volto elitario del populismo”, da “L’Intellettuale Dissidente” dell’11 giugno 2018).Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.
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Genova e i complottisti che non vedono l’agguato all’Italia
E’ già stata programmata la prossima aggressione americana alla Siria? Se lo domanda “The Saker”, pensando all’imperialismo yankee oggi più che mai ostile all’Iran, mentre a Washington l’impeccabile Barack Obama e l’assai meno impeccabile George W. Bush piangono la dipartita del vecchio leone John McMcain, presentato come eroe di guerra – quella del Vietnam, però (non quella siriana, dove celebri fotografie immortalano lo stesso McCain, dalle parti di Damasco, a colloquio con un’illustre congrega di tagliagole, tra cui l’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, nome d’arte del futuro capo-macelleria del sedicente Isis). Si fa presto a dire “l’America”, quando è palese che neppure un americano su cento ha idea di come siano andate davvero le cose, in Siria, cioè nel paese dei bombardamenti immaginari con gas nervino sulla popolazione inerme, disposti dal feroce regime di Assad sul quale proprio l’elegantissimo Obama stava per scatenare l’Armageddon missilistico. Lo schema è classico, ormai datato ma sempre formidabile: la fanfara mediatica suona la sua canzone, che poi a casa – davanti al televisore – fischiettano tutti. E quelli che si rifiutano (non più così pochi, ormai) spesso cadono nel tranello del festival opposto, che poi è l’altra faccia della stessa medaglia. Complottismo militante: caccia al Colpevole Unico, al reprobo di turno. Uno sport che, secondo Gianfranco Carpeoro, finisce sempre per assolvere il solo, vero responsabile: il sistema.Lo spiega benissimo anche uno specialista come Massimo Mazzucco, in diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”, addentrandosi nel presunto giallo del viadotto Morandi a Genova, che si vocifera sia stato segretamente minato per scatenare la strage di ferragosto. L’ingegnere veneto che rilancia la testi del complotto, adombrando l’ipotesi dell’attentato, ordito magari per colpire Autostrade per l’Italia, che ormai è un gestore internazionale di infrastrutture viarie? Sfortunatamente, quel tecnico è stato ingaggiato proprio da Atlantia, la società dei Benetton: cioè i soggetti che più trarrebbero vantaggio dall’accreditare il sospetto dell’ipotetico attentato, visto che metterebbe in ombra le loro eventuali responsabilità sul mancato controllo della sicurezza del ponte genovese. Piuttosto, dice Mazzucco nella sua attenta ricostruzione, l’unica cosa che non torna è la decisione degli inquirenti di non rendere pubblici alcuni filmati-chiave sul crollo. Forse rivelano indizi sulla grave incuria che, alla fine, ha determinato il collasso del viadotto? Quelle immagini, si dice, restano riservate per non condizionare i testimoni oculari che gli inquirenti devono ancora ascoltare. Ma non ha senso, protesta Mazzucco: se già si dispone di immagini incontrovertibili, infatti, a cosa serve il racconto (fatalmente frammentario e impreciso) di semplici testimoni? Ovvero: qualcuno sta esercitando pressioni “mostruose”, sui magistrati di Genova, per tentare di nascondere le evidenze dell’omessa manutenzione dell’infrastruttura?Citando il saggio “Massoni” di Gioele Magaldi, e attingendo al proprio patrimonio personale di contatti e informazioni, l’avvocato e saggista Carpeoro, autore di scomode pagine sul terrorismo targato Isis ma in realtà “fatto in casa” da servizi segreti agli ordini dei peggiori network supermassonici, sul caso genovese è illuminante: non scordate, dice, che i Benetton fanno parte di una cerchia paramassonica internazionale vicina ai Clinton e a Obama. Un club più che esclusivo, dominato dalla celeberrima superloggia “Three Eyes”, a lungo ispirata dai massimi strateghi del potere politico statunitense, a cominciare da Kissinger. Non solo: nella composizione azionaria di Atlantia figura anche il maggiore “hedge fund” del pianeta, quel BlackRock a cui – a proposito di privatizzazioni “ad personam” – il giovane Matteo Renzi regalò una bella fetta di Poste Italiane, azienda in ottima salute che fruttava allo Stato, ogni anno, quasi mezzo miliardo di euro. Il patron di BlackRock, cioè la star della finanza americana Larry Fink, secondo Magaldi avrebbe gravitato nell’orbita di un’altra Ur-Lodge, quasi “sorella” della “Three Eyes” ma se possile molto peggiore, avendo reclutato tra i suoi affiliati un certo Osama Bin Laden (l’autore del film “11 Settembre”) e lo stesso Al-Baghdadi (aiuto-regista dell’ultimo kolossal horror, quello siglato Isis).Che crolli un ponte in Italia o franino grattacieli negli Usa – minati, quelli sì – il risultato è lo stesso: l’uomo della strada ci rimette la pelle, oltre che un sacco di soldi, mentre i responsabili non pagano mai, prevedibilmente protetti da tonnellate di menzogne, depistaggi e insabbiamenti. Colpa loro, si domanda Carpeoro, o piuttosto di un sistema incapace di giustizia? L’avvocato ricorre a un esempio: «E’ stata sgominata, la mafia, dopo l’arresto di Riina? Ma no, c’era Provenzano. Preso anche lui, ecco Matteo Messina Denaro. Il giorno che arrestassero pure quello, qualcuno dubita che, nel giro di una notte, i boss troverebbero un nuovo capo?». Beninteso: spesso i criminali poi finiscono, giustamente, in galera. Ma il potere giudiziario non è in grado di fare davvero giustizia: può solo limitare i danni. Infatti, per statuto, interviene soltanto a cose fatte, quando cioè il reato è già stato commesso. Perché il sistema cambi, nel senso della vera giustizia, è necessario che, a monte, certi reati non si commettano più. Solo così sarebbe possibile evitare disastri, stragi, truffe e rapine colossali. Migliorare il sistema, dunque. Già, ma come?Missione impossibile, se restiamo quasi sempre al buio: troppo spesso, infatti, non disponiamo delle informazioni-chiave. Nessuno sa, davvero, ciò che sta accadendo. A proposito: quanti italiani sapevano che le loro autostrade, pagate con provvidenziale debito pubblico strategico negli anni d’oro, erano state interamente privatizzate? Quanti sapevano che la famiglia Benetton è poco più che il paravento italiano di un mega-affare, essenzialmente internazionale, pensato lontano dall’Italia e dato in gestione, per la sua esecuzione formale, a Massimo D’Alema? E dov’erano, gli elettori italiani, mentre tutto questo accadeva? Tutti a fare il tifo: pro o contro il Cavaliere di Arcore, “domato” da Romano Prodi e poi, appunto, da D’Alema. Idem i giornalisti italiani: tutti presi anche loro dall’insignificante derby politico, anziché dall’anomalia – sostanziale – che consiste nel regalare a colossi privati un pezzo di paese come la rete autostradale, che oggi frutta profitti per 6 miliardi di euro all’anno, cioè 12.000 miliardi di lire. La scusa, storica? C’era il debito pubblico da “risanare”.Era la fiaba degli italiani spreconi e spendaccioni, che ha fatto la fortuna politica di personaggi come Antonio Di Pietro. Poi è arrivato il Risanatore, quello vero: Mario Monti, paracadutato a Palazzo Chigi da Mario Draghi e Giorgio Napolitano. E tutti hanno cominciato a capire cosa indendono, uomini come quelli, con la parola “risanamento”. In un attimo l’Italia ha visto crollare il Pil, ha perso il 25% del suo potenziale industriale e ha accusato la peggior crisi dal dopoguerra, con una disoccupazione record. Ora qualcuno ha imparato che il debito pubblico, per definizione, non è da “risanare” come quello di una famiglia o di un’azienda, perché lo Stato (se è sovrano nella moneta) non deve restituire a nessuno il denaro emesso direttamente dal governo, attraverso la banca centrale. In tanti, ormai, sanno che dal 1980 – prima ancora dell’euro – la banca centrale ha cessato di emettere denaro in modo illimitato, a disposizione del governo: è da allora, infatti, che il debito pubblico è diventato una tragedia nazionale (fino a trasformarsi, con l’euro, in un dramma internazionale).Chi ha messo il dito nella piaga, durante l’ultima campagna elettorale? Matteo Salvini. Chi ha candidato, al Senato? Alberto Bagnai, eminente economista di scuola sovranista. E dov’è, adesso, Salvini? Nel mirino: tutti i poteri forti (stampa, finanza, industria) gli sparano addosso, col pretesto della sua ruvida intransigenza sui migranti. Gli spara addosso Macron, a capo di un paese che ogni anno, in virtù dell’eredità coloniale, “rapina” 500 miliardi di euro a 14 paesi africani. E a Salvini spara a man salva persino l’ormai disperato Pd, cioè il partito che – fin che è vissuto – non ha fatto altro che eseguire gli ordini dei poteri forti, così come il decano D’Alema all’epoca dei maxi-regali, le autostrade poi lasciate crollare, fino al novello Renzi, il “regalatore” di Poste Italiane. Tutta colpa del Pd, dunque, come suggerisce il tifo odierno che vede nel governo gialloverde la prima, vera speranza, per un paese dominato per 25 anni da poteri stranieri? Stando al ragionamento di Carpeoro su Cosa Nostra, la risposta è scontata: puoi anche sanzionare un manovale del crimine, persino un boss, ma dai guai non esci fino a quando vivi in un sistema che prevede l’impunità sostanziale per certi reati.La parte dal cattivo travestito da buono – ormai si sa – è toccata, storicamente, al centrosinistra. Ovvio: mai l’elettorato di sinistra avrebbe tollerato le stesse leggi, se a promulgarle fosse stato Berlusconi. Non hanno fatto una piega, i sindacati, quando invece a contrarre i diritti del lavoro è stato il centrosinistra. Ma, tralasciando gli attori in commedia, sarebbe cambiato qualcosa che se questa storia fosse stata recitata da tutt’altro cast? Dov’è il problema, negli attori o piuttosto nel copione? E’ irrilevante che oggi gli zombie del Pd fingano ancora di esistere: e sanno che, se non fosse comparso il provvidenziale “mostro” Salvini, non saprebbero neppure cosa dire, di fronte alle telecamere. Intanto i ponti crollano, insieme al resto del paese. E c’è chi pensa agli immancabili, fantomatici bombaroli, come se non bastasse lo spettacolo dell’auto-sabotaggio realizzato da un intero paese, a cui i maghi dell’informazione hanno raccontato, indisturbati, che tutto va bene, e che il padrone ha sempre ragione. Quello, semmai, era il vero complotto. E sta venendo alla luce oggi, lentamente, attraverso l’inaudita violenza verbale che l’establishment riserva all’attuale governo: il primo, dopo 25 anni, non partorito direttamente dal potere “complottista”. L’unico governo, per ora, largamente sostenuto dagli elettori.E’ già stata programmata la prossima aggressione americana alla Siria? Se lo domanda “The Saker”, pensando all’imperialismo yankee oggi più che mai ostile all’Iran, mentre a Washington l’impeccabile Barack Obama e l’assai meno impeccabile George W. Bush piangono la dipartita del vecchio leone John McMcain, presentato come eroe di guerra – quella del Vietnam, però (non quella siriana, dove celebri fotografie immortalano lo stesso McCain, dalle parti di Damasco, a colloquio con un’illustre congrega di tagliagole, tra cui l’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, nome d’arte del futuro capo della premiata macelleria mediorientale, il sedicente Isis). Si fa presto a dire “l’America”, quando è palese che neppure un americano su cento ha idea di come siano andate davvero le cose, in Siria, cioè nel paese dei bombardamenti immaginari con gas nervino sulla popolazione inerme, disposti dal feroce regime di Assad sul quale proprio l’elegantissimo Obama stava per scatenare l’Armageddon missilistico. Lo schema è classico, ormai datato ma sempre formidabile: la fanfara mediatica suona la sua canzone, che poi a casa – davanti al televisore – fischiettano tutti. E quelli che si rifiutano (non più così pochi, ormai) spesso cadono nel tranello del festival opposto, che poi è l’altra faccia della stessa medaglia. Complottismo militante: caccia al Colpevole Unico, al reprobo di turno. Uno sport che, secondo Gianfranco Carpeoro, finisce sempre per assolvere il solo, vero responsabile: il sistema.
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Pagare a vita: il ruolo di Cottarelli nell’agonia della Grecia
Carlo Cottarelli è tra i massimi responsabili delle mostruose sofferenze inflitte alla Grecia, che hanno trasformato il paese in un avanmposto del terzo mondo, con ospedali senza più medicine per curare i bambini e le maggiori infrastrutture – porti, aeroporti – comprate dalla Germania a prezzi di saldo. Lo afferma Fabio Lugano su “Scenari Economici”, citando documenti ufficiali che confermano il ruolo nefasto dell’economista neoliberale, scelto da Sergio Mattarella come candidato premier alternativo a Giuseppe Conte. La colpa di Cottarelli? Fu tra i dirigenti del Fmi che, quando la Grecia era commissariata dalla Troika, non permisero ad Atene di tagliare il debito, accollandone interamente il costo alle aziende e alle famiglie greche. Ragioni ideologiche: Cottarelli, autore della spending review del governo Letta, secondo l’insigne economista keynesiano Nino Galloni rifiuta di ammettere il valore potenziale del deficit, capace di triplicare – in termini di Pil – la spesa pubblica erogata. Nel caso della Grecia, ha invece rifiutato la “ristrutturazione” del debito storico, che avrebbe permesso al paese di tornare a respirare, evitando la catastrofe che non ha ancora finito di travolgerlo.Dato che sia Cottarelli che il collega Olivier Blanchard sono «molto restii a rivelare il loro ruolo nella questione greca», e visto che «sembra vogliano ripetere lo stesso frame con l’Italia», Fabio Lugano ha scovato i documenti che comprovano il ruolo di Cottarelli nel “martirio” della Grecia. «Nulla di segreto», premette Lugano su “Scenari Economici”: «Tutta roba ufficiale messa a disposizione del pubblico e già conosciuta». Il documento più interessante sulla questione greca, scrive Lugano, è il report dell’Indipendent Evaluation Office del Fmi, cioè l’ufficio che effettua l’audit sulle operazioni del Fondo Monetario, che insieme a Bce e Commissione Europea faceva parte della Troika incaricata di gestire la crisi finanziaria ellenica. «Abbiamo già specificamente trattato questo tema in precedenza, ma ci torneremo sopra in futuro – avverte Lugano – perchè il tema dei moltiplicatori fiscali viene lì trattato in modo approfondito e specifico, facendo notare come i moltiplicatori utilizzati dal Fmi nella valutazione della politica fiscale fossero completamente errati, pari ad un quinto di quanto verificato in seguito». In altre parole: i tagli inferti alla Grecia hanno prodotto solo il 20% del risultato atteso da Cottarelli e soci, e al prezzo della devastazione sociale di un’intera nazione.Il ruolo “cottarellico” nella vicenda? Lugano lo scova a pagina 23 del report: «Il Fmi – si legge – rimase diviso sulle conseguenze e i rischi legati a una ristrutturazione del debito». Per un pelo non prevalsero i saggi, disposti ad aiutare davvero la Grecia. «Mentre la maggioranza dello staff del Fmi era in modo crescente a supporto della ristrutturazione del debito», quindi del reale salvataggio della Grecia, «alcuni funzionari senior in posizioni chiave continuavano ad affermare che il debito fosse sostenibile», cioè scaricabile sulle spalle di aziende e famiglie, giovani e pensionati. Nel settembre 2010 – continua il rapporto – il Fad pubblicò un paper affermando che, «per le economie avanzate di oggi», incluse quelle «periferiche» dell’area euro, «il default non è nell’interesse dei cittadini». Firmato: “Cottarelli e altri, 2010”. «Il paper in questione lo trovate facilmente nel sito Fmi, ma non aspettatevi molto», dice Lugano: «Le motiviazioni sono deboli, alcune delle quali contestate nel medesimo report dell’Ieo – come ad esempio la sua fobia per i moltiplicatori elevati, o la sopportabilità di avanzi primari enormi». Le scelte di Cottarelli, aggiunge Lugano, influenzarono quelle del Fmi nel non insistere in un maggior taglio immediato del debito, «e lasciarono gravato lo Stato greco di un fardello che non poteva sopportare».Comunque, poi – nonostante le previsioni di Cottarelli – alla fine si dovettero ugualmente effettuare due tagli del debito, e nel 2017 il Fmi richiese addirittura un terzo taglio dei conti, che però non venne concesso. Ma l’immane debito greco, così gravoso solo perché denominato in euro (moneta non sovrana), non doveva essere interamente “sostenibile” fin dall’inizio? «Le affermazioni di Cottarelli si rivelarono completamente erronee – sottolinea Lugano – e impedirono di affrontare in modo immediato la crisi: invece che risolvere il tutto il 12-24 mesi si è proseguito con una specie di lenta agonia che non è ancora terminata». Conclude Lugano: «Considerare l’euro o le economie anche periferiche al di fuori delle regole dell’economia è stato un errore clamoroso, che viene ripetuto anche ora. Il problema non è errare, ma perseverare nell’errore, in una politica che si è dimostrata errata. Questa è la grande colpa dell’economista».Carlo Cottarelli è tra i massimi responsabili delle mostruose sofferenze inflitte alla Grecia, che hanno trasformato il paese in un avanmposto del terzo mondo, con ospedali senza più medicine per curare i bambini e le maggiori infrastrutture – porti, aeroporti – comprate dalla Germania a prezzi di saldo. Lo afferma Fabio Lugano su “Scenari Economici”, citando documenti ufficiali che confermano il ruolo nefasto dell’economista neoliberale, scelto da Sergio Mattarella come candidato premier alternativo a Giuseppe Conte. La colpa di Cottarelli? Fu tra i dirigenti del Fmi che, quando la Grecia era commissariata dalla Troika, non permisero ad Atene di tagliare il debito, accollandone interamente il costo alle aziende e alle famiglie greche. Ragioni ideologiche: Cottarelli, autore della spending review del governo Letta, secondo l’insigne economista keynesiano Nino Galloni rifiuta di ammettere il valore potenziale del deficit, capace di triplicare – in termini di Pil – la spesa pubblica erogata. Nel caso della Grecia, ha invece rifiutato la “ristrutturazione” del debito storico, che avrebbe permesso al paese di tornare a respirare, evitando la catastrofe che non ha ancora finito di travolgerlo.