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Archivio del Tag ‘Carlomagno’

  • Aquisgrana: il vero potere adesso ha paura di noi europei

    Scritto il 03/2/19 • nella Categoria: idee • (3)

    Tanto peggio, tanto meglio: vuoi vedere che l’orrendo patto franco-tedesco per fondare la versione 2019 del Sacro Romano Impero finirà con l’aprire gli occhi agli europei? Lo sostiene Enrico Carotenuto in un’analisi su “Coscienze in Rete”, network impegnato a svelare i retroscena della geopolitica sulla base di una tesi di fondo: il vero potere non mostra mai il suo vero volto, preferendo utilizzare comodi burattini (come Macron e la Merkel, in questo caso). E una mossa come il Trattato di Aquisgrana – che affossa virtualmente l’Ue sullo scenario mondiale – rivela la fragilità del potere franco-tedesco, spaventato dalla ribellione in corso in tutta Europa (elettorale in Italia, popolare in Francia, istituzionale nella Gran Bretagna della Brexit). Ma quel potere, più che “franco-tedesco”, è apolide: la Francia di Macron e la Germania della Merkel sono solo i principali strumenti con cui il neoliberismo neo-feudale ha esercitato il suo dominio, imponendo ai popoli europei di sottostare alle rigide norme finanziarie che hanno fatto crescere il Pil europeo impoverendo però la stragrande maggioranza della popolazione, attraverso un immenso trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, grazie a regole truccate dell’austerity.
    Tristemente decadente anche l’aspetto simbolico del trattato, firmato non casualmente proprio ad Aquisgrana, la capitale di Carlomagno. Proprio Aachen, ricorda Enrico Carotenuto, è la città dove ben 37 imperatori del Sacro Romano Impero vennero incoronati “Re dei Germani” (non dei Franchi). E siamo sicuri, aggiunge, «che anche questa ennesima “incoronazione” abbia il beneplacito del papato». Ve le ricordate, le effusioni del soave Macron in Vaticano con Papa Francesco, dopo che i francesi avevano appena definito “vomitevole” la politica italiana sui migranti? Ora ci risiamo: lo stesso Macron – attaccato da Di Maio per lo sfruttamento coloniale dell’Africa – dice che l’Italia merita governanti migliori, all’altezza della sua storia. Si scivola dal ridicolo al grottesco, visto che Macron – a capo di un paese che rapina nel modo più ignobile 14 paesi africani – parla come una Maria Antonietta qualsiasi, assediato com’è dalla rivolta dei Gilet Gialli, approvata da 8 francesi su 10. Ed è proprio il malconcio Macron – politicamente, un morto che cammina – ad aver firmato il Trattato di Aquisgrana insieme ad Angela Merkel, la cui stella politica è al tramonto.
    In altre parole: non sono loro, a decidere. Politici come Merkel e Macron si limitano a eseguire ordini. La notizia? L’élite che li comanda oggi teme il popolo. Ha paura del risveglio in atto, nelle coscienze dei cittadini europei. «Noi – scrive Carotenuto – siamo del parere che il “peggioramento” (l’accorciamento delle linee di comando) sia una manovra di retroguardia, da parte di certe forze, di fronte a quello che sta succedendo realmente dal punto di vista evolutivo». Sempre “Coscienze in Rete” immagina «che la risposta a questo peggioramento imposto sia un’occasione di miglioramento delle coscienze individuali». E’ evidente, intanto, il rischio che la Ue “si smonti” per via dei risentimenti crescenti che stanno esplodendo ovunque, specie nell’Europa mediterranea. Il Trattato di Aquisgrana sembra fatto apposta per varare l’Europa a due velocità, divisa tra paesi leader e piccoli satelliti. Il vero potere lavora da sempre alla creazione del super-Stato, «ma è un lavoro molto lungo e difficile anche per le grandi piramidi». Chi ha un po’ di potere tende a mantenerlo. E la piramide è antica, come i suoi metodi: carota e bastone, “divide et impera”. Ora, se non altro, il fenomeno è sotto gli occhi di tutti.

    Tanto peggio, tanto meglio: vuoi vedere che l’orrendo patto franco-tedesco per fondare la versione 2019 del Sacro Romano Impero finirà con l’aprire gli occhi agli europei? Lo sostiene Enrico Carotenuto in un’analisi su “Coscienze in Rete”, network impegnato a svelare i retroscena della geopolitica sulla base di una tesi di fondo: il vero potere non mostra mai il suo vero volto, preferendo utilizzare comodi burattini (come Macron e la Merkel, in questo caso). E una mossa come il Trattato di Aquisgrana – che affossa virtualmente l’Ue sullo scenario mondiale – rivela la fragilità del potere franco-tedesco, spaventato dalla ribellione in corso in tutta Europa (elettorale in Italia, popolare in Francia, istituzionale nella Gran Bretagna della Brexit). Ma quel potere, più che “franco-tedesco”, è apolide: la Francia di Macron e la Germania della Merkel sono solo i principali strumenti con cui il neoliberismo neo-feudale ha esercitato il suo dominio, imponendo ai popoli europei di sottostare alle rigide norme finanziarie che hanno fatto crescere il Pil europeo impoverendo però la stragrande maggioranza della popolazione, attraverso un immenso trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, grazie a regole truccate dell’austerity.

  • La patria europea demolita dal sovranismo degli europeisti

    Scritto il 31/1/19 • nella Categoria: idee • (15)

    Dunque, la Germania al posto dell’Europa nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il franco francese anziché l’euro nei paesi africani. L’accordo economico-politico bilaterale tra Macron e la Merkel sulla testa dell’Europa e dei suoi accordi. Lo sfondamento dei limiti europei del debito da parte dei francesi, col placet dei tedeschi. La conquista dell’economia italiana soprattutto da parte di aziende francesi. Lo sfaldarsi di ogni piano comune europeo per affrontare i flussi migratori, e il deliberato sfilarsi di Germania e Francia dalle responsabilità che loro competono. E si potrebbe ancora continuare. Come giudicare complessivamente questi fattori, dove portano? Alla dichiarazione di fallimento dell’Europa, anzi all’autocertificazione, al prevalere degli interessi nazionali sugli interessi europei, all’egemonia delle potenze nazional-coloniali sull’unione tra Stati membri. In una parola, chi affossa l’Europa non sono coloro che escono, come i britannici; e nemmeno chi tuona, a volte in modo greve, contro chi comanda in Europa, come fanno gli italiani grilloleghisti. Ma sono proprio loro, i presunti padroni di casa.
    Sono loro, quelli di Aquisgrana, quelli dell’asse carolingio, i franco-tedeschi, a uscire dall’Europa. O se preferite, si sentono i genitori d’Europa e considerano gli altri Stati come minorenni; loro possono uscire di casa e rientrare, loro possono avere le chiavi di casa, loro possono concedersi libertà che agli altri sono negate. Quando sento il solito refrain sugli amici e i nemici dell’Europa, la solita condanna dei nazionalismi e dei sovranismi, mi chiedo: e questi due sarebbero i garanti dell’Europa? Non sono loro i primi fautori di nazionalismo e sovranismo, con l’aberrante precisazione che lo sono a prescindere dai loro popoli, puro kratos senza demos, nonostante siano in palese, schiacciante minoranza nei loro paesi? Simbolicamente grave è l’accordo tra Macron e Merkel per chiedere che il seggio assegnato all’Europa nel Consiglio di Sicurezza venga invece dato alla Germania. È la sconfessione dell’Unione Europea, l’abdicazione dell’Unione, la vanificazione della rappresentanza europea nel mondo, nel timore che nuovi equilibri, nuove ondate “sovraniste” possano nominare rappresentati dell’Europa non conformi e non graditi all’establishment dominante.
    Ora non si tratta d’inventarsi nuove crociate antifrancesi o antitedesche, né si tratta di alimentare la guerra civile europea e l’Eurexit, cioè l’uscita dell’Europa da se stessa, come se fosse posseduta da un demonio. Niente toni scomposti, nessuna caccia al nemico come capro espiatorio delle difficoltà interne. Si tratta prima di ricomporsi e poi di ricomporre, ovvero di assumere un contegno adeguato e poi puntare a una rigenerazione del patto europeo, una ridefinizione. Si tratta di pensare a una cosa: c’è bisogno d’inventarsi un sovranismo europeo, fondato su un patriottismo europeo. Cioè su un sentire comune, su un’appartenenza condivisa ad una civiltà. L’Europa di oggi, proprio come il governo Salvini-Di Maio, regge su un contratto. Ovvero su un patto economico-finanziario, sulla firma di un accordo e di alcuni obblighi legati a quell’accordo. Ma non c’è, e si vede a occhio nudo, nessun afflato europeo, nessun fervore identitario comune, nessuna percezione di vivere in una casa comune. Sarebbe quello il salto di qualità da compiere a questo punto.
    Un patriottismo europeo, come un sovranismo europeo, non sostituirebbe il patriottismo e la sovranità delle nazioni, ma ne sarebbe in qualche modo la sintesi, il garante dei singoli Stati e dei loro patriottismi nazionali. Un patriottismo europeo, un sovranismo europeo, dovrebbe esercitarsi rispetto al mondo esterno prima che sugli Stati membri, e dovrebbe occuparsi della concorrenza commerciale esterna, della comune difesa europea, dell’egemonia planetaria delle superpotenze, dei flussi migratori e delle minacce all’Europa e agli europei. Insomma dovrebbe essere proiettato sull’esterno, più che essere vessatorio e oppressivo al suo interno. Dovrebbe proteggere i popoli europei più che sottometterli ai diktat economico-finanziari o ai dogmi dell’accoglienza.
    Ci sono tre patriottismi, uno dentro l’altro come matrioska e come cerchi concentrici: il patriottismo locale, vorrei dire a chilometro zero, quello del territorio più prossimo, della provincia e del proprio habitat; il patriottismo nazionale, fondato sulla storia, la lingua, gli Stati e le tradizioni nazionali; il patriottismo europeo, inteso come patriottismo delle civiltà europea e dei suoi confini verso l’esterno. Non si può pensare di sopprimere uno senza poi sopprimere o vanificare gli altri. E se il compito dei nostri giorni, paradossale ma non troppo, sia quello di difendere l’Europa dagli europeisti?
    (Marcello Veneziani, “Francia e Germania contro l’Europa”, da “La Verità” del 25 gennaio 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Dunque, la Germania al posto dell’Europa nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il franco francese anziché l’euro nei paesi africani. L’accordo economico-politico bilaterale tra Macron e la Merkel sulla testa dell’Europa e dei suoi accordi. Lo sfondamento dei limiti europei del debito da parte dei francesi, col placet dei tedeschi. La conquista dell’economia italiana soprattutto da parte di aziende francesi. Lo sfaldarsi di ogni piano comune europeo per affrontare i flussi migratori, e il deliberato sfilarsi di Germania e Francia dalle responsabilità che loro competono. E si potrebbe ancora continuare. Come giudicare complessivamente questi fattori, dove portano? Alla dichiarazione di fallimento dell’Europa, anzi all’autocertificazione, al prevalere degli interessi nazionali sugli interessi europei, all’egemonia delle potenze nazional-coloniali sull’unione tra Stati membri. In una parola, chi affossa l’Europa non sono coloro che escono, come i britannici; e nemmeno chi tuona, a volte in modo greve, contro chi comanda in Europa, come fanno gli italiani grilloleghisti. Ma sono proprio loro, i presunti padroni di casa.

  • La scuola sacrifica la storia? Sforna cittadini senza memoria

    Scritto il 23/1/19 • nella Categoria: idee • (8)

    Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio. Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato. Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione Francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la Seconda Guerra Mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.
    In più, la riforma ha fatto ulteriori “regali” agli studenti delle superiori: ha tolto un’ora alla disciplina nel biennio, aggiungendole però anche la geografia nell’orario ridotto (si tratta di quell’ibrido sconcertante che si chiama “geostoria”); ha rimodulato la distribuzione del programma di storia in modo che, invece di cominciare dalla metà del Trecento, in terza si cominci da Carlo Magno (cinque secoli prima); ha creato classi di 27-30 alunni. Risultato: il Novecento resta per forza fuori dalle scuole italiane, se non trattato di corsa e solo fino ad una sintesi estrema della Seconda Guerra Mondiale; il numero eccessivo di alunni impedisce sia di verificare oralmente la loro conoscenza in modo adeguato sia di proporre qualunque approfondimento; l’insegnamento di questa fondamentale materia si è ridotto a poche nozioni, prive di ogni inquadramento critico o di ogni valenza educativa. Poche informazioni, da mandare a memoria con fastidio e senza comprenderle, dato anche il progressivo e inesorabile scadimento dei manuali scolastici e dato il buco nero di conoscenze alle spalle.
    Perciò non stupisce che gli studenti italiani non scelgano il tema di storia all’esame di Stato. Soltanto che il ministro, invece di toglierlo dalla prova conclusiva, sancendo così la definitiva marginalità della storia nel curriculum formativo degli studenti italiani, dovrebbe chiedersi perché il tema di storia ha così poco appeal. E se fosse saggio, correrebbe ai ripari. Un’intera generazione di studenti che non conosce la storia se non in modo superficiale, e che ignora tutte le vicende salienti del Novecento, è pronto per qualunque regime che si fondi sull’ignoranza della gente. Che lo abbiano fatto apposta, dopo quello che abbiamo letto nel libro “Massoni” di Gioele Magaldi, può apparire tutt’altro che un’idea stravagante. E’ un pezzo della strategia neoliberista di impoverire e depotenziare la scuola pubblica, fondamentale organo costituzionale, secondo la definizione del padre costituente Piero Calamandrei. Per questo, tornare ad un insegnamento vivo, approfondito, critico della storia è fondamentale. Si tratta di una delle principali proposte del Movimento Roosevelt per una scuola davvero democratica.
    (Patrizia Scanu, “Senza storia non c’è memoria, salviamo l’insegnamento della storia”, dal blog del Movimento Roosevelt del 20 gennaio 2019).

    Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio. Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato. Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione Francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la Seconda Guerra Mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.

  • Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa

    Scritto il 22/12/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
    Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.
    Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.
    Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.
    Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?
    “Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.
    C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.
    L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?
    Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.
    Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.
    Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.
    (Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).

    Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.

  • Nessun Dio, nella Bibbia: come smontare l’immane raggiro

    Scritto il 28/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (49)

    Vedete questa parete alle mie spalle? E’ bianca, per tutti? Se nella Bibbia c’è scritto che questa parete è rossa, io dico: “Nella Bibbia c’è scritto che questa parete è rossa”. Il che non vuol dire che io sostengo che quella parete sia rossa; dico solo: nella Bibbia c’è scritto che è rossa. Poi, tutti assieme, possiamo determinare che l’autore biblico ha preso un colossale abbaglio? Benissimo, diciamo pure che l’autore biblico ha preso un colossale abbaglio. Quindi, ciò che io vi dico non è “la verità”: è solo ciò che c’è scritto. Se io traduco “Pinocchio” per conto degli eschimesi, magari, quando avrò finito, ci sarà qualche saggio eschimese che si alza e dice: ma tu vuoi convincerci del fatto che i bambini si fanno partendo dal legno? No: io vi dico soltanto che, in quel libro, c’è scritto che quel bambino è stato fatto partendo da un pezzo di legno. Poi, tutti assieme, stabiliamo che quella è una favola? Benissimo. Quindi, io provo a raccontarvi che cosa c’è scritto nella Bibbia; se poi tutti assieme vogliamo pensare che la Bibbia racconti favole, benissimo: la Bibbia racconta favole. E’ chiaro il concetto? Quindi io non vi parlo di Dio, perché l’Antico Testamento non parla di Dio. Non parla del Dio spirituale: non c’è proprio (quella è una elaborazione teologica successiva). Non parlo di mondi spirituali, perché nell’Antico Testamento non ci sono.

  • L’enigma Biglino e la rimozione cosciente della vera storia

    Scritto il 20/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    «Oggi come non mai stiamo vivendo nella caverna platonica, dove gli uomini scambiano per reali le immagini che scorrono loro davanti». Oggi come non mai, infatti – scrive José Saramago – confondiamo la realtà con le ombre. Un blogger originale come Carlo Bertani invita i lettori a osservare il geroglifico scoperto in Egitto nel tempio di Abydos, XIX dinastia (dalle parti del 1300 avanti Cristo). «Che ve ne pare? Ci vedete qualcosa che assomiglia ad un elicottero, una nave (o sommergibile), un oggetto volante?». Invece, segnala Bertani, gli archeologi spiegano il fatto con «ripetute corrosioni, dovute allo scorrere del tempo». Certo, resta valido il paradosso della scimmia che scrive al computer: «Se lasciata picchiare sui tasti per un tempo uguale ad infinito, la scimmia – inesorabilmente – premendo i tasti casualmente, scriverà la Divina Commedia». E’ così che, secondo l’archeologia ufficiale, ad Abydos, «cancellando e riscrivendo» sarebbero saltati fuori l’elicottero, la nave e l’aereo? Tutti nella stessa tavoletta o porzione di muro? Non sarebbe più onesto affermare: non sappiamo cosa vollero dirci, gli egizi, con quel disegno? Bertani la chiama: rimozione cosciente. Ovvero: la scienza di oggi «s’ammanta con la stola della Nuova Religione Mondiale», che le impedisce di ammettere di non avere spiegazioni. Specie di fronte all’enigma dei testi antichi: come la sconcertante Bibbia, proposta – alla lettera – da Mauro Biglino.
    Di fronte alle esternazioni dell’esegeta torinese, scrive Bertani sul suo blog, si potrebbe liquidare il tutto come un fenomeno editoriale alla Dan Brown, specie se Biglino ponesse al centro dell’attenzione la sua persona. E invece il biblista italiano «non si pone come un “faro” di sapienza, e neppure instaura una sorta di “dissidio” con la Santa Sede, anche se – a dire il vero – Oltretevere non devono aver gradito l’idea che, proprio dalla Bibbia, Biglino abbia sottratto un elemento di una certa importanza, cioè Dio». L’autore, che ha alle spalle 19 traduzioni bibliche per le Edizioni San Paolo, sostiene proprio questa tesi: la Bibbia è un resoconto di “qualcosa” che avvenne fra il Caucaso e il Mediterraneo in epoche lontane, con la Mesopotamia come epicentro: il “qualcosa”, però, secondo Biglino, non ha nulla a che vedere con la creazione del mondo e nemmeno con la figura del Dio rappresentato dalla teologia monoteista. La storia, secondo Biglino, è un’altra: il termine “Elohim”, plurale, rappresenta esseri come Yahvè, «in possesso di una tecnologia superiore, i quali hanno instillato le basi della conoscenza scientifica (agricoltura, costruzioni) nei popoli che vivevano in quelle aree». Di più: «Essendo fatti “a nostra somiglianza”, questi esseri più evoluti si sono incrociati con la nostra razza», magari mediante l’ingegneria genetica, «inserendosi così come “catalizzatori” nell’evoluzione umana».
    D’altro canto, avverte Bertani, non dimentichiamo che gli antichi usavano translitterare la storia antica nel mito: il pantheon era popolato di dei che stavano sempre “in alto”, che potevano assumere le sembianze più strane fino ad accoppiarsi con gli umani, generando semidei. «Ne hanno avuta, di fantasia: ma era solo fantasia?». Bertani riconosce che l’esegesi di Biglino è «chiara e convincente», anche se a poterla controllare sono soltanto i traduttori dall’ebraico antico, dall’aramaico e dalle altre lingue mesopotamiche del tempo. E’ pur vero, per contro, che la filologia non ha mai contestato in modo sostanziale Biglino, che oltretutto circoscrive saggiamente la sua azione attorno al Codice Masoretico di Leningrado, cioè il “master” della Bibbia attuale, riscritta e vocalizzata solo nel medioevo, all’epoca di Carlomagno. Biglino poi «non asserisce che questi “dei” fossero extraterrestri, oppure appartenenti a precedenti civiltà terrestri: si limita a sottolineare le incongruenze che ci sono nella Bibbia, “sfiorando” anche il Mahabharata e l’Epopea di Gilgamesh, dove ci sono numerosi passi un poco inquietanti». In ogni caso, sottolinea Bertani: perché non assumere queste indicazioni come possibili indizi, molto seri, sulla vera storia dell’evoluzione umana così improvvisamente accelerata?
    Oggi, continua Bertani, il sapere scientifico è senz’altro più conosciuto e dibattuto rispetto alle lingue antiche: bastano certe scoperte archeologiche a suscitare sgomento. Ipotetico punto di partenza, per rileggere la preistoria, il 74.000 avanto Cristo, data in cui esplose il supervulcano di Toba, a Sumatra. Niente a che vedere col Vesuvio o l’Etna: «L’esplosione di Toba immise nell’atmosfera 3.000 chilometri cubici di materiale e la radiazione solare scomparve: la Terra (all’epoca, si era in piena glaciazione di Wurm) precipitò in un “inverno vulcanico” che durò alcuni anni». E dato che la popolazione terrestre era allora concentrata fra i due tropici, cioè nel raggio d’azione del supervulcano, fu duramente colpita. «I paleobiologi hanno stimato – dalla varianza del Dna umano – che si partì, in quel senso, quasi dagli inizi. Alcune teorie ipotizzano una “forbice” di sopravvissuti fra i 600 ed i 3.000, ma sono cifre ipotizzate e ricavate, come dicevamo, solo dalla scarsa varianza del Dna. I soli reperti archeologici non ci forniscono informazioni esaustive al riguardo». Finalmente, verso il 10.000 avanti Cristo, termina la glaciazione di Wurm: «Altro periodo di sconvolgimenti, il mare si alza di decine di metri in pochi secoli, fiumi immensi si generano dallo scioglimento dei ghiacci. Però, l’uomo può finalmente affacciarsi alla “finestra” del mondo. Sono, appena, 12.000 anni or sono. Qui, in qualche modo, s’innesta la trattazione di Biglino».
    Il testo biblico è datato fra il primo e il secondo millennio prima di Cristo, ma racconta vicende più antiche (tuttora, non c’è unità di vedute fra gli studiosi). «Passano 7.500 anni – un’inezia, se riferita ai tempi dell’evoluzione – e, intorno al 2.560 il faraone Khufu (Cheope) decide di farsi una bella tomba di famiglia, e fa costruire la nota piramide». In realtà la datazione è incerta: c’è chi calcola che le piramidi di Giza abbiano ben 20.000 anni. In ogni caso, «ancora oggi non si sa come la costruirono, nonostante mille teorie sullo spostamento dei massi». Craig Smith, un ingegnere statunitense che fece parte di una squadra incaricata di determinare i tempi e le modalità seguite per la costruzione della piramide di Cheope, confessò: «Le logistiche di costruzione di Giza sono impressionanti, se si pensa che gli antichi egizi non avevano a disposizione pulegge, ruote e accessori di ferro». Le dimensioni delle piramidi sono estremamente accurate, aggiunse Smiths, sottolineando che il sito «è stato livellato con un errore di meno di un centimetro su una base di oltre cinque ettari: è paragonabile all’accuratezza dei moderni metodi edilizi e al livellamento al laser». In altre parole: «E’ sbalorditivo: con i loro “attrezzi rudimentali”, i costruttori di piramidi dell’antico Egitto furono accurati quasi quanto lo siamo noi con la tecnologia del XX secolo».
    Si aggiunga che, nei siti di estrazione dei massi, non è stato rilevato nessun utensile di rame, il metallo più duro conosciuto all’epoca. «Inoltre – osserva Bertani – i massi delle piramidi avevano un peso compreso fra le 2,5 e le 80 tonnellate: li trasportavano su barche di papiro? Auguri». Come credere alla storia degli schiavi che trascinando 80 tonnellate su un piano inclinato inumidito con l’acqua? E tutto questo, aggiunge Bertani, l’avrebbe fatto un popolo che non conosceva la ruota, applicata all’edilizia? E questo è niente, se uno fa un salto al museo di Baghdad: vi scopre infatti «una rudimentale batteria». Non certo al fluoruro di litio, ma al ferro-rame: «Non conoscevano ancora lo zinco, figuriamoci il litio». Eppure, il vaso custodito nella capitale irachena «contiene proprio i due metalli, separati da uno strato di catrame». L’elettrolita? «Un acido qualunque, succo di limone oppure aceto, vino». In pratica, «è un’edizione arcaica della nota pila di Volta, che utilizzò il rame e lo zinco». Chi la costruì, e perché? «Nessuno lo sa». Una cella elettrolitica così fatta, spiega Bertani, poteva fornire una tensione di 0,4 volt. Ma magari, collegandole in serie, quelle celle potevano raggiungere tensioni più elevate. Di che epoca è, l’aggeggio? Pare risalga a due secoli prima di Cristo. «Ovviamente gli archeologi “ufficiali” si sono sperticati nel dire che “forse” era “solo” uno strumento per stendere, per via elettrolitica, un sottile strato d’oro su altri metalli». Troppo impegnativo, ammettere che i costruttori «conoscevano le tecniche galvaniche, che includono – en passant – una conoscenza approfondita dell’elettrologia, e della chimica».
    La galvanotecnica è complessa: si usano per lo più i sali cianidrici dei metalli che si vogliono usare per ricoprire. I proto-scienziati mesopotanici mettevano l’oro a bagno in un impasto con le mandorle amare? «Era un mondo che conosceva la tecnologia? O forse la ricordava? O l’aveva vista, o ricevuta, in dono da qualcuno?». Già, ma quale mondo? Le conoscenze, a quell’epoca, non erano omogenee, sottolinea Bertani: basti pensare che, quando i romani conquistarono la pianura padana e le valli circostanti (II-I secolo a.C.), in val Camonica incontrarono popolazioni che ancora si dedicavano alle pitture e sculture rupestri, come nel Mesolitico. «Una differenza abissale: le pitture rupestri incontrarono un mondo che già aveva creato strade, ponti, acquedotti… che già possedeva un corpus giuridico, che si governava grazie al Senato e… stava per sperimentare la guerra civile!». Mentre i romani si dedicavano alla conquista del mondo allora conosciuto, in un’isola del Mediterraneo – Cicerone dice la Sicilia, altri Rodi, ma non ha importanza: erano tutti greci –  qualcuno costruiva ed esportava sofisticati orologi astronomici, come non ne sarebbero più stati costruiti per almeno 1.500 anni».
    Una di queste macchine, racconta Bertani, è stata ritrovata su una nave greca naufragata presso l’isola di Anticitera, vicino a Creta, nel 1900. Sulle prime non fecero caso al ritrovamento, incrostato dai sedimenti organici marini: poi però qualcuno “drizzò le antenne”. «Si cominciò a capire che era un meccanismo complesso, ma solo pochi anni or sono, grazie ad una sofisticata tecnica di scansioni ai raggi X ad alta risoluzione, i ricercatori sono riusciti a ricostruirla». Si tratta di un sofisticato orologio astronomico, azionato a manovella, che misura il moto del Sole, della Luna e dei cinque pianeti all’epoca conosciuti, ma non solo: fornisce le fasi lunari, le eclissi e persino le date delle Olimpiadi. Più che le conoscenze astronomiche dei greci, spiega Bertani, a sorprendere è la finezza realizzativa: decine di minuscoli ingranaggi di rame non possono esser stati fabbricati senza l’impiego di macchinari di precisione. Quell’orologio astronomico, non a caso, è considerato «la prima “espressione” di una macchina di calcolo automatico, precedente di 18 secoli a quelle di Pascal e di Liebnitz: dunque, il “capostipite” dei computer». L’Europa medievale conobbe diversi orologi astronomici, ma nessuno di dimensioni così ridotte.
    Sempre loro, i greci, «compaiono cose straordinarie, realizzazioni poco credibili considerando la tecnologia dell’epoca». Così, dopo la leggendaria “cavalcata” di Alessandro Magno in Oriente, alla sua morte tutto il bacino orientale del Mediterraneo è dominato dai suoi luogotenenti. Tolomeo Sotere “eredita” l’Egitto, dove regna come Tolomeo I. E’ il fondatore della famosa biblioteca di Alessandria, «che non era solo un ammasso di libri, bensì un centro del sapere in tutti i campi, tecnologia compresa: una sorta di campus universitario ante litteram». Nel 300 avanti Cristo, sempte ad Alessandria, Tolomeo decide di costruire un faro. «La navigazione degli egizi era poca cosa: le uniche notizie certe sono che si recavano nella terra dei fenici (odierno Libano) per importare legname, soprattutto per costruire navi: una navigazione costiera». Ma dall’avvento dei greci, probabilmente, le rotte cambiarono: e così, continua Bertani, quello di Tolomeo non era un faro qualsiasi, ma una torre alta 134 metri (dimensione accertata solo nel 2006, dopo anni di studi e comparazioni). Altro aspetto sbalorditivo: il Faro di Alessandria, nato fra il 300 ed il 280 avanti Cristo, durò fino al 1303 o 1323, quando si verificarono due tremendi terremoti. «Restò in servizio per 16 secoli! 1.600 anni!». Sedici lunghissimi secoli, «nei quali sfidò le intemperie, i venti, le tempeste e i terremoti».
    L’immagine di quel faro, ricorda Bertani, fu coniata sui sesterzi di Traiano. E la sua luce era visibile a 48 chilometri dalla costa, cioè dalla massima distanza che la curvatura dell’orizzonte terrestre permetteva. Lo afferma Giuseppe Flavio, storico e matematico romano d’origine giudaica. Probabilmente, quel maxi-faro «consentiva di tenere la rotta verso il mare aperto, verso Creta (distante 300 miglia nautiche) e la Grecia». Ma allora, osserva Bertani, «dobbiamo ipotizzare che i greci possedessero degli strumenti di navigazione assai avanzati, non la sola conoscenza del firmamento: la bussola era già nota ai cinesi… di più, non è possibile ipotizzare». Collegamenti e suggestioni? Niente di così assurdo, sostiene lo stesso Biglino, che ricorda che il nome di una delle dodici tribù ebraiche – Dan – è associato a una flotta. L’Iliade chiama “danai” i greci, e un’antica narrazione li associa all’Egitto, da cui si sarebbero poi allontanati – via mare, appunto – proprio verso Creta, dove una statuetta sembra rievocare quella curiosa concatenazione: Medio Oriente, Egitto, Egeo.
    Bertani si sofferma intanto sull’imponenza del Faro di Alessandria, di oltre duemila anni più “anziano” del modernissimo grattacielo Seagram, appena più alto (156 metri) ma costruito solo nel 1958 a New York. Il confronto «rende bene l’idea delle cubature e delle altezze del Faro di Alessandria». Qualcuno sostiene che, nella realizzazione, furono usate anche strutture in ferro, «ma non v’è certezza: i resti del faro sono ancora lì, sott’acqua». Resistette per 16 secoli, senza avere neppure la base d’appoggio di una piramide. «Alto come un moderno grattacielo: costruito con pietre squadrate e malta?». Fu una realtà che moltissimi romani videro con i propri occhi, fa notare Bartani, ma nessuno pensò di replicarlo sulle coste italiane. «Eppure, i romani furono grandi costruttori di strade, acquedotti, ponti, terme, templi». Ma non costruirono mai, per le basi della flotta (Miseno, Ostia) fari che potessero lontanamente ricordare il mastodonte alessandrino. Perché? La verità, conclude Bertani, è che sono tanti i quesiti ai quali non sappiamo rispondere. E se la scienza sembra reticente, o in imbarazzo, è perché ha rappresentato se stessa come fonte di risposte, smettendo di accogliere vere domande, sul nostro passato.
    «Si tratta di capire se la scienza, oggi, è in grado di capire qualcosa di più sulle nostre origini, qualcosa che – nel lungo periodo – potrebbe anche mutare il nostro modo di pensare, l’approccio stesso all’esistenza o alla coscienza del nostro essere», riflette Bertani. «In realtà, ciò che va per la maggiore è la “rimozione cosciente” di ciò che non ci aggrada, c’infastidisce, di qualcosa che cozza violentemente contro il nostro “laissez faire”, le nostre piccole sicurezze». Accade in ogni campo. Una banca collassa? Rimozione del problema: si crea una “bad company”, e il sistema è salvo. Dalla finanza alle auto: «Le emissioni dei diesel sono fuori dal range previsto? Si fabbrica una bella centralina elettronica che “non veda” le imperfezioni: è storia dei giorni nostri». Il cambiamento climatico? Si oscilla tra catastrofismo e fake news. Risultato: sempre lo stesso. Rimozione. Conseguenza: nessuno risolve il problema. «Cercare di capire, con la propria testa? Non serve: è troppo faticoso e poco redditizio: quel che conta è ottenere appoggi, seguito, oppure demonizzare l’avversario, ridurlo ad un minus habens per la sua vita privata, per le mille pecche che – cercando bene – si trovano nella vita di chiunque». Neppure l’archeologia, aggiunge Bertani, è scevra da questa mistificazione: «Ciò che non si riesce a spiegare è dovuto ad eventi “casuali”, a “fake news”, ad imbrogli».
    La scienza? E’ diventata la nuova religione. «Per questo, ha preferito la “turris eburnea” alla verifica precisa dei fatti, allo studio coerente degli eventi, allo sperimentalismo come fonte di prove». Non è solo una questione di denaro, di convenienze e di carriere: «Quando sono a congresso, i grandi scienziati ritengo che si sentano come un consesso di semidei, assisi appena un po’ sotto la vetta del monte Olimpo», scrive Bertani. Da qui in poi, ecco «la discesa ai mille “cedimenti” al dio denaro et similia: appunto, ad una vita da semidei, come il rango loro compete». E Biglino, dunque, che smentisce che la Bibbia descriva la creazione “divina” del mondo? «Io non so se un certo verbo, scritto in lingua ebraica antica, possa essere più correttamente tradotto come “fare” – ossia creare da qualcosa, come fa un artista – oppure che sia da intendere come “creare” e basta, dal nulla», specifica Bertani, che egeseta e filologo non è. Però, aggiunge, «questa persona» (Biglino) «si fa sentire sempre con misura, e con un aplomb più torinese che britannico». Morale: «A mio avviso meriterebbe più fiducia e ascolto, se questo fosse un posto dove la gente viene ascoltata per quel che dice o scrive, e non per schieramenti o amicizie». In fin dei conti, chiosa Bertani, trattando con sufficienza le voci come quella di Biglino «perdiamo di vista una cosuccia da nulla: la verità».

    «Oggi come non mai stiamo vivendo nella caverna platonica, dove gli uomini scambiano per reali le immagini che scorrono loro davanti». Oggi come non mai, infatti – scrive José Saramago – confondiamo la realtà con le ombre. Un blogger originale come Carlo Bertani invita i lettori a osservare il geroglifico scoperto in Egitto nel tempio di Abydos, XIX dinastia (dalle parti del 1300 avanti Cristo). «Che ve ne pare? Ci vedete qualcosa che assomiglia ad un elicottero, una nave (o sommergibile), un oggetto volante?». Invece, segnala Bertani, gli archeologi spiegano il fatto con «ripetute corrosioni, dovute allo scorrere del tempo». Certo, resta valido il paradosso della scimmia che scrive al computer: «Se lasciata picchiare sui tasti per un tempo uguale ad infinito, la scimmia – inesorabilmente – premendo i tasti casualmente, scriverà la Divina Commedia». E’ così che, secondo l’archeologia ufficiale, ad Abydos, «cancellando e riscrivendo» sarebbero saltati fuori l’elicottero, la nave e l’aereo? Tutti nella stessa tavoletta o porzione di muro? Non sarebbe più onesto affermare: non sappiamo cosa vollero dirci, gli egizi, con quel disegno? Bertani la chiama: rimozione cosciente. Ovvero: la scienza di oggi «s’ammanta con la stola della Nuova Religione Mondiale», che le impedisce di ammettere di non avere spiegazioni. Specie di fronte all’enigma dei testi antichi: come la sconcertante Bibbia, proposta – alla lettera – da Mauro Biglino.

  • Laghi della morte: il Camerun “spiega” le Piaghe d’Egitto

    Scritto il 07/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    «Ma io indurirò il cuore del faraone e moltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nel paese d’Egitto», fa dire a Yahvè il libro biblico dell’Esodo. «Il faraone non vi ascolterà e io porrò la mano contro l’Egitto con grandi castighi e farò così uscire dal paese d’Egitto le mie schiere, il mio popolo Israel». Allora, aggiunge l’Elohim con cui è in contatto Mosè, «gli egiziani sapranno che io sono il signore quando stenderò la mano contro l’Egitto e farò uscire di mezzo a loro gli israeliti». Detto fatto. Seguono, nell’ordine: la “tramutazione dell’acqua in sangue”, l’invasione di rane dai corsi d’acqua, la comparsa di nubi di zanzare e mosche. Eventi catastrofici per l’agricoltura, cui segue una disastrosa morìa del bestiame, mentre gravi ulcerazioni piagano il corpo di animali ed esseri umani. Il cielo è spaventosamente minaccioso, per via della “pioggia di fuoco e ghiaccio”, mentre il terreno viene invaso da un’altra specie infestante – le locuste – e la Terra precipita nelle tenebre. Infine, la tragedia: la morte dei primogeniti maschi. Fantasie apocalittiche? Linguaggio simbolico “da contestualizzare”, come spesso sostiene chi dice che la Bibbia – qua e là – vada interpretata in chiave allegorica? Non è detto. Ben tre laghi africani, infatti, danno vita a fenomeni pressoché identici a quelli descritti nell’Esodo.

  • Il Fenicio: quelli non erano Dei, i sacerdoti ci hanno mentito

    Scritto il 23/9/18 • nella Categoria: idee • (15)

    L’inganno di cui siamo vittime non è una cosa moderna. Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ha scritto la sua “Praeparatio Evangelica”. Lui riprende gli studi di Filone di Biblos, il quale a sua volta aveva ripreso gli studi di un certo Sanchuniathon, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Siamo più o meno all’epoca della Guerra di Troia, cioè nel periodo in cui Israele, uscito dall’Egitto, stava conquistando la cosiddetta Terra Promessa, “promessa” da “Dio”. Ovvero: Dio l’onnisciente, l’onnipotente, promette la terra alla sua famiglia (non al popolo, perché non l’ha promessa agli ebrei: l’ha promessa alla famiglia di Giacobbe-Israele, che era una delle centinana di famiglie di ebrei). Sono passati 4.000 anni, dal momento della promessa, e se vogliono quella terra se la devono conquistare e mantenere con i carri armati, i missili, i muri, il filo spinato, le trincee. Quattromila anni: “promessa” di “Dio”. Che cavolo di dio è? Ma chi può pensare, anche solo per un attimo, che quella sia una promessa di Dio? Soltanto una ideologia che è basata sulla falsità. Attenzione: questo non vuol dire “antisemitismo”, vuol dire “anti-sionismo”, che sono due cose diverse (sono moltissimi gli ebrei anti-sionisti).
    Ma torniamo a  Eusebio di Cesarea. Allora, Filone di Biblo, a cavallo tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, riprende gli studi questo Sanchuniathon, e sentite che cosa dice: «Nel corso dell’opera, Sanchunathon riconosce che le “divinità” non sono degli dèi celesti, bensì dei semplici mortali, maschi e femmine; non di costumi talmente incorrotti da dover essere accolti per la loro virtù o imitati per la loro saggezza, ma ricolmi di malvagità e di perversioni di ogni genere». Questa è una bella descrizione dello Yahvè biblico, per esempio. Ma poi, dice Eusebio di Cesarea: dopo avere fatto queste osservazioni, egli (Sanchuniathon) critica aspramente «gli scrittori vissuti nelle epoche successive a quando quei fatti avvenivano», per il fatto che – ascoltate bene – «in modo falso e arbitrario hanno interpretato in maniera allegorica, e fondandosi su spiegazioni e teorie fisiche, e perciò snaturandoli, i racconti riguardanti gli dèi». E aggiunge: «Ma i più recenti scrittori che si sono occupati di storia sacra hanno ripudiato i fatti avvenuti in principio. E dopo aver inventato allegorie e miti, che combinarono in modo tale da ricondurli a fenomeni cosmici, istituirono dei misteri e li avvolsero in una oscurità così densa che non era possibile vedere facilmente i fatti realmente avvenuti».
    Cioè, Filone di Biblo, tra primo e secondo secolo dopo Cristo, diceva che nel 1200 avanti Cristo c’era già chi aveva denunciato l’inganno, perpetrato dalle classi sacerdotali: che hanno preso dei racconti reali e li hanno trasformati in allegorie e miti – che è quello che ancora oggi continuano a volerci far credere. E ci sono appunto quelli che, ancora oggi, a sostegno di questo, ci raccontano: “No, ma questi sono miti, queste sono allegorie”. E non è mica finita: Filone scrive che Sanchunathon, «imbattutosi in certi libri» (che sono quelli, è scritto prima, di Toth), che erano stati fino ad allora «nascosti nei penetrali del tempio di Amon», si dedicò loro studio «per comprendere tutte quelle cose che non a tutti era dato conoscere». Alla fine, Sanchunathon «riuscì a realizzare il suo progetto e tolse di mezzo i miti e le allegorie in cui erano stati avvolti i tempi primitivi». In seguito, aggiunge Filone, «i sacerdoti che vissero dopo di lui vollero nascondere nuovamente la verità e ritornare al mito». Ed è quello che si sta facendo da millenni, continuamente. Quando c’è qualcuno che dice: “Guardate che forse quei racconti lì sono delle cronache vere, c’è sempre chi interviene e fa in modo di coprirli, trasformandoli in allegorie e miti, perché le cronache vere non si devono conoscere. Ci sono sempre quelli che continuano a “coprire”, perché non si conosca la reale concretezza di ciò che veniva detto all’inizio.
    In seguito – aggiunge sempre Eusebio, citando Filone – i sacerdoti che vissero dopo Sanchuniathon «vollero nascondere nuovamente la verità e ritornare al mito: da allora ebbero origine i Misteri, che ancora non erano stati introdotti» (e qui sta parlando dei culti misterici greci, eccetera). Poi aggiunge: «Traendo spunto da queste narrazioni, Esiodo e gli altri poeti composero le loro teogonie, gigantomachie e titanomachie, eccetera; portando in giro in ogni luogo queste narrazioni, riuscirono a soffocare la verità». Sembra che parli di noi: «I nostri orecchi, abituati fin dall’infanzia alle loro invenzioni e martellati ormai da tanti secoli da queste fantasie, custodiscono quasi come un deposito la materia favolosa trasmessa da queste favole, che essi hanno appreso così come ho già detto all’inizio». Ancora: «Rafforzate dal tempo, queste invenzioni fantastiche sono diventate un patrimonio di cui assai difficilmente ci si può disfare, tanto che la verità sembra una fantasticheria, mentre i racconti contraffatti sembrano avere tutti i caratteri della verità».
    Non è stupendo? E’ quello che viviamo noi, tutti i santi giorni. E’ stato scritto nel III secolo dopo Cristo sulla base di un testo del I-II secolo dopo Cristo, che a sua volta riprende un testo del 1200 avanti Cristo. Sembra scritto per noi: le fantasticherie hanno preso il posto della verità. E quando c’è qualcuno che vuole farla emergere, la verità, bisogna “segarlo”: la verità non deve essere conosciuta, perché la verità è quella che farebbe cadere i sistemi di potere. Perché la verità è molto semplice: ed è talmente semplice da essere immensamente più affascinante delle favole che ci hanno ricamato sopra. Uno studioso contemporaneo, il filologo Giovanni Semerano – molto importante ma scomodo, e quindi un po’ ostracizzato – citando sempre Eusebio di Cesarea, dice: «Abbiamo notizia dell’albero genealogico degli dèi. Primo fra tutti sarebbe stato Elyòn», che è quello citato nella Bibbia, «da cui sarebbe nato Baal Shemìn. Da Baal nasce El, che nel secondo millennio sarebbe divenuto il capo del Pantheon fenicio. Ai suoi figli, tra i quali Yahvè, El affida la cura di un popolo». E’ esattamente ciò che ci racconta la Bibbia, nel Deuteronomio. Cioè: ce lo raccontano tutti. Non dobbiamo far altro che fare finta che sia vero, ben sapendo che gli autori biblici non avevano certo tempo da perdere: perché avrebbero dovuto inventare fiabe? E se facciamo finta che sia vero, capiamo tutto. Ma è proprio questo che non deve avvenire.
    (Mauro Biglino, estratto della conferenza tenuta a Reggio Emilia il 30 giugno 2018, ripresa su YouTube. Già traduttore della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino ha reso popolare la traduzione letterale dell’Antico Testamento firmando saggi divulagativi di grande successo, pubblicati da UnoEditori e da Mondadori, nei quali presenta Yahvè e i suoi “colleghi” Elohim non come dèi, ma come misteriosi e potenti dominatori, improvvisamente giunti sulla Terra. Biglino rivela che nella Bibbia – presa alla lettera, nell’ebraico antico rimaneggiato dai Masoreti fino all’epoca di Carlomagno – non esiste traccia di alcun dio: non c’è metafisica né spiritualità. Non esistono neppure i concetti di creazione, eternità, onnipotenza. Gli “dèi” della Bibbia – tanti, corporei e non certo immortali – sarebbero la fotocopia dei futuri “theòi” greci, degli “dèi” romani e di tutte le “divinità” delle civiltà precedenti, a partire da quella sumera. Singolare la denuncia formulata, in questo senso, dall’antico sacerdote fenicio Sanchunathon già nel 1200 avanti Cristo, poi ripresa dallo storico greco Filone Erennio di Biblos e quindi da un autorevole “padre della Chiesa” come, appunto, Eusebio di Cesarea).

    L’inganno di cui siamo vittime non è una cosa moderna. Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ha scritto la sua “Praeparatio Evangelica”. Lui riprende gli studi di Filone di Biblos, il quale a sua volta aveva ripreso gli studi di un certo Sanchuniathon, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Siamo più o meno all’epoca della Guerra di Troia, cioè nel periodo in cui Israele, uscito dall’Egitto, stava conquistando la cosiddetta Terra Promessa, “promessa” da “Dio”. Ovvero: Dio l’onnisciente, l’onnipotente, promette la terra alla sua famiglia (non al popolo, perché non l’ha promessa agli ebrei: l’ha promessa alla famiglia di Giacobbe-Israele, che era una delle centinana di famiglie di ebrei). Sono passati 4.000 anni, dal momento della promessa, e se vogliono quella terra se la devono conquistare e mantenere con i carri armati, i missili, i muri, il filo spinato, le trincee. Quattromila anni: “promessa” di “Dio”. Che cavolo di dio è? Ma chi può pensare, anche solo per un attimo, che quella sia una promessa di Dio? Soltanto una ideologia che è basata sulla falsità. Attenzione: questo non vuol dire “antisemitismo”, vuol dire “anti-sionismo”, che sono due cose diverse (sono moltissimi gli ebrei anti-sionisti).

  • Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd

    Scritto il 06/3/18 • nella Categoria: idee • (19)

    E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
    Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».
    Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».
    Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».
    Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».
    Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».
    Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?
    «Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».
    Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».
    Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».

    E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».

  • Biglino: Elohim biblici, Yahvè e soci oggi hanno paura di noi

    Scritto il 25/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (43)

    Gli Elohim biblici spacciati per dèi, e uno di loro – Yahvè – presentato addirittura come Dio unico? «Non mi stupirei se quegli individui fossero ancora tra noi e ci comandassero, dato che il sistema finanziario che ci governa è quello illustrato nell’Antico Testamento: se presti denaro sei padrone, se contrai un debito sei schiavo». Ma attenzione: anche qualora gli Elohim fossero qui, non sarebbe più come ai tempi di Mosè: oggi avrebbero motivo di temerci. «Siamo sfuggiti al loro controllo, sia per capacità tecnologica che per numero: siamo sette miliardi». A parlare è Mauro Biglino, l’italiano che sta scardinando la vulgata teologica della Chiesa svelando il testo letterale della Bibbia, di cui ha tradotto 19 libri per le Edizioni San Paolo prima di venir scaricato dal circuito cattolico. Un fenomeno editoriale (Uno Editori, Mondadori) fatto di ormai 13 titoli puntualmente in classifica e decine di affollatissime conferenze in tutta Italia. Molti i volumi tradotti all’estero: imminente lo sbarco negli Usa. Proprio al pubblico americano è destinata l’ultima intervista di Biglino, realizzata in web-streaming con la blogger Sarah Westall. Domanda: il Vaticano non mai ha cercato di fermare il suo ex traduttore “impazzito”? Macché. «Forse, lassù, fa comodo che qualcuno come me cominci a dire certe cose, che prima o poi dovranno ammettere anche loro».
    Una su tutte? Yahvè – per la Bibbia – non è Dio: è solo un Elohim, “collega” di Kamòsh e Milcòm, a loro volta “signori” di altri confinanti clan ebraici, della stessa discendenza del mitico Abramo. «La Bibbia ne nomina almeno una dozzina: erano tanti. Molto longevi, ma non immortali né onnipotenti: ammesso che sia ancora vivo, Yahvè non è ancora riuscito a mantenere l’antica promessa fatta agli israeliti, cui aveva garantito vastissimi possedimenti, fino in Mesopotamia». Si sta sgretolando un muro di dogmi, fondato su traduzioni erronee o addirittura deliberatamente manipolate? Clamoroso il caso della Bibbia editata nel 2017 dalla Cei tedesca, che annulla – come anticipato da Biglino – la pretesa profezia messianica contenuta nel Libro di Isaia (17, 4-17): “La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emanuele”. E’ l’appiglio biblico al quale i Vangeli si richiamano per dimostrare l’ascendenza veterotestamentaria della missione di Cristo. Peccato che quella traduzione fosse inventata di sana pianta: non c’è nessuna “vergine”, né alcun verbo al futuro. E’ scritto, testualmente: “La ragazza è incinta”. «Nessun mistero», chiarisce Biglino: «Isaia non parla di Maria di Nazareth, che ancora doveva nascere, ma di Abia, giovane moglie del re Achaz: semplicemente, gli israeliti si aspettavano che quel bambino, una volta cresciuto, potesse liberarli dalla condizione di schiavitù cui allora erano sottoposti».
    Un errore tenuto in vita per oltre duemila anni, che annulla il collegamento tra Vecchio e Nuovo Testamento? Colpa della traduzione, sostiene Biglino: il libro fu tradotto in latino attraverso un passaggio intermedio, in lingua greca. E il greco ha un unico termine, “pàrthenos”, che significa sia “ragazza” che “vergine”. «Quella di Isaia è solo una “almà”, una fanciulla. L’ebraico infatti ce l’ha, la parola che designa una vergine: ed è “betullah”, che però in Isaia non c’è». In più, il libro tradizionalmente attribuito al profeta biblico non usa nemmeno il verbo “concepire”: «Compare solo l’aggettivo “incinta”, dunque significa che quella ragazza – non vergine, tantomeno Maria – aveva già concepito: non Gesù, ma il futuro figlio del re Achaz». Ne tengono conto, nella loro nuova Bibbia, i vescovi tedeschi. In Italia, per ora, silenzio. Fino a quando? «Credo che la Chiesa si stia comunque preparando a prendere le distanze dall’Antico Testamento: sa che non potrà più ignorare a lungo le verità che stanno emergendo», sostiene Biglino, il cui lavoro è in linea con settori avanzati della ricerca scientifica internazionale, dall’archeologia alla bioingegneria. La tesi: i cosiddetti “libri sacri”, non solo la Bibbia ma anche i Veda indiani e testi sumerici (di cui l’Antico Testamento è una fotocopia) sembrano svelare il famoso “missing link” tra uomo e scimmia.
    Genetica, innanzitutto, e non solo animale: «Alimenti essenziali per l’umanità, come la patata e il grano, sono comparsi di colpo – senza diretti antenati genetici – all’epoca di cui parlano i testi antichi e proprio in quelle aree: cioè dove si presentarono quegli esseri temuti e potenti, che gli ebrei chiamarono Elohim e i sumeri Anunnaki». Tracce analoghe costellano le memorie di ogni civiltà, in tutto il mondo: gli “Spendenti”, i “Figli delle Stelle” venuti forse dalla costellazione di Orione? «Facciamo un gioco», propone Biglino: «Facciamo finta che i testi antichi – di cui peraltro non esistono fonti – raccontino fatti realmente accaduti. Sono coerenti? La risposta è sì». A cominciare dalla creazione, «che nella Bibbia non esiste: il verbo usato, “barà”, non significa “creare dal nulla” – concetto assente, nell’ebraico antico – ma solo “separare”: la terra, le acque, il cielo. Come se la Genesi narrasse, in realtà, la sistemazione di un territorio perché divenisse fertile». Quando fu clonata la pecora Dolly, tra lo scandalo dei teologi, i rabbini risposero in modo serafico: perché mai stupirsi? E’ la Bibbia la prima a parlare di clonazione. La Genesi non dice chi creò Adamo, ma solo Eva: testualmente, l’Adàm “fu posto in Gan-Eden”, cioè nel Gan (territorio agricolo protetto) situato nella regione geografica di Eden, tra il Mar Caspio e l’Eufrate. «Eva nacque per clonazione, dopo un’infinità di esperimenti fallimentari: quando la vide, Adamo rispose: finalmente ci siamo, questa sì che è carne della mia carne».
    Il peccato originale? «Inesistente, come ben sanno gli ebrei». La cacciata dall’Eden? «Un atto precauzionale, perché gli Adamiti avevano scoperto la possibilità di riprodursi: si stavano pericolosamente avvicinando alle pratiche dell’Albero della Vita, minacciando l’egemonia degli Elohim». Colpa – anzi, merito – del Serpente: «Che non era un rettile, ma un Elohim antagonista, in lizza coi signori del Gan-Eden: la Genesi lo chiama Nahàsh, che in ebraico vuol dire anche serpente, sinonimo di “sapiente”. In altre parole, il genetista». Fu proprio lui, continua Biglino, ad accoppiarsi per primo con Eva: da cui nacque un ibrido, Caino», il nostro vero progenitore. Dopo di allora, gli Adamiti presero a vivere anche per 900 anni, racconta la Bibbia. «Fino a quando non furono gli Elohim stessi a cessare di accoppiarsi con le femmine Adàm, proprio per impoverire il Dna della loro discendenza, riducendone la longevità». Questo, dice Biglino, è quello che – né più né meno – racconta la Bibbia. C’è da crederci? «Possiamo solo “fare finta” che sia tutto vero, controllandone la coerenza. Come noto, la Bibbia non ha fonti. Non si sa quando sia stata scritta, né da chi, né in che lingua: non in ebraico, comunque, perché non esisteva ancora. L’unica certezza, dicono i biblisti ebrei, è che la Bibbia attuale non è l’originale: si sono dati due secoli di tempo per ricostruire una Bibbia più attendibile, attraverso il “Bible Projetc” a cui lavorano i massimi studiosi».
    Secondo Biglino, l’ultima cosa che si può fare, con la Bibbia, è fondarvi delle religioni: «La natura tutt’altro che divina di Yahvè emerge ovunque: un guerriero avido e spietato, ma meno potente di altri Elohim. E per giunta neppure a capo di tutti gli ebrei, ma solo della famiglia di Giacobbe-Israele». Un piccolo, dispotico feudatario locale: «Come si fa a presentarlo come riferimento per l’intera umanità?». Un abbaglio durato oltre due millenni, la Bibbia? Sì e no, secondo Biglino: è insensata la derivazione religiosa, mentre gli indizi storici potrebbero reggere. Il vasto corpus dei libri biblici è a geometria variabile, non esiste una sola Bibbia. E, mentre ha libero corso ogni tipo di interpretazione – teologica, esoterica, simbologica, cabalistica – è praticamente scomparsa la traduzione letterale. «E’ giusto che la lettura del testo ebraico abbia, almeno, pari dignità». Spesso, insiste Biglino, chi cita la Bibbia a scopo religioso in realtà non l’ha mai letta: «Quanti vescovi conoscono l’ebraico antico? Se lo conoscessero, scoprirebbero che in quel testo non c’è traccia di trascendenza. Non esiste la base per alcun assunto teologico. Si parla solo di guerre, conquiste, punizioni e stragi efferate. Non c’è alcuna metafisica, non esiste il concetto di eternità. E quello di immortalità non vale neppure per Yahvè. Lo ricorda Elyon, il capo supremo, parlando agli Elohim: anche loro dovranno morire, proprio come gli Adàm».
    Un racconto «in ogni caso eloquente e persino affascinante», dice lo studioso: «Spesso la Bibbia è terribilmente esplicita, nella sua narrazione sempre concreta e assolutamente terrena: le implicazioni soprannaturali sono frutto di invenzioni teologiche, basate su traduzioni clamorosamente distorte». Nella Bibbia, gli angeli (dal greco “anghelòi”, messaggeri) si chiamano Malakhìm. Nelle traduzioni “appaiono” e “scompaiono”, svolazzando graziosamente, mentre nel testo originale «camminano, sfatti di fatica: sono individui in carne e ossa». Gabriele, quello dell’annunciazione? «E’ anche lui un Malàkh, e di alto rango. Ma il nome non designa un singolo individuo, bensì una categoria: il nome originario, Ghevèr-El, significa “alto ufficiale di un El”. Per la cronaca: sono tutte cose che gli ebrei sanno benissimo, così come sanno che i Keruvìm non sono gli alati Cherubini della tradizione cristiana, ma velivoli meccanici monoposto». Ben quattro “Cherubini”, scrive la Bibbia, stavano attaccati al Kavòd, l’aeromobile da guerra di Javhè. Traduzione cristiana: il Kavòd, letteralmente (arma) “pesante”, diventa “gloria”: «Così, dal Kavòd di Jahvè si arriva alla “gloria di Dio”». Fantastico, no? «Non siamo certi che la Bibbia dica il vero. Quel che è sicuro, invece, è che la teologia travisa la Bibbia per inventare di sana piana la sua versione, di cui nell’Antico Testamento non c’è la minima traccia».
    La Bibbia non spiega tutto, ma forse aiuta a capire. Quel che non si può ricavare direttamente dall’Antico Testamento, «dato il carattere frammentario e spesso contraddittorio del testo ebraico giunto fino a noi, continuamente manipolato fino all’epoca di Carlomagno», lo possiamo comunque compediare con altri testi, coevi e precedenti: «Testi ebraici non biblici e testi non ebraici, sumeri e in generale mediorientali», spiega Biglino all’americana Sarah Westall. Che idea si è fatto, il traduttore indipendente, di tutta questa storia? Ancora una volta, Biglino cita testi antichi, del Medio Oriente, per comporre un mosaico teoricamente credibile: grazie ai Sumeri sappiamo che quella misteriosa popolazione approdò sulla Terra – non sappiamo da dove – attratta dai minerali come l’oro, preziosi in ambito aerospaziale. Un giorno, stanchi di lavorare, gli Elohim-Anunnaki decisero di “fabbricare” una nuova “razza” di lavoratori, attraverso la clonazione, fondendo cioè il proprio Dna con quello degli ominidi allora presenti, Homo Habilis e Homo Erectus. Fu così che nacque l’Homo Sapiens, ed ecco spiegato il “missing link”. Gli Adamiti? Una ulteriore élite di lavoratori specializzati, successivamente ri-selezionati sempre per via genetica e destinati in esclusiva al Gan-Eden.
    Biglino la ritiene una storia plausibile, confermata dal racconto biblico. «Poi, attorno al 500 avanti Cristo, gli Elohim si fecero da parte: sorse la casta sacerdotale, come mediatrice dei loro ordini. Nacquero allora le grandi religioni: senza colpo ferire, si sperimentò uno straordinario strumento di dominio, basato sulla sola persuasione». Una possibile storia alternativa dell’umanità: dai genocidi a ripetizione ordinati da Yahvè, ossessionato dalla paura dell’insubordinazione dei sudditi, alla nuova obbedienza “dolce” imposta dal dogma e tuttora vigente, nel mondo. Ma erano tutti ostili e vendicativi come Yahvè, gli Elohim biblici? «Niente affatto: c’era anche chi era amante delle arti e della musica. Uno di loro, Baal Pehòr, concorrente del bellicoso Yahvè, predicava la diffusione del sesso libero». Fate l’amore, non la guerra? «Esatto. Solo che poi l’esegesi cristiana ha trasformato gli avversari politici di Yahvè in nemici di Dio: così Baal Pehòr è diventato il demonio Belfagor».
    Libere traduzioni, che suonano false come menzogne. Miracoli inesistenti, come il mitico attraversamento del Mar Rosso: «Quelli che Mosè portò via dall’Egitto – non sappiamo nemmeno se fossero ebrei o egiziani – non valicarono mai il mare, ma solo uno Yam Suf, un canneto paludoso», habitat diffusissimo nel delta del Nilo. E’ come se la Bibbia, riscritta mille molte e poi manipolata dalla religione, avesse riproposto una storia molto più antica, vista in ritardo e da lontano. Lo suggeriscono alcuni testi preesistenti, come quelli sumerici dove, ad esempio, si parla del Grande Diluvio. «A salvare il Noè sumero fu En-Ki, uno dei figli del capo dell’impero: fu lui a dirgli di costruire la barca per sovravvivere all’inondazione». Sumera anche l’origine della Genesi: «L’antenato mesopotamico “fabbricato” dagli Anunnaki si chiama, guardacaso, Adamu». Vengono le vertigini, a chi ha sempre sentito citare Bibbia solo in termini religiosi. A proposito: Dio che c’entra, in tutto questo? «Mi guardo bene dal parlarne: non ho neppure le certezze degli atei», ammette Biglino. «Dico solo che, nella Bibbia, non c’è nessun Dio». E scusate se è poco.

    Gli Elohim biblici spacciati per dèi, e uno di loro – Yahvè – presentato addirittura come Dio unico? «Non mi stupirei se quegli individui fossero ancora tra noi e ci comandassero, dato che il sistema finanziario che ci governa è quello illustrato nell’Antico Testamento: se presti denaro sei padrone, se contrai un debito sei schiavo». Ma attenzione: anche qualora gli Elohim fossero qui, non sarebbe più come ai tempi di Mosè: oggi avrebbero motivo di temerci. «Siamo sfuggiti al loro controllo, sia per capacità tecnologica che per numero: siamo sette miliardi». A parlare è Mauro Biglino, l’italiano che sta scardinando la vulgata teologica della Chiesa svelando il testo letterale della Bibbia, di cui ha tradotto 19 libri per le Edizioni San Paolo prima di venir scaricato dal circuito cattolico. Un fenomeno editoriale (Uno Editori, Mondadori) fatto di ormai 13 titoli puntualmente in classifica e decine di affollatissime conferenze in tutta Italia, ogni anno. Molti i volumi tradotti all’estero: imminente lo sbarco negli Usa. Proprio al pubblico americano è destinata l’ultima intervista di Biglino, realizzata in web-streaming con la blogger Sarah Westall. Domanda: il Vaticano non mai ha cercato di tappare la bocca al suo ex traduttore “impazzito”? Macché. «Forse, lassù, fa comodo che qualcuno come me cominci a dire certe cose, che prima o poi dovranno ammettere anche loro».

  • Il Papa: leggete la Bibbia. E se scoprono che Dio lì non c’è?

    Scritto il 06/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (58)

    Ah, se solo leggeste la Bibbia almeno quanto leggete i messaggi sul telefonino… Parola di Papa Francesco, sicuro che ai suoi fedeli farebbe bene leggere l’Antico Testamento. Lo ripete (da tutt’altro punto di vista) anche Mauro Biglino, le cui traduzioni – letterali, dall’ebraico antico, pubblicate da Uno Editori e da Mondadori – stanno smontando i dogmi basati sull’interpretazione monteistica delle “sacre scritture”. «Leggetela, la Bibbia», ripete Biglino, «e scoprirete che non parla affatto di Dio, di nessun Dio». Ovvero: in ebraico non esistono né la parola “Dio” né il concetto stesso di divinità. Nella Bibbia, spiega Biglino (autore di 17 traduzioni ufficiali della Bibbia per le Edizioni San Paolo), non compaiono testualmente neppure le parole “creazione”, “eternità”, “onnipotenza”, di cui invece sono piene le Bibbie tradotte (molto liberamente) nelle edizioni moderne. «Tutte “invenzioni” della teologia, basate su traduzioni scorrette, erronee o deliberamente false, per accreditare l’idea che la Bibbia parli di Dio». Il problema? «Spesso, chi raccomanda di leggere la Bibbia non l’ha mai letta, in ebraico. Chi la predica non la conosce affatto, nella versione originale. Altrimenti saprebbe che quel libro non parla mai di nessun Dio, ma solo di un “Elohim” chiamato Jahvè, presentato insime ad altri “Elohim”, suoi pari. E nessuno al mondo sa cosa significhi la parola “Elohim”, che la teologia – senza giustificarlo in alcun modo – traduce arbitrariamente con il termine “Dio”».
    La tesi di Biglino non è mai stata smentita da nessuno, neppure dagli importanti teologi convocati a Milano per un confronto aperto sulle Scritture, tra cui il rabbino capo della comunità ebraica di Torino, Ariel Di Porto, e monsignor Avondios (Dumitru Bica), arcivescovo milanese della Chiesa ortodossa. «Se avessimo certezza di Dio, Dio non sarebbe», ammette don Ermis Segatti, docente di storia del Cristianesimo alla facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Nettissimo anche il biblista e pastore valdese Daniele Garrone, autore di dizionari di ebraico antico: «Nella Bibbia, se volete, c’è la fiducia che sia risuonata la parola di Dio». Tutto qui: «La fiducia, se volete». Ma non l’equazione “Jahvè uguale Dio”. Autore ultra-contestato dai “partigiani” del monoteismo biblico, Mauro Biglino è diventato un fenomeno editoriale, con decine di migliaia di titoli venduti, anche all’estero. Provocazioni? No: solo il gusto della ricerca libera, fondata sul dubbio. «Sulla Bibbia – precisa – non ho alcuna certezza. Non sono nemmeno sicuro che racconti la verità. Nessuno, del resto, può avere certezze: l’unica cosa sicura è che questa Bibbia non è l’originale. Il testo attuale è stato rimaneggiato, per l’ultima volta, dai biblisti ebrei Masoreti all’epoca di Carlomagno. Nessuno sa che in che lingua sia stata scritta, e da chi: la Bibbia è un libro senza fonti storiche, senza alcuna traccia della vera identità dei suoi numerosi autori».
    Lo stesso Biglino si guarda bene dal negare l’esistenza di Dio: «Non ho le certezze degli atei», chiarisce. «Semplicemente, non mi occupo dei mondi spirituali, perché non ne so nulla». Rivendica però il diritto di rileggere la Bibbia nel modo più semplice: alla lettera, in ebraico. «Non nego affatto la legittimità dell’interpretazione tradizionale, teologica, così come di tutte le altre, l’interpretazione allegorica, quella simbolica, quella esoterica. Chiedo però che la traduzione testuale abbia, almeno pari dignità». Biglino contesta i propagandisti clericali: «Pretendono di far dire alla Bibbia cose che quel libro non dice. Magari non conoscono la lingua in cui è stato scritto, eppure sostengono che – laddove ad esempio parla di guerra, cioè quasi ovunque – in realtà parli di pace, in modo allegorico. Ma perché mai gli autori biblici, in un mondo di analfabeti, avrebbero dovuto rifugiarsi nel linguaggio cifrato? La Bibbia in realtà è chiarissima: parla della ferrea dominazione di un “Elohim” chiamato Jahvè su una famiglia, quella di Giacobbe, senza mai neppure spiegare esattamente cosa fosse, un “Elohim”».
    Certo, per la Bibbia – alla lettera – Jahvè non è un Dio: degli “Elohim”, che erano tanti, la Scrittura dice che erano individui potenti ma in carne e ossa, col bisogno di mangiare, riposarsi, lavarsi. Jahvè è definito “maschio di guerra”, guerriero. La sua specialità? «Guerre di sterminio: genocidi, infanticidi, femminicidi». Biglino lo definisce «il più grande antisemita della storia, dato che le “guerre sante” di Jahvè, come quella contro i Madianiti, erano condotte dal gruppo di Giacobbe contro parenti prossimi, tutti discendenti di Abramo». Da Javhè, in ogni caso, mai un accento etico, men che meno metafisico o religioso: i suoi famosi “comandamenti” – non 10, ma oltre 600 – erano semplici regole per disciplinare una comunità piuttosto primitiva e violenta, organizzata in modo militare. «Leggetela davvero, la Bibbia», ripete Biglino: «Persino nella versione tradizionale, in italiano, vi accorgerete che non parla di Dio». E nemmeno di Gesù, aggiunge Biglino, citando l’ultima versione dell’Antico Testamento tradotta quest’anno dai vescovi tedeschi, che smonta «la falsa profezia dell’avvento del Messia», attribuita al libro di Isaia. La traduzione consueta, “la vergine partorirà”, è stata sostituita da quella letterale, “la ragazza è incinta”. Il testo non allude quindi “profeticamente” a Maria di Nazareth, ma una donna della tribù di Giuda. Quel “messia” già in arrivo, secoli prima di Cristo, avrebbe dovuto liberare i giudei dalla dominazione assiro-babilonese. Leggere la Bibbia? Sì, ma alla lettera. E le sorprese non finiscono mai.

    Ah, se solo leggeste la Bibbia almeno quanto leggete i messaggi sul telefonino… Parola di Papa Francesco, sicuro che ai suoi fedeli farebbe bene leggere l’Antico Testamento. Lo ripete (da tutt’altro punto di vista) anche Mauro Biglino, le cui traduzioni – letterali, dall’ebraico antico, pubblicate da Uno Editori e da Mondadori – stanno smontando i dogmi basati sull’interpretazione monteistica delle “sacre scritture”. «Leggetela, la Bibbia», ripete Biglino, «e scoprirete che non parla affatto di Dio, di nessun Dio». Ovvero: in ebraico non esistono né la parola “Dio” né il concetto stesso di divinità. Nella Bibbia, spiega Biglino (autore di 17 traduzioni ufficiali della Bibbia per le Edizioni San Paolo), non compaiono testualmente neppure le parole “creazione”, “eternità”, “onnipotenza”, di cui invece sono piene le Bibbie tradotte (molto liberamente) nelle edizioni moderne. «Tutte “invenzioni” della teologia, basate su traduzioni scorrette, erronee o deliberamente false, per accreditare l’idea che la Bibbia parli di Dio». Il problema? «Spesso, chi raccomanda di leggere la Bibbia non l’ha mai letta, in ebraico. Chi la predica non la conosce affatto, nella versione originale. Altrimenti saprebbe che quel libro non parla mai di nessun Dio, ma solo di un “Elohim” chiamato Jahvè, presentato insime ad altri “Elohim”, suoi pari. E nessuno al mondo sa cosa significhi la parola “Elohim”, che la teologia – senza giustificarlo in alcun modo – traduce arbitrariamente con il termine “Dio”».

  • E se poi, un bel giorno, scopri che non era vero niente?

    Scritto il 26/2/17 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    Perché l’oro è così importante? L’oro, non il ferro, l’argento, altri metalli. Perché si è scoperto che l’oro, incorruttibile, può isolare al 100% da radiazioni pericolose, provenienti da tecnologie avanzate. Lo affermano i controversi studiosi della cosiddetta paleo-astronautica, che si interrogano sul singolare interesse manifestato, per l’oro, da tutti gli “dèi” dell’antichità, chiamati Viracochas sulle Ande nel regno Inca, Túatha Dé Dànann in Irlanda, Elohim in Palestina, Annunaki in Mesopotamia, Theòi in Grecia, Vimana in India. E ancora: Kachinas in Arizona, Muxul nello Yucatan presso i Maya, Dogu in Giappone, Wakinyan in Nord America presso i Lakota Sioux, Nommo in Mali presso i Dogon. Una cosa è sicura: a un certo punto, nella storia, l’oro viene improvvisamente apprezzato e ricercato, estratto, lavorato, tesaurizzato, utilizzato come valore di scambio. Tutti quegli esseri appassionati all’oro, spesso chiamati Figli delle Stelle perché comparsi a bordo di formidabili mezzi volanti, raffigurati in sculture e altorilievi ancora oggi visibili un po’ in tutto il mondo, instaurarono dominazioni di tipo coloniale, imponendo sempre – alle popolazioni assoggettate – lo stesso “sacrificio” quotidiano: bruciare, per loro, il grasso (inizialmente dei neonati primogeniti, poi solo di agnelli) presente in prossimità di certi organi, fegato e reni.
    Grasso che, una volta bruciato, produce un fumo inebriante e “calmante”, come spiegano nella Bibbia i sudditi di Jahwè, uno degli Elohim dell’area palestinese, divenuto celebre attraverso il drammatico racconto biblico – Jahwè (o anche Jeohwà o Jihwì, a seconda delle vocalizzazioni convenzionali introdotte solo nel medioevo dai biblisti ebrei della scuola masoretica) era il dispotico, temutissimo padrone della famiglia di Giacobbe-Israele, poi successivamente trasformato, dalla teologia, addirittura in “Dio unico”. Nell’antica Roma, quello stesso grasso era chiamato “omentum”. Stesse disposizioni: era la parte “sacra”, cioè riservata esclusivamente agli “dèi”, perché fosse bruciata (quindi “sacrificata”) solo per loro, pena la morte dei trasgressori. Quel particolare grasso che sovrasta gli organi interni non è come l’adipe, provvisorio e accumulato con l’alimentazione, ma è un grasso stratificato fin dall’infanzia, addirittura dalla nascita. Se bruciato, confermano i chimici, produce un fumo che sprigiona molecole pressoché identiche a quelle delle endorfine, fortemente psicotrope, il cui odore ricorda il profumo appetitoso che si libera dal barbecue durante una grigliata.
    L’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, di ritorno dallo spazio, ha dichiarato che, lassù, aleggia un odore di carne bruciata. Gli scienziati spiegano che quell’odore si diffonde, anche in un’astronave, man mano che si prolunga la missione, perché le condizioni ambientali all’interno del veicolo spaziale accelerano la morte di milioni di cellule epiteliali – morte che, appunto, produce quell’odore. Di recente, poi, ricercatori hanno scoperto che il vino rosso contiene una sostanza particolarissima, il resveratrolo, che protegge le ossa da svariate complicazioni, inclusa la “friabilità” che colpisce lo scheletro negli astronauti esposti a lunghi soggiorni orbitali. La Bibbia racconta che Jahwè beveva vino spesso e volentieri (fece impiantare una vigna a Noè, subito dopo lo sbarco dall’Arca), mentre i testi sumero-accadici riferiscono che gli Annunaki gradivano molto la birra. Elohim, Vimana e tutti gli altri: Figli delle Stelle? “Vimàn” era il nome di una compagnia aerea del Bangladesh, ricorda Mauro Biglino. “In India voliamo da tremila anni”, era uno slogan pubblicitario dell’Air India. El-Al è invece il nome della celebre compagnia israeliana.
    Se la tradizione rabbinica racchiusa nel Talmud ammette con assoluta tranquillità la presenza della manipolazione genetica nella Genesi – basta vedere come vennero al mondo Adamo ed Eva, disse il professor Safran, rabbino e docente universario di etica medica in Israele, all’epoca della clonazione della pecora Dolly – è davvero impossibile trascurare gli studi più recenti dei genetisti, che mettono in crisi l’evoluzionismo darwiniano: è come se fosse intervenuto qualcosa a “correggere” l’evoluzione, accelerandola – non solo per il Sapiens, ma anche per la pecora e la mucca, la patata, il grano. Cioè gli animali e i vegetali che popolavano il Gan Eden di cui parla la Bibbia, da cui i primi ibridi – Adamo ed Eva, appunto – furono allontanati preventivamente, prima cioè che potessero approfondire “le pratiche dell’albero della vita”, acquisendo cioè le medesime conoscenze, dunque il medesimo potere, dei loro “creatori”, gli Elohim, veri specialisti in genetica sperimentale, a quanto sembra.
    Emerge un’altra verità, dunque, sui cosiddetti “testi sacri”, da cui discende un impianto di pensiero – e di potere – almeno bimillenario. Non stupisce, quindi, il grande successo dei bestseller di Biglino, pubblicati anche da Mondadori, né l’entusiasmo delle centinaia di persone che affollano le sue frequentissime conferenze. Di Biglino si può apprezzare innanzitutto la correttezza, nella sua impostazione preliminare: non metto in discussione l’esistenza di Dio, ripete, perché non ho le certezze degli atei; mi limito a dimostrare che quella della Bibbia non è una divinità ma solo un Elohim, di cui la stessa Bibbia nomina almeno 20 “colleghi”, di equivalente status, senza peraltro mai spiegare il significato della parola Elohim, che nessuno al mondo conosce. Inoltre, nella Bibbia non sono presenti, mai, i concetti-chiave del monoteismo: creazione, eternità, immortalità, divinità. Il verbo tradotto con “creare” è Baraa, che significa dividere, separare (i cieli dalle acque, le acque dalle terre – Genesi). E della parola Olàm, ancora e sempre tradotta con “eternità”, e che in realtà significa “tempo molto lungo”, i dizionari raccomandano: non tradurla mai con il termine “eternità”.
    Lo scorso marzo, Biglino è stato protagonista, a Milano, di un importante confronto con eminenti teologi: un importante sacerdote e docente di teologia dell’università cattolica, un arcivescovo ortodosso, il rabbino capo della comunità ebraica di Torino e un insigne biblista, pastore valdese, co-autore di alcuni tra i più importanti dizionari di ebraico e aramaico antico. Nessuno ha messo in discussione le sue tesi. Tutti, al contrario, hanno ammesso che la Bibbia è stata ampiamente travisata. Ma lì si fermano: non denunciano, cioè, il fatto che venga ancora oggi regolarmente travisata. Dice Biglino: nel 95% dei casi, chi professa e propaga le grandi religioni monoteiste che si pretendono originate da quel libro (e quindi: Papi, vescovi, parroci, catechisti, pastori) non conosce neppure la lingua in cui quel libro è scritto. Pretende di “far dire” a quel libro determinate verità, per di più “sacre”, ma non conosce – alla lettera – il testo, nella lingua originaria. Senza contare, poi, che la Bibbia resta una raccolta (non uniforme) di testi di epoche diverse, tutti senza fonte: non è possibile risalire con certezza neppure a un autore; nessuno dei testi biblici ha una chiara paternità – tantomeno i libri più famosi e celebrati, come quello attribuito all’ipotetico profeta Isaia.
    Anche per questo, mezzo secolo fa, i biblisti ebraici hanno varato il “Bible Project” con il compito, entro 200 anni, di ricostruire una Bibbia più attendibile. L’unica certezza, dicono, è che la Bibbia di oggi – riveduta e corretta per l’ultima volta dai masoreti all’epoca di Carlomagno – non è l’originale. Inoltre mancano una decina di libri, pure citati qua e là: quei libri sono scomparsi. E le incongruenze sintattiche presenti nella versione masoretica dimostrano il grado di manipolazione cui quei testi sono stati sottoposti, nel corso dei secoli. Biglino dice: mi si rimprovera di offrire una lettura letterale del testo, anziché allegorica, simbologica, esoterica, teologica. Va bene, teniamo pure conto di tutte le interpretazioni possibili. Ma aggiunge: perché privarci della versione letterale, sia pure di un testo che sappiamo essere così pesantemente rimaneggiato? Non si sa neppure in che lingua fosse scritto, l’originale: all’epoca della prima stesura della Genesi, per esempio, la lingua ebraica non esisteva ancora. Dunque non sappiamo in che lingua fosse scritto, quel libro, né tantomeno come venissero pronunciate, le parole in esso contenute. Poi intervenne la traduzione in ebraico, ma con le sole consonanti; le vocali furono introdotte solo fra il VI e l’XVIII secolo dopo Cristo, quando appunto “Yhw” divenne finalmente “Jahwè” (ma aJahwènche “Jihwì” e “Jeohwah”).
    Nonostante tutto ciò, insiste Biglino, perché non provare a leggere il testo così com’è, dando per buona – per un attimo – l’idea che racconti fatti realmente accaduti? Si scoprirebbe, conclude, che la storia narrata – vera o falsa che sia – non è priva di coerenza. Ed è, tra l’altro, la fotocopia perfetta di molti altri libri antichi preesistenti, “sacri” e non, come la trilogia fondativa di un popolo geograficamente contiguo a quello ebraico, i sumero-babilonesi. Quei testi mesopotamici sono l’Atrahasis, l’Enuma Elish e l’Epopea di Gilgamesh. Raccontano tutti la stessa storia: e cioè l’arrivo (da cielo?) di individui potentissimi ma non onnipotenti, molto longevi ma non immortali, in possesso esclusivo di tecnologie fantascientifiche, decisi a colonizzare territori imponendo la loro legge (i comandamenti di Jahwè non sono 10, ma oltre 600) e stabilendo alleanze con singole tribù, in lotta perenne tra loro per la spartizione di piccoli territori. Il patto: voi lavorate per me (mi servite, mi nutrite, mi bruciate quel famoso grasso e mi obbedite in tutto) e io vi aiuto a conquistare “terre promesse”. Se disobbedite, vi stermino. Jahwè, è scritto nella Bibbia, arrivò a uccidere in massa 24.000 sudditi disobbedienti.
    Quello che Biglino contesta è che, nonostante le evidenze e le conferme provenienti dagli ambiti di studio più disparati (dall’esegesi ebraica all’autorevole École Biblique dei domenicani di Gerusalemme) le traduzioni erronee continuino a essere presenti nelle Bibbie attualmente stampate. In sintesi, il primo problema è Dio. Nella Bibbia, semplicemente, non c’è, dice Biglino. C’è Jahwè, che però è sempre in compagnia dei “colleghi” Milkòm, Kamòsh, e tanti altri. Viene tradotto con “Altissimo” il nome Eliòn, che invece è un individuo «chiaramente indicato come il capo degli Elohim: è scritto nel testo biblico che ne presiede un’assemblea, nientemeno». E addirittura è tradotto coi termini “eterno” e “onnipotente” il nome El Shaddai, letteralmente “signore della steppa”, cioè l’Elohim nel quale si imbatté Abramo. Allo stesso modo, altri termini vengono sempre tradotti in modo consapevolmente inappropriato e fuorviante: Kavod, per esempio. Il contesto biblico lo presenta come un’arma da guerra, un oggetto volante e pericoloso, dotato di armanenti micidiali. Viene tradotto: “gloria”. Così, il “Kavod di Jahwè” diventa la “gloria di Dio”.
    Quando appare, il Kavod solleva un gran vento, il Ruach – che viene tradotto “spirito”. Sotto il Kavod sono fissati 4 Cherubini. Mezzi meccanici volanti, secondo i rabbini: robot, monoposto. Per l’esegesi teologica cristiana, invece, i Cherubini sono “angeli”, così come gli altri “angeli”, incorporei e alati, che la Bibbia invece chiama Malachìm, presentandoli come individui in carne e ossa, di cui gli umani hanno paura – sono soldati, ufficiali degli Elohim, portaordini pericolosi, molesti, inquietanti. «L’angelo apparve alla vista di Gedeone, volando con leggerezza», e poi «scomparve», scrive la traduzione cristiana della Bibbia, che invece nell’originale, in ebraico, scrive che «il Malach» si fece vedere da Gedeone, e poi «se ne andà camminando». Pura invenzione, il volo, così come l’attraversamento miracoloso del Mar Rosso: «Nel testo c’è scritto che Mosè e i suoi attraversarono solo uno Yam Suf, un canneto. Nessun mare, tantomeno Rosso».
    Quanto agli “angeli”, più tardi, il fondatore del cristianesimo, Paolo di Tarso, raccomanda alle giovani donne di coprirsi il capo con il velo, se partecipano ad assemblee, e di farlo «a motivo degli angeli», poiché sono sessualmente eccitabili e poco raccomandabili, violenti. Biglino “corregge” anche l’interpretazione della comparsa dell’Arcangelo Gabriele, quello dell’Annunciazione: «Gabriele non è un nome proprio ma solo un termine comune, funzionale: deriva da Ghevèr-El, e essere “il Ghevèr di un El”, per di più “arcangelo”, significa essere un potente ufficiale di alto grado». Dallo studio condotto da Biglino appare evidente la fabbricazione artificiale di un culto, la cui radice viene attribuita a un libro debitamente leggendario, in quanto antico, scritto in una lingua sconosciuta ai più. Lo studioso contesta chi ritiene obbligatoria una lettura necessariamente cifrata: «Quando furono scritti, i testi biblici, a saper leggere e scrivere erano in pochissimi: che motivi avrebbero avuto per dover nascondere il loro racconto sotto il velo simbolico-allegorico?».
    La prima versione della Bibbia divulgata nel Mediterraneo oltre la Palestina, detta “Bibbia dei Settanta”, fu tradotta in greco ad Alessandria d’Egitto, secondo Biglino ricorrendo a una massiccia interpolazione interpretativa ispirata dal pensiero platonico, che – a differenza della Bibbia – contempla le nozioni filosofiche di trascendenza, divinità, creazione, eternità. Gli ebrei considerano la “Bibbia dei Settanta”, letteralmente, «una tragedia per l’umanità». Eppure, sottolinea lo stesso Biglino, è proprio quella Bibbia in greco ad aver poi originato quella in latino, che è alla base della teologia cattolica e quindi delle Bibbie in italiano per le famiglie. Il lavoro del ricercatore torinese non mette in crisi solo la teologia ufficiale su cui si basano le istituzioni religiose, ma anche l’esegesi alternativa fornita dall’esoterismo, acutamente suggestiva, fondata sulla lettura allegorica e simbolica del testo – lettura che, come quella cattolica, non mette mai in discussione la presenza della divinità nell’Antico Testamento. Diversa ancora l’interpretazione offerta dalla Cabala, che dal testo originario ricava essenzialmente relazioni, assai criptiche, tra valori numerico-simbolici, come se la Bibbia fosse in realtà una complessa trama numerica, velata dalla narrazione superficiale di eventi di per sé non così importanti quanto invece il tessuto ermetico sottostante.
    Certo è singolare la produzione, negli ultimi anni, di una tale quantità di informazioni, ormai di pubblico dominio, che riguardano in particolare l’interpretazione della storia antica, sacra e non, ma anche una radicale rilettura dell’approccio scientifico alla conoscenza, rivalutando sia i testi sacri, fondativi delle grandi religioni, sia l’opera di esoteristi particolarmente illuminanti – filosofi, medici, artisti, alchimisti, proto-scienziati – che tendono a fornire chiavi di interpretazione delle “leggi universali” i “leggi di natura” molto simili a quelle cui oggi pervengono i settori più avanzati della scienza stessa, a cominciare dalla fisica, dall’astrofisica, dalla geofisica, dalla meccanica quantistica, con le recenti indagini sulla reale consistenza della materia, in cui si suppone che il visibile e l’invisibile rispondano alle stesse leggi, essendo costituiti della medesima energia. Da qui le riflessioni sulla percezione del tempo e della vita stessa, sulla cosiddetta Energia Oscura, sulla Materia Bianca cerebrale di cui i neurologi ammettono di non sapere praticamente nulla.
    Fisici come Vittorio Marchi e Giuliana Conforto sostengono che la realtà sensibile non sia altro che rappresentazione, e che il nostro cervello non percepisca che il 2% di quanto ci circonda, sulla Terra – per non parlare dell’universo, di cui sappiamo ben poco, al di là del nostro minuscolo sistema solare. Un numero sempre maggiore di storici e antropologi sospetta che la storia sia interamente da riscrivere: a quanto pare non furono gli egizi a erigere le piramidi; quelle scoperte in Bosnia sono più antiche e più grandi di quelle dell’Egitto. Né tantomeno conosciamo la storia misteriosa dei Sumeri, che sorsero all’improvviso come civiltà già formata, in possesso di conoscenze evolute (architettura, agricoltura, scrittura). Forse, ipotizza Biglino sempre prendendo la Bibbia alla lettera, i Sumeri erano la discendenza di Caino, che – essendo cresciuto nel Gan Eden – era stato formato e istruito dagli Elohim.
    L’esegesi ebraica ritiene ormai in modo unanime che Abramo, storicamente, non sia mai  esistito. Quantomeno, il personaggio biblico rispondente a quel nome era evidentemente un sumero, spinto dagli Elohim a vagare “lungi dalla casa di padre mio”, viaggiando fino in Palestina. Poi, i Sumeri scomparvero di colpo, in coincidenza con la distruzione delle città ribelli di Sodoma e Gomorra, operata dagli Elohim impiegando “l’arma dei terrore”, che sprigionò nell’atmosfera una nube letale – i venti dovettero sospingerla fino alla regione di Babilonia, dove è documentata la strage della popolazione (con sintomi da contaminazione nucleare) e la fuga precipitosa degli “dèi” locali, gli Annunaki, che presero il largo a bordo dei loro “carri celesti”, in tutto simili al Kavod di Jahwè.

    Perché l’oro è così importante? L’oro, non il ferro, l’argento, altri metalli. Forse perché si suppone che l’oro, incorruttibile, possa isolare al 100% da radiazioni pericolose, provenienti da tecnologie avanzate? Lo affermano i controversi studiosi della cosiddetta paleo-astronautica, che si interrogano sul singolare interesse manifestato, per l’oro, da tutti gli “dèi” dell’antichità, chiamati Viracochas sulle Ande nel regno Inca, Túatha Dé Dànann in Irlanda, Elohim in Palestina, Annunaki in Mesopotamia, Theòi in Grecia, mentre Vimana è il nome che in India designa le antiche, ipotetiche astronavi dei Veda. E ancora: i semi-dei “venuti dal cielo” prendono il nome di Kachinas in Arizona, Muxul nello Yucatan presso i Maya, Dogu in Giappone, Wakinyan in Nord America presso i Lakota Sioux, Nommo in Mali presso i Dogon. Una cosa è sicura: a un certo punto, nella storia, l’oro viene improvvisamente apprezzato e ricercato, estratto, lavorato, tesaurizzato, utilizzato come valore di scambio. Tutti quegli esseri appassionati all’oro, spesso chiamati Figli delle Stelle perché comparsi a bordo di formidabili mezzi volanti, raffigurati in sculture e altorilievi ancora oggi visibili in diverse parti del mondo, instaurarono dominazioni di tipo coloniale, imponendo sempre – alle popolazioni assoggettate – lo stesso “sacrificio” quotidiano: bruciare, per loro, il grasso (inizialmente dei neonati primogeniti, poi solo di agnelli) presente in prossimità di certi organi, fegato e reni.

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