Archivio del Tag ‘casa’
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Barnard: torniamo Italia, via da questa chemio-Eurozona
L’Italia deve uscire dall’Eurozona. L’Italia si deve ricordare come stavamo – sì, certo, con le nostre mafie, le mazzette, i politucoli puzzoni, le parrocchiette industriali – quello che volete, ma come stavamo prima di diventare un intero popolo di straccioni che spendono una moneta tedesca. Ma vi ricordate? Si lavorava, si compravano case e si risparmiava per i figli più di chiunque altro al mondo. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di un gruppo di ragazzetti stellati che vogliono farci tutti più onesti e corretti, ma che concordano in pieno col mantenere 60 milioni d’italiani annichiliti sotto la Chemioeconomia della moneta tedesca. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di non vedere più Rom e neri per strada, ma che invece ce ne faremmo tantissimo di avere un ‘duro con l’Europa’ che lo fosse davvero, e non un falsario cagasotto bulletto che ci ha ingannati perché tira proprio lui a diventare un Vip proprio in quell’Europa.L’Italia deve, prima di tutto, raccontare ai suoi cittadini cosa devono e dovranno pagare per tornare italiani, proprio i prezzi uno dopo l’altro, con precisione di somme e di tempi, e chiedersi: siamo disposti a pagarli per pochi anni, o forse solo mesi, per poi però tornare italiani? Rispondete sì o no. L’Italia deve allo stesso tempo raccontare ai suoi cittadini, anzi, ricordargli, quali sono i premi che dopo la burrasca gli pioveranno addosso se molliamo la moneta tedesca della Chemioeconomia. E che premi. Questo è un paese che solo-solo accettasse i prezzi della sfida all’abominio della moneta tedesca, poi diventa il Paradiso, e allora sì che andranno fatti i muri alle frontiere, ma non contro i Rom e i neri, contro australiani, tedeschi, olandesi, americani, belgi, russi…Non ci vuole molto. Basta stare compatti e stretti gli uni agli altri per il poco tempo della tempesta. Poi, mentre ci piovono addosso quei premi, ricordarsi sempre di questa regola al ministero del Tesoro: con moneta sovrana italiana, la spesa pubblica sarà maggiore delle tasse, e si scrive deficit senza nessun riguardo per le %, per tutto il tempo necessario fino a che l’ultimo disoccupato sarà stato assunto, fino a che i pensionati poveri saranno solo un brutto ricordo, fino a che le parole malattia e liste d’attesa saranno introvabili su Google Italia. L’Italia deve tornare Italia, e questa è la via. L’Italia deve.(Paolo Barnard, “L’Italia deve”, dal blog di Barnard del 6 dicembre 2018).L’Italia deve uscire dall’Eurozona. L’Italia si deve ricordare come stavamo – sì, certo, con le nostre mafie, le mazzette, i politucoli puzzoni, le parrocchiette industriali – quello che volete, ma come stavamo prima di diventare un intero popolo di straccioni che spendono una moneta tedesca. Ma vi ricordate? Si lavorava, si compravano case e si risparmiava per i figli più di chiunque altro al mondo. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di un gruppo di ragazzetti stellati che vogliono farci tutti più onesti e corretti, ma che concordano in pieno col mantenere 60 milioni d’italiani annichiliti sotto la Chemioeconomia della moneta tedesca. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di non vedere più Rom e neri per strada, ma che invece ce ne faremmo tantissimo di avere un ‘duro con l’Europa’ che lo fosse davvero, e non un falsario cagasotto bulletto che ci ha ingannati perché tira proprio lui a diventare un Vip proprio in quell’Europa.
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Paradiso Pontevedra: 80.000 abitanti, e neppure un’auto
«Immaginate per un attimo di uscire di casa e non dover sentire il rumore delle auto, dei clacson, e di potere respirare un aria leggera, pulita. Così, ogni giorno. Se per alcuni potrebbe sembrare un sogno, stare lontano dai rumori e dall’inquinamento, per altri è la quotidianità», scrive Michele Cocchiarella su “Wired”, pensando a Pontevedra, in Galizia, nell’estremo nord-ovest della Spagna, soprannominata “la città senza auto”, grazie a una massiccia politica di pedonalizzazione portata avanti dalle amministrazioni fin dal 1999. Gli effetti di questa scelta, conferma Massimiliano Zocchi su “Coscienze in Rete”, oggi si traducono in benessere di vita per gli abitanti, turismo fiorente, attività commerciali che crescono, così come è in aumento anche la popolazione. Ormai, a Pontevedra, spostarsi in automobile è quasi del tutto proibito. Non si tratta di un piccolo paesino, dove potrebbe sembrare un provvedimento semplice, ma invece è un centro da oltre 80.000 abitanti. La pedonalizzazione è partita dal centro storico, per poi estendersi anche ad aree periferiche, con solo pochi tratti aperti alle auto, dove però il limite di velocità è fissato a 30 chilometri orari. Primo risultato evidente: incidenti stradali calati in modo drastico e zero vittime della strada.«Il piccolo commercio, che spesso si dice soffra nel caso di aree pedonali, invece qui fiorisce, grazie al continuo passaggio di persone che possono guardare le vetrine senza paura di essere investite, o frastornate dal continuo rumore dei veicoli a motore», aggiunge Zocchi. Anche la popolazione sembra apprezzare il modello, deciso dal sindaco Miguel Anxo Fernandez. «Mentre diverse città della Galizia perdono abitanti, Pontevedra ne riceve, con oltre 10.000 cittadini che hanno deciso di trasferirsi nella città car-free». Tranquillità e aria pulia, resa molto più respirabile dall’assenza delle auto. L’inquinamento derivante dal traffico è sceso del 95%, per un totale di emissioni di CO2 diminuite del 70%, grazie agli spostamenti che avvengono perlopiù in bici o a piedi. «Le dimensioni del centro abitato sicuramente hanno facilitato questo cambiamento, ma ci sarebbero tante città, anche italiane, dove sarebbe possibile attuare politiche simili. Ma si sa, troppo comodo parcheggiare l’auto davanti al negozio che dobbiamo visitare».Il sindaco Miguel Anxo Fernandez Lores, eletto nel 1999 è giunto al suo quinto mandato, riporta Cocchiarella su “Wired”: non sono mancati i riconoscimenti alla città come l’ultimo nel 2015, il premio internazionale di eccellenza urbana del Center for Active Design a New York. «Il primo cittadino Lores ha guidato una rivoluzione contro le 27.000 auto che percorrevano le strade del centro», riducendo il traffico del 90%. «Solo questo basterebbe per rendersi conto di quanto importanti siano gli effetti di una politica di questo tipo». Ma andando oltre, aggiunge “Wired”, il numero degli incidenti è passato dai 1.203 del 2000 agli appea 484 nel 2014, e il 70% degli spostamenti avviene in bicicletta o a piedi. Non è tutto: ad aiutare turisti e cittadini ci pensano anche due app, “Metrominuto” (che permette di calcolare i tempi di percorrenza a piedi da un posto all’altro) e “Pasominuto”, in cui sono presenti venti itinerari e dove per le distanze percorse vengono calcolati anche il numero di passi e le calorie bruciate.L’effetto di questo cambiamento ha colpito anche il commercio locale che non conosce crisi, e c’è stato un incremento degli spazi verdi e delle aree da gioco per bambini. «Vista così, paragonata ad altre molto meno sostenibili, sembra quasi una città lontana dai tempi odierni», aggiunge Cocchiarella. «Certo forse non sarebbe facile pensare a misure simili nelle città con maggiori criticità su determinati profili, ma di sicuro si potrebbe puntare su altre soluzioni in linea con ogni tipo di territorio». Quello che colpisce è che a Pontevedra questo percorso è iniziato quindici anni fa, e oggi ha prodotto risultati che fanno invidia a tanti. «Quando si parla di problemi legati all’inquinamento, sostenibilità, traffico, in alcune città sembra sempre di essere lontani secoli da una svolta», scrive “Wired”. «La differenza è nella volontà di mettere in atto una serie di misure che migliorino la vita di ogni giorno». Da noi, traffico e smog a molti sembrano un’abitudine, un problema di cui si parla solo quando determinati parametri sono oltre la media e quindi scattano le misure immediate. «Troppo spesso si percepisce questo e non gli effetti di una politica lungimirante», osserva ancora “Wired”. «Le idee non mancano, gli esempi pure. Chi vive in posti dove i polmoni sono messi a dure prova, sa cosa significa. E pensare che a Pontavedra tutto è iniziato quindici anni fa: noi a cosa pensavamo?».«Immaginate per un attimo di uscire di casa e non dover sentire il rumore delle auto, dei clacson, e di potere respirare un aria leggera, pulita. Così, ogni giorno. Se per alcuni potrebbe sembrare un sogno, stare lontano dai rumori e dall’inquinamento, per altri è la quotidianità», scrive Michele Cocchiarella su “Wired”, pensando a Pontevedra, in Galizia, nell’estremo nord-ovest della Spagna, soprannominata “la città senza auto”, grazie a una massiccia politica di pedonalizzazione portata avanti dalle amministrazioni fin dal 1999. Gli effetti di questa scelta, conferma Massimiliano Zocchi su “Coscienze in Rete”, oggi si traducono in benessere di vita per gli abitanti, turismo fiorente, attività commerciali che crescono, così come è in aumento anche la popolazione. Ormai, a Pontevedra, spostarsi in automobile è quasi del tutto proibito. Non si tratta di un piccolo paesino, dove potrebbe sembrare un provvedimento semplice, ma invece è un centro da oltre 80.000 abitanti. La pedonalizzazione è partita dal centro storico, per poi estendersi anche ad aree periferiche, con solo pochi tratti aperti alle auto, dove però il limite di velocità è fissato a 30 chilometri orari. Primo risultato evidente: incidenti stradali calati in modo drastico e zero vittime della strada.
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Inaudito Salvini: colpa dei “verdi” la catastrofe-alluvione
Alberi piegati e spazzati via. Interi versanti stravolti. Anche da smottamenti e frane. Corsi d’acqua, ingrossati da piogge torrenziali ma anche da detriti e tronchi. Tanti, tantissimi, al punto di avere l’impressione che si tratti di distese, in movimento. Strade interrotte, abitazioni danneggiate fino a comprometterne l’agibilità. Collegamenti impossibili, da giorni. Acquedotti disintegrati. Quasi un cataclisma. Come un inferno. Nel quale le persone, quelle di ogni luogo, cercano di mettere un po’ d’ordine. Mentre l’aria odora di resina e di pioggia. Ben oltre di un milione di metri cubi di foreste abbattute, in Trentino, in Alto Adige e in Veneto. «È il giorno dei morti, degli alberi morti. Sgomentano le fotografie che mostrano l’immane cimitero di guerra di uno tra i nostri più preziosi patrimoni naturali», ha scritto il 2 novembre Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della Sera”. Insomma, «è cambiato per sempre il profilo delle Dolomiti, nostra straordinaria riserva di ossigeno, pregiatissimo magazzino-vita che non sarà possibile ripristinare chissà per quanto». Chiaro? «Per sempre». Lassù, sulle montagne nelle quali d’estate si va in vacanza a passeggiare oppure d’inverno a sciare, nulla sarà più come prima. Come è stato fino al disastro.«La situazione è pesante, apocalittica, strade devastate, tralicci piegati come fuscelli», ha detto il direttore del dipartimento della Protezione Civile nazionale Angelo Borrelli al termine del sopralluogo sulle zone più colpite dal maltempo. Il presidente del Veneto, Zaia, parla di «almeno 1 miliardo di euro di danni» in tutta la regione e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti annuncia di aver deciso di destinare 1 milione di euro al recupero dei boschi dell’Altopiano di Asiago, devastati dal maltempo. Il vicepremier Luigi Di Maio ha annunciato che sarà dichiarato lo stato di emergenza per tutte le regioni colpite e Matteo Salvini, dopo aver sorvolato in elicottero le zone sconvolte dagli eventi, è arrivato all’aeroporto di Belluno dove è stata istituita una sala operativa dalla Prefettura. Chi si sarebbe aspettato, almeno in questa occasione, che Salvini, rispettando il ruolo istituzionale, avesse parlato con toni pacati, sarà rimasto deluso. Chi immaginava che il ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio dei ministri avrebbe rinunciato al suo naturale desiderio di protagonismo, di fronte al cataclisma, si sarà sorpreso, forse.«Troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto che non ti fanno toccare l’albero nell’alveo ecco che l’alberello ti presenta il conto», ha detto Salvini. Certo ha dichiarato anche che «il bosco vive e deve essere curato e il greto del torrente dragato», aggiungendo che «la tutela della montagna dovrebbe essere affidata alle comunità locali». Certo, ha anticipato che «in settimana ci sarà un Consiglio dei ministri per questi eventi». Innegabile. Ma quel riferimento al “malinteso ambientalismo da salotto” e ai guasti che avrebbe comportato sommerge tutto il resto. Detto e fatto. Vanifica le altre parole e i prossimi impegni. Quindi l’ecatombe di Trentino, Alto Adige e Veneto è la conseguenza dei comitati ambientalisti che da anni si battono perché proprio quelle aree non siano spazi nei quali gli affari prevalgano sulla natura? Non siano zone nelle quali gli interessi di pochi vedano il sacrificio di beni comuni? Quindi per Salvini le contrarietà avanzate da tante associazioni, a partire dalla sezione di Belluno di Italia Nostra, sono corresponsabili di quel che sta accadendo? Quindi il disastro “è colpa” anche della battaglia contro il prolungamento della A27 lungo la direttrice Cadore-Comelico?Quindi il disastro è imputabile anche alla scelta di plaudire alla decisione, seguendo peraltro la normativa europea a tutela delle acque, di dire basta ai finanziamenti al mini-idroelettrico che distrugge gli ultimi torrenti naturali e produce poca energia? Quindi il disastro va ascritto alla decisione di schierarsi avverso la candidatura di Cortina come sede delle Olimpiadi invernali del 2016? Molti quesiti, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri. Molte le domande che il sasso lanciato da Salvini con le sue dichiarazioni, suggerisce. Quel che sembra indubitabile, fra molte incertezze, è che il “malinteso ambientalismo da salotto” evocato dal ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio, può anche suonare come una offesa. Per gli abitanti dell’Agordino, quelli del Feltrino, del Comelico e dell’Ampezzo. Per quelli di Pieve di Livinallogo del Col di Lana. Persone che hanno conosciuto la guerra, della quale rimangono ancora le trincee sulla montagna. Lavoratori che preferiscono le azioni alle parole. Soprattutto quando inappropriate. Lì sulle montagne i tweet non contano. Lassù ci si aspetta aiuto, ma si esige rispetto.(Manlio Lilli, “Maltempo, le parole di Salvini sono un’offesa per chi si batte per l’ambiente”, dal blog di Lilli sul “Fatto Quotidiano” del 4 novembre 2018).Alberi piegati e spazzati via. Interi versanti stravolti. Anche da smottamenti e frane. Corsi d’acqua, ingrossati da piogge torrenziali ma anche da detriti e tronchi. Tanti, tantissimi, al punto di avere l’impressione che si tratti di distese, in movimento. Strade interrotte, abitazioni danneggiate fino a comprometterne l’agibilità. Collegamenti impossibili, da giorni. Acquedotti disintegrati. Quasi un cataclisma. Come un inferno. Nel quale le persone, quelle di ogni luogo, cercano di mettere un po’ d’ordine. Mentre l’aria odora di resina e di pioggia. Ben oltre di un milione di metri cubi di foreste abbattute, in Trentino, in Alto Adige e in Veneto. «È il giorno dei morti, degli alberi morti. Sgomentano le fotografie che mostrano l’immane cimitero di guerra di uno tra i nostri più preziosi patrimoni naturali», ha scritto il 2 novembre Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della Sera”. Insomma, «è cambiato per sempre il profilo delle Dolomiti, nostra straordinaria riserva di ossigeno, pregiatissimo magazzino-vita che non sarà possibile ripristinare chissà per quanto». Chiaro? «Per sempre». Lassù, sulle montagne nelle quali d’estate si va in vacanza a passeggiare oppure d’inverno a sciare, nulla sarà più come prima. Come è stato fino al disastro.
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Ue che manovra: spezzare l’Italia, Bruxelles ha paura di noi
Qua si mette male, molto male. Il guaio non è la manovra economica che sarà pure inappropriata e insufficiente ma che non è così drastica e rivoluzionaria, e non produrrebbe quei danni letali che si raccontano ogni giorno. Il guaio è la reazione alla manovra. Che non è poi nemmeno la bocciatura della manovra, ma è un preciso, deliberato, radicale attacco al governo in carica. Il proposito non è far cambiare la manovra ma far cadere il governo e metterlo contro al suo popolo. Non si tratta di scomodare la letteratura del complotto, i precedenti, perfino quello di Berlusconi che ora è dalla parte di chi lo fece fuori sette anni fa. Non è questione di complotti, è questione di lotta per la sopravvivenza, o se volete, è l’eterna legge dell’autoconservazione del potere che quando è in pericolo prima sparge l’inchiostro e poi aziona i tentacoli. E non si tratta di attacco all’Italia, che pure non gode di fiducia nei potentati, e nemmeno solo di pregiudizi, come dice serafico il premier Conte. No, qui è in gioco l’establishment e il suo potere. Se passa la manovra del governo italiano, e ancora peggio se non devasta l’economia come viene preannunciato tre volte al giorno, viene delegittimato l’establishment tecno-finanziario-capital-sinistrorso che regge l’Unione, di cui in Italia abbiamo molti reggicoda.Altri paesi seguirebbero l’esempio e si sentirebbero in diritto di prendere una loro strada, di non sottomettersi al diktat europeo e alla loro prescrizione tassativa. E alle elezioni europee sarebbe un massacro per gli assetti di potere vigenti, di cui Juncker, Moscovici, sono gli ultimi figuranti. Da qui il terrorismo mediatico-finanziario, le scomuniche scritte e inscenate. Si giocano tutto. Altro che bocciatura della finanziaria. Da giorni, da settimane, da mesi in un crescendo minaccioso, annunciano sventure le cassandre interne e le streghe di Macbeth, che predicevano in futuro in realtà per orientarlo secondo i loro desideri. Eurarchi, agenzie, media e ascari politici, un coro assordante. E sta realmente serpeggiando nel paese quel panico che è di solito alle origini delle catastrofi. Ma il collasso non è indotto da una manovra scarsa e sbagliata ma dall’attacco concentrico al governo, prospettandoci un’altra esperienza Tsipras, come quella che indusse il riottoso premier greco a subire i diktat della Trojka se non voleva ridurre in miseria il suo paese.Il suggerimento sottinteso che viene dato è il seguente: l’Italia ha un debito record ma, come voi dite, è solido il sistema-italia, ha beni, risparmi, proprietà private. Bene, allora mettete mano a quelli, con una patrimoniale, prelievi forzosi, blocco di capitali, tasse sulle case, obbligo d’investire in titoli pubblici, o quel che volete voi. Ovvero trovate i soldi nelle tasche degli italiani, così pagate almeno gli interessi sul debito (che non potrà mai essere estinto, è come il peccato originale ma non ce lo toglie nessun battesimo). E allo stesso tempo vi inimicate il popolo che vi sostiene. Così buonanotte al populismo, al sovranismo e a tutte le menate. Voi capite che il pericolo vero è questo e non la manovra. E non pensate che indignandosi o cercando di suscitare rabbia nel popolo, si possa rispondere con le barricate. No, è una guerra e in guerra contano i rapporti di forza. È una guerra e del resto non potevate pensare che “loro” hanno i giorni contati- come dicevano allegramente – e si limitano a contare i giorni e non a reagire. E disponendo di poteri e alleanze che voi neanche vi sognate, agiscono per mandarvi fuori strada. Voi e il vostro paese, se vi segue.A questo punto io ho paura della paura. Ho paura cioè del panico che stanno instillando nella gente, nelle notizie che fanno circolare, nelle annunciate fughe di capitali all’estero, conti prosciugati e così via. Perché sono quei fatti e soprattutto quelle psicosi agitate a produrre guai seri, reazioni a catena; a gettare i paesi nel caos e nella disperazione, per andare poi da lorsignori col cappello in mano. Questa è la vera manovra pericolosa in atto.E allora che fare? Andare alla guerra, cercare alleati anche fuori d’Europa, farsi espellere dall’Unione, scatenare l’ira del popolo? Non contate molto su quest’ultima, gli haters non sono il popolo, e il popolo vi dà ragione in tempo di pace ma quando c’è il panico e la casa brucia non stanno lì a spegnere il fuoco e ad attaccare chi l’ha appiccato, ma mirano a mettersi in salvo. E’ umano, e da questo punto di vista gli italiani sono più “umani” degli altri (anche, ma non solo per fortuna, nel senso di più vigliacchi, più voltagabbana).Del resto, i governi che sfidano l’Europa dovrebbero avere spalle larghe, grandi leader, forze compatte e decise, che qui non vediamo. Si può decidere di combattere per l’Italia e la sua dignità, ma non si può morire per Di Maio e per le velleità grilline. Bisogna essere realisti, cercare punti d’incontro, intanto crescere, trovare solide alleanze, rafforzarsi, rinsaldarsi, acquisire nuove forze. Alle prime gelate, il consenso si ritira. Sarebbe magnifico poter rovesciare l’establishment attuale ma se non si hanno energie e strategie valide, leadership adeguate ed élite alternative, meglio essere prudenti. Non si può dichiarare guerra al mondo e rispondere alle armi micidiali messe in campo dal Nemico coi tweet, gli scarponi e le manine.(Marcello Veneziani, “Ue che manovra”, da “Il Tempo” del 25 ottobre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Qua si mette male, molto male. Il guaio non è la manovra economica che sarà pure inappropriata e insufficiente ma che non è così drastica e rivoluzionaria, e non produrrebbe quei danni letali che si raccontano ogni giorno. Il guaio è la reazione alla manovra. Che non è poi nemmeno la bocciatura della manovra, ma è un preciso, deliberato, radicale attacco al governo in carica. Il proposito non è far cambiare la manovra ma far cadere il governo e metterlo contro al suo popolo. Non si tratta di scomodare la letteratura del complotto, i precedenti, perfino quello di Berlusconi che ora è dalla parte di chi lo fece fuori sette anni fa. Non è questione di complotti, è questione di lotta per la sopravvivenza, o se volete, è l’eterna legge dell’autoconservazione del potere che quando è in pericolo prima sparge l’inchiostro e poi aziona i tentacoli. E non si tratta di attacco all’Italia, che pure non gode di fiducia nei potentati, e nemmeno solo di pregiudizi, come dice serafico il premier Conte. No, qui è in gioco l’establishment e il suo potere. Se passa la manovra del governo italiano, e ancora peggio se non devasta l’economia come viene preannunciato tre volte al giorno, viene delegittimato l’establishment tecno-finanziario-capital-sinistrorso che regge l’Unione, di cui in Italia abbiamo molti reggicoda.
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Case popolari, sentenza retroattiva e famiglie sul lastrico
«Ho cinque figli, sono appena uscito da una grave malattia, e – come migliaia di altri cittadini – non so come far fronte alla situazione che mi si presenta». Luciano Vattilana, 54 anni, funzionario della Città Metropolitana di Roma Capitale, è stato condannato in primo grado a dover pagare 150.000 euro per il vecchio alloggio in edilizia agevolata, acquistato e poi rivenduto a prezzo di mercato. Secondo la Cassazione, invece, tutti quegli alloggi – 210.000 solo a Roma – andavano rivenduti al prezzo iniziale, calmierato. Peccato che venditori e compratori non lo sapessero: confortati dai notai hanno sempre contrattato gli immobili a prezzo libero, cosa di cui lo stesso Comune era perfettamente al corrente. Risultato: nella sola capitale, almeno 400.000 persone sono costrette a fronteggiare un’emergenza finanziaria catastrofica, in grado di gettare le famiglie sul lastrico. Non c’è speranza di prescrizione, e la sentenza della Cassazione è formalmente inattaccabile. Vie d’uscita? Una sola: l’intervento (urgentissimo) del governo, prima che scatti la valanga dei pignoramenti, dato che molti cittadini – lasciati soli – tentano di rivalersi sui vecchi proprietari, chiedendo loro, in tribunale, la differenza tra la somma sborsata e il prezzo nominale iniziale.«Il Movimento Roosevelt è vicino alle famiglie colpite – annuncia il vicepresidente, Marco Moiso – e solleciterà il ministro Toninelli: serve una normativa aggiornata, che chiarisca l’equivoco e chiuda il caso sul nascere, prima che diventi una tragedia sociale». È lo stesso Moiso a parlarne con Vattilana, in web-streaming su YouTube. «Mi chiedono di versare 130.000 euro alla persona a cui vendetti il mio vecchio alloggio di edilizia agevolata, che nel 1992 a mia volta avevo pagato l’equivalente di 75.000 euro», racconta il consulente. Al netto delle spese legali e processuali (altri 20.000 euro), Vattilana dovrebbe versare la differenza fra la somma intascata e il costo nominale dell’immobile, secondo la convenzione edilizia iniziale, che oggi è pari a 52.000 euro. Cos’è successo? Nel 2015 la Corte di Cassazione ha sostanzialmente stabilito nuove regole, retroattive, per la compravendita di quegli alloggi. Si tratta di case popolari acquistate con diritto di superficie: il Comune resta proprietario del terreno e l’acquirente diventa titolare dell’alloggio per 99 anni, rinnovabili per altri 99. Il vincolo: la prima vendita doveva avvenire a prezzo concordato, calmierato. Dalla seconda compravendita in poi, però, valeva il prezzo di mercato – come comprovato dagli stessi notai. Così gli alloggi sono stati regolarmente comprati e rivenduti, a prezzo libero. E oggi la Cassazione, di fatto reinterpretando la legge, dice che quegli alloggi dovevano essere venduti solo a prezzo calmierato. Di conseguenza: tutti scoprono di dovere qualcosa a qualcuno.«E’ una situazione pazzesca, estremamente ingiusta – protesta Vattilana – perché ognuno di noi ha sempre agito in buona fede. Se ne può uscire solo in un modo: con un decreto legge urgente, che blocchi i pignoramenti in corso e le cause legali a catena che sono scattate». Nel suo caso particolare, dovrebbe sborsare 150.000 euro. «Potrei sempre fare causa a mia volta alla persona da cui acquistai l’immobile a prezzo di mercato, ma mi rifiuto di farlo: sono sicuro che anche lui ha agito con la certezza di essere nel giusto, vendendomi l’alloggio a prezzo di mercato». Per Luciano Vattilana, la situazione è drammatica: «Una richiesta del genere sta sottoponendo le famiglie a uno stress fuori dal normale. Io ho 54 anni e 5 figli, e so che 150.000 euro non ce li avrò mai: dovranno pignorarmi la casa dove vivo attualmente». Vattilana fa parte del “Comitato 18135”, che riporta «il numero scandaloso» di quella sentenza della Cassazione. «Ho visto persone più anziane di me piangere, con accanto famiglie intere, madri disperate. Ogni ora, ricevo anche 150 sms da persone che stanno ricevendo adesso le prime citazioni». Vattilana è stato già condannato, in primo grado, al risarcimento. «Questa sentenza la trovo ingiustissima – dice – innanzitutto perché retroattiva». Poi: tutte le controparti sapevano quali fosse la prassi.«Per 28 anni – aggiunge – ho avuto uno studio di assistenza amministrativa, per le compravendite, e quindi so benissimo che tutti venivano istruiti». Chiunque, tra l’altro, sapeva che il Comune, a un certo punto, avrebbe potuto “affrancare” gli alloggi dal vincolo iniziale e quindi anche «vendere la quota millesimale del terreno insistente sotto il fabbricato». Una volta nei guai con la giustizia, Luciano Vattilana ha anche rinunciato a fare causa agli stessi notai, convinto che agissero nel rispetto della legge. «Né mi sono sentito di chiamare in causa famiglie, a cui richiedere somme del genere. Altri invece possono rivalersi su di me, pretendendo la differenza tra il prezzo convenzionale e quello di mercato. E se poi procedono con l’affrancamento dell’immobile (legittimamente permesso) possono guadagnare ulteriormente se aumenta ancora il prezzo di mercato». Secondo Vattilana, purtroppo, c’è un clima speculativo, «un ambiente inquinato». E i venditori (ex proprietari) non hanno neppure la possibilità di “affrancarsi”, visto che all’epoca l’affrancamento non era ancora possibile. «Si sarebbe potuto risolvere il problema così: affranco io, mi carico i costi e l’acquirente si ritrova il prezzo libero». Non è successo.«Ho avuto l’impressione che con questa sentenza si sia voluto buttare un pezzo di carne profumata dentro un ring pieno di persone che non mangiano da venti giorni, ed è cominciata – di fronte a uno spettatore che è lo Stato – una carneficina, per conquistare questo pezzo di carne». Sempre secondo Vattilana «ci si sono buttati, ahimè, alcuni avvocati e alcune associazioni. Nelle buche delle lettere abbiamo trovato annunci del tipo: “Vuoi tornare proprietario della quasi totalità del prezzo d’acquisto della casa? Ci pensiamo noi”. Cioè: noi venditori oggi passiamo per truffatori, e loro – garantendo l’assenza totale di spese legali – poi intascheranno un 50% dell’importo». Protesta, Luciano: «Truffatori noi?! No, perché a nostra volta abbiamo comprato a prezzo di mercato. Non c’è stata nessuna speculazione». Purtroppo, aggiunge Luciano Vattilana, «il magistrato che ha giudicato me ha dichiarato che lui non emette “sentenze sociali”». Questione di diritti, e di diritto: «Io credo che, quando si ravvisa una cosa del genere, il giudice deve comunque applicare la legge. Ma se c’è un vulnus, un “buco” – come nel nostro caso – bisognerebbe agire come la Corte Costituzionale nel caso Welby e nel caso Dj Fabo: la Corte ha rimandato alle Camere una questione socialmente delicata». Se invece il giudice «si allinea e si “spalma” sulla sentenza 18135 della Corte di Cassazione, possiamo dire che in Italia esiste un solo grado di giudizio, che è quello della Cassazione».Un solo giudice, Antonio Perinelli, in appello ha sospeso la sentenza. «Tanto di cappello a un magistrato che si è permesso di fare una cosa del genere. Spero abbia capito la buona fede di noi venditori». Ma la situazione, ripete Vattilana, è assolutamente ingiusta. «E la sentenza della Cassazione è cucita talmente bene che non potrà essere “smontata” in nessun modo. Solo un intervento legislativo, velocissimo, può fermare le cose». Forse – dice oggi Vattilana – acquirenti e venditori avrebbero dovuto evitare di costituirsi in troppe associazioni. «Bastava un unico comitato, per stabilire che forse chi ha mancato è lo Stato – è lui, tutto sommato, ad aver “cambiato idea”. Credo che una piccola responsabilità ce l’abbiano anche i Comuni: noi, all’epoca, non avevamo ancora la possibilità dell’affrancamento». Il dottor Vattilana insiste sull’impatto sociale del dramma: «Mi dispiace che si colpisca ancora una volta la famiglia. Il problema va risolto a livello legislativo, perché altrimenti potrebbe scoppiare davvero una bomba sociale. Io, per esempio, se non riuscirò a pagare questi 150.000 euro, non sarò più in grado di mandare avanti la mia famiglia, che è numerosa».Come uscirne? «Credo che serva un decreto legge. So che il ministro Toninelli si sta adoperando per inquadrare il problema». Poi ci sono i notai: «Credo che si possa ottenere un buon risultato coinvolgendo in modo positivo il notariato, stabilendo costi per stipulare la nuova convenzione di sblocco del prezzo, l’affrancazione a prezzi calmierati. Sarebbe anche un modo per i Comuni di risanare le proprie casse. Io vedo soltanto vantaggi, per tutti». L’obiettivo? «Evitare di estorcere – perché secondo me di estorsione si tratta – una somma così elevata e spropositata, messa in palio dallo Stato». Servirebbe una spinta legislativa, insiste Vattilana, «perché questa cosa è veramente fuori dal mondo». Francamente, «sono troppe le cose che non vanno: la motivazione che “salva” i notai come tecnici non salva noi come venditori, perché la legge – per noi – non ammette ignoranza». Un ruolo importante è anche quello giocato dall’Avvocatura: «Spero che anche l’Ordine degli Avvocati possa dare un limite ai legali, perché “giocare” così credo sia veramente scorretto».Quello che fa letteralmente impazzire Luciano Vattilana, e gli altri cittadini rappresentati dal Comitato 18135, è l’enorme ingiustizia di cui si ritengono vittime: «Ci viene imputato l’indebito arricchimento. Ma mi sembra una follia, visto che da parte nostra non c’è mai stata alcuna speculazione, come gli stessi notai possono confermare». Beninteso: «Non vogliamo riscatti o rivalse su altre persone, ci interessa solo la tranquillità». Invece, ognuno è lasciato solo: «Se non riesce a sopportare un giudizio legale può sempre tentare una transazione, se ne ha la possibilità economica, ma certo non si può continuare così all’infinito». Pensando al suo caso, Luciano Vattilana ribadisce: «A 54 anni non è facile ottenere un altro mutuo: diventa tutto molto difficile». E se la Cassazione oggi ritiene sia stata mal interpretata una vecchia legge – la norma sul prezzo di vendita dopo il secondo acquisto di quegli alloggi – non resta che la politica, per rimediare, promulgando una nuova legge che metta fine all’incubo. In altre parole: ministro Toninelli, batta un colpo. Ma in fretta, per favore, prima che centinaia di migliaia di persone finiscano – senza colpa – in un mare di guai.(“Edilizia agevolata, appello a Toninelli: salvi le famiglie dalla tenaglia giudiziaria della Cassazione. Luciano Vattilana: immensa ingiustizia, costretti a pagare per case che oggi la Corte sostiene fossero vincolate al prezzo calmierato”, dal blog del Movimento Roosevelt del 28 ottobre 2018).«Ho cinque figli, sono appena uscito da una grave malattia, e – come migliaia di altri cittadini – non so come far fronte alla situazione che mi si presenta». Luciano Vattilana, 54 anni, funzionario della Città Metropolitana di Roma Capitale, è stato condannato in primo grado a dover pagare 150.000 euro per il vecchio alloggio in edilizia agevolata, acquistato e poi rivenduto a prezzo di mercato. Secondo la Cassazione, invece, tutti quegli alloggi – 210.000 solo a Roma – andavano rivenduti al prezzo iniziale, calmierato. Peccato che venditori e compratori non lo sapessero: confortati dai notai hanno sempre contrattato gli immobili a prezzo libero, cosa di cui lo stesso Comune era perfettamente al corrente. Risultato: nella sola capitale, almeno 400.000 persone sono costrette a fronteggiare un’emergenza finanziaria catastrofica, in grado di gettare le famiglie sul lastrico. Non c’è speranza di prescrizione, e la sentenza della Cassazione è formalmente inattaccabile. Vie d’uscita? Una sola: l’intervento (urgentissimo) del governo, prima che scatti la valanga dei pignoramenti, dato che molti cittadini – lasciati soli – tentano di rivalersi sui vecchi proprietari, chiedendo loro, in tribunale, la differenza tra la somma sborsata e il prezzo nominale iniziale.
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Istat: l’economia sommersa in Italia vale oltre 200 miliardi
La ricchezza prodotta nel 2016 da economia sommersa e attività illegali è salita a 210 miliardi dai 208 del 2015, anche se il suo peso sul Pil è lievemente calato dal 14,4 al 12,6%. Le sole attività illegali, cioè produzione e traffico di droga, prostituzione e contrabbando di tabacco, che dal 2014 sono inserite nei conti nazionali e contribuiscono al prodotto interno lordo, hanno generato un valore aggiunto di quasi 18 miliardi in aumento dai 17,2 del 2015. La spesa delle famiglie per questo tipo di “prodotti” è salita da 19 a 19,9 miliardi come conseguenza di “un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi”. Sono i dati dell’annuale rapporto dell’Istat sul nero e l’illegalità, da cui emerge anche che i lavoratori irregolari sono 3,7 milioni (in lievissimo calo rispetto al 2015) contro i 20 milioni in regola. Chi lavora in nero, emerge dalle tabelle dell’istituto, viene contato nelle statistiche ufficiali degli occupati. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa, che va dalle sotto-dichiarazioni fiscali all’impiego di lavoro irregolare agli affitti in nero, ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i quasi 18 miliardi dell’illegalità e del suo indotto.Le stime «confermano la tendenza alla discesa dell’incidenza della componente non osservata dell’economia sul Pil dopo il picco del 2014», quando il valore totale era salito a 211 miliardi di euro. Per quanto riguarda le attività illegali, l’Istat segnala che l’incremento complessivo è determinato dal traffico di stupefacenti il cui valore aggiunto è salito di 0,8 miliardi per effetto dell’aumento dei prezzi. Per i servizi di prostituzione si stima un valore aggiunto pari a 3,7 miliardi di euro e consumi per 4 miliardi, sostanzialmente invariati rispetto al 2015. Anche le attività di contrabbando di sigarette mantengono un livello analogo all’anno precedente, con un valore aggiunto pari a 0,4 miliardi e un ammontare di consumi di 0,6 miliardi. L’indotto connesso alle attività illegali, riferito per la maggior parte al settore dei trasporti e del magazzinaggio, si è mantenuto costante, generando un valore aggiunto pari a circa 1,3 miliardi di euro. Quanto alla composizione dell’economia non osservata, la sotto-dichiarazione pesa per il 45,5% del valore aggiunto (-0,6 punti percentuali rispetto al 2015) e il resto è attribuibile per il 37,2% all’impiego di lavoro irregolare (37,3% nel 2015), per l’8,8% alle altre componenti (fitti in nero, mance e integrazione domanda-offerta) e per l’8,6% alle attività illegali (rispettivamente 9,6% e 8,2% l’anno precedente).Per quanto riguarda la ripartizione tra i settori economici, il sommerso pesa di più nei servizi, in cui l’incidenza è del 33,3%, nel comparto commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (23,7%) e nelle costruzioni (22,7%). Anche il peso della sotto-dichiarazione sul complesso del valore aggiunto risulta è più rilevante in quei settori. Nell’industria, l’incidenza è relativamente elevata nella produzione di beni alimentari e di consumo (7,5%) e molto contenuta in quella di beni di investimento (2,3%). Le unità di lavoro irregolari nel 2016 erano 3,7 milioni, in calo di 23mila unità rispetto al 2015. Lavorano in nero 2,7 milioni di dipendenti e 1 milione di autonomi. Il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza delle unità di lavoro non regolari sul totale, è pari al 15,6%, 0,3 punti in meno rispetto all’anno precedente. L’incidenza del lavoro irregolare è particolarmente rilevante nel settore dei servizi alle persone (47,2% nel 2016, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2015), ma è significativo anche nell’agricoltura (18,6%), nelle costruzioni (16,6%) e nel comparto commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (16,2%).(“Economia sommersa, nel 2016 è salita a 210 miliardi: 18 da attività illegali. Sono 3,7 milioni gli occupati irregolari”, da “Il Fatto Quotidiano” del 12 ottobre 2018).La ricchezza prodotta nel 2016 da economia sommersa e attività illegali è salita a 210 miliardi dai 208 del 2015, anche se il suo peso sul Pil è lievemente calato dal 14,4 al 12,6%. Le sole attività illegali, cioè produzione e traffico di droga, prostituzione e contrabbando di tabacco, che dal 2014 sono inserite nei conti nazionali e contribuiscono al prodotto interno lordo, hanno generato un valore aggiunto di quasi 18 miliardi in aumento dai 17,2 del 2015. La spesa delle famiglie per questo tipo di “prodotti” è salita da 19 a 19,9 miliardi come conseguenza di “un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi”. Sono i dati dell’annuale rapporto dell’Istat sul nero e l’illegalità, da cui emerge anche che i lavoratori irregolari sono 3,7 milioni (in lievissimo calo rispetto al 2015) contro i 20 milioni in regola. Chi lavora in nero, emerge dalle tabelle dell’istituto, viene contato nelle statistiche ufficiali degli occupati. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa, che va dalle sotto-dichiarazioni fiscali all’impiego di lavoro irregolare agli affitti in nero, ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i quasi 18 miliardi dell’illegalità e del suo indotto.
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Bifarini: tutti schiavi della finanza, grazie a politici traditori
«Di tutti i modi per organizzare l’attività bancaria, il peggiore è quello che abbiamo oggi» (Sir Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra). Una delle trasformazioni più inumane del sistema capitalistico industriale, fondato originariamente sull’industria manifatturiera e più in generale sulla produzione, è quella del capitalismo finanziario, in cui il potere è concentrato in pochi grandi istituti di credito. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione. In modo graduale, ma anche repentino, il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “finanzcapitalismo” o “capitalismo ultrafinanziario”. Orientato alla massimizzazione del profitto ricavato dal denaro stesso, in esso la ricchezza non passa attraverso la produzione di beni o servizi, né è previsto un piano di redistribuzione tra lavoratori e consumatori, ma solo l’accentramento nelle mani di pochi, pochissimi.Da sempre strumento di supporto dell’economia capitalistica, con l’avvento del neoliberismo la finanza si è tramutata da servitore a padrone dell’economia mondiale, fagocitandola e riproducendosi a ritmi vertiginosi. A partire dal 1980 l’ammontare degli attivi generati dal sistema finanziario ha superato il valore del Pil dell’intero pianeta. Da allora la corsa della finanza al profitto è diventata così veloce da quintuplicare per massa di attivo l’economia reale nel giro di un trentennio. Sotto la presidenza Bill Clinton, sono state introdotte due pietre miliari per completare la deregolamentazione del sistema finanziario neoliberista. Con l’abolizione del Glass-Steagall Act – introdotto da Roosevelt l’anno successivo alla crisi del ’29 – è stata eliminata la separazione tra banche d’affari e d’investimenti, che così hanno riconquistato concentrazioni di potere economico. In contemporanea, l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) ha dato il via libera alla compravendita di prodotti fuori Borsa con la cancellazione delle precedenti norme, considerate restrittive, sul controllo dei derivati.Ogni giorno nascono nuove tipologie di derivati sempre più sofisticati e complessi, che possono essere scambiati “over the counter”, ossia fuori dalle Borse. Essendo titoli “transitori” non rispondono all’obbligo di essere registrati nel bilancio bancario e sfuggono alle normative del settore. Sfruttando le falle del sistema, da esso stesso generate, i grandi gruppi finanziari hanno creato una miriade di società indipendenti cui trasferiscono fuori bilancio grossi capitali, che in tal modo divengono invisibili. Tali strumenti hanno le stesse caratteristiche della moneta: sono rivendibili più volte, facilmente monetizzabili e scambiabili senza detenere il possesso del loro sottostante. Così i derivati, messi in circolazione in enormi quantitativi dalle banche, sono divenuti una nuova forma di moneta circolante, che sfugge alle analisi e rende problematici e inefficaci gli interventi di politica monetaria. E’ il mondo della finanza-ombra, quel vasto mercato parallelo, nato tra le trame del sistema bancario internazionale, che ha reso mastodontica e fuori controllo la mole dei prodotti finanziari circolanti.Una grossa fetta di questi prodotti finanziari ha per sottostante forme di debito, come ad esempio le ipoteche sulla casa. Con un meccanismo perverso, in cui il denaro viene creato attraverso il debito, si realizza una forma di speculazione assoluta che niente ha a che vedere con la creazione di valore, ma piuttosto con la sua distruzione. E’ evidente che un sistema economico basato sulla speculazione sganciata dalla produzione e fondata sul debito, sia pubblico che privato, sia insostenibile. Il paradosso del finanzcapitalismo è che trova nel caos e nella povertà il suo humus ideale, poiché proprio la speculazione sui debiti e sulle sofferenze ne è la linfa vitale. Il suo funzionamento è regolato da meccanismi complessi, artificiosi, che si basano sull’applicazione di modelli della fisica e della cibernetica: nulla di più lontano dall’economia reale! I maggiori responsabili dell’affermarsi di questo sistema distorto e criminale sono i politici, venuti meno al loro compito di tutelare le fasce deboli e di assicurare il benessere sociale. L’intero sistema socio-economico liberista è ormai concepito per servire la finanza.(Ilaria Bifarini, “Finanzcapitalismo: schiavi del debito”, dal blog della Bifarini del 10 ottobre 2018).«Di tutti i modi per organizzare l’attività bancaria, il peggiore è quello che abbiamo oggi» (Sir Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra). Una delle trasformazioni più inumane del sistema capitalistico industriale, fondato originariamente sull’industria manifatturiera e più in generale sulla produzione, è quella del capitalismo finanziario, in cui il potere è concentrato in pochi grandi istituti di credito. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione. In modo graduale, ma anche repentino, il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “finanzcapitalismo” o “capitalismo ultrafinanziario”. Orientato alla massimizzazione del profitto ricavato dal denaro stesso, in esso la ricchezza non passa attraverso la produzione di beni o servizi, né è previsto un piano di redistribuzione tra lavoratori e consumatori, ma solo l’accentramento nelle mani di pochi, pochissimi.
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Grazie all’imbroglio del debito, vogliono portarci via tutto
Siamo nei guai, da quando «abbiamo consegnato direttamente ai mercati finanziari la possibilità di creare nuova moneta». A chi conveniva? A loro, l’élite finanziaria speculativa. Si sono fatti le leggi che volevano. E oggi l’establishment ci racconta che il deficit è una tragedia, e che i “mercati” sono i nostri unici, veri padroni. Lo ammette persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Siamo caduti in un colossale imbroglio, avverte l’ex manager Bnl Guido Grossi, intervistato da “Tiscali”. La buona notizia è che possiamo uscirne: primo passo, rimettere in debito in mani italiane, riattivando i Bot a breve scadenza su misura per i cittadini: «Bastano 200 miliardi per far svanire l’incubo dello spread. E l’Italia è ricchissima: 4.200 miliardi di risparmi, più 5.000 miliardi di patrimonio immobiliare». Si può allonatarsi anche rapidamente, dalle secche artificiose del rigore, a una condizione: che si sappia chi ci ha inguaiati, come funziona la trappola del debito “privatizzato” e a cosa serve. Ad accumulare soldi? Sbagliato: il vero obiettivo è fare incetta di beni pubblici, dopo averne fatto crollare il prezzo attraverso crisi pilotate.La storia della nostra “prigionia” è lunga è dolorosa, riassume Grossi. Pietra miliare, il Trattato di Maastricht: l’Ue non può prestare soldi agli Stati né ad altri enti pubblici diversi dalle banche. «Perché? Non c’è alcun ragionevole motivo». Non esiste ragione, spiega Grossi, per cui la politica debba rinunciare al controllo della moneta. «Noi viviamo nell’economia dello scambio, visto che nessuno è in grado di prodursi tutto quello di cui ha bisogno, e per scambiarsi le cose serve la moneta. Questa deve circolare, passare di mano in mano, e quando ce n’è poca nel sistema bisogna immetterla». E dal 1971, finito il “gold standard”, è diventato chiaro che creare moneta è qualcosa che si può fare senza costi. «L’importante è che ce ne sia la giusta quantità e che, soprattutto, vada a finire nelle tasche giuste. Ma lo Stato ha rinunciato al potere di emetterla, questo è il primo punto». Il secondo? Il sistema finanziario si è trasformato: prima, il cittadino portava i risparmi in banca, e la banca li investiva nell’economia reale e creava lavoro. Oppure il cittadino prestava quei risparmi allo Stato, sotto forma di Bot e Cct, perché era un modo per metterli al sicuro.«Lo Stato usava quei risparmi per fare spesa pubblica: in sostanza, rimetteva quei soldi nelle tasche dei cittadini che spendono e nelle casse delle imprese che investono». La moneta circolava, aggiunge Grossi, perché «c’era un controllo pubblico», sia nella sua creazione, sia nella sua circolazione. Ormai «la moneta si crea dal nulla». Dunque, «sarebbe meglio riportarla sotto il controllo pubblico». La questione è che circola molto male, la moneta, «perché il sistema finanziario è diventato privato». E non solo: «Ha smesso di fare il suo mestiere: non prende il risparmio privato per indirizzarlo sulle imprese che investono o nelle famiglie che devono comprare casa». Il grosso «finisce sui mercati finanziari». E se tutti vogliono comprare i titoli di Stato il loro prezzo sale. Peraltro, «se il mercato compra titoli e le banche centrali continuano a comprarne con le operazioni di “quantitative easing”, e comprano pure titoli di aziende private, in quelle operazioni non fanno altro che sostenere il prezzo della bolla speculativa. Ci dicono che lo fanno per far salire l’inflazione e far entrare soldi alle imprese ma questi soldi vanno direttamente sui mercati finanziari».Fino agli anni ‘90, prosegue Grossi, si finanziavano ancora investimenti e imprese. Ora invece «la gran parte viene destinata a circolare attraverso lo scambio di titoli, di derivati sempre più complessi e sempre più oscuri». Così, la finanza decide tutto: «Una grande banca d’affari può chiamare una impresa, ottenere la sua collocazione in Borsa, studiarla, preparare il report per presentarla ai mercati, finire col conoscerla meglio di quanto non riesca a fare l’impresa stessa. Può farle avere i soldi dei mercati perché conosce tutti i fondi di investimento, anzi ha i suoi fondi di investimento. Ha la sua ricerca che può distribuire a tutti gli enti istituzionali in giro per il mondo, può fabbricare i derivati sui titoli e sui prestiti, negoziarli, fare tutto per operare sui mercati finanziari». Ed è chiaro che, con tali informazioni, la banca può sapere molto prima di altri quando il prezzo può salire e quando può scendere. «Possono fare qualsiasi cosa, far arricchire chi vogliono». L’obiettivo finale? «Non è continuare ad accumulare moneta, ma comprare beni reali», spiega Grossi. «E come si fa a comprare a basso costo cose reali? Scatenando crisi economiche».La Grecia insegna: con la scusa del debito, società e banche tedesche si sono prese anche gli aeroporti. Chi ha impedito alla Grecia di difendersi? L’Unione Europea, con i suoi vincoli: proibendo allo Stato di creare moneta, e perfino di farsela prestare per fare spesa pubblica in investimenti. Ovvio che il mondo finanziario sia intimamente legato alle multinazionali. E paesi come la Germania e gli Usa, dove c’è un grosso nucleo di grandi aziende internazionalizzate, traggono enormi dei benefici da questo sistema: a monte, riescono a ottenere regole su misura per il proprio business. «Anche in Italia ce le avevamo, le grandi aziende: le partecipazioni statali». Certo, ricorda Grossi, ci hanno raccontato che erano “carrozzoni” spreca-soldi. «In realtà facevano invidia agli Usa, alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Germania». Così è arrivata la mannaia Ue: «Il Trattato di Maastricht ci ha poi imposto il vincolo assurdo del rapporto del 60% tra debito e Pil (e deficit non superiore al 3% del Pil)». E’ avvenuto «in un particolare momento, in cui noi eravamo a 100 e gli altri a 60». Obiettivo: frenare l’Italia, barando.«Così abbiamo dovuto svendere le partecipazioni statali, perché l’unico modo per entrare era vendere il patrimonio pubblico». La situazione, osserva Grossi, è precipitata con il divorzio fra Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale ha smesso di finanziare il governo a costo zero, “regalando” il debito (interessi) alla finanza privata. E ora siamo al pareggio di bilancio, varato da Monti: «Quando l’economia è ferma e c’è troppa disoccupazione, lo Stato ha il dovere di intervenire». C’è scritto nella Costituzione, ricorda Grossi: «Lo Stato ha il dovere di fare quanto necessario per metterci in grado di avere una esistenza libera e dignitosa, di contribuire al progresso materiale e spirituale della nazione. E ciò lo possiamo realizzare solo lavorando. Se c’è disoccupazione, crisi economica, le famiglie non spendono e le imprese non investono, allora o interviene qualcuno dall’esterno o la crisi rimane e continua ad avvitarsi su se stessa». A questo punto come fa, uno Stato, a continuare a perseguire politiche “costituzionali”, cioè keynesiane, di sviluppo e occupazione?«Tolto il potere di chiedere a Bankitalia di finanziare il deficit, aggiunto il vincolo di pareggio di bilancio, lo Stato in pratica non può più intervenire nell’economia». Attenzione: «Quando lo Stato poteva creare moneta, il debito pubblico materialmente finiva per non essere un problema». Controllando la leva monetaria, lo Stato non poteva mai ritrovarsi senza soldi. Gli stessi titoli di Stato, aggiunge Grossi, non servivano certo a incamerare denaro: al contrario, erano soldi che lo Stato lasciava ai cittadini, «per impiegare tranquillamente i loro risparmi nella maniera meno rischiosa e più sicura possibile». Se invece viene tolta la sovranità monetaria, sottolinea Grossi, allora il rischio comincia a nascere: «Lo Stato, per ripagare i titoli, è obbligato o a prendere con le tasse i soldi dalle tasche di alcuni cittadini per ripagare chi ha i titoli, o a farseli prestare. Per vendere i titoli di Stato, poi, il tesoro si serve degli operatori specialistici, che sono Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley e così via. Anziché rivolgersi ai suoi cittadini che non sanno dove mettere i risparmi, si rivolge alle banche private che fanno aumentare i costi dello Stato».Solo una parte del debito italiano, comunque, è in mano a stranieri: 700 miliardi, su 2.341. Ma questo non cambia la situazione, «perché la maggior parte dei titoli è controllata da questo sistema finanziario». In pratica, «gli investitori ci prestano i soldi alle loro condizioni, e noi abbiamo il rischio spread. Un rischio che arriva dai mercati: non sta scritto in nessuna norma che dobbiamo averlo. E’ stata una scelta tecnico-amministrativa che non ci è mai stata raccontata. Di questa scelta – dice Grossi – dobbiamo liberarci». Mettendo il debito pubblico in mano agli investitori internazionali stranieri e non avendo possibilità di stampare moneta, aggiunge Grossi, lo Stato è costretto a farsi prestare i soldi da altri per pagare quegli investitori. «Ho rinunciato a farmi prestare anche i soldi dai cittadini, e dunque mi sono messo un cappio al collo. Voglio finanziare cose indispensabili per il paese? Sale lo spread, le agenzie di rating abbassano la qualifica dei nostri titoli e possono determinare eventi rischiosissimi e catastrofici. Se viene abbassato il rating molti investitori possono essere spinti a vendere i nostri titoli. E se tutti vendono, si svende».Alla fine può arrivare il default, scattare il meccanismo “salva-Stati” come in Grecia. «Cioè: arrivano, ci prestano i soldi e in cambio ci impongono le tasse, ci dicono cosa privatizzare, cosa vendere, cosa tagliare e chi licenziare, ci piaccia o no. Per questo bisogna rimettere ordine nella nostra ricchezza e modificare il meccanismo uscendo dal cappio». Lo Stato, spiega Grossi, oggi paga inoltre tassi d’interesse altissimi perché si rivolge ai mercati finanziari esteri. «Negli anni ’80 avevamo tassi nominali molto alti, pagavamo anche il 10,15 o 20%. Oggi invece paghiamo dall’1 al 3%». Sembra che ci abbiamo guadagnato, e invece ci abbiamo perso: quello che conta, infatti, è il tasso nominale meno il tasso d’inflazione. «Se ho un debito di 100, se in un anno pago il 10% ma l’inflazione sta al 15%, a fine anno non ho pagato 10, ho risparmiato 5. Perché il peso del mio debito è sceso del 5%. Questo indipendentemente dal livello dei tassi nominali».I problemi sono iniziati smettendo di chiedere i soldi ai risparmiatori italiani, «che si accontentano di un tasso al di sotto dell’inflazione perché vogliono semplicemente difendere il valore del capitale». Tradotto: se io perdo l’1% cento (inflazione) ma nessuno mi tocca il capitale, non mi preoccupo. «Se invece compro un prodotto di investimento in banca e nel momento stesso in cui lo prendo già mi hanno tolto il 4 o 5% (anni addietro addirittura il 10%) allora sì che corro dei rischi e devo preoccuparmi. E quando lo Stato sceglie di farsi prestare i soldi non più dai propri cittadini, che si accontentano di un piccolo tasso di interesse in cambio della sicurezza, e comincia a rivolgersi agli investitori istituzionali che per natura fanno gli speculatori, è per forza costretto a pagare di più». A loro sta bene rischiare un po’ di capitale, a differenza del cittadino risparmiatore, ma vogliono essere pagati molto di più in cambio del rischio. «Ed ecco che i tassi reali sono diventati positivi».Oggi in Italia c’è l’inflazione all’1,50. Il Btp trentennale rende il 3,55%, quindi lo stato paga il 2% reale. «Sembra una cifra bassa ma è altissima, perché basta che passi il tempo e il debito cresce a dismisura. E’ esattamente quanto è successo, anche se ci raccontano che abbiamo sperperato i soldi». Insiste Grossi: «Lo spreco vero sono i 10 milioni di italiani che potrebbero lavorare e non facciamo lavorare», proprio perché il “cappio” di questo debito – gonfiato dalla speculazione – ci lascia in bolletta, mentre l’Ue ci impedisce di fare deficit per investire sul lavoro. Risultato: grazie alle politiche “lacrime e sangue”, ai tagli e all’austerity, in questi ultimi anni il debito pubblico (che si diceva di voler tagliare) è continuato a salire. «Sale il debito, sale la povertà, sale la disoccupazione. E’ evidente che la direzione presa era completamente sbagliata». Il timido Def “gialloverde”, con quel 2,4% di deficit, è primo segnale di una possibile inversione di tendenza, finalmente: il deficit generarerà un aumento del Pil, dei consumi, dell’occupazione.Siamo nei guai, da quando «abbiamo consegnato direttamente ai mercati finanziari la possibilità di creare nuova moneta». A chi conveniva? A loro, l’élite finanziaria speculativa. Si sono fatti le leggi che volevano. E oggi l’establishment ci racconta che il deficit è una tragedia, e che i “mercati” sono i nostri unici, veri padroni. Lo ammette persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Siamo caduti in un colossale imbroglio, avverte l’ex manager Bnl Guido Grossi, intervistato da “Tiscali”. La buona notizia è che possiamo uscirne: primo passo, rimettere in debito in mani italiane, riattivando i Bot a breve scadenza su misura per i cittadini: «Bastano 200 miliardi per far svanire l’incubo dello spread. E l’Italia è ricchissima: 4.200 miliardi di risparmi, più 5.000 miliardi di patrimonio immobiliare». Ci si può allontanare anche rapidamente, dalle secche artificiose del rigore, a una condizione: che si sappia chi ci ha inguaiati, come funziona la trappola del debito “privatizzato” e a cosa serve. Ad accumulare soldi? Sbagliato: il vero obiettivo è fare incetta di beni pubblici, dopo averne fatto crollare il prezzo attraverso crisi pilotate.
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Grossi: reinventare i Bot, e svanirà l’incubo dello spread
Come “smontare” il grande inganno e liberarsi del capestro del debito pubblico? Bastano 200 miliardi, “pescati” dall’enorme risparmio italiano, pari a 4.200 miliardi di euro (senza contare i 5.000 miliardi di patrimonio edilizio). Siamo un paese ancora ricchissimo: per questo ci stanno “rapinando”. Come uscirne? Recuperando il controllo della moneta. Ma la stretta del debito è risolvibile da subito: basta abilitare la Cassa Depositi e Prestiti. Obiettivo: offrire ai risparmiatori titoli-sicurezza, non speculativi, come ai tempi dei Bot. In pochi mesi, l’incubo dello spread sarebbe un ricordo. Lo Stato tornerebbe a finanziarsi con denaro italiano. Tutto ciò non accade per un solo motivo: manca la volontà politica. Se non potesse più “ricattare” lo Stato, un enorme sistema di potere finirebbe a gambe all’aria. Per questo non mollano, i boss della finanza che hanno “sequestrato” le nostre vite. Secondo Guido Grossi, ex manager Bnl, la politica ha rinunciato in modo folle al controllo della moneta. Prima, il cittadino portava i risparmi in una banca pubblica e quei soldi venivano investiti nell’economia reale, creando lavoro: lo Stato li usava per fare spesa pubblica. Oggi invece le banche private fanno solo speculazione, e i cittadini non possono più finanziare lo Stato, mentre gli interessi sempre più alti fanno salire l’indebitamento.Ci hanno messo un cappio al collo, sostiene Grossi, intervistato da Ignazio Dessì su “Tiscali Notizie”. Una trappola: lo spread, il rating, il meccanismo perverso che porta lo Stato a svendere i beni pubblici, fino al caso drammatico della Grecia. La canzone è nota anche in Italia: abbassare il debito pubblico, chiedendo “sacrifici” ai cittadini, pena l’imminente disastro. Diventa un caso persino l’esiguo 2,4% di deficit nel Def gialloverde, per finanziare reddito di cittadinanza, Flat Tax e riforma della legge Fornero. Ma perché rastrellare soldi in prestito sul mercato finanziario estero, quando in Italia c’è una massa enorme di liquidità? Proprio l’internazionalizzazione del debito pubblico ha messo un cappio al collo agli Stati e impedisce loro di impostare liberamente le politiche economiche e sociali. Per questo, quello del debito pubblico è un grande inganno: Usa e Giappone hanno debiti record, eppure scoppiano di salute. Certo, americani e giapponesi sono sovrani: possono fare deficit per aumentare il Pil e non devono far approvare i bilanci a Bruxelles. Ma persino noi, sotto le forche caudine dell’Eurozona, potremmo uscire dal tunnel anche subito.«L’obiettivo finale – sostiene Grossi – è riportare l’emissione monetaria sotto il controllo pubblico, sotto la politica. Ma la cosa da fare subito è smetterla di farci prestare i soldi dagli investitori istituzionali. Non ne abbiamo alcun bisogno». Oggi, un risparmiatore non compra più Bot o Cct. Non conviene. Gli unici che li comprano sono le banche centrali, i fondi di investimento. «Bisogna trasformare le emissioni», dice Grossi. «Negli anni ’70, Bot e Cct erano comprati dal sistema-Italia, dalle famiglie, dalle aziende e dalle banche italiane». Quando si è passati a chiedere i soldi agli “investitori istituzionali”, i titoli sono stati trasformati «sia nel modo in cui vengono offerti sul mercato, sia nella struttura del titolo stesso». Prima, i Btp erano una eccezione. «Erano nati per andare incontro alle esigenze degli speculatori: una durata lunga con un tasso fisso più alto dell’inflazione va bene sia a un “cassettista” (li compro, li tengo da parte, aspetto la scadenza e intanto guadagno più dell’inflazione), sia a uno speculatore o a un trader che continuamente compra e vende». La durata del Btp è lunga, e il prezzo si muove ogni volta che il tasso di mercato cambia. «Gli speculatori ci vanno a nozze». I risparmiatori, invece, chiedono semplicemente sicurezza: quella che avevano, quando lo Stato controllava la moneta e investiva sull’economia, prima che arrivasse l’Ue a impedirglielo, frenando i deficit.Secondo Grossi bisogna tornare ai titoli di Stato di durata breve: al cittadino (che non fa speculazione) i soldi risparmiati possono servire da un momento all’altro. Un tempo c’erano i Bot a 3 mesi, comodissimi e sicuri. «Invece il Btp a 7 anni, che ho pagato 100, se lo rivendo dopo un anno può darsi valga 90. Il rischio in questo caso è molto più consistente. E magari, a me cittadino, correre quel rischio non interessa». Il Btp è solo «uno strumento per speculare sui tassi», adatto quindi alle grandi banche e ai fondi d’investimento. «Serve solo a chi vuol fare soldi con i soldi», e quindi «va gradualmente eliminato». Riassumendo: abbiamo “fabbricato” titoli su misura per gli speculatori, ai quali lasciamo anche il controllo dei meccanismi d’asta. Spiega Grossi: «Se io mi sono messo nella condizione di farmi prestare soldi dai mercati finanziari, è chiaro che quando faccio l’asta sto chiedendo sostanzialmente a loro di decidere le condizioni. E se di quei soldi non posso più farne a meno, è evidente che le condizioni man mano si adatteranno alle loro esigenze: quelle di guadagnare il più possibile».Si può fare il contrario? Certo, basta volerlo. Sapendo che in Italia c’è ancora una massa enorme di liquidità (4.200 miliardi di risparmi) lo Stato può dire: cari cittadini italiani, vi offro l’1 o il 2% per un certo tempo, portate quello che volete. «Con quanto arriva mi ci vado a ricomprare i Btp sul mercato. Faccio crollare lo spread. Basta che arrivino 200 miliardi e noi gli investitori internazionali li salutiamo. Gli restituiamo i loro soldi, ma gli diciamo basta». Siamo in grado di farlo? Guido Grossi ne è certo. In Italia, spiega, si finisce col pagare 4 quello che avremmo potuto pagare 2. Funziona così: se mi scadono 30 miliardi di Btp, li devo andare a rinnovare. In un anno bisogna rinnovare circa 2-300 miliardi di euro (ogni mese, da 20 a 40 miliardi). «Per raccogliere tali cifre, cosa ci vuole a offrire ai cittadini un titolo adatto alle loro esigenze?». I nostri oltre 4.000 miliardi sono costituiti da depositi, fondi, assicurazioni e azioni. Senza contare gli immobili: un patrimonio da 5.000 miliardi. «Per questo siamo un paese ricco, e quei risparmi fanno gola a molti».Oggi, quando i cittadini hanno risparmi vanno in banca o alla posta, dove c’è chi consiglia cosa comprare. Ma scatta un conflitto di interessi: «Chi ci consiglia e ci vende un Bot o un Cct guadagna una piccolissima commissione. Se ci vende invece un prodotto di investimento, più rischioso, guadagna molto di più. Per forza allora ci venderà quel prodotto lì, di cui non abbiamo bisogno. Qualcuno guadagna e magari noi ci rimettiamo, e in più evitiamo di finanziare lo Stato, come potremmo». Siamo arrivati a questo, spiega Grossi, perché il sistema finanziario e bancario è diventato privato. «Io ho lavorato alla Bnl, che era la banca del Tesoro. Quando sono entrato mi pagavano lo stipendio per fare il mio dovere istituzionale, difendere e tutelare il risparmio da una parte, e selezionare gli investimenti dall’altra. Non mi pagavano per guadagnare, per fare un profitto: mi pagavano per svolgere una importantissima funzione di interesse generale. Questa è la mission di un ente pubblico». Poi la banca è diventata una Spa, ed è arrivato il concetto della migliore efficienza. «In realtà ci ha portato a cambiare completamente l’ottica: la mission non è più la qualità del servizio, ma il fare soldi. Le banche sono diventate sempre più private, sempre più straniere, e amen».Cosa si può fare? L’obiettivo fondamentale, per Grossi, è uno solo: «Recuperare tutto il controllo del sistema finanziario: è il nostro sistema vitale». Insiste: «Per una economia, per una sana società, è fondamentale. Può esserci sempre chi cerca di farci dei soldi, perché qualcuno ci toglierà sempre del sangue, ma bisogna che quel sistema sia messo sotto controllo in modo democratico e trasparente». Possiamo sempre imparare ad essere più efficienti? «Verissimo, ma comunque quel sistema era meglio di questo. Bisogna recuperare la distinzione tra prodotti di risparmio e di investimento». Negli anni Trenta, gli Stati Uniti guidati da Roosevelt uscirono dalla Grande Depressione – innescata dalla speculazione di Wall Street – proprio in quel modo: separando le banche d’affari dagli istituti di credito ordinario, non autorizzati a giocare in Borsa il risparmio di famiglie e aziende. A fare argine c’era una legge, il Glass-Steagall Act. La rimosse dopo mezzo secolo Bill Clinton, messo alle strette dallo scandalo Lewinsky. Proprio Clinton fece volare, di colpo, l’economia neoliberista basata sulla speculazione finanziaria senza più freni: quella che oggi sta strangolando l’economia reale, ulteriormente rallentata – in Europa – dagli assurdi limiti di spesa imposti dai trattati-capestro dell’Ue, che disabilitano la spesa pubblica lasciando campo libero alle privatizzioni selvagge.Ai cittadini, sostiene Guido Grossi, bisogna tornare innanzitutto a offrire prodotti di risparmio, anche attraverso aste differenziate. Il player giusto, in Italia? La Cassa Depositi e Prestiti, che all’80% è ancora posseduta dallo Stato. «Oggi viene utilizzata per finanziare grandi interventi. Viaggia con Bancoposta. Nessuna delle due è però una banca. Messe insieme, fanno la funzione della banca: perché Bancoposta raccoglie i risparmi e Cassa Depositi e Prestiti li investe. Entrambe però risentono dell’ottica privatistica». Bisognerebbe invece reindirizzarne il management e la “mission”, sostiene Grossi: «Se io oggi vado a Bancoposta, mi propongono né più né meno prodotti di investimento, come qualunque banca o assicurazione. In una banca pubblica mi devono invece proporre qualcosa di diverso: un deposito semplice, un titolo di Stato. Cassa Depositi e Prestiti invece può fare quegli investimenti pubblici di cui c’è enorme bisogno». Attenzione: la Germania sta già facendo, con la Bundesbank, quello che noi continuiamo a non fare con Bankitalia.«Quando ci sono le aste dei titoli (bund), il Tesoro tedesco cerca di orientare il prezzo: non lascia cioè i mercati liberi di fare ciò che vogliono». Berlino usa due strumenti: se non c’è domanda sufficiente per assorbire la quantità di titoli proposta, la parte invenduta viene parcheggiata presso la Bundesbank. Non che la banca centrale li compri, perché l’Ue glielo vieta. Quei titoli vengono “parcheggiati”, e al momento opportuno saranno collocati. «E’ come se si allungassero i tempi dell’asta: questa dura fino a quando il mercato capisce che non può avere più di quello che il Tesoro tedesco è disposto a pagare». In definitiva, in questo modo, «si aggira in definitiva l’articolo 123 del Trattato di Maastricht», che è palesemente iniquo. Poi c’è il secondo strumento, cioè l’utilizzo dell Kwf (Kreditanstalt für Wiederaufbau). E’ una grande banca pubblica, «non dissimile dalla nostra Cassa Depositi e Prestiti, perché utilizzata per i grandi investimenti».La Kfw, ricordava tempo fa Paolo Barnard, può intervenire nelle aste a comprare direttamente i titoli, grazie a un cavillo: è una banca ad azionariato pubblico, controllata dal governo, ma fornalmente resta un ente “di diritto privato”. Lo erano anche Bnl, Unicredit, Banca di Roma, Comit, San Paolo, Banco di Napoli e Banco di Sicilia. «Dopo, però, sono diventate tutte private, e la maggior parte straniere», ricorda Grossi. In ogni caso, adottando il sistema tedesco, ci basterebbe la Cassa Depositi e Prestiti: «Potrebbe comprare in Italia l’invenduto». Tradotto: «Se sto facendo un’asta marginale e vedo che il prezzo sale troppo, può interviene la Cassa e comprarne una parte, poi rivenderla nei giorni successivi sul mercato, come fa la Kfw. E come fanno anche in Francia con la Bpi, la banca pubblica per gli investimenti. Ed è giusto». Sottolinea Grossi: «Non c’è bisogno di chiedere il permesso a nessuno, per questi interventi: nessuna norma nazionale o internazionale li vieta. Non è che sbagliano loro a farlo, sbagliamo noi a non farlo». Che cosa stiamo aspettando?Come “smontare” il grande inganno e liberarsi del capestro del debito pubblico? Bastano 200 miliardi, “pescati” dall’enorme risparmio italiano, pari a 4.200 miliardi di euro (senza contare i 5.000 miliardi di patrimonio edilizio). Siamo un paese ancora ricchissimo: per questo ci stanno “rapinando”. Come uscirne? Recuperando il controllo della moneta. Ma la stretta del debito è risolvibile da subito: basta abilitare la Cassa Depositi e Prestiti. Obiettivo: offrire ai risparmiatori titoli-sicurezza, non speculativi, come ai tempi dei Bot. In pochi mesi, l’incubo dello spread sarebbe un ricordo. Lo Stato tornerebbe a finanziarsi con denaro italiano. Tutto ciò non accade per un solo motivo: manca la volontà politica. Se non potesse più “ricattare” lo Stato, un enorme sistema di potere finirebbe a gambe all’aria. Per questo non mollano, i boss della finanza che hanno “sequestrato” le nostre vite. Secondo Guido Grossi, ex manager Bnl, la politica ha rinunciato in modo folle al controllo della moneta. Prima, il cittadino portava i risparmi in una banca pubblica e quei soldi venivano investiti nell’economia reale, creando lavoro: lo Stato li usava per fare spesa pubblica. Oggi invece le banche private fanno solo speculazione, e i cittadini non possono più finanziare lo Stato, mentre gli interessi sempre più alti fanno salire l’indebitamento.
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“Riace è un modello solo per Saviano e gli italiani cretini”
Si può essere «cretini» come Roberto Saviano, che finge di non sapere che Riace era un paesino deserto, e quindi adatto ad essere ripopolato con migranti? «Capirei se l’Italia fosse abitata da un milione di persone», dice il video-reporter Massimo Mazzucco. «Sfortunatamente gli italiani sono 60 milioni: Saviano non lo sa? Non capisce che inserire migranti in aree sovraffollate non è come domiciliare immigrati in un villaggio fantasma, abbandonato dagli abitanti originari?». A fare notizia, in realtà – sostiene Mazzucco nel “live” settimanale in web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights” – non è neppure l’imbarazzante, scontato propagandismo anti-Salvini dell’autore di “Gomorra”, quanto la levata di scudi suscitata dall’arresto del sindaco di Riace, Domenico Lucano, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E’ comunque eccessivo, in casi come questo, il ricorso alla carcerazione preventiva? Spesso, dichiara sempre a Frabetti l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, l’arresto è «un indice di frustrazione, da parte di una magistratura che in questo modo anticipa la pena», temendo che poi il processo potrebbe naufragare. «Molto più efficace il “processo” mediatico», la “gogna” innescata dalle manette. Segno, ribadisce Carpeoro, «che in Italia la giustizia non riesce proprio a funzionare».Sul caso Riace si è in ogni caso abbattuta l’ennesima tempesta. In difesa del sindaco Lucano si schierano scrittori, giornalisti, opinionisti a tempo pieno. La filosofa Maura Gancitano parla di “regime”, quando in realtà di amministratori locali arrestati se ne contano a bizzeffe. Perché proprio questa volta ci si scandalizza così tanto? «Ci si scandalizza – dice Mazzucco – perché quel sindaco è diventato una specie di simbolo, una bandiera (positiva o negativa, a seconda di come la guardi). Era stato addirittura inserito da “Fortune” tra le 50 persone più influenti del mondo: e senza un vasto movimento di supporto, da parte di una certa sinistra, non sarebbe mai potuto finire su “Fortune”. Il giornale non se ne sarebbe neppure accorto, dell’esistenza del paesino di Riace». E proprio perché Domenico Lucano è stato trasformato nella bandiera dell’accoglienza “senza se e senza ma”, «Matteo Salvini (giustamente, dal suo punto di vista) ha detto la sua, e quindi ha creato il caso: che infatti nasce perché questo sindaco è diventato un simbolo, non per quello che ha fatto a Riace». Il guaio, sottolinea Mazzucco, sta nel voler generalizzare in modo così miope, prendendendo che il ripopolamento “meticcio” di un paesetto disabitato rappresenti un modello, applicabile anche a periferie degradate anche dalla presenza di migranti senza occupazione.Quanto al caso giudiziario, è indispensabile chiarire: «Se il sindaco ha fatto qualcosa di sbagliato, legalmente – sostiene Mazzucco – non è che glielo puoi condonare solo perché è stato “bravo” ad accogliere i migranti: secondo questa logica, a uno ancora più “bravo” potrebbe anche essere perdonato un omicidio?». Siamo seri, insiste Mazzucco: «Non puoi mescolare il livello politico con quello della legalità». Quindi non si scappa: «Le contestazioni giudiziarie devono essere risolte a livello legale». Rispetto invece all’aspetto sociale? «Bravissimo, quel sindaco. Ma sono capace anch’io di riempire un paesino vuoto. A Riace non c’era altro da fare: dare ai migranti le chiavi delle case. Il problema è che l’Italia non è affatto vuota. E’ piena, già così». E non solo di migranti, sulla cui “importazione” lucrano grandi reti, protette dall’ipocrisia dominante che si nasconde dietro il dovere umanitario dell’aiuto. L’Italia purtroppo è piena anche di “cretini”, per dirla con Mazzucco, che scambiano lo sperduto villaggio di Riace per un modello esportabile ovunque, anche nelle metropoli, dove proprio la non-gestione dell’immigrazione (e i ricchi affari ad essa collegata) hanno fatto volare il consenso di un politico come Salvini.Si può essere «cretini» come Roberto Saviano, che finge di non sapere che Riace era un paesino deserto, e quindi adatto ad essere ripopolato con migranti? «Capirei se l’Italia fosse abitata da un milione di persone», dice il video-reporter Massimo Mazzucco. «Sfortunatamente gli italiani sono 60 milioni: Saviano non lo sa? Non capisce che inserire migranti in aree sovraffollate non è come domiciliare immigrati in un villaggio fantasma, abbandonato dagli abitanti originari?». A fare notizia, in realtà – sostiene Mazzucco nel “live” settimanale in web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights” – non è neppure l’imbarazzante, scontato propagandismo anti-Salvini dell’autore di “Gomorra”, quanto la levata di scudi suscitata dall’arresto del sindaco di Riace, Domenico Lucano, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E’ comunque eccessivo, in casi come questo, il ricorso alla carcerazione preventiva? Spesso, dichiara sempre a Frabetti l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, l’arresto è «un indice di frustrazione, da parte di una magistratura che in questo modo anticipa la pena», temendo che poi il processo potrebbe naufragare. «Molto più efficace il “processo” mediatico», la “gogna” innescata dalle manette. Segno, ribadisce Carpeoro, «che in Italia la giustizia non riesce proprio a funzionare».
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Come creare disoccupazione: ieri in Ghana, oggi in Italia
Ci hanno fatto un tale lavaggio del cervello, in questi anni, che risulta sempre ostico raccontare cos’è veramente la moneta; capirlo è fondamentale per la nostra felicità, il nostro lavoro, i nostri figli e il futuro che ci attende. Poi arriva un americano senza la kappa, un genietto un po’ nerd, ma soprattutto incapace di mentire, che spiega queste cose con la stessa carica di umanità e chiarezza che avevano i nostri nonni quando ci insegnavano a sbucciare una mela. In modo semplice, pratico. Quest’uomo – il businessman Warren Mosler – da diversi anni propone approfondimenti sulla finanza e sulla moneta che sono comprensibili a tutti, e questo accade perché lui ha veramente capito di cosa si tratta, ne conosce la storia e sa come funziona. Invitiamo tutti a diffidare di coloro i quali ci parlano di economia citando la moneta esogena e quella endogena, o usando espressioni tipo massa monetaria M1, M2, ecc. Diffidate di costoro: spesso o non hanno ben chiaro quello che stanno dicendo, o la loro zucca è piena di ideologia e si avvalgono dei tecnicismi accademici per confondere le acque e svicolare dal nocciolo della questione. Sul ruolo della moneta, sul suo profondo significato, riportiamo una citazione storica di Mosler sentita con le nostre orecchie a Treviso nel 2012 e più recentemente a Chianciano (ndr, da storici ci siamo permessi di limare il racconto per renderlo più preciso).“Come creare la disoccupazione”. Nell’Ottocento, il Regno Unito si è recato nel Ghana per espandere i suoi profitti; in Africa a quel tempo non c’era alcun sistema monetario. Non esisteva alcuna disoccupazione presso la popolazione africana: tutti si aiutavano a vicenda, c’era molta attività sociale. Gli uomini si occupavano di cacciare, pescare e procurarsi il cibo, le donne dei bambini e della casa, le nonne si prendevano cura dei bambini di chi lavorava; insomma, c’erano più cose da fare che persone e tempo per farle. Aggiungiamo, per ulteriore chiarezza, che le case in Ghana erano pregevoli, ben fatte e soprattutto adatte all’ambiente circostante. Per fare un esempio: se qualcuno ha visto i “masi” frequenti in Trentino Alto Adige, ecco, può avere un’idea più chiara di quale tipo di edifici fossero. Come sono riusciti, allora, gli inglesi, a farli lavorare nelle piantagioni di caffè se tutti lavoravano? Se ne sono venuti fuori con un’idea geniale: hanno detto a tutti che ci sarebbe stata una tassa sulle abitazioni di ciascuno; tutti avrebbero dovuto pagare ad esempio dieci sterline, altrimenti le loro case sarebbero state bruciate dagli inglesi. Cos’è successo allora? Che tutti si sono chiesti: «Come facciamo ad avere questa moneta per pagare le tasse?». Risposta: «Se venite a lavorare nelle nostre piantagioni di caffè, vi pagheremo una sterlina all’ora».In questo modo tutti sono andati a lavorare nelle piantagioni per evitare che la loro casa fosse bruciata! Le tasse e il sistema monetario hanno quindi creato la disoccupazione. E sono stati i britannici a fornire quella moneta, necessaria per pagare le tasse ed evitare che le case fossero bruciate. Ma hanno dovuto prima crearla e “spenderla”, e poi riprendersela indietro con le tasse: giusto? E se gli inglesi avessero speso più di quanto avevano tassato, ciò avrebbe significato che gli africani avrebbero potuto risparmiare qualcosa. Cos’avrebbero dovuto fare gli indigeni? Aspettare che le loro case venissero bruciate? Ovviamente no: sono andati a lavorare per gli inglesi, e magari hanno anche cercato di mettere da parte qualcosina. Ma – e qua viene il bello – se troppe persone avessero chiesto un lavoro, gli inglesi avrebbero ridotto le tasse: non è che rimandavano le persone a casa e poi gliela bruciavano lo stesso, come invece stiamo facendo oggi con il demenziale progetto dell’Unione Europea.(Massimo Bordin, “Come creare disoccupazione: ieri in Ghana, oggi in Italia”, dal blog “Micidial” del 30 dicembre 2015).Ci hanno fatto un tale lavaggio del cervello, in questi anni, che risulta sempre ostico raccontare cos’è veramente la moneta; capirlo è fondamentale per la nostra felicità, il nostro lavoro, i nostri figli e il futuro che ci attende. Poi arriva un americano senza la kappa, un genietto un po’ nerd, ma soprattutto incapace di mentire, che spiega queste cose con la stessa carica di umanità e chiarezza che avevano i nostri nonni quando ci insegnavano a sbucciare una mela. In modo semplice, pratico. Quest’uomo – il businessman Warren Mosler – da diversi anni propone approfondimenti sulla finanza e sulla moneta che sono comprensibili a tutti, e questo accade perché lui ha veramente capito di cosa si tratta, ne conosce la storia e sa come funziona. Invitiamo tutti a diffidare di coloro i quali ci parlano di economia citando la moneta esogena e quella endogena, o usando espressioni tipo massa monetaria M1, M2, ecc. Diffidate di costoro: spesso o non hanno ben chiaro quello che stanno dicendo, o la loro zucca è piena di ideologia e si avvalgono dei tecnicismi accademici per confondere le acque e svicolare dal nocciolo della questione. Sul ruolo della moneta, sul suo profondo significato, riportiamo una citazione storica di Mosler sentita con le nostre orecchie a Treviso nel 2012 e più recentemente a Chianciano (ndr, da storici ci siamo permessi di limare il racconto per renderlo più preciso).
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Corbyn e Mélenchon, prove tecniche di socialismo europeo
Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello di “France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.Aditya Chakrabortty, sul “Guardian”, domanda se qualcuno ha notato che il Labour ha appena dichiarato la “guerra di classe”, dopo che per decenni si è consentito al neoliberismo di fare quello che voleva. Nel 2015, il capo-economista della Bank of England, Andy Haldane, ha tracciato ciò che è accaduto al reddito nazionale dei lavoratori nel lungo periodo. E ha scoperto che il lavoro ha avuto fette sempre più piccole della torta: dal 70% negli anni ’70 al 55% di oggi. Secondo i suoi calcoli, «gli impiegati ottengono proporzionalmente meno ora di quanto ottenevano all’inizio della rivoluzione industriale, negli anni ‘70 del Settecento». Ovvero: «Se i salari degli operai fossero stati mantenuti in linea con l’aumento della loro produttività dal 1990, il lavoratore medio sarebbe oggi più ricco del 20%». Osserva Marchetti su “Contropiano”: «Non stupisce che, nel paese che in Europa, per primo, ha conosciuto l’applicazione delle ricette liberiste grazie alla Thatcher, e lo svuotamento tra le file laburiste di ogni istanza progressista con la parabola del “New Labour” di Tony Blair, abbia votato prima per uscire dalla Ue e poi per il Labour di Corbyn, che ora è “testa a testa” nei sondaggi con il 35% delle preferenze di voto e una non escludibile ipotesi di elezione anticipata a novembre».Tornando alla “strana coppia” formata da Corbyn e Mélenchon, continua Marchetti, «entrambi sono due “pellacce” che vengono da esperienze “di minoranza” nei propri ranghi, ma non hanno smesso di perseguire una politica “radicale” divenuta sempre più mainstream nei rispettivi paesi». Tra loro si parlano in spagnolo, data la comune passione per le lotte dei popoli latino-americani. «Entrambi sono stati oggetto, e lo sono tuttora, del linciaggio mediatico da parte dei media internazionali, cioè dei grandi gruppi della comunicazione che dominano il mercato: il partito unico dell’informazione e le sue propaggini nella sinistra “liberal”». Le solite trappole: «Le critiche alla politica israeliana da parte di Corbyn gli sono costate le accuse di antisemitismo, piattamente riprese anche dalla stampa nostrana». E al di là della Manica, un’identica “macchina del fango” si è attivata nella campagna elettorale per le ultime presidenziali francesi, man mano che Mélenchon cresceva nei sondaggi: più aumentava il numero di seguaci, specie giovani, e più crescevano «il “bashing” mediatico e le narrazioni tossiche», cosa che peraltro è avvenuta anche con Corbyn, «le cui copertine dedicategli in fase elettorale da alcuni tabloid rimangono un capolavoro di “fake news” da ammannire al popolo». Ora tutto è cambiato: Corbyn è quotato alla pari con i conservatori, mentre Mélenchon è il leader più popolare in Francia, dove Macron è crollato sotto il 20%.Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello de “La France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.