Archivio del Tag ‘capacità’
-
Giulietto Chiesa: m’ero sbagliato, in Russia la gente soffre
Non è da tutti, ammettere i propri errori, specie se si ha alle spalle una lunga storia fatta anche di coraggio. E’ il caso di Giulietto Chiesa, amico personale di Mikhail Gorbaciov. Nell’agosto del ‘91, mentre il golpista Ghennadi Janaev tentava di mascherare il colpo di Stato in corso, accampando ipotetici “problemi di salute” da parte del padre della Perestrojka, Giulietto Chiesa lo sfidò, in mondovisione, con una semplice domanda: «E lei come si sente, signor Janaev?». Per anni corrispondente da Mosca per “L’Unità”, poi per “La Stampa” e per il “Tg5”, Chiesa fu tra i primi, in Italia, con il saggio “La guerra infinita” uscito nel 2003 per Feltrinelli, a denunciare le trame (altrettanto golpiste) dei “neocon” Usa, sospettati di aver incubato la strage dell’11 Settembre, comodamente attribuita all’islamico Bin Laden. Giulietto Chiesa – riconobbe anni fa il caustico Paolo Barbard – è stato l’unico, degli esponenti della “casta” giornalistica italiana, a mettere a repentaglio la sua reputazione (e i suoi privilegi di ospite fisso, in televisione) pur di denunciare una verità che il manistream non voleva accettare. Oggi, a parte le sfortunate avventure politiche con Antonio Ingroia, Chiesa dirige sul web la voce libera di “Pandora Tv”, da cui spessissimo difende la politica di Putin e la Russia in generale, esponendosi alla facile accusa di coltivare nostalgie sovietiche. Ora fa pubblica ammenda: sulla Russia mi sono sbagliato, dice; Putin non è riuscito a rimediare agli orrori di Eltsin, e così il popolo soffre.Beninteso: non è mai stato facilissimo il rapporto tra Giulietto Chiesa e la Russia, neppure ai tempi dell’Unione Sovietica. «Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia del Cremlino, la “Tass”, per ottenere la rimozione del corrispondente italiano, ritenuto scomodo (e difeso invece con ostinazione da Berlinguer, il segretario del Pci che l’aveva scelto come giornalista da inviare a Mosca). Caduta l’Urss, dopo tanti saggi sull’ex impero sovietico, oggi Giulietto Chiesa ammette: purtroppo ho visto in ritardo i problemi che affliggono i russi, alle prese con una politica interna non all’altezza della politica estera brillantemente svolta da Putin. A richiamarlo sul tema, scrive lo stesso Chiesa su “Megachip”, è un’affezionata lettrice, russa, che gli scrive dalla Russia “profonda”, dove non è mai arrivato il recente benessere di Mosca e San Pietroburgo. «Non metto la sua firma, per la sua sicurezza, né il luogo dove abita». Una premessa poco rassicurante: dimostra che il dissenso politico, in Russia, è tuttora pericoloso. «Credo che le cose che lei mi dice siano purtroppo vere», premette Chiesa, «come lo sono i processi degenerativi anche da noi». E’ delusa, la lettrice russa, dall’ultimo intervento del giornalista a “Radio Padania”, che l’ha resa «molto triste». Motivo: «Mi sono resa conto – gli scrive – di come il tuo giudizio sulla Russia intera sia influenzato da ciò che vedi a Mosca. E anche di quanto questa Mosca benestante sia completamente disinteressata a ciò che succede nel resto del paese».I nuovi intellettuali democratici citati da Chiesa a “Radio Padania”? «Io non so nulla di questa nuova generazione di intellettuali – aggiunge la donna – perché il nostro eroe principale, da queste parti, è il delinquente marginale, che ruba e non fa niente di niente. E le leggi lo difendono». Non solo: grazie a questa “esemplare” impunità, aggiunge la lettrice, si forma la nuova generazione che appare allo sbando. «Vorrei che tu vedessi e sentissi come ragazzi e ragazze, giovanissimi, parlano tra loro, con un linguaggio dove altro non c’è che la più bassa volgarità. Perché non conoscono altro linguaggio che quello». Tutto ciò, aggiunge la donna, «mentre le persone normali sono ormai minoranza, e per loro non esiste alcun ordine pubblico, nemmeno l’elementare sicurezza, poiché chiunque voglia può infierire su di loro». Soprattutto, continua la lettera, «non c’è all’orizzonte alcuna prospettiva, non c’è luogo o occasione dove ognuno possa impiegare le sue forze e energie intellettuali. Non c’è posto per realizzare semplicemente il proprio desiderio di fare qualche cosa che abbia un senso, un’utilità, per la quale sacrificare se stessi». E questo, assicura, non accade soltanto nella sua piccola città: «Anche nel capoluogo più vicino alla piccola città in cui vivo è difficilissimo incontrare qualcuno che riesce a trovare un posto di lavoro che corrisponda alle sue capacità e alla sua professione. Io, per lo meno, di queste persone non ne conosco nemmeno una. Avverto perfino fisicamente come nella società crescono la stanchezza e l’insofferenza. Nessuno è però in grado di esprimere l’una e l’altra cosa in forme civilizzate».Un esempio italiano? La lettrice russa cita il ministro Toninelli, che ha parlato della “nostra infelice Italia”. «Ti risulta che qualcuno del nostro governo abbia mai pronunciato qualcosa di simile alla “nostra infelice Russia”? Da noi si sentono soltanto lodi sperticate di grandi successi», scrive la donna. «La gente, in Occidente, può manifestare e protestare, mentre da noi non può. Forse perché non abbiamo idea di cosa sia la società civile, o forse semplicemente per la sensazione che “tutto è inutile, e che in ogni caso loro faranno come gli pare”». Negli ultimi tempi, poi, «l’insofferenza si va dirigendo non solo contro i burocrati in generale ma anche contro Putin (al quale in un certo senso molto veniva perdonato, anche perché da noi è ancora forte l’esigenza di uno “zar buono”)». Il dissenso è tale che «può accadere qualche cosa di imprevisto e terribile». Una profezia, confidata a Chiesa: «Probabilmente tu non mi crederai se ti dico che Putin non resterà al suo posto fino alla fine del mandato». La donna manifesta «una grande paura». Teme cioè che la Russia «non sopravviva a un’altra rivoluzione». E conclude con un appello, ben poco ottimistico, alla divina provvidenza: «Che Dio non ci costringa a essere testimoni della rivolta russa, insensata e senza pietà».A tanta franchezza, Giulietto Chiesa replica senza giri di parole: «Cara amica, penso che la tua descrizione dei fatti sia purtroppo molto vicina alla realtà». Ma, aggiunge, «non so se lo siano anche le tue previsioni circa il futuro». E spiega: «Per quel poco che so del popolo russo, penso che il “bunt”, la rivolta, sia molto lontana. La vostra pazienza secolare ha impedito che essa si affacciasse molte volte». Di “bunt”, Giulietto Chiesa assicura di averne visto uno solo: quell’immensa protesta di popolo, a Mosca, nell’ottobre 1993, che precedette il bombardamento del Parlamento (la Casa Bianca) deciso da Boris Eltsin, «con il successivo massacro di cui nessuno parlò». E anche allora, «per quanto immensa fosse quella folla, la rivolta non andò a finire bene». Ma non c’è nessun dubbio, ammette Chiesa, che la politica interna della Russia stia andando assai male, «come non c’è dubbio che la distanza tra l’élite moscovita e pietroburghese e le masse popolari sia in crescita geometrica». Non c’è dubbio, aggiunge Chiesa, «che la corruzione sia dilagante, che la solidarietà sia in calo verticale», e che la cultura «stia degradando, così come l’istruzione». Non c’è alcun dubbio, insomma, «che la fiducia dei cittadini nelle istituzioni dello Stato sia ormai logorata». Il motivo? «La democrazia non ha fatto passi avanti rispetto al momento in cui iniziò la Perestrojka, sollevando grandi speranze in milioni di persone», come lo stesso Chiesa potè vedere con i suoi occhi.«Ma questo distacco dalle masse, che il potere non fa nulla per riempire – aggiunge il giornalista – è, anche per me, fonte di grande preoccupazione». Giulietto Chiesa pensa che la Russia, se vuole risolvere i suoi problemi, «debba in qualche modo essere di esempio al resto del mondo». Ovvero: «Debba, in primo luogo, ridurre la disuguaglianza sociale, impedire che la degenerazione consumistica e intellettuale, e morale, entri nel suo corpo con gli effetti devastanti», peraltro identici – in questo senso – a quelli che stanno investendo tutto l’Occidente. Nello stesso tempo, aggiunge, «io so qual è il peso mondiale della Russia». Sa bene, Chiesa, «qual è stato in questi anni il ruolo di pace che, con Putin, essa ha svolto». Per questo, ribadisce, continua ad appoggiare «la ragionevolezza delle sue prese di posizione, politiche a pratiche». Una precisa visione geopolitica: «Penso che, senza la Russia e il suo ruolo deterrente, il mondo sarebbe già assai più vicino a una guerra gigantesca e definitiva». E tuttavia, ammette Chiesa, il suo consenso rispetto al Cremlino «finisce sui confini della politica estera della Russia», dal momento che «il sistema sociale che è emerso dalla contro-rivoluzione etsiniana è stato un gravissimo passo indietro, al quale fino ad ora non è stato posto rimedio».Sempre secondo Chiesa, «la democratizzazione, nelle forme “russe” che essa non potrebbe non avere (non certo scimmiottando la democrazia “elitaria” che oggi domina l’Occidente) sarebbe indispensabile per ricostruire un rapporto decente tra dirigenti e diretti, e per aiutare il formarsi di una società civile moderna, da cui emergerebbero forze intellettuali e morali», oggi assenti nella Russia “profonda” descritta dalla lettrice. Non ha paura, Giulietto Chiesa, di sottoscrivere la più sincera delle ammissioni: «Credo, per quanto mi riguarda, di essere involontariamente caduto – raccontando la Russia in questi ultimi anni – nell’errore che invece non commisi durante i miei venti anni come corrispondente dall’Urss e poi dalla Russia: quello di pensare che la “vetrina” corrispondesse al paese». Non è così, scrive Chiesa: la “vetrina” non è lo specchio fedele della Russia. «Penso di aver commesso questo errore – aggiunge – confondendo e mettendo sullo stesso piano due cose assai distinte», come appunto «la politica estera e quella sociale interna». E cioè: «Volendo sostenere la prima posso avere dato l’impressione di appoggiare anche la seconda. Con questa mia risposta pubblica – conclude – intendo ristabilire la differenza».Non è da tutti, ammettere i propri errori, specie se si ha alle spalle una lunga storia fatta anche di coraggio. E’ il caso di Giulietto Chiesa, amico personale di Mikhail Gorbaciov. Nell’agosto del ‘91, mentre il golpista Ghennadi Janaev tentava di mascherare il colpo di Stato in corso, accampando ipotetici “problemi di salute” da parte del padre della Perestrojka, Giulietto Chiesa lo sfidò, in mondovisione, con una semplice domanda: «E lei come si sente, signor Janaev?». Per anni corrispondente da Mosca per “L’Unità”, poi per “La Stampa” e per il “Tg5”, Chiesa fu tra i primi, in Italia, con il saggio “La guerra infinita” uscito nel 2003 per Feltrinelli, a denunciare le trame (altrettanto golpiste) dei “neocon” Usa, sospettati di aver incubato la strage dell’11 Settembre, comodamente attribuita all’islamico Bin Laden. Giulietto Chiesa – riconobbe anni fa il caustico Paolo Barbard – è stato l’unico, degli esponenti della “casta” giornalistica italiana, a mettere a repentaglio la sua reputazione (e i suoi privilegi di ospite fisso, in televisione) pur di denunciare una verità che il manistream non voleva accettare. Oggi, a parte le sfortunate avventure politiche con Antonio Ingroia, Chiesa dirige sul web la voce libera di “Pandora Tv”, da cui spessissimo difende la politica di Putin e la Russia in generale, esponendosi alla facile accusa di coltivare nostalgie sovietiche. Ora fa pubblica ammenda: sulla Russia mi sono sbagliato, dice; Putin non è riuscito a rimediare agli orrori di Eltsin, e così il popolo soffre.
-
Morandi, Benetton, soldi: tragedia “annunciata dalle stelle”
Il viadotto Morandi? Quei due monconi danno al paesaggio una sensazione di guerra, e fanno intuire quale ferita sociale ed economica sia stata inferta alla città di Genova, già duramente provata dal passato recente. Utilizzando il mio ambito di ricerca, l’astrologia, per esaminare la vicenda del ponte crollato – che dava sempre la sensazione, percorrendolo, di una leggera instabilità – parto dal suo ideatore, l’ingegner Riccardo Morandi, nato di lunedì all’inizio del secolo scorso sotto il segno della Vergine – elemento Terra, che in genere favorisce questo tipo di professione. I Vergine sono portati al calcolo, alla precisione, e hanno una buona dose di senso pratico (come gli altri segni di Terra). Lui però era anche abbastanza visionario, per via di quel rapporto armonico del Sole (l’Io profondo) con Nettuno (fantasia, capacità evolutiva e di trasformazione). Infatti ha ideato e portato avanti dei progetti che poggiavano su un materiale allora all’avanguardia, il calcestruzzo armato pre-compresso, di cui ottenne il brevetto nel ‘48, e che allora pareva potesse rispondere alle esigenze di un paese in via di ricostruzione e ammodernamento, a costi inferiori rispetto ai materiali classici (la Vergine tende sempre a fare economia, è una sua caratteristica).Al momento della costruzione, terminata nel 1967, nessuno – a cominciare da lui – si era posto il problema della durabilità di questo materiale nuovo, esposto agli agenti atmosferici. Ma pare che, negli anni, questo pensiero lo abbia abbastanza tormentato. Fu portato a dare suggerimenti per la manutenzione, che a quanto pare non sono stati presi troppo in considerazione. Ma l’elemento principale della mia analisi è la nascita del ponte stesso. Infatti l’indagine astrologica è possibile non solamente sulle persone, ma su qualsiasi cosa (o animale) che nasca, in un dato momento, in un determinato punto della Terra, per il noto effetto analogico: se decifro i simboli celesti presenti in quella data ora, giorno, anno e luogo, ho il quadro delle caratteristiche di quanto sta nascendo, perché “come in alto, così in basso”. Quel ponte è stato inaugurato il 4 settembre 1967, alle ore 17,30. Ed era un lunedì: giorno tradizionalmente legato alla Luna, la quale – come si sa – è legata all’elemento Acqua. La prima cosa che colpisce, nel quadro astrale, è l’accumulo di buona parte dei pianeti in un settore che ha un significato ben preciso: morte e rinascita.Si tratta dell’Ottava Casa legata allo Scorpione, segno d’Acqua, mentre questi pianeti sono nel segno della Vergine. Il Sole (che rappresenta proprio la vita) e la Luna sono congiunti. La Luna si trova infatti nella fase di “luna nuova”, fiaccata e resa invisibile dal Sole: e questo aspetto abbassa le aspettative di vita. Invece di rinforzarsi a vicenda, questi due corpi celesti si ledono. Mercurio, Urano e Plutone sono tutti nel segno della Vergine, e tutti in contatto tra loro a farsi forza. Ma Urano può procurare incidenti ed errori tecnici, e tutti sono pur sempre in un settore che parla di morte (e anche di politica, perché sicuramente un’opera del genere non poteva nascere senza l’avvallo della politica del tempo). Poi si aggiunge Venere – un poco, come dire, la salute del ponte stesso. E’ sempre in Vergine, e con una posizione dissonante con Marte in Scorpione (che non promette bene, per la durata del ponte stesso). Il clamore suscitato, non solo in Italia, da questo ponte avveniristico, è ben descritto da due pianeti nel settore della fama, della visibilità; peccato che si tratti del solito Marte e di Nettuno in Scorpione. Sono pianeti poco favorevoli a una fama duratura e priva di pericoli.Se poi vogliamo proprio entrare nell’ambito specifico della durabilità, vediamo che Saturno – simbolo dello scheletro umano e quindi anche della struttura interna di questa costruzione – è isolato, e quindi senza alcun appoggio: non depone certo a favore di una lunga vita. Notizia da prendere con beneficio di inventario: pare siano stati fatti degli studi sull’impatto della Luna, che sappiamo avere da sempre degli effetti sulla Terra e soprattutto sulle acque, presenti anche nel corpo umano. Pare che la Luna abbia un effetto sulle costruzioni in cui è presente il cemento – che, non dimentichiamolo, si forma anche con l’acqua, anche se poi viene assorbita. Il ponte Morandi è nato di lunedì, con una Luna importante ma indebolita: per questo, il cemento ne sarebbe risultato indebolito? Lascio in sospeso la risposta: sono una ricercatrice, sempre alla ricerca di conferme. Questa comunque è la situazione natale del ponte, che resta sempre sullo sfondo. Ma poi i pianeti si muovono, seguendo le loro orbite regolari, e quindi prevedibili, creando rapporti armonici o dissonanti coi pianeti natali. E come erano messi, quel tragico martedì 14 agosto, alle ore 11,36?Erano molto significativi, anche se non necessariamente leggibili con quanto è realmente successo, dato che le previsioni sono l’aspetto meno facile (e sotto certi aspetti anche meno utile) nell’analisi astrologica, perché possono anche condizionare le persone. Ma comunque la capacità di previsione esiste, e questi transiti danno più di un indizio. Anzitutto il giorno, martedì, mi ha portato subito a cercare di vedere dove si trovava Marte, quel giorno: si trovava bene in evidenza, in primo piano. Marte è un pianeta dirompente, legato agli incidenti, ma era Venere (la salute di questo ponte) ad essere insidiata da due pianeti più pericolosi, in questi casi: si tratta di Saturno e Urano, entrambi portatori di incidenti e difficoltà anche quando, come in questo caso, si trovano in posizione armonica. Ho la sensazione che la tragedia avrebbe potuto essere molto, ma molto più grave, se si pensa che poteva anche passare un treno, sotto il ponte, e che il fatto che piovesse in quella maniera abbia limitato il transito di veicoli, in un giorno tra l’altro di grande traffico. Proprio il fatto che Saturno e Urano formassero con Venere un aspetto armonico credo che abbia contribuito a limitare i danni: se non fosse stato armonico, molto probabilmente ci sarebbero stati guai peggiori.Comunque, l’Ottava Casa è anche simbolo di rinascita: è certo che il ponte rinascerà. E chi potrebbe esserne il nuovo padre? Forse Renzo Piano, che si è offerto fin da subito gratuitamente per via del suo legame con la città. Per una strana coincidenza, anche Renzo Piano è della Vergine. E non finisce qui, l’affinità con l’ingegner Morandi: anche in Renzo Piano, infatti, Nettuno (simbolo di fantasia) è unito al Sole; ma il Nettuno di Piano è in Vergine, e quindi è più prudente e tecnico del Nettuno di Morandi, che si trovava in Cancro (Acqua). Ne so qualcosa, perché ho anch’io Nettuno in Vergine (e Nettuno è un pianeta lento, e quindi generazionale). Ma le analogie con Morandi finiscono qui, perché Renzo Piano ha un tema molto più solido, strutturato e fortunato di quello di Morandi. Renzo Piano è nato a Genova da una famiglia di imprenditori edili e ben presto, dopo la laurea in architettura, ha fatto esperienza all’estero, collaborando fin da giovanissimo con uno dei massimi architetti mondiali e realizzando con lui l’originale Centre Pompidou a Parigi. In seguito ha collaborato con i maggiori architetti e ingegneri del mondo, realizzando opere famose che spaziano dai musei alla chiesa di Padre Pio a Monterotondo, fino al grattacielo più alto d’Europa, The Shard, a Londra, di straordinaria arditezza – più che un grattacielo, sembra un sogno fattosi realtà.Il suo stile non sembra appartenere a nessuna scuola corrente. Si basa su di una interazione tra aspetti tecnologici, pratici e anche poetici, che contraddistinguono le sue opere. Lui ha avuto un tringolo a stella, che è una grande potenza, tra il Sole (il suo Io profondo, la sua parte attiva) con Giove e Saturno (attivismo) in Capricorno, e Urano (lavoro e capacità pratica) in Toro. I tre segni di Terra sono uniti, e in posizione armonica, diventano un potente volano per capacità lavorativee pratiche. Ma lui ha anche degli aspetti generosi e delle punte idealistiche: con Venere in Leone (genersiotà) e Marte in Sagittario (che sempre effetti idealistici). Se si aggiunge la Luna (la sua parte femminile) nell’efficiente, ambizioso e costruttivo segno del Capricorno, ecco il quadro di una persona vincente, che è stata il grado di sviluppare al massimo le sue capacità iniziali. Certo, quando vedo una veda posizione del Sole con Giove (il pianeta che, oltre a un carattere fiducioso, dona sempre anche la quasi-certezza che la vita stessa offrirà delle opportunità di crescita e di successo) non mi meraviglia che una personi così incominci la sua vita col nascere nell’ambiente sociale giusto – meglio tra costruttori edili che nella famiglia dell’assassino della porta accanto – e faccia, nell’arco della sua vita, gli incontri giusti al momento giusto. Ben venga il suo ponte, dunque, anche se non è ancora certo che sarà lui a realizzarlo.Rispetto a questa vicenda c’è un aspetto che mi ha inquietato molto, come credo tanti italiani. Mi riferisco all’evidente mancanza di un’adeguata manutenzione del ponte stesso da parte della società che ne ha la gestione. Nel lontano 1999, la gestione della maggior parte delle autostrade italiane – detenuta dall’Iri e controllata dal ministero del Tesoro – venne data a quella che sarà poi costituita, nel 2002, come società Autostrade per l’Italia, che dal 2007 ha parte del gruppo Atlantia, il cui principale azionista è la veneta famiglia Benetton. Atlantia controlla la maggioranza dei 6.000 chilometri di autostrade italiane, costruite con investimenti pubblici (ossia con i soldi del cittadino italiano), e si è rivelata una gallina dalle uova d’oro. Nel’ultimo anno, a fronte di un fatturato di 3.600 miliardi, ha realizzato un utile di 998 milioni (il 19% in più dell’anno precedente). E quindi mi è scattata la curiosità di capire qualcosa, sul piano astrologico, di questa famiglia potentissima, sia economicamente che politicamente, che è partita da esordi difficili e poveri. Si tratta di quattro fratelli – Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo – rimasti orfani di padre nel 1945, ma pieni di iniziativa e di voglia di lavorare (come accadeva in molte famiglie, nel dopoguerra). Cominciano piano piano, con Giuliana che confeziona in casa maglioni colorati, che poi Luciano vende, mentre Gilberto tiene i conti e Carlo – un disegnatore – si occupa degli aspetti tecnici e produttivi. E da lì volano.Negozi in tutto il mondo, la prestigiosa sede in Veneto. Proprietari di mezza Patagonia, dove allevano le pecore per i loro prodotti (e dove, tra parentesi, hanno avuto un contenzioso con gli indigeni sfrattati). Poi: l’acquisizione di altri marchi, ma soprattutto la costruzione di una rete diffusa di interessi finanziari, lontanissimi dai maglioncini colorati che avevano costituito la loro prima fortuna. I fratelli più vecchi sono i gemelli Luciano e Giuliana, nati col Sole nel segno del Toro, con Urano (il pianeta del lavoro) pure in Toro, in posizione vincente per intraprendere un lavoro indipendente e creativo. E in effetti sono loro ad aprire la strada, con la prima confezione artigianale da parte di Giuliana di un maglioncino giallo, in un momento in cui non erano di moda i colori sgargianti, e l’intuizione di Luciano di commercializzare i prodotti. Segue Gilberto, il fratello di mezzo, con il Sole nel segno dei Gemelli: adattissimo a occuparsi di finanza, sotto un segno intelligente e abbastanza disinvolto – anche se, eticamente parlando, per muoversi in un ambito in cui non abbondano gli scrupoli. E anche in lui c’è una fortunata, vincente congiunzione tra Urano (pianeta del lavoro), Giove (fortuna e denaro) e Saturno (potere). L’ultimo era Carlo, nato col Sole nel segno del Capricorno congiunto a Giove (il che aiuta, a raggiungere degli obiettivi); è morto recentemente, mentre era in corso un passaggio di Saturno nel suo segno.Comunque, non a caso, i fratelli Benetton sono nati sotto tre segni di Terra (l’elemento che, più di altri, possiede tenacia e capacità lavorativa) e un segno di Aria (che suggerisce le capacità di muoversi nel volatile e difficile mondo della finanza). Che dire? Il successo e il potere raggiunto li hanno allontanati, come spesso succede, dal mondo delle persone comuni, quelli che hanno problemi con il mutuo e a raggiungere la fine del mese, inclusi gli sfollati di Genova che ora affrontano tutti i disagi del non avere più una casa – senza contare il dolore delle persone che hanno perso i loro cari. Ho passato gli ultimi trent’anni della mia vita a occuparmi di ricerca spirituale. Sono in contatto con guide spirituali, e ho una chiara visione di quella che dovrebbe essere l’impostazione corretta di una vita ben spesa – che è sempre lontana dall’egoismo, dall’avidità e dal volere sempre di più, incuranti degli altri. Il desiderio di rifarsi sugli altri per riscattarsi dalle sofferenze patite è molto umano e molto diffuso. E non è facile abbandonare questo modo di essere, perché sembra darci forza (se invece ti accosti al perdono, ti sembra una debolezza).In effetti il perdono non dovrebbe essere superficiale ma, anzi, dovrebbe essere il riconoscimento che, qui sulla Terra, siamo tutti compagni di viaggio e possiamo sbagliare; quindi non vale ergersi a giudici, perché siamo tutti passibili di fraintendimenti ed errori. Fatto nel modo giusto, il perdono è un segno di grande forza: certifica che tu hai raggiunto pace, tranquillità e forza interiore. Se uno si guarda attorno, però, vede un grande vociare… Alla mia età ho ormai una visione più distaccata, ma tutto questo comunque mi fa male: anche se con gli anni subentra una certa saggezza, questo spettacolo mi ferisce sempre. E quello che mi ferisce di più è l’egoismo, l’avidità. Mi chiedo: che bisogno c’è di accumulare fortune immense, che spesso i discendenti (meno saggi e meno preparati a lavorare) poi dissipano in poco tempo? E comunque: a che serve accumulare, procurando danni strada facendo? Perché è difficile accumulare fortune senza far danni attorno. Di solito, se lavori onestamente e senza buttarti in troppi campi, non riesci a raggiungere certe posizioni. Io me lo chiedo, perché vedo persone che sono prese da questa ansia di primeggiare sugli altri, e così perdono di vista tante cose, molto più importanti: la solidarietà, la compassione, un occhio per chi ha meno di te.(Germana Accorsi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti durante la trasmissione web-radio “Border Nights” del 25 settembre 2018).Il viadotto Morandi? Quei due monconi danno al paesaggio una sensazione di guerra, e fanno intuire quale ferita sociale ed economica sia stata inferta alla città di Genova, già duramente provata dal passato recente. Utilizzando il mio ambito di ricerca, l’astrologia, per esaminare la vicenda del ponte crollato – che dava sempre la sensazione, percorrendolo, di una leggera instabilità – parto dal suo ideatore, l’ingegner Riccardo Morandi, nato di lunedì all’inizio del secolo scorso sotto il segno della Vergine – elemento Terra, che in genere favorisce questo tipo di professione. I Vergine sono portati al calcolo, alla precisione, e hanno una buona dose di senso pratico (come gli altri segni di Terra). Lui però era anche abbastanza visionario, per via di quel rapporto armonico del Sole (l’Io profondo) con Nettuno (fantasia, capacità evolutiva e di trasformazione). Infatti ha ideato e portato avanti dei progetti che poggiavano su un materiale allora all’avanguardia, il calcestruzzo armato pre-compresso, di cui ottenne il brevetto nel ‘48, e che allora pareva potesse rispondere alle esigenze di un paese in via di ricostruzione e ammodernamento, a costi inferiori rispetto ai materiali classici (la Vergine tende sempre a fare economia, è una sua caratteristica).
-
Democrazia diretta: la chiave del benessere della Svizzera
La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).Il popolo può opporsi legittimamente a qualsiasi atto governativo o amministrativo. Ad esempio si può opporre al permesso di costruire di un edificio concesso dall’ufficio tecnico del proprio Comune. Per presentare un quesito referendario è necessario raccogliere 50.000 firme nell’arco di 100 giorni. Avendo la Svizzera 8,4 milioni di abitanti, facendo una proporzione è come se in Italia si dovessero raccogliere 357.000 firme. In Svizzera, quindi, serve un numero minore di firme. Le firme possono essere raccolte da chiunque, su dei modelli messi a disposizione dalla Cancelleria Federale. Non è necessaria la validazione delle firme da parte di una persona abilitata, come invece avviene in Italia. Questo fatto facilita enormemente la raccolta di firme a sostegno di un quesito referendario. Naturalmente le firme raccolte vengono sottoposte a controllo di verifica di validità da parte della Cancelleria Federale, analogamente a quanto avviene in Italia da parte della Corte di Cassazione. La conseguenza di queste premesse è che in Svizzera si formano molti comitati, con e senza il supporto dei partiti, per promuovere quesiti referendari di ogni tipo, che nessun organismo pubblico ha il potere di impedire che vengano sottoposti a votazione, se il numero di firme valide necessario è stato raccolto e depositato.Il popolo svizzero viene chiamato a votare 3-4 volte l’anno. Il materiale informativo con le posizioni a favore o contro il quesito viene distribuito gratuitamente a tutti i cittadini. La televisione pubblica, senza influenze dei partiti, tratta a fondo i temi referendari, dando ampio spazio alle parti contrapposte, affinché ciascuno presenti le proprie ragioni agli elettori. Votare è facile: oltre al voto classico nei seggi elettorali, moltissimi svizzeri votano per corrispondenza. E’ allo studio anche la possibilità di votare tramite Internet, ma al momento non sono ancora stati trovati degli standard di sicurezza ritenuti sufficienti per evitare manipolazioni del voto da parte di hacker informatici. Non esiste un quorum da raggiungere che possa invalidare il voto: chi vuole votare, vota. Chi non vuole votare, accetta il responso delle votazioni. Anche se il popolo svizzero si ritrova a votare 3-4 volte l’anno per dei referendum, la grandissima maggioranza dei provvedimenti legislativi viene comunque votata dal Parlamento ovvero tramite la democrazia rappresentativa, come avviene in tutti i paesi democratici. Tuttavia tutti i politici eletti devono “fare i conti” con il primo organo legislativo, ovvero con il popolo, il quale potrebbe votare in un referendum contro quanto deciso in Parlamento.In sostanza: un politico eletto svizzero ci pensa 1000 volte prima di votare a favore di un provvedimento legislativo che sa che non sarebbe accettato dal popolo. Nel caso in cui si arrivasse ad una bocciatura referendaria del provvedimento (cosa storicamente avvenuta centinaia di volte) la fine della carriera di quel politico sarebbe cosa certa e senza appello. L’esistenza di un robusto sistema di democrazia diretta, quindi, incentiva la produzione di provvedimenti legislativi il più possibili vicini al volere del popolo. Questo non significa che il popolo non si possa sbagliare, ma significa che è il popolo a decidere. Nei casi storici in cui il popolo si rese conto di essersi sbagliato, ritornarono a votare e il referendum consentì di modificare il precedente provvedimento legislativo. Siccome la prima preoccupazione dei parlamentari eletti è quella di ascoltare le richieste del popolo, le richieste del partito di appartenenza cadono in secondo piano. Naturalmente esiste una “coerenza ideologica” con le posizioni del partito di appartenenza, ma non è mai tale da diventare una “disciplina di partito”, in quanto i deputati sono liberi e si sentono responsabili delle proprie scelte innanzitutto di fronte agli elettori.Questa “debolezza” dei partiti ha creato nel tempo una “consuetudine” all’interno del Parlamento. Il Consiglio Federale, ovvero il governo della Confederazione, non è mai l’espressione di una maggioranza politica “blindata”. I 7 membri del Consiglio Federale (i ministri) vengono nominati applicando una sorta di “manuale Cencelli” in modo da rappresentare le principali forze politiche. Tutti i consiglieri federali raccolgono la fiducia della maggioranza del Parlamento. Di conseguenza, se un partito “di destra” intende proporre un suo esponente come membro del governo, proporrà una personalità stimata per le sue competenze e capace di dialogare con “la sinistra”. E viceversa. Il Consiglio Federale che viene a formarsi, quindi, è un “governo debole”, in quanto è chiamato a dare attuazione ai provvedimenti legislativi presi dal popolo (tramite referendum) e dal Parlamento. Non esiste il concetto di “governabilità”. Il governo esegue la volontà del Parlamento, il quale vota le leggi formando maggioranze variabili, caso per caso.Pochi di voi sapranno che l’attuale presidente del Consiglio Federale svizzero si chiama Alain Berset. I nomi non sono importanti. Importanti sono le competenze dei ministri e la loro capacità di saper rappresentare non una parte politica, ma l’intero Parlamento e l’intero popolo svizzero. L’alternanza di governo tanto evocata in Italia come una “conquista di democrazia” in realtà porta una forte instabilità del sistema, in quanto ogni 5 anni sono possibili dei drastici cambiamenti nelle politiche economiche. In Svizzera, invece, i cambiamenti di fondo avvengono molto lentamente, in quanto nessuna “maggioranza di governo” può imporsi sulla minoranza. Questa stabilità politica è la condizione fondamentale affinché imprese multinazionali ed investitori finanziari scelgano di insediarsi nel paese, potendo fare una programmazione a medio-lungo termine delle loro attività. Le stesse condizioni di stabilità politica favoriscono la crescita delle piccole e medie imprese, che sono certe di non doversi attendere improvvise e spiacevoli sorprese da parte del governo del paese.Non è tutto rose e fiori. Anche nel sistema svizzero esistono delle zone grigie. Prima di tutto le leggi non prevedono che i partiti dichiarino la provenienza dei propri finanziamenti. La conseguenza è che ci sono alcuni partiti, in particolari quelli “borghesi”, che dispongono di ingenti capitali per fare propaganda più di altri partiti, sia per le elezioni politiche, sia nelle campagne referendarie. Il consenso ottenuto viene utilizzato per votare dei provvedimenti legislativi in favore delle principali lobbies del paese: le banche, le assicurazioni (specie del settore sanitario), le multinazionali. In occasione delle votazioni referendarie, coloro che dispongono di più capitali hanno la possibilità di condizionare maggiormente la popolazione puntando su ragioni “di pancia” e utilizzando al meglio le moderne tecniche del consenso. Un’idea latente e persistente nei mass media italiani è che l’esercizio della democrazia sia “un costo” per il paese. Sarebbe un costo in quanto il popolo non sa decidere, mentre i politici e i “tecnici” (alla Mario Monti o alla Carlo Cottarelli, per intenderci) sanno decidere molto meglio del popolo su cosa sia bene per gli italiani. Le stesse votazioni sono ritenute “un costo” che sarebbe meglio evitare al paese, magari “per ridurre il debito pubblico”. Ma chiediamoci: quanto ci costa “non votare” in termini di decisioni politiche prese negli interessi di poteri privati e ai danni del popolo italiano? Gli svizzeri, proprio votando con frequenza e senza impedimenti (come invece avviene in Italia), ottengono una migliore qualità delle leggi e dell’azione di governo. Oggi la Svizzera ha un tasso di disoccupazione al 2,4%. Possiamo concludere dicendo che gli investimenti in democrazia diretta hanno portato dei buoni frutti.(Davide Gionco, “La democrazia diretta e il successo economico della Svizzera”, dal blog “Attivismo.info” del 20 luglio 2018).La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).
-
Konrad Lorenz: solo la bellezza può fermare il nostro declino
Quando nel 1973 venne attribuito il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia a Konrad Lorenz, “padre” dell’etologia, vi fu una sorta di sollevazione negli ambienti scientifici che non mancò di contagiare anche quelli politici. Il ricercatore austriaco, noto per le sue indagini del comportamento umano attraverso lo studio dell’istinto animale e dell’adattamento ambientale, era ritenuto un fautore dell’antiegualitarismo. Non gli vennero risparmiate accuse anche infamanti, ma nel contempo i suoi saggi di carattere antropologico oltre che quelli strettamente connessi alla sua materia venivano sempre più studiati al fine di comprendere la decadenza che Lorenz denunciava tanto nella sfera intima dell’uomo quanto nel mondo circostante. Al di là della “demonizzazione”, le opere di Lorenz s’imposero anche in ambito a lui non proprio favorevole soprattutto per merito di editori liberi come Adelphi, in Italia, che l’anno successivo pubblicò il libro di Lorenz di maggior successo, “Gli otto peccati capitali della nostra civiltà”, seguito da “L’altra faccia dello specchio”. In entrambi lo scienziato metteva l’umanità davanti dal suo non proprio luminoso destino determinato dagli squilibri demografici, dall’inquinamento atmosferico, dal depauperamento delle risorse naturali, dalla massificazione del consumi, dall’invadenza della tecnologia, fino a criticare appunto l’egualitarismo pervasivo del quale la struttura stessa delle megalopoli era lo specchio più evidente…Lorenz, dopo i primi “affondi” critici che arrivarono a colpirlo come “nemico della democrazia”, ha conosciuto una lenta ma inarrestabile rivalutazione, al punto che quando di recente qualcuno (com’è costume di questi tempi) ha provato ha scavare nel suo lontanissimo passato, scoprendo che aveva simpatizzato in gioventù, come molti altri intellettuali e non solo, per la parte sbagliata (operazione non dissimile da quella che è stata messa in atto contro Martin Heidegger), non è sembrato opportuno neppure ai più critici di affondare eccessivamente il bisturi in una materia controversa e sostanzialmente poco interessante. Il suo pensiero è certamente più “lungo” delle polemiche postume, soprattutto se effettuate contro uno scienziato che non può replicare, essendo scomparso nel 1989. L’etologia, soprattutto grazie a Lorenz, ha dimostrato che le derivazioni della cultura freudo-marxista nel campo dell’antropologia sono state a dir poco fallaci e menzognere. Studiosi come Robert Ardrey, Eibl-Eibsfeldt, Eric von Holst, Karl von Frisch hanno applicato, come lo scienziato austriaco, il metodo naturalistico desunto dall’osservazione del comportamento animale e dei gruppi sociali primitivi o organizzati, per asseverare che le comunità tendono a conservarsi secondo schemi certo non collimanti con la visione del “buon selvaggio” di Rousseau.Il realismo dovrebbe far riconoscere che il principio di conservazione è strettamente legato a quello di aggressività, e tenendo conto di questo dato naturalistico è possibile costruire aggregati tendenzialmente solidi e ordinati da un principio politico fondato sull’autorità. Una sintesi di queste idee è racchiusa nella penetrante e brillante “Intervista sull’etologia” realizzata da Alain de Benoist con Konrad Lorenz alla fine degli anni Settanta e pubblicata per la prima volta in Italia nel 1980, che oggi rivede la luce preceduta da una prefazione di Mario Bozzi Sentieri, che situa il pensiero del grande etologo nell’ambito di una concezione organicistica della società. Il libro è qualcosa di più di un’intervista pura e semplice. Esso consta di tre parti: la prima è un saggio di de Benoist sull’etologia dalle origini ai giorni nostri, incentrato soprattutto sulla polemica tra gli ambientalisti e gli innatisti; la seconda parte è il colloquio vero e proprio tra l’allora giovane intellettuale francese e lo scienziato; l’ultima è uno scritto di Lorenz significativamente intitolato “Patologia della civiltà e libertà della cultura”.Molto opportunamente, riassumendo il pensiero di Lorenz, de Benoist rileva che mentre i fautori del materialismo pratico vedono nell’uomo soltanto la dimensione biologica e gli spiritualisti lo riducono alla sua dimensione spirituale, per gli etologi egli non è assolutamente unidimensionale, ma è il prodotto di tutte le dimensioni possibili e quindi la creatura più complessa che esista. Da qui alla polemica antiegualitaria il passo è breve. Posto che esistono indubbie differenziazioni nell’uomo e tra gli uomini, Lorenz così si esprime: «L’ineguaglianza dell’uomo è uno dei fondamenti ed una delle condizioni di ogni cultura, perché è essa che introduce la diversità nella cultura. Nella società umana, la divisione del lavoro è fondata su una differenza, un’ineguaglianza dei membri della società. Alla base di questa ineguaglianza vi è una differenza di capacità… Il fatto che siamo diversi è capitale, dal punto di vista dei valori. Sebbene si sia diversi, abbiamo gli stessi diritti fondamentali. Oggi uomo ha il diritto di sviluppare le facoltà che sono in lui… Il punto di vista egualitario è completamente antibiologico: gli uomini sono diversi dal momento del loro concepimento».È naturale che questa visione si scontri con gli apologeti del pensiero tecnomorfico e pseudo-democratico, che ripongono le loro aspettative nel salvifico avvento della tecnocrazia e della massificazione, i pilastri del “pensiero unico”. Lorenz invita a riscoprire il principio della selettività e della meritocrazia contro il riduzionismo egualitario, l’appiattimento delle personalità, il depotenziamento delle energie vitali. Le civiltà muoiono, dice Lorenz, quando i processo di parassitismo e di degenerescenza impoveriscono la forza di conservazione e di aggressività insite nell’uomo. Restare fedeli alla propria natura è la sola possibilità che l’uomo ha di sottrarsi all’imbarbarimento e alla soggezione alla costruzione di destini che contrastano con la sua natura. Ancora più esplicito Lorenz è nel saggio “Il declino dell’uomo”, opportunamente edito da Piano B, nel quale sostiene che la tecnocrazia crea una società iperorganizzata allo scopo di deresponsabilizzare la persona. Sul piano culturale, sostiene, viene a mancare la pluralità di opinioni e scambi reciproci che sono i fondamenti di qualsiasi processo creativo.Sicché la nostra epoca è assolutamente povera di creatività, se non vogliamo considerare questa nelle espressioni culturali, letterarie e artistiche dominanti, le cui scialbe prove – a parte qualcuna, ovviamente – sono destinate a individui che recepiscono la semplicità e l’ovvietà rifiutando ciò che è intrinsecamente complesso. È la civiltà che è minacciata, dice Lorenz, che approfondisce questa sua affermazione formulando una diagnosi assolutamente pertinente, avendo di vista la minaccia delle forme che minano le qualità e lo doti che «fanno dell’uomo un essere umano». Pochi, aggiunge, considerano come una malattia il declino del quale parla nel libro, e non si propongono di individuarne le cause. Accontentandosi dello sviluppo tecnico ed economico, l’uomo accetta passivamente di essere dominato da forze incontrollabili. E ciò è ancor più pernicioso per le generazioni future. «La gioventù di oggi – scrive – si trova in una situazione particolarmente critica. Se vogliamo stornare l’apocalisse che ci minaccia, dobbiamo risvegliare, soprattutto nei giovani, la sensibilità per i valori, per la bontà, per la bellezza: una sensibilità che è stata calpestata dalla mentalità scientista e dal pensiero tecnomorfo».Come se ne esce? Riprendendo il contatto più stretto con la natura, ricoprendo l’armonia del creato, praticando il culto delle differenze che solo può metterci al riparo dall’omologazione e dalla tirannia – diremmo oggi – del “pensiero unico”. Konrad Lorenz nella citata “Intervista” offre un esempio che può sembrare banale, ma non lo è, per recuperare una dimensione davvero umana: «Bisogna imitare i contadini, presso i quali tutto avviene in modo naturale: il bambino gioca ad imitare i suoi genitori e in questo modo si forma. Ho un amico contadino che è notevolmente rispettato dai suoi figli. Per una semplice ragione: fa le cose meglio di loro, e i figli cercano di farle bene quanto lui». Saggezza antica, saggezza di sempre. Il fondamento dell’autorità è nell’esempio. L’educazione a seguirlo è il metodo. L’oca Martina non seguiva Lorenz nello stagno di Altenberg insieme con la sua prole in fila ordinata? Il principio e il senso dell’umanità in un quadro idilliaco, fiabesco, che l’etologo ha proposto con la semplicità di un contadino austriaco a un’umanità frastornata da disumani meccanismi che la stanno risucchiando nel nulla.(“Il declino dell’uomo secondo il Premio Nobel Konrad Lorenz”, dal blog “La Crepa nel Muro” del 5 aprile 2018. I libri: Alain de Benoist, “Intervista sull’etologia”, Oaks editrice, 156 pagine, 14 euro; Konrad Lorenz, “Il declino dell’uomo”, Piano B, 232 pagine, 16 euro).Quando nel 1973 venne attribuito il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia a Konrad Lorenz, “padre” dell’etologia, vi fu una sorta di sollevazione negli ambienti scientifici che non mancò di contagiare anche quelli politici. Il ricercatore austriaco, noto per le sue indagini del comportamento umano attraverso lo studio dell’istinto animale e dell’adattamento ambientale, era ritenuto un fautore dell’antiegualitarismo. Non gli vennero risparmiate accuse anche infamanti, ma nel contempo i suoi saggi di carattere antropologico oltre che quelli strettamente connessi alla sua materia venivano sempre più studiati al fine di comprendere la decadenza che Lorenz denunciava tanto nella sfera intima dell’uomo quanto nel mondo circostante. Al di là della “demonizzazione”, le opere di Lorenz s’imposero anche in ambito a lui non proprio favorevole soprattutto per merito di editori liberi come Adelphi, in Italia, che l’anno successivo pubblicò il libro di Lorenz di maggior successo, “Gli otto peccati capitali della nostra civiltà”, seguito da “L’altra faccia dello specchio”. In entrambi lo scienziato metteva l’umanità davanti dal suo non proprio luminoso destino determinato dagli squilibri demografici, dall’inquinamento atmosferico, dal depauperamento delle risorse naturali, dalla massificazione del consumi, dall’invadenza della tecnologia, fino a criticare appunto l’egualitarismo pervasivo del quale la struttura stessa delle megalopoli era lo specchio più evidente…
-
Magaldi: cari Di Maio e Salvini, tocca a voi sfidare Bruxelles
Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».Di Maio e Salvini potrebbero imboccare «una strada coraggiosa, coerente con quello che gli elettori hanno loro chiesto». Ovvero: «Tener ferme certe posizioni rispetto ai gestori di questa Unione Europea e di questa Eurozona». Attenzione: sarebbe davvero un’impresa «titanica, eroica», contro la quale infatti «si stanno già muovendo molte forze per sterilizzare qualunque istanza innovativa». Se Lega e 5 Stelle terranno duro, dice Magaldi, il Movimento Roosevelt (da lui presieduto, con accanto un economista come Nino Galloni) è pronto a fornire supporto, in termini di risorse, idee e know-how. Il punto centrale, ovviamente, è proprio «la volontà politica di inaugurare un nuovo corso». Si può sperare che accada davvero qualcosa di buono? Magaldi “promuove” a pieni voti l’economista Alberto Bagnai, candidato dalla Lega: «Credo sia una delle persone migliori elette in questo Parlamento. E’ vero, aveva profetizzato il crollo dell’Eurozona (che non è crollata), forse mancandogli una completa visione delle forze politiche e metapolitiche, palesi e occulte, che fanno in modo che l’Eurozona perduri, al di là del fallimento economico ben evidenziato da Bagnai». In ogni caso, il professore «è un eccellente post-keynesiano: ha una visione lucida, sa bene in cosa va criticata l’Eurozona e sa demistificare i dogmatismi che hanno puntellato il paradigma neoliberista nella versione europeista, quindi sarebbe senz’altro un eccellente ministro».Magaldi propone un approccio laico e pragmatico, per non sprecare l’esito delle urne e le grandi aspettative espresse dagli elettori. Uno sguardo disincantato, a cominciare dalle nuove presidenze di Camera e Senato. «Un affronto a Berlusconi, la nuova presidenza del Senato? Errore: la Casellati era stata individuata da tempo, ben prima che scoppiasse la pantomima dello scontro con Salvini», rivela Magaldi. «Come al solito, nel “back office” si decidono cose che poi vengono rappresentate in termini teatrali, a beneficio dell’opinione pubblica. L’elezione della Casellati non crea la minima difficoltà a Berlusconi, che ha invece iniziato a mettere “a riposo” alcuni personaggi ormai inadeguati». Elisabetta Casellati è una berlusconiana di ferro, «probabimente anche più gestibile di Paolo Romani». Tutt’altro che sconfitto, il Cavaliere: «Da tempo Forza Italia vuole ringiovanire i testimonial e puntare sulle donne». Le dichiarazioni a caldo contro Salvini? «Solo teatro». La neoeletta, in realtà, era la vera candidata fin dall’inizio. «Credo che gestirà il Senato senza infamia né lode. Del resto il suo predecessore è stato Grasso: non è che queste cariche trasformino i ronzini in purosangue. Semmai – insiste Magaldi – in questo asse tra 5 Stelle e Lega che ha portato all’elezione di Casellati e Fico c’è una chance: declinare un paradigma diverso, nel rapporto con l’Europa e l’economia, riguardo al benessere di milioni di italiani. Vedremo».Certo, «Berlusconi gioca su più tavoli, come al solito». E nel teatrino inscenato dopo la bocciatura di Romani, ampiamente prevista, è riuscito a dire tutto e il contrario di tutto, nel giro di 24 ore. Il Cavaliere «non vuole il “partito unico” del centrodestra, che ormai sarebbe egemonizzato dalla Lega, e adesso giura di fidarsi di Salvini, a cui lascia semmai l’onere del tradimento dell’alleanza». Ma non è neppure quello, il problema: il vero scoglio, per Magaldi, è la disponibilità del Movimento 5 Stelle a convivere con un Berlusconi ancora abbastanza “visibile”, nell’eventuale intesa governativa con il centrodestra. Quanto ai grandi vecchi, l’ultimo passaggio parlamentare ha regalato l’ennesimo minuto di gloria mediatica all’ineffabile Napolitano. «Ha avuto la responsabilità degli ultimi (pessimi) governi italiani, e l’ha scaricata sugli altri – come se lui fosse stato nell’Empireo – ergendosi come al solito ad accusatore che punta il dito, con atteggiamento ierocratico. Ineffabilità e, come al solito, indisponibilità all’autocritica, pur con l’amarezza di aver sbagliato anche lui le previsioni sull’esito delle sue manovre degli anni scorsi».Napolitano? «Un avversario, di cui non condivido nulla», dice Magaldi. «Gli riconosco una grande capacità di durata: è un uomo che ha vissuto sempre per il potere, che ha cambiato mille volte ideologia apparendo sempre granitico nel sostenere le idee che, di volta in volta, cambiava». Gli si può augurare lunga vita, «se non altro per meditare sui suoi tanti errori, sulla sua incorenza e sulle conseguenze così negative, per l’Italia, che il suo operato ha prodotto». Desta comunque ammirazione, aggiunge Magaldi, la sua capacità di stare in scena: «E’ un altro grande teatrante, al pari di Berlusconi. Dietro il teatro, però, c’è una sostanza spregiudicata e indifferente al copione – purché, appunto, ci sia la scena». L’ultima partita persa da Napolitano probabimente si chiama Matteo Renzi: è il vero, grande perdente del 4 marzo. «Si è sconfitto da solo, in modo stolto, con una vocazione al “cupio dissolvi” sin dai tempi del referendum costituzionale: la sua strampalata coerenza non aveva contenuti tali da passare alla storia. E anche dopo – aggiunge Magaldi – ha continuato a insistere su una narrazione astratta, non realistica, del tipo “va tutto bene, madama la marchesa”. E’ stato vittima di se stesso: convinto di aver ben governato, pensava che il popolo italiano avrebbe dovuto riconoscerlo».Certo, i 5 Stelle e la Lega hanno saputo senz’altro convincere un elettorato mobile, che prima aveva creduto nella narrativa renziana. Uno tsunami da cui lo stesso Berlusconi esce fortemente ridimensionato, come “capostipite” dell’infelice Seconda Repubblica, il cui ultimo epigono è stato proprio Renzi. «Con la differenza che Berlusconi ha sette vite (come i gatti) e quindi potrà ancora recitare un ruolo, mentre Renzi subirà un’inevitabile resa dei conti nel Pd». E anche adesso, invece di fare autocritica ammettendo i propri errori, «si propone dinnanzi a tutti come una sorta di bambino malmostoso che si porta via il pallone perché gli hanno segnato troppi goal». Oggi il Pd è fuori gioco «per colpa di Renzi, accecato dalla sventura che lui stesso ha prodotto per insipienza e arroganza». Per dire: poteva giocare di sponda, fin dall’inizio, coi 5 Stelle. E invece manca un leader, nel Pd sequestrato da Renzi, che si è circondato di mezze calzette: «Renzi ha eliminato dei catafalchi, ed è stato il suo unico merito: i “rottamati” erano anche peggio di lui, pur avendo almeno una fisionomia politica». Non resta che il deserto, per ora: «Nessuno in vista, a quanto pare, che sia capace di ergersi sugli altri e tentare una rotta diversa».Un naufragio, quello del centrosinistra, che coinvolge anche i sindacati: «Anacronistica la battaglia sull’articolo 18, che tutela solo chi già lavora». La sfida, oggi, sta nel creare lavoro per chi non ce l’ha: e lo si può fare, insiste Magaldi, costituzionalizzando il diritto al lavoro. «In un mondo che non ha mai prodotto tanta ricchezza come oggi, e che però la gestisce malissimo (mai come oggi è grande il divario tra i pochi ricchi e i moltissimi cittadini in difficoltà economiche) si può tranquillamente rendere costituzionale il diritto al lavoro». Il reddito di cittadinanza? «Una misura che in Italia che si può adottare». Ma il cittadino italiano, aggiunge Magaldi, «deve nascere con il diritto a poter lavorare in base alle proprie capacità». Come? «Bisogna istituire un’alta autorità per la piena occupazione, che in base alla formazione e al talento dirotti i futuri lavoratori in ambito pubblico o privato: nessuno può essere lasciato senza un lavoro». Magaldi ci crede: «Sarebbe una misura rivoluzionaria e al tempo stesso social-liberale, coerente con l’economia di mercato, capace di assicurare prosperità al sistema nel suo complesso». Ottimismo: «Prima o poi vinceremo», scommette Magaldi, che pensa al nuovo partito democratico-progressista, il Pdp, da mettere in campo per fare forza al “cambio di paradigma” a cui già il prossimo governo potrebbe inziare a dare corso, se Di Maio e Salvini avranno il coraggio di non piegarsi agli oligarchi dell’Unione Europea.Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».
-
Dezzani: il piano è spolpare l’Italia grazie al governo Di Maio
«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.Il processo di annichilimento della Penisola, avviato nei primi anni ‘90 con Tangentopoli e la destabilizzazione della Somalia, secondo Dezzani ha accelerato a partire dal 2011: austerità, cessione delle imprese strategiche (Telecom, Edison, Unicredit, alimentare e lusso), guerra in Libia e conseguenti flussi migratori incontrollati. Arrivati nel 2018, sta per iniziare l’ultima fase del processo di “demolizione controllata” dell’Italia. «E le imminenti elezioni del 4 marzo, decretando chi dovrà gestire il pericolosissimo aumento generalizzato dei tassi ed il conseguente crollo delle piazze finanziarie, giocano un ruolo cruciale». La legge elettorale difettosa, che impedisce la governabilità? Non è un caso, sostiene Dezzani nel suo blog: «L’ingovernabilità è un valore – scrive – perché obbliga le istituzioni ad adottare, una volta chiuse le urne, soluzioni “impensabili”». Ovvero: «Costringe a sdoganare definitivamente il Movimento 5 Stelle, usandolo come perno attorno cui costruire un governo». Secondo Dezzani, l’opinione che i “poteri forti” premano per una grande coalizione “di centro”, basata su un patto tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è errata: «Entrambi sono indigesti a chi conta davvero», come «i circoli finanziari rappresentati dal settimanale “The Economist” che, per inciso, sono gli stessi che hanno partorito la Casaleggio srl e il Movimento 5 Stelle».Per Dezzani, la strategia dell’alta finanza non contempla una grande coalizione tra partiti “moderati”, ma «una grande coalizione incentrata sui grillini, la cui forza, si noti, nasce da quelle stesse politiche di austerità imposte dall’alta finanza». Dopo Monti e Letta, Renzi e Gentiloni, ecco il “virus” 5 Stelle, «gonfiato a dismisura dalle politiche dei precedenti esecutivi “europeisti”». Sempre secondo Dezzani, sarebbe illuminante l’atteggiamento del “Corriere della Sera”, che l’analista definisce «storico giornale della borghesia anglofila e “badogliana”». Si parte nel 2011 con l’incondizionato sostegno a Mario Monti, poi si sostiene la linea di austerità, privatizzazioni e ultra-europeismo di Letta, Renzi e Gentiloni, e adesso, quando il Pd è ormai logoro, si vira verso il Movimento 5 Stelle, «preparando così il terreno ad un governo grillino con la benedizione del primo quotidiano d’Italia», svolta incarnata dalla direzione di Luciano Fontana, con accanto un editorialista come Ernesto Galli della Loggia, «principale artefice dello “sdoganamento” del M5S: il movimento non è eversivo, è democratico e incarna la volontà di “palingenesi” del paese». Analogo percorso da La7 di Urbano Cairo, mai anti-grillina fin dall’inizio «essendo nata come tv della Telecom che ha giocato un ruolo chiave nella nascita del M5S».Domanda: «Perché il giornale della borghesia “anglofila” si prodiga per sdoganare i 5 Stelle, nonostante il clamoroso fallimento della giunta Raggi a Roma e di quella Appendino a Torino (che deve le sua nascita al decisivo avvallo degli Agnelli-Elkann)?». Ovvero: «Perché l’establishment liberal lavora per portare i grillini al potere, nonostante la loro manifesta incapacità di governare?». Perché sono deboli e fragili, quindi facilmente manovrabili da chi mira a spolpare definitivamente il paese. E’ la tesi che Dezzani formula, prendendo spunto dal caso-Roma: «Supponiamo che l’esperimento “Raggi” sia ripetuto a scala nazionale, per di più in un contesto macroeconomico sempre più ostile (aumento tassi e recessione economica); quale sarebbe il destino dell’Italia? Come una nave senza comandante in mezzo alla tempesta (dopo anni, peraltro, di incuria e malgoverno), l’Italia sarebbe travolta dai marosi della crisi: caos, saccheggio e default. La lunga stagione di “destrutturazione” del paese, iniziata nel 1992-1993, culminerebbe così in un epico schianto, grazie al M5S (dopotutto, non fu grazie ad Antonio Di Pietro, l’uomo simbolo di Mani Pulite, se Gianroberto Casaleggio si affacciò alla politica?)».E come si arriverebbe, concretamente, a un governo 5 Stelle? «Attraverso il “contratto” proposto da Luigi Di Maio», scrive Dezzani, ricordando che il leader grillino «ha smentito un’alleanza con la sinistra ma, per scongiurare scenari di “caos”, ha parallelamente aperto ad un programma di legislatura con chi è disponibile, da mettere nero su bianco in un contratto. E chi potrebbe essere disponibile a quest’avventura, se non proprio la sinistra?». Conti alla mano: “Liberi e Uguali” (5%) e un Pd al 20-25% «depurato dall’ormai esausto Matteo Renzi», tutto sommato «fornirebbero un numero di parlamentari sufficienti a formare una maggioranza», sommandoli all’ipotetico 25-30% del Movimento 5 Stelle. «Così, le disastrose amministrazioni Raggi e Appendino verrebbero replicate nei dicasteri romani, con il preciso intento di portare l’Italia alla bancarotta e spalancare le porte alla speculazione più selvaggia».Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è interesse dell’establishment atlantico preservare la calma sui mercati, spingendo verso un governo “moderato”? Non è l’Italia “too big to fail”? Dezzani ritiene di no: «Dieci anni di liquidità a costo zero hanno creato un’enorme bolla azionaria e obbligazionaria che, alzati i tassi di interesse, cerca soltanto un pretesto per scoppiare: l’Italia del 2018 potrebbe essere la Lehman Brothers del 2008». Inoltre, aggiunge l’analista, «l’oligarchia finanziaria atlantica ha spinto al default negli ultimi 20 anni la Russia, i paesi del sud-est asiatico (1997-1998) e l’Argentina (2001). Non si capisce per quale motivo dovrebbe risparmiare l’Italia che, come ricordano sinistramente molti commentatori, vale ormai soltanto il 2-3% del Pil mondiale. E se il Movimento 5 Stelle sarebbe «il cavallo di Troia per portare il paese alla bancarotta», conclude Dezzani, «le nostre istituzioni massoniche e la borghesia “badogliana”, da sempre alleate col nemico, sono suoi complici».«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.
-
Jedek: la lingua che ignora le parole guerra, lavoro, furto
Sono in pochi, non più di 280 tra adulti e bambini. E la loro lingua non conosce il verbo “rubare”. Vivono nella penisola malese da millenni: una vita semplice fatta di caccia, raccolta e piccole coltivazioni. «E hanno una lingua tutta loro, diversa da quella delle tribù della zona e persino da quelle di altre comunità che abitano nello stesso villaggio», scrive Simone Valesini su “Repubblica”. «Una lingua con radici antiche, che nelle sue strutture e nel suo vocabolario tiene traccia di uno stile di vita unico, pacifico, votato alla condivisione e alla comunità». È la lingua Jedek, scoperta in Malesia e descritta per la prima volta da un team di ricercatori dell’università svedese di Lund sulle pagine della rivista “Linguistic Typology”. Focus: le lingue parlate dai Semang, popolazioni pigmee che abitano la penisola malese. Cacciatori-raccoglitori, appartenenti a diversi sottogruppi etnici, «che spesso convivono nelle stesse aree pur mantenendo cultura, tradizioni e lingue differenti». I linguisti svedesi li studiano dal 2005 e il 2011. E ora, Joanne Yager e Niclas Burenhult si sono accorti, di colpo, della situazione: non c’è traccia di guerra nella lingua parlata da un nucleo di circa 280 persone che abitano in un insediamento lungo il fiume Rual, nello Stato malese di Kelantan.Parlano una lingua completamente differente da quella dei loro vicini, e anche da quelle parlata da altre comunità del loro stesso gruppo etnico (o presunte tali) insediate in altre zone della regione, riassume “Repubblica”. In sostanza è una lingua tutta loro, mai scoperta in precedenza da antropologi e linguisti. «Stavamo studiando l’insediamento e d’un tratto ci siamo resi conto che una larga parte degli abitanti parlava una lingua completamente diversa», ricorda Yager. «Usavano parole, fonemi e strutture grammaticali che non esistono nella lingua Jahai parlata dal resto del villaggio, e che suggeriscono piuttosto un legame con lingue proveniente da zone estremamente distanti della penisola». È così che i due ricercatori hanno fatto la scoperta del Jedek, la lingua sconosciuta. «La scoperta di una nuova lingua rimane un evento raro e certamente pieno di fascino, che ci permette di osservare in modo nuovo la cultura e il pensiero di una comunità di persone», afferma il professor Federico Masini, docente della Sapienza di Roma.All’interno delle strutture linguistiche e del vocabolario Jedek, continua “Repubblica”, i due ricercatori svedesi hanno scoperto le radici di uno stile di vita completamente differente dal nostro. «La cultura di questa popolazione Semang – spiegano – non conosce differenze di genere, non promuove la violenza né la competizione, non prevede l’esistenza di leggi, né di professioni o specializzazioni. Tutti gli abitanti del villaggio devono possedere le capacità necessarie per sopravvivere in una società di cacciatori raccoglitori, e devono essere pronti a collaborare e condividere risorse e proprietà. Abitudini che si riflettono a pieno nella loro lingua». Nello Jedek infatti «non esistono parole con cui definire una professione o un lavoro, né per riferirsi a tribunali, giurie o altre istituzioni dedicate a far rispettare le leggi». Inoltre, l’idioma «non possiede verbi che facciano riferimento al concetto di proprietà, come “prestare”, “rubare”, “vendere” o “comprare”, mentre ha un ricchissimo vocabolario per esprimere e declinare lo scambio e la condivisione».Si tratta per questo di un’autentica finestra, dicono gli antropologi, da cui è possibile osservare un modo di essere “umani” completamente diverso dal nostro. Tanto più importante da studiare – sottolineano i due linguisti svedesi – in un periodo come quello attuale, in cui guerre e cambiamenti politici e culturali rischiano di far scomparire quasi metà delle lingue del mondo entro i prossimi 100 anni (perlomeno, quelle con un bacino di parlanti limitato con lo Jedek). «Le lingue nascono e muoiono con le comunità che le parlano, ne riflettono il pensiero, le abitudini e le necessità», aggiunge Masini. «Per questo motivo, parlare di conservare le lingue non ha senso: bisognerebbe piuttosto pensare a proteggere le comunità di persone che le tengono vive». Il fatto che la lingua Jedek non possieda parole e concetti relativi alla violenza o alla proprietà «è qualcosa che si vede in molte comunità che potremmo definire arretrate». È il pensiero che fa la lingua, dice Masini, ed è per questo che «studiare le lingue ci aiuta a vedere meglio noi stessi e la nostra civiltà».Sono in pochi, non più di 280 tra adulti e bambini. E la loro lingua non conosce il verbo “rubare”. Vivono nella penisola malese da millenni: una vita semplice fatta di caccia, raccolta e piccole coltivazioni. «E hanno una lingua tutta loro, diversa da quella delle tribù della zona e persino da quelle di altre comunità che abitano nello stesso villaggio», scrive Simone Valesini su “Repubblica”. «Una lingua con radici antiche, che nelle sue strutture e nel suo vocabolario tiene traccia di uno stile di vita unico, pacifico, votato alla condivisione e alla comunità». È la lingua Jedek, scoperta in Malesia e descritta per la prima volta da un team di ricercatori dell’università svedese di Lund sulle pagine della rivista “Linguistic Typology”. Focus: le lingue parlate dai Semang, popolazioni pigmee che abitano la penisola malese. Cacciatori-raccoglitori, appartenenti a diversi sottogruppi etnici, «che spesso convivono nelle stesse aree pur mantenendo cultura, tradizioni e lingue differenti». I linguisti svedesi li studiano dal 2005. E ora, Joanne Yager e Niclas Burenhult si sono accorti, di colpo, della situazione: non c’è traccia di guerra nella lingua parlata da un nucleo di circa 280 persone che abitano in un insediamento lungo il fiume Rual, nello Stato malese di Kelantan.
-
Cox: ancora 20 anni e saremo al sicuro, popolando lo spazio
Se superiamo i prossimi 10-20 anni e non ci distruggiamo, credo che diventeremo una civiltà multiplanetaria. Sarà inevitabile. Mi piacerebbe che si scoprisse la vita su Marte o sulle lune di Giove o Saturno. La vita è inevitabile, quando ci sono le condizioni. In fisica, invece, vogliamo capire cosa sia l’energia oscura: si tratta di un problema teorico immenso. Dobbiamo renderci conto che luoghi come il nostro, come la Terra, potrebbero essere rari. E che perciò hanno grande valore. Eppure questa prospettiva non è tenuta in forte considerazione. Prevalgono gli interessi nazionali, invece della collaborazione internazionale. Ecco perché, per me, è un disastro che la Gran Bretagna abbia votato la Brexit. Ed è il motivo per cui abbiamo bisogno di qualcosa – uno shock, appunto – che ci costringa a pensare con più attenzione al nostro posto nell’universo e alla nostra singola civiltà. Il cosmo è il nostro destino? Sono convinto che siamo destinati a esplorarlo e colonizzarlo: penso al Falcon Heavy di Elon Musk, alla sua società Space X e alla Blue Origin di Jeff Bezos e alle loro future collaborazioni con Nasa ed Esa. Una volta che saremo nello spazio, con una base su Marte, allora saremo al sicuro.Il ritorno sulla scena di una possibile guerra nucleare? Mi vengono in mente le lezioni alla “Bbc” di Richard Oppenheimer, nel 1953, e il discorso di Richard Feynman “Il valore della scienza” del 1955: entrambi sostenevano che eravamo stati fortunati a scampare all’atomica, nonostante le scarse capacità dei politici. Questo istinto a non fare cose stupide dura da oltre 70 anni. Abbiamo bisogno di più scienziati in politica, dato che in questo momento viviamo un rapporto difficile con i fatti. Gli scienziati, infatti, rappresentano un modo di pensare che ci ha dato di tutto, dalla medicina alle comunicazioni digitali: non c’è nessuno, in ogni singolo minuto, che non usi un prodotto della scienza. E tuttavia questa logica – che è nata in Italia con il Rinascimento – non è rappresentata in modo abbastanza forte. Ecco perché penso alla politica: ogni scienziato dovrebbe pensarci. Che cosa ci insegna questa logica che trascuriamo? Due aspetti. Il primo è legato al famoso motto della Royal Society, di cui sono “fellow”: “Nullius, in verba”, vale a dire “non prendere per buone le parole di nessuno”.Newton è stato uno dei suoi presidenti, in un’epoca di poco successiva a Galileo, e il principio era di non fidarsi di nessun testo antico, che fosse Aristotele, Platone o la Bibbia. Il secondo aspetto è connesso al presente: non è possibile per un singolo individuo capire tutta la scienza, dato che non si può passare la vita a leggere testi scientifici. Ci sono anche altre cose da fare! E allora si deve avere la giusta percezione di chi fidarsi: se gli scienziati sostengono che è una buona idea tagliare le emissioni di anidride carbonica, da chi altri, se non loro, dovrei accettare quell’informazione? Nelle democrazie si prendono spesso decisioni sul futuro e, se le persone non capiscono come nasce un’argomentazione scientifica, siamo nei guai.(Brian Cox, dichiarazioni rilasciate a Gabriele Beccaria per l’intervista “Resistiamo per 20 anni, poi popoleremo lo spazio e saremo al sicuro”, pubblicata da “La Stampa” il 12 febbraio 2018. Scienziato e divulgatore, autore del saggio “Universal. Una guida al cosmo”, Hoepli, e del bestseller “Forces of Nature” in cui ammonisce che l’umanità ha bisogno di uno shock collettivo, l’inglese Brian Cox è fisico delle particelle all’università di Manchester e professore alla Royal Society di Londra).Se superiamo i prossimi 10-20 anni e non ci distruggiamo, credo che diventeremo una civiltà multiplanetaria. Sarà inevitabile. Mi piacerebbe che si scoprisse la vita su Marte o sulle lune di Giove o Saturno. La vita è inevitabile, quando ci sono le condizioni. In fisica, invece, vogliamo capire cosa sia l’energia oscura: si tratta di un problema teorico immenso. Dobbiamo renderci conto che luoghi come il nostro, come la Terra, potrebbero essere rari. E che perciò hanno grande valore. Eppure questa prospettiva non è tenuta in forte considerazione. Prevalgono gli interessi nazionali, invece della collaborazione internazionale. Ecco perché, per me, è un disastro che la Gran Bretagna abbia votato la Brexit. Ed è il motivo per cui abbiamo bisogno di qualcosa – uno shock, appunto – che ci costringa a pensare con più attenzione al nostro posto nell’universo e alla nostra singola civiltà. Il cosmo è il nostro destino? Sono convinto che siamo destinati a esplorarlo e colonizzarlo: penso al Falcon Heavy di Elon Musk, alla sua società Space X e alla Blue Origin di Jeff Bezos e alle loro future collaborazioni con Nasa ed Esa. Una volta che saremo nello spazio, con una base su Marte, allora saremo al sicuro.
-
Fango, la “sovragestione” all’opera: è il turno dei 5 Stelle
«Tranquilli: prima delle elezioni salterà fuori una grana, per azzoppare i 5 Stelle». Detto fatto: a tre settimane dal voto esplode il caso dei parlamentari “furbetti” che avrebbero evitato di versare al fondo-aziende una parte dello stipendio. Giusto in tempo per consentire a Renzi (da che pulpito) di qualificare Di Maio come “il capo degli impresentabili”, mentre la crepa nel muro grillino diventa un Vajont, con l’oscuro e quasi onnipotente David Borrelli, braccio destro di Casaleggio, che divorzia precipitosamente dal movimento. Bufera su cui i media banchettano, mettendo alla berlina i presunti moralizzatori. La “Stampa” descrive Borrelli come «l’anello di congiunzione» tra Gianroberto Casaleggio e il mondo delle Pmi venete. «È membro del pensatoio di Confapri, l’associazione delle piccole imprese fondata dal futuro assessore di Roma Max Colomban e da Arturo Artom, due nomi chiave nel mondo imprenditoriale della galassia dei Casaleggio», scrive il quotidiano torinese. «Nel 2014 viene accusato di stalking dall’ex senatrice Paola De Pin, che parla di sue pressioni a favore delle imprese venete. Due anni dopo l’ex collaboratore del M5S Caris Vanghetti dimostra, intrecciando i dati, che molti soldi del fondo per la microimpresa finiscono alle aziende associate della Confapri. Una vera e propria lobby grillina. Nel frattempo Borrelli diventa europarlamentare e la sua società raddoppia il fatturato».Gianfranco Carpeoro, autore di saggi su massoneria e terrorismo nonché sui legami tra Vaticano e logge all’origine del fascismo, è l’autore della “profezia” sui fatali travagli pre-elettorali dei 5 Stelle. Inevitabile: se sbandieri il monopolio politico dell’onestà, il sistema ti punirà severamente, con la classica legge del contrappasso. Trovare una “mela marcia” sarà l’ultimo dei problemi: dai parlamentari “infedeli” all’infido Borrelli, per anni seduto nel vertice-ombra del movimento che ha raccontano agli italiani che “uno vale uno” (purché non osi pensare in proprio, ad alta voce). Legge del taglione e contrappasso dantesco: puro dolore, per i pentastellati, vedere Renzi – Mister Etruria – pascolare da un telegiornale all’altro calpestando il mito grillino dell’onestà. «Ma in politica l’onestà non è nemmeno un valore», sostiene Carpeoro: «Al massimo è una conseguenza». Di cosa? «Della capacità, innanzitutto». Luoghi comuni? «Un politico ladro, ma capace, fa sicuramente meno danni, alla comunità, di un onestissimo cretino». Cosa ci siamo persi? «L’estetica», risponde Carpeoro. «E’ l’estetica a produrre l’etica: l’emozione contagiosa della bellezza. Il desiderio di giustizia, che poi è inevitabile, viene di conseguenza. E intendiamoci: la base dei grillini è diversissima da quella degli altri partiti. E’ fatta di gente che sogna un mondo migliore, per davvero».Il problema? Forse, un mondo migliore non ha bisogno di rabbia, ma di idee coerenti. Per esempio: cos’è più importante, la (presunta) scarsa trasparenza di Borrelli o il suo ruolo, emerso alla luce del sole, quando – da leader del gruppo grillino a Strasburgo – cercò di traghettare i 5 Stelle verso l’Alde, cioè la roccaforte politica della peggior eurocrazia che, a parole, in Italia, i 5 Stelle avevano sempre giurato di combattere? Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, Carpeoro formula il concetto di “sovragestione”: manipolazione perenne, da parte del potere, delle sue pedine. Un potere che fabbrica candidati e, all’occorrenza, persino movimenti e partiti. Il collante? «Sempre lo stesso: l’odio, per il nemico di turno». Ieri Andreotti e Craxi, poi Berlusconi, poi Renzi. «E’ crollata, la mafia, dopo l’arresto di Riina e Provenzano? Nemmeno per idea: in una notte Cosa Nostra li ha sostituiti». Narrazioni, date in pasto al popolo: Gelli, Sindona. «Sono caduti, uno dopo l’altro. Ma è cambiato qualcosa, per noi?». Macché: la “sovragestione” ci ha proprosto altri personaggi da detestare, e noi abbiamo obbedito. Siamo tutti parte del problema, insiste Carpeoro: «Abbiamo gettato nella spazzatura le ideologie, che invece sono il futuro: rappresentano il progetto, l’immagine di come vorremmo che fosse la società domani».Inutile stupirsi, se oggi la “sovragestione” fa cadere qualcuno dal piedistallo. Solo ieri erano girate notizie sull’affare-Milan per “avvertire” Berlusconi, che infatti si è affrettato a rassicurare i boss europei: non toccherà il dogma del rigore Ue. Adesso tocca ai grillini? Logico: il Movimento 5 Stelle è anch’esso una creatura dei “sovragestori”, sostiene Carpeoro, che considera Di Maio «il peggior candidato possibile, non a caso (il meno preparato)» e gli imputa la vicinanza di un personaggio più che ingombrante: il politologo statunitense Michael Ledeen, espressione della supermassoneria più reazionaria nonché del B’nai B’rith, potentissima élite massonica ebraica, emanazione del Mossad. «Per mesi, Di Maio è entrato e uscito, quasi ogni settimana, dall’ambasciata americana di via Veneto», dice Carpeoro. «E i vari tour condotti nei santuari del potere atlantico, da Washington a Londra, glieli ha organizzati Ledeen». Oggi, guardacaso, Di Maio pesca dal cilindro un economista neoliberista, Lorenzo Fioramonti, per il quale il pericolo mortale per l’Italia non è l’austerity imposta dalla “sovragestione”, ma il debito pubblico. Siamo alle solite? Certo, ma con una differenza rispetto a ieri: i grillini sono una comunità organizzata, milioni di elettori. E se un giorno rompessero le righe, adottando idee utili per uscire dal tunnel in cui l’Italia è intrappolata?L’importante è non lasciarsi ipnotizzare dalle risse da saloon con cui si sta tentando di riempire il vuoto cosmico delle elezioni più inutili della storia. Laura Boldrini, vero e proprio ectoplasma politico, è riuscita a sopravvivere – sui media – solo grazie al teppismo del web, inventandosi la crociata orwelliana sulle fake news, su cui vigilierà il Ministero della Verità, la polizia di Minniti. Giorni di isteria collettiva – nel derby tra “fascisti” e “antifascisti” – per speculare elettoralmente sul sangue sparso da un folle a Macerata. L’Italia è praticamente senza governo. Da 25 anni il paese è privo di leadership, in balia della concorrenza tedesca e francese. La crisi economica non ha precedenti, dal dopoguerra, ma la campagna elettorale non va oltre la farsa: tutti i partiti sanno che nessuno vincerà. E nessuno, in ogni caso, ha in programma di ribaltare il paradigma che vede l’Italia subire i diktat di Bruxelles. Per Demopolis, solo 6 cittadini andranno alle urne, 17 milioni di italiani diserteranno i seggi (tra i giovani, uno su due). Siamo prossimi alla paralisi, nell’illusione di combattere il “cattivo” di turno. «Non sono le persone a fare progetti di potere: è il potere a fare progetti sulle persone», sostiene Carpeoro. Il problema non è “chi”, ma “cosa”. Questo sistema è da buttare, da rifondare. La medicina è una sola: la sovranità della democrazia. Ma invece di reclamarla, ci siamo sfogati a sparare contro sagome di cartone. Mario Monti arrivò a Palazzo Chigi tra gli applausi. Finalmente uno onesto, dissero. Peccato fosse il boia.«Tranquilli: prima delle elezioni salterà fuori una grana, per azzoppare i 5 Stelle». Detto fatto: a tre settimane dal voto esplode il caso dei parlamentari “furbetti” che avrebbero evitato di versare al fondo-aziende una parte dello stipendio. Giusto in tempo per consentire a Renzi (da che pulpito) di qualificare Di Maio come “il capo degli impresentabili”, mentre la crepa nel muro grillino diventa un Vajont, con l’oscuro e quasi onnipotente David Borrelli, braccio destro di Casaleggio, che divorzia precipitosamente dal movimento. Bufera su cui i media banchettano, mettendo alla berlina i presunti moralizzatori. La “Stampa” descrive Borrelli come «l’anello di congiunzione» tra Gianroberto Casaleggio e il mondo delle Pmi venete. «È membro del pensatoio di Confapri, l’associazione delle piccole imprese fondata dal futuro assessore di Roma Max Colomban e da Arturo Artom, due nomi chiave nel mondo imprenditoriale della galassia dei Casaleggio», scrive il quotidiano torinese. «Nel 2014 viene accusato di stalking dall’ex senatrice Paola De Pin, che parla di sue pressioni a favore delle imprese venete. Due anni dopo l’ex collaboratore del M5S Caris Vanghetti dimostra, intrecciando i dati, che molti soldi del fondo per la microimpresa finiscono alle aziende associate della Confapri. Una vera e propria lobby grillina. Nel frattempo Borrelli diventa europarlamentare e la sua società raddoppia il fatturato».
-
Mediocrazia: la rivincita dei mediocri e l’eternità della mafia
«Lei non ha capito niente perché è un uomo medio. Un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista» (Pier Paolo Pasolini). Se ne sono accorti anche Oltreoceano. Un nuovo modello socio-economico si è affermato e trova nel mondo del lavoro e della politica la sua massima espressione; non fa leva sulla capacità e l’impegno del singolo ma sulla sua attitudine al conformismo. È la “mediocrazia”, la rivincita del mediocre, la sua incontrastata affermazione. A sdoganare il termine è il sociologo canadese Alain Deneault, che nel suo saggio “Mediocratie” analizza l’ascesa dell’“uomo medio”, l’individuo mediano, sempre incline a collocarsi al centro, a metà tra gli incompetenti e i supercompetenti. Per la preservazione di un ordine precostituito – sia esso inteso nello specifico come ambiente lavorativo o più in generale, e a ricaduta, come sistema socio-economico – il talento e la competenza rappresentano una minaccia; per la conservazione dello status quo è necessaria, e non solo preferibile, un’accettazione acritica e passiva delle regole e delle convenzioni.Allo stesso tempo, la totale incompetenza e incapacità porterebbero a delle inevitabili inefficienze. E proprio qui viene fuori la figura del mediocre, un individuo mediamente preparato e competente, naturalmente incline a conformarsi al sistema, alle sue regole implicite e tacite. Non un emerito inetto dunque, piuttosto un “idiòtes”, quell’individuo incapace per indole di interessarsi alla vita pubblica, di saper rapportare le logiche e le ripercussioni delle proprie azioni in un contesto di più ampia portata. Quelle persone in grado di tacere e omettere informazioni che possano rivelarsi deleterie per i propri superiori, senza scrupoli sulla valenza morale e sulle ripercussioni sociali. Individui addestrati al conformismo, ma senza avvertirne la consapevolezza e il peso della coercizione. Sempre pronti a collocarsi al centro, nel percorso già tracciato e standardizzato, senza mai mettere in discussione l’ordine prestabilito, Deneault parla della loro affermazione come di una “rivoluzione anestetizzante” della società.A questo punto i soliti scettici potrebbero sollevare l’accusa, tanto in voga, di populismo, di demagogia o addirittura di qualunquismo. Allora qui entra in soccorso niente di meno che la matematica, la scienza esatta per antonomasia, immune a qualsiasi accusa di opinabilità. Nel 2007 l’italiano Antonio Merlo, direttore del dipartimento di economia della Pennsylvania University, non solo anticipava con la sua ricerca “Mediocracy” gli studi di Deneault, ma ne costruiva una formula matematica in grado di individuare il “mediocracy equilibrium”, quel punto ottimale per il mantenimento dello status quo. L’economista non si è risparmiato nell’analizzare e stigmatizzare il sistema sociale italiano e la sua Casta, massima espressione del fenomeno mediocratico. D’altronde a denunciare questo culto della mediocrità, fatto di odi verso personalità di spicco e amo verso acritici soldatini, fu il giudice Giovanni Falcone, che formulò la teoria della “prevalenza del cretino”. In “Cose di Cosa Nostra”, il magistrato racconta dell’incontro tra un collega romano e Frank Coppola, appena arrestato. Alla domanda «Signor Coppola, che cosa è la mafia?», il detenuto risponde: «Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia». E di cretini, pardon idiotes, mai come oggi l’offerta è abbondante.(Ilaria Bifarini: “Mediocrazia, la rivincita dei mediocri”, sul blog della Bifarini, settembre 2016. Insieme ad Andrea Mattozzi, il citato Antonio Merlo è autore dell’Nber Working Paper numero 12.920. “Cose di Cosa Nostra” è invece un libro che raccoglie interviste a Giovanni Falcone realizzate dalla giornalista francese Marcelle Padovani).«Lei non ha capito niente perché è un uomo medio. Un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista» (Pier Paolo Pasolini). Se ne sono accorti anche Oltreoceano. Un nuovo modello socio-economico si è affermato e trova nel mondo del lavoro e della politica la sua massima espressione; non fa leva sulla capacità e l’impegno del singolo ma sulla sua attitudine al conformismo. È la “mediocrazia”, la rivincita del mediocre, la sua incontrastata affermazione. A sdoganare il termine è il sociologo canadese Alain Deneault, che nel suo saggio “Mediocratie” analizza l’ascesa dell’“uomo medio”, l’individuo mediano, sempre incline a collocarsi al centro, a metà tra gli incompetenti e i supercompetenti. Per la preservazione di un ordine precostituito – sia esso inteso nello specifico come ambiente lavorativo o più in generale, e a ricaduta, come sistema socio-economico – il talento e la competenza rappresentano una minaccia; per la conservazione dello status quo è necessaria, e non solo preferibile, un’accettazione acritica e passiva delle regole e delle convenzioni.
-
Globalizzati e sempre più poveri: come nell’Impero Romano
I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.In Europa occidentale questo è un po’ meno evidente, o forse è solo in ritardo, ma con il globalismo e il neoliberismo, che sono ancora le religioni economiche dominanti, non ci sarà via d’uscita. Che è successo? Beh, noi non facciamo più le cose. Ecco tutto. Dobbiamo comprare da altri tutte le cose che ci servono: sempre di più. E di conseguenza non abbiamo nemmeno le competenze per fare altre cose. Siamo diventati dipendenti, per la nostra sopravvivenza, da nazioni che stanno dall’altra parte del pianeta. Dipendenti da nazioni che sono interessate solo a venderci le loro cose, se le possiamo pagare. Nazioni che vedono le richieste di salario interno salire e che – dovranno – farci pagare i loro prodotti a prezzi sempre più alti. E noi non avremo altra scelta che pagare. Ma possiamo pagare solo con quello che possiamo prendere in prestito – come nazioni, come imprese e come individui. Dobbiamo prendere in prestito perché, come nazioni, come società e come individui noi non facciamo più le cose. È un circolo vizioso con cui la globalizzazione ci ha benedetto. E da cui – ci viene detto – potremo uscire solo se riusciremo a crescere ancora. Cosa che non possiamo fare, perché noi non facciamo nulla.Quindi ci affidiamo ai banchieri centrali per gestire la crisi. Perché ci viene detto che loro sanno come gestirla. Non lo sanno, ma fingono di saperlo. Però, a leggere bene tra le righe, ammettono la loro ignoranza. A Janet Yellen, poche settimane fa, è scappato di dire che non ha idea del motivo per cui l’inflazione è debole. Mario Draghi ha detto più o meno la stessa cosa. Perché non lo sanno? Perché conoscono solo i modelli attuali, che non vanno più bene, perché non si adattano. E i modelli sono tutti quelli che hanno. Nel settore bancario centrale i modelli economici sono più importanti del buon senso. La Fed ha almeno un migliaio di dottorati PhDs sotto contratto. Ma la Yellen, il loro capo, continua a sostenere che “forse” sono sbagliati i modelli che dicono che se cresce l’inflazione aumentano i salari. Non hanno idea del perché i salari non crescano. Perché i modelli dicono che invece dovrebbero crescere. Perché loro hanno tutti un lavoro – i 1000 dottoroni ben pagati. E questo è tutto quello che hanno da dire. Dicono che il fatto che i salari non aumentano è un mistero.Io dico che quelli per cui questo è un mistero non sono le persone giuste per fare il lavoro che fanno. Se si esportano milioni di posti di lavoro in Asia, si sposta anche il potere negoziale dei lavoratori e li si spinge a fare dei lavori di merda e senza nessun benefit, allora c’è solo un risultato possibile. E questo risultato non include né inflazione, né crescita dei salari. L’unico risultato possibile, invece, è una erosione continua delle economie. Il mantra globalista afferma che riempiremo lo spazio che perdono le nostre economie offrendo posti di lavoro migliori, nel settore dei servizi e nel settore della conoscenza. Ma la realtà non segue il mantra. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro non sono sicuramente “migliori”. E mentre aspettiamo di vedere questi posti di lavoro migliori, salutiamo i clienti di Wal-Mart, vediamo che i robot cominciano a prendersi cura di quel poco che ci rimane della nostra capacità produttiva e i servizi pronta consegna eliminano dagli scaffali anche quello che restava nei nostri magazzini di mattoni e di calce. Sì, questo significa che stiamo perdendo anche i lavori “di minor qualità”.Nel frattempo i cinesi, che ora fanno i nostri vecchi lavori, sono stati capaci di farli grazie ad una folle quantità di inquinamento prodotto. E come se non fosse abbastanza, recentemente, solo per mantenere in vita il loro nuovo magico paradiso produttivo, sono stati costretti a prendere in prestito tanto quanto abbiamo preso in prestito noi – a livello statale, a livello di governo locale e ora anche a livello individuale. In Cina, le funzioni del credito sono come gli oppiacei in America. Milioni di persone che non erano mai entrate in contatto con le cose – e avrebbero continuato a viver bene anche se non ci fossero mai entrate in contatto – ora sono state agganciate. Ma sono stati agganciati anche i governi locali, che hanno creato un sistema bancario ombra che minaccerà presto Pechino; ma per i cittadini, questo, è un fenomeno relativamente nuovo. E si vede gente che dice cose come: “Se non compri un appartamento oggi, non te lo potrai mai più permettere”; oppure: “Una persona senza un appartamento non ha futuro a Shenzhen”.Sappiamo tutti che è sbagliato, ma i cinesi sono gente che ha visto solo che i prezzi dei beni salgono, e che non ha mai pensato che esistono delle città fantasma, e che ha pochi altri modi per parcheggiare i soldi che si guadagna, grazie al lavoro importato dagli Stati Uniti e dall’Europa. Pensano, senza avere mai dubbi, che i loro salari continueranno a crescere, proprio come il “valore” degli appartamenti. E’ gente che non ha mai visto i prezzi scendere. Ma se noi dobbiamo prendere soldi in prestito per permetterci di comprare i prodotti che (i cinesi) fanno per ripagare i soldi che hanno preso in prestito per comprare i loro appartamenti, allora siamo tutti in difficoltà, siamo tutti in mezzo ai guai. E allora è la stessa globalizzazione ad essere in difficoltà. I beneficiari assoluti, i proprietari della globalizzazione saranno in mezzo ai guai. Anche se lo saranno non prima di essersi pappati la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Che cosa ci farete, poi, con tutti i vostri miliardi, quando il tipo di società che avevate conosciuto quando siete cresciuti saranno state sradicate dal processo stesso che vi ha permesso di fare quei miliardi? Da qualche parte però, quei miliardi dovranno andare!Se quei 1000 dottoroni vogliono studiare un nuovo modello, potrebbero cominciare da qui. La globalizzazione provoca molti problemi. Il fatto che il lavoro scompaia dalle società – in modo che i cittadini di queste società possano però acquistare gli stessi prodotti per pochi centesimi di meno, se vengono in Cina – è un grande problema. Ma il problema principale della globalizzazione è quello finanziario: i soldi svaniscono continuamente dalle società, che devono indebitarsi sempre più per non regredire. La globalizzazione, come qualsiasi tipo di centralizzazione, fa questo: chiede soldi lontano, li chiede alle “periferie”. Il modello di Wal-Mart, McDonald’s, Starbucks ha già portato via lavoro, negozi e soldi incalcolabili dalle nostre società, ma non abbiamo ancora visto nulla. L’avvento di Internet farà prendere gli steroidi a quel modello; ma perché bisogna lasciare che un gruppo di capitalisti-avventurieri di Silicon Valley gestisca certi affari, come Uber o Airbnb, anche nel posto in cui viviamo noi, quando noi potemmo farlo benissimo e utilizzare i profitti di questi affari per migliorare la nostra comunità, invece di lasciarla diventare più povera?Vedo che, nel Regno Unito, Jeremy Corbyn ci aveva già pensato, e aveva fatto bene. La Gran Bretagna può diventare la prima grande vittima del lato oscuro della centralizzazione e, dopo essere uscita dall’organizzazione che l’appoggia – l’Unione Europea – l’idea di Corbyn di creare una cooperativa locale per sostituire Uber è proprio il modo di pensare di cui avrà bisogno. Ma perché devi accentrare tanti soldi e tanta capacità produttiva e poi lasciare tutto nel posto in cui si vive? Non si riuscirà mai a correre abbastanza velocemente, e non si deve farlo. Questo è il succo del dibattito sulla centralizzazione dell’Impero Romano. Anche se i Romani non spingevano mai le loro periferie a smettere di produrre i beni essenziali, però chiedevano di versare a Roma una parte. Il loro problema era che, verso la fine dell’Impero, la quota-parte che richiedevano (con la forza) divenne sempre più grande. Fino a che le periferie non si ribellarono – anche loro con forza.Il club delle banche centrali del mondo presto avrà delle nuove leadership. La Yellen potrebbe andar via, così come Kuroda in Giappone e Zhou in Cina; la Bce e Mario Draghi – della Goldman – cambieranno un po’ più tardi. Ma non c’è nessun segnale che le religioni economiche a cui aderiscono tutti saranno sostituite; così si andrà avanti con la centralizzazione. E se non dovesse funzionare, imporranno ancora più centralizzazione. Come finiranno i giochi in questo processo è dolorosamente ovvio già dall’inizio. La centralizzazione alimenta forze centrali, siano esse governative, militari o commerciali, pagate con i frutti del lavoro delle popolazioni locali, delle periferie. Questo è un processo che, sempre e inevitabilmente, andrà a sbattere contro un muro, perché sono troppi i frutti di quel lavoro che vengono tolti. Troppo è il peso di quei frutti che continuano a scorrere verso il centro, sia verso la Silicon Valley, sia verso Wall Street o sia verso Roma Antica. Non c’è nessuna differenza. Ci sono cose che si possono tranquillamente centralizzare (come le trattative di pace), ma non si possono centralizzare beni essenziali come il cibo, la casa, i trasporti, l’acqua, l’abbigliamento. Hanno un costo troppo alto a livello locale per essere centralizzati. Oppure tutti e ovunque finiremo per romperci l’osso del collo solo per sopravvivere. E’ molto facile, forse perché nessuno ci fa caso.(Raul Ilargi Meijer, “La globalizzazione è povertà”, da “The Automatic Earth” del 16 ottobre 2017, post ripreso da “Come Con Chisciotte” con traduzione di Bosque Primario).I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.
-
Difendersi lontano da casa: la Russia investe sulla marina
Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portarei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.La Russia sta perfezionando una nuova “dottrina strategica” per le sue forze navali. Il documento della marina – scrive Iacch – afferma che le flotte russe dovranno «essere in grado di impedire qualsiasi pressione e aggressione contro la Russia ed i suoi alleati sia lungo le rotte oceaniche che marittime, e di schierare truppe nelle zone più remote». In caso di guerra, la marina «dovrà essere in grado di infliggere danni inaccettabili a un avversario allo scopo di costringerlo a porre fine alle ostilità». La flotta di Mosca sfrutterà il potenziale tecnologico in suo possesso, «comprese le armi di precisione a lungo raggio». Il contenuto del progetto del 2015 corrisponde a una ripresa della pianificazione strategica, forte anche di una crescita economica sostanziale, in settori chiave della politica nazionale ed estera. Da rilevare, aggiunge l’analista, che nel 2010 la Russia ha avviato un ambizioso piano di riarmo, ancora in corso, che si dovrebbe concludere nel 2020. Il nuovo documento definisce i compiti fondamentali della marina per la prevenzione dei conflitti e la dissuasione strategica, al fine di «valutare costantemente e prevedere la situazione militare e politica, mantenendo le forze navali pronte contro qualsiasi potenziale nemico».«Gran parte delle minacce militari alla Russia provengono dall’Occidente», scrive Iacch, «in particolare nei pressi del Mar Nero e del Mar Mediterraneo». La regione artica è individuata come un’area in cui, afermano i russi, «il conflitto militare potrebbe diventare probabile in futuro». L’Oceano Indiano, l’Antartide e parte del Pacifico ricevono meno attenzione. Il documento strategico, sottolinea l’analista, si concentra sulla protezione delle aree costiere territoriali e sull’Artico: «E’ quindi corretto affermare che la nuova dottrina non persegue la proiezione di potenza globale come obiettivo primario, ma si concentra sugli interessi russi su una doppia flotta composta dalle grandi unità ereditate dall’Unione Sovietica e da piccole e moderne navi equipaggiate con missili a lungo raggio». Fondamentale, anche sotto questo aspetto, il significato dell’Artico: «Dal dicembre del 2012, Mosca ha avviato un’attività sistematica volta a rafforzare la propria presenza militare nella regione. Qualsiasi scenario strategico riguarderà l’Artico (considerato il principale settore strategico aerospaziale), dal momento che è il percorso di volo più breve tra Usa e Russia».La militarizzazione dell’Artico, con la costruzione di nuove basi o il riutilizzo dei vecchi impianti sovietici, «rimarrà una delle priorità della leadership russa nei prossimi anni», mentre il riscaldamento della calotta polare «rivelerà grandi risorse naturali non ancora sfruttate». Si calcola infatti che il fondo marino dell’Artico custodisca il 15% del petrolio rimanente del mondo, fino al 30% dei suoi giacimenti di gas naturale e circa il 20% del suo gas naturale liquefatto. «A causa del fenomeno dell’amplificazione artica – continua Iacch – la regione si surriscalda in tempi molto più brevi rispetto a quanto avviene in qualsiasi altra parte del globo. La scomparsa del ghiaccio marino è stimata al 2030, con rotte del Mare del Nord che diverranno percorribili per nove mesi all’anno». Ciò si traduce in una riduzione del tempo di viaggio, pari al 60%, tra Europa ed Asia orientale rispetto a quelle attuali attraverso Panama ed il Canale di Suez. La Russia è in vantaggio: «Dispone attualmente di una flotta di 40 rompighiaccio in servizio attivo mentre 11 sono in produzione».Mosca ha appena varato la nuovissima nave rompighiaccio a propulsione Arktika, la più potente al mondo (classe Lk-60Ya, Progetto 22.220). «Con i suoi 567 piedi di lunghezza ed un dislocamento di 33.500 tonnellate, l’Arktika può spezzare lastre di ghiaccio spesse tre metri». Negli ultimi trent’anni, aggiunge Iacch, Mosca ha semplicemente investito maggiori risorse finanziarie nella regione rispetto a qualsiasi altra nazione. «Sarebbe corretto rilevare che, attualmente, la flotta rompighiaccio russa è in grado di creare, incontrastata, nuove rotte commerciali nella regione artica». Ben diversa la situazione degli Usa: «I due cantieri che costruivano le rompighiaccio per gli Stati Uniti sono chiusi». Sicché, «il gap tra Russia e Stati Uniti è stimato in almeno dieci anni, a causa della miopia delle precedenti amministrazioni che hanno concentrato le principali risorse verso il Medio Oriente».Sono tre, riassume Iacch, le potenziali minacce specifiche per la Russia elencate nel documento della marina. La prima, spaventosa, «prevede un crollo improvviso della situazione politico-militare che porterà all’uso della forza militare nelle aree marittime che hanno un interesse strategico per la Russia». La seconda prescrive «lo schieramento di armi strategiche non nucleari di precisione e difese missilistiche nei territori e nelle zone marittime adiacenti alla Russia». La terza, infine, prevede «l’uso della forza militare da parte di altri Stati per minacciare gli interessi nazionali russi». Oltre all’Artico, la dottrina sottolinea l’importanza di proteggere l’accesso alle risorse energetiche del Medio Oriente e del Mar Caspio. C’è preoccupazione per l’impatto negativo dei conflitti regionali in Medio Oriente, Asia meridionale ed Africa, incluso il pericolo causato dalla crescita della pirateria nel Golfo di Guinea e negli oceani Indiano e Pacifico. «Il rafforzamento della flotta del Mar Nero e delle forze russe in Crimea, nonché il mantenimento di una presenza navale costante nel Mediterraneo, sono individuate come le priorità geografiche più critiche per il futuro sviluppo della marina russa».«La Russia – affermano gli strateghi moscoviti – dovrà rafforzare ulteriormente la capacità di proiezione con missili convenzionali e nucleari. Inoltre cercherà di migliorare la sostenibilità delle sue forze navali al fine di assicurare la presenza continua in regioni marittime strategicamente importanti, indipendentemente dalla distanza dalle basi». In caso di guerra, la dottrina rileva che la marina russa «dovrà essere in grado di difendere se stessa e il territorio da avversari equipaggiati con sistemi d’arma ad alta precisione». La leadership di Mosca, sottolinea Iacch, continua ad essere particolarmente preoccupata dal “Prompt Global Strike” americano, ritenuto «una minaccia diretta alla sicurezza internazionale e alla Russia». Nella dottrina di riferimento si rileva che la marina «è uno strumento potenzialmente efficace per dissuadere tali attacchi convenzionali di precisione di portata globale». L’efficacia della marina «dovrà essere strutturata su una combinazione di prontezza, capacità e persistenza: utilizzando le armi convenzionali a lungo raggio ad elevata precisione, la marina russa può minacciare bersagli militari dal mare».Secondo questa dottrina, la nuova capacità delle sue flotte consentirà alla Russia di dissuadere il ricorso all’asset “Prompt Global Strike”. Al fine di svolgere questa missione, la marina «dovrà costruire sottomarini nucleari e convenzionali multifunzionali, navi da combattimento, una potente aeronautica navale e sistemi di difesa costiera a lungo raggio», spiega Iacch. La marina militare russa, sostengono i suoi ammiragli, «è uno degli strumenti più efficaci per il contenimento strategico: le future armi di precisione dovranno essere in grado di distruggere il potenziale militare ed economico di un nemico colpendo le sue strutture vitali dal mare». La dottrina rileva che nel 2025 l’armamento convenzionale principale della marina russa sarà costituito da missili da crociera ad alta precisione a lungo raggio, integrati con missili ipersonici e vari sistemi automatizzati come i droni subacquei. In ogni caso, rileva Iacch, le ambizioni globali lasciano il posto al controllo delle aree territoriali russe e alla natura essenzialmente difensiva delle missioni. Le aree strategiche – Mediterraneo, Baltico, Caspio, Mar Nero e Artico – non richiedono una grande flotta. Di conseguenza, le forze navali russe «dovrebbero essere sufficienti per le finalità descritte nella dottrina navale».Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portaerei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.