Archivio del Tag ‘casinò’
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Amazzonia in fiamme: il business di Carrefour, Nestlé e soci
L’incendio dell’Amazzonia e l’oscuramento dei cieli da San Paolo in Brasile e a Santa Cruz in Bolivia hanno catturato la coscienza del mondo. «Gran parte della colpa degli incendi è giustamente caduta sul presidente brasiliano Jair Bolsonaro per aver incoraggiato direttamente l’incendio delle foreste e il sequestro delle terre delle popolazioni indigene». Ma l’incentivo alla distruzione proviene da grandi aziende internazionali di carne e soia come Jbs e Cargill, e dai marchi globali come Stop & Shop, Costco, McDonald’s, Walmart, Asda e Sysco, che acquistano da loro e vendono al pubblico. «Sono queste aziende che stanno creando la domanda internazionale che finanzia gli incendi e la deforestazione». Lo scrive “Shorthand”, piattaforma internazionale no-profit di giornalisti impegnati su temi etici, sociali ed ecologici. In pratica, sottolinea “Shorthand” in un post tradotto da “Coscienze in Rete”, siamo noi – indirettamente, al supermercato – ad alimentare la devastazione criminale delle foreste. E la distruzione non è limitata al Brasile: «Appena oltre il confine, nell’Amazzonia boliviana, in poche settimane sono bruciati un milione di ettari, in gran parte per liberare la terra per nuove piantagioni di bestiame e di soia. E il Paraguay sta vivendo una simile strage». Lo confermano i recenti rapporti di una Ong che sta monitorando il fenomeno, “Mighty Earth”: i peggiori in campo sono due colossi come Jbs e Cargill.«La domanda interna e internazionale di carne bovina e di cuoio ha alimentato la rapida espansione dell’industria del bestiame in Amazzonia», spiega “Shorthand”. Dal 1993 al 2013, il bestiame amazzonico si è espanso di quasi il 200% raggiungendo i 60 milioni di capi. «Mentre la deforestazione per il bestiame era stata ridotta sia grazie al settore privato che all’azione del governo, la nuova ondata di deforestazione quest’anno mostra che le grandi aziende internazionali di carne bovina e di cuoio, i loro clienti e finanziatori continuano a creare mercati per i bovini basati sulla deforestazione». La compagnia più coinvolta dalla deforestazione è Jbs: è il più grande confezionatore di carne del Brasile, nonchè la più grande azienda di carne del mondo. «Come altri importanti confezionatori di carne brasiliani, Jbs ha firmato la “moratoria del bestiame” del 2009, impegnandosi a non acquistare carne bovina da bestiame legata alla deforestazione». Ma c’è il trucco: «Le indagini del governo e delle Ong hanno ripetutamente riscontrato gravi violazioni da parte di Jbs, anche attraverso il riciclaggio di bestiame». Questi scandali hanno raggiunto la loro apoteosi con il caso Cold Meat (Carne Fria) nel 2017, in cui le forze dell’ordine brasiliane «hanno prodotto ampie prove che dimostrano che Jbs stava ricavando bestiame da aree protette».Questa e altre indagini hanno scoperto che Jbs ha violato sia le norme del governo sia le proprie politiche, acquistando bestiame riciclato che era stato allevato in aree collegate alla deforestazione e poi trasportato in “ranch puliti” per eludere i requisiti. I due fratelli che controllano la compagnia furono incarcerati per il loro ruolo negli scandali di corruzione in Brasile. Poi ci sono le catene di approvvigionamento della soia, che funzionano in modo diverso rispetto al bestiame. «I grandi coltivatori trasportano abitualmente la loro soia lungo l’autostrada Br-163 fino al porto principale di Cargill a Santarem, dove viene imbarcata e inviata in tutto il mondo per alimentare il bestiame in Europa, Cina e altrove». Cargill, Bunge e altri importanti commercianti hanno partecipato alla “moratoria della soia amazzonica” in Brasile negli ultimi dodici anni, in cui si sono impegnati a cessare l’approvvigionamento da fornitori che si sono impegnati nella deforestazione per la soia. Tuttavia, la “moratoria della soia” conteneva importanti lacune. Per esempio, «i grandi commercianti possono continuare ad acquistare soia dagli agricoltori che praticano la deforestazione su larga scala, purché la deforestazione sia per colture diverse dalla soia».L’ubicazione della deforestazione vicino alla Br-163 suggerisce che gli agricoltori stanno sfruttando questa scappatoia per continuare la deforestazione – aggiunge “Shorthand” – anche quando vendono soia a grandi commercianti come Cargill e Bunge. In secondo luogo, la “moratoria della soia” si applica solo all’Amazzonia brasiliana. E invece, i principali commercianti di soia hanno continuato a guidare la deforestazione anche nel bacino dell’Amazzonia boliviana, nel Cerrado brasiliano e nel Gran Chaco di Argentina e Paraguay. Due rapporti di “Mighty Earth”, precisamente “The Ultimate Mystery Meat” e “Still At It”, hanno mostrato gli estesi legami di Cargill con la deforestazione nel bacino dell’Amazzonia boliviana e il suo ripetuto rifiuto di agire contro i principali fornitori, anche di fronte a prove ripetute. E nonostante tutta l’attenzione che sta ricevendo l’Amazzonia, con le centinaia di milioni di ettari andati in fumo in Brasile, è stata ulteriormente disboscata anche la foresta vergine del Cerrado, famosa per la sua ricca biodiversità. «Mentre l’80% dell’Amazzonia è ancora intatto, gli interessi del bestiame, della soia e dell’agricoltura hanno distrutto più della metà del Cerrado, mettendo questo ecosistema a rischio ancora maggiore».“Mighty Earth” ha scoperto che nel Cerrado, dove è continuata la deforestazione, due erano le compagnie principali responsabili della deforestazione, Cargill e Bunge. «Cargill è il maggiore commerciante di soia proveniente dal Brasile e la più grande azienda alimentare e agricola del mondo». Un rapporto di Mighty Earth diffuso a luglio, “The Worst Company in the World”, ha profilato la vasta deforestazione di Cargill in Sud America e in altre parti del mondo, basandosi su precedenti indagini in Bolivia, nel Cerrado brasiliano, in Paraguay e in Argentina. «Sebbene Bunge abbia un ruolo di primo piano nel Cerrado, in tutto il Sud America – in Bolivia, Paraguay e Argentina – le precedenti analisi di deforestazione di “Mighty Earth” (legate alla soia destinata a diventare mangime per animali) hanno riscontrato che la Cargill era strettamente associata alla deforestazione». La compagnia ha rifiutato di interrompere i rapporti coi fornitori che “Mighty Earth” aveva scoperto essere coinvolti nella deforestazione, e in più «ha resistito agli sforzi per espandere il monitoraggio della deforestazione in Sud America al di fuori dell’Amazzonia brasiliana».C’è tanta Europa, insieme agli Usa, nella devastazione del Sudamerica. Sempre “Shorthand” fornisce una mappa estremamente precisa dei marchi coinvolti nel disastro, come acquirenti dei prodotti ottenuti dalla deforestazione. In primo piano ad esempio c’è l’Olanda con il colosso della grande distribuzione Ahold Delhaize, che possiede Stop & Shop, Giant, Food Lion e Hannaford negli Stati Uniti, e inoltre Albert Heijn, Delhaize, Etos, Albert, Alfa-Beta e altri ancora in Europa. «Pur sostenendo costantemente i propri impegni di sostenibilità, Ahold continua a vendere i suoi prodotti ai clienti da alcune delle peggiori aziende del mondo». Per quanto “grandiose” siano le azioni di Ahold Delhaize, non sono le sole: McDonald’s è probabilmente «il cliente più grande e più importante di Cargill», accusa “Shorthand”. «I ristoranti di McDonald’s sono essenzialmente vetrine di negozi per Cargill». L’azienda brasiliana «non solo fornisce pollo e manzo a McDonald’s, ma prepara e congela hamburger e McNugget, che McDonald’s semplicemente riscalda e serve». Poi c’è l’americana Sysco: con 55 miliardi di entrate annue, è il più grande distributore al mondo di prodotti alimentari a ristoranti, strutture sanitarie, università, hotel e locande. Anche Sysco si rifornisce nel Brasile in fiamme.Nonostante assicuri il contrario («proteggeranno il pianeta promuovendo pratiche agricole sostenibili, riducendo la nostra impronta di carbonio e deviando i rifiuti dalle discariche, al fine di proteggere e preservare l’ambiente per le generazioni future»), i manager di Sysco «hanno onorato Cargill come il fornitore più apprezzato di carne suina e manzo», facendo anche «affari per 525 milioni di dollari con Jbs, nel 2019, attraverso vendite e altre partnership». Da Sysco a Costco, sempre negli Usa: «Sia Jbs che Cargill elencano Costco come uno dei loro principali clienti», continua “Shorthand”. «Popolare tra le famiglie e i proprietari di piccole imprese, è il terzo più grande rivenditore al mondo». Anche Costco cerca di barare: dichiara di «procurarsi i propri prodotti in modo rispettoso per l’ambiente e per le persone». Sul loro web, un catalogo di ottime intenzioni: «Il nostro obiettivo – si legge – è contribuire a fornire un impatto positivo netto per le comunità in paesaggi che producono materie prime, facendo la nostra parte per aiutare a ridurre la perdita di foreste naturali e altri ecosistemi naturali, che includono praterie, torbiere, savane e zone umide autoctone e intatte». Peccato che, secondo “Bloomberg”, Costco abbia trattato affari, quest’anno, per un miliardo e mezzo di dollari proprio con Jbs.Tra gli “eroi” dell’Amazzonia figura anche la remota Australia, con la sua catena di fast food Burger King: ha detto al fornitore Cargill che cesserà di acquistare prodotti da aree deforestate, ma solo a partire dal 2030. Importante cliente anche di Jbs, l’altro “mostro” che sta devastando la foresta amazzonica, Burger King fa parte della catena Rbi (Restaurant Brands International) che comprende anche Tim Horton e Popeye. Tra tante eccellenze etiche, poteva mancare la Svizzera? Un nome, una garanzia: Nestlé. «E’ stata tra le prime aziende a prendere impegni su “zero deforestazione”, ma ha iniziato a monitorare effettivamente le sue catene di approvvigionamento nove anni dopo, nel 2019 – e solo per l’olio di palma, non per la soia o la cellulosa». Se il 77% della sua catena di approvvigionamento è certificato come “privo di deforestazione”, in compenso Nestlé «continua ad acquistare da Cargill per la sua sussidiaria per alimenti per animali domestici, Nestlé Purina Petcare». E i dati di “Bloomberg” mostrano anche Nestlé come uno dei principali clienti di Marfrig, uno dei devastatori dell’Amazzonia. Dalla Svizzera alla Francia, poi, il passo è breve: ed ecco Carrefour, colosso della grande distribuzione. Attenzione: «Carrefour è la maggior parte proprietaria delle più grandi catene di supermercati del Brasile», con carni che vengono direttamente dalla deforestazione.Carrefour ha collegamenti significativi con le catene di fornitura Cargill e Jbs, precisa “Shorthand”. Anche la mega-azienda francese si è impegnata ad eliminare la deforestazione dai suoi prodotti entro il 2020, «ma la politica non si applica ai prodotti di carne bovina trasformati o congelati». Il che significa che «solo circa metà della distribuzione di carni bovine Carrefour in Brasile è coperta dalla sua politica di “deforestazione zero”». Secondo la “Chain Reaction Research”, appena il 35% delle carni bovine del campione Carrefour esaminato «proveniva da macelli situati all’interno dell’Amazzonia legale». Parla francese anche il gruppo Casino, con marchi come Géant Casino, Casino Supermarchés, Hyper Casino, Le Petit Casino, Casino Shop, Monoprix, Naturalia, Franprix, Leader Price, Spar, Vival, Cdiscount, Sherpa e Easydis. Gigante transalpino del supermercato, Casino vede premiata la sua reputazione per la sostenibilità. «Ma in quanto seconda catena di supermercati in Brasile, continua ad acquistare da Cargill, Bunge e dai principali fornitori di bestiame brasiliano». Sempre in Francia è basata Leclerc, catena di negozi con oltre 600 sedi in patria e più di 120 negozi all’estero. La sua politica ecologica è un colabrodo, secondo “Sherpa”, “France Nature Environment” e “Mighty Earth”: «Leclerc ha fallito nelle misure di sostenibilità della soia a tutti i livelli».La società – aggiunge “Shorthand” – rifiuta di aderire alle chiamate del settore per proteggere il Cerrado in via di estinzione. In più, non ha adempiuto agli obblighi legali di tracciatura dei prodotti in origine, non menzionando neppure il fantasma della deforestazione. «L’ultimo rapporto sulla sostenibilità di Leclerc non cita alcun impegno in materia di approvvigionamento di carne o di altre materie prime, tranne l’olio di palma». Chiude la lista del disonore l’americana Walmart, con sede in Arkansas: è la più grande azienda al mondo per fatturato e anche il più grande datore di lavoro privato. Walmart ha anche una presenza importante nel Regno Unito, attraverso la sua controllata Asda. Politica dichiarata: «Come membro del Consumer Goods Forum, abbiamo supportato la risoluzione per raggiungere la “deforestazione zero” nella nostra catena di approvvigionamento entro il 2020». L’azienda acquista carne di manzo, soia e olio di palma. Dice di «incoraggiare i produttori a lavorare prodotti d’origine realizzati senza deforestazione», per proteggere le foreste vergini e tutelare l’ambiente sudamericano. «Tuttavia – precisa “Shorthand” – Walmart ha condotto affari con Jbs per un valore di 1,68 miliardi di dollari nel 2018 e rimane un cliente leader di carni Cargill».L’incendio dell’Amazzonia e l’oscuramento dei cieli da San Paolo in Brasile e a Santa Cruz in Bolivia hanno catturato la coscienza del mondo. «Gran parte della colpa degli incendi è giustamente caduta sul presidente brasiliano Jair Bolsonaro per aver incoraggiato direttamente l’incendio delle foreste e il sequestro delle terre delle popolazioni indigene». Ma l’incentivo alla distruzione proviene da grandi aziende internazionali di carne e soia come Jbs e Cargill, e dai marchi globali come Stop & Shop, Costco, McDonald’s, Walmart, Asda e Sysco, che acquistano da loro e vendono al pubblico. «Sono queste aziende che stanno creando la domanda internazionale che finanzia gli incendi e la deforestazione». Lo scrive “Shorthand”, piattaforma internazionale no-profit di giornalisti impegnati su temi etici, sociali ed ecologici. In pratica, sottolinea “Shorthand” in un post tradotto da “Coscienze in Rete”, siamo noi – indirettamente, al supermercato – ad alimentare la devastazione criminale delle foreste. E la distruzione non è limitata al Brasile: «Appena oltre il confine, nell’Amazzonia boliviana, in poche settimane sono bruciati un milione di ettari, in gran parte per liberare la terra per nuove piantagioni di bestiame e di soia. E il Paraguay sta vivendo una simile strage». Lo confermano i recenti rapporti di una Ong che sta monitorando il fenomeno, “Mighty Earth”: i peggiori in campo sono due colossi come Jbs e Cargill.
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Facebook rischia di chiudere, ha contro i giovani (e Soros)
Ci sono almeno 3 indizi che portano verso un’inaspettata chiusura del più grande social media del mondo. Il primo è quello di cui tutti parlano oggi: un ipermegamultone che si aggiunge alle rogne pregresse di Zuckerberg; ben presto la politica dovrà mettere mano alla faccenda con una manovra antitrust, anche e soprattutto in vista delle elezioni americane del 3 novembre. C’è chi, come business insider, scommette sulla chiusura di Facebook e parla di una operazione in grande stile che il governo post-Trump dovrà attuare. La vicenda di Cambridge Analytica è a tutti nota, e ora si è aggiunta solo l’indiscrezione per la cifra da pagare a seguito di violazione della privacy: cinque miliardi di dollari. La più elevata mai imposta dalla Federal Trade Commission contro un’azienda di tecnologia. Attenzione, non sarebbe certo la prima volta che accade qualcosa del genere ad un’azienda di grandi dimensioni. E penso alla compagnia petrolifera Standard Oil, fondata da Rockefeller nel 1870 e smembrata per decreto nel 1911 dall’antitrust americana.A detta degli espertoni, questo è il più grande rischio che oggi corre Facebook, perché uno smembramento comporterebbe cambiamenti epocali, tali da snaturare l’idea stessa del “faccialibro” per come esso nacque nell’ormai preistorico 2004. Il secondo indizio allieterà senza dubbio i gusti dei complottisti – di gran lunga la categoria umana che preferisco e della quale mi vanto di far parte, nonostante il neologismo sia demenziale e colpisca scorrettamente tutti quelli che propongono dei dubbi. Si tratta di Soros, amici. Eh già, il vecchio volpone dell’economia globalista da qualche tempo attacca Facebook senza remore. «Affermano che distribuiscono solamente informazioni – ha affermato il capitalista ungherese – ma in realtà sono quasi distributori monopolisti, e questo li rende servizi pubblici. Dovrebbero pertanto essere soggetti a regolamentazioni più stringenti mirate a preservare la competizione, l’innovazione e un accesso universale, leale ed aperto». Soros ha poi paragonato Facebook e Google ai casinò, che «progettano deliberatamente la dipendenza ai servizi che forniscono».Ma qual è la ragione di questo attacco? Non lo sappiamo, ma da buon complottista ipotizzo che Facebook abbia dato voce a tutti, minando così le cristalline certezze provenienti dai media tradizionali. Insomma, Soros finanzia i liberal sparsi per il mondo, ma chi contesta i liberal è “fuori controllo” grazie a internet. A mio avviso è evidente che lui odi la Rete. Ad esempio, il vegliardo spende una vagonata di soldi per far salire al potere la Hillary Clinton, eppoi la Rete aiuta la visibilità di Donald Trump. Inaccettabile per un lobbysta che si rispetti! Ma è il terzo indizio quello che mi induce a ritenere Facebook avviata al tramonto o ad un profondo rimescolamenteo delle (sue) carte. Il social, infatti, ha dei picchi di utenza che ben presto saranno ridimensionati dal fatto che i millennials non si iscrivono più a questo tipo di social. In altre parole, la disaffezione dei giovani costringerà Zuckerberg alla chiusura in modo molto più determinante delle decisioni dell’Antitrust.Ve lo ricordate Myspace? E SecondLife? Tutta bella roba caduta in disuso per assenza di grano, altro che antitrust! Com’è noto, infatti, le nuove generazioni preferiscono Instagram (sempre di proprietà di Zuckerberg) dove praticamente non si parla di politica (e Soros qui non sbrocca, guardacaso), o Tinder, la nuova Bibbia per i segaioli impenitenti. Insomma, immagini taroccate e app per rimorchiare potranno continuare, Facebook rischia invece grosso. Se non cambia pelle. Dovesse accadere, comunque, non tutto il male viene per nuocere. Chi è noiosamente e ampollosamente affezionato ai “discorsi lunghi” potrà infatti tornare ai vecchi cari blog (ehehehe), ai forum, oppure alle nuove app come Telegram, società di messaggistica e canali in stile blog informativi che ha sede nel Regno Unito, ma che è stata fondata dall’imprenditore russo Pavel Durov. Con un cognome così direi che il rischio smembramento è quanto mai remoto.(Massimo Bordin, “Facebook verrà chiuso”, dal blog “Micidial” del 29 luglio 2019).Ci sono almeno 3 indizi che portano verso un’inaspettata chiusura del più grande social media del mondo. Il primo è quello di cui tutti parlano oggi: un ipermegamultone che si aggiunge alle rogne pregresse di Zuckerberg; ben presto la politica dovrà mettere mano alla faccenda con una manovra antitrust, anche e soprattutto in vista delle elezioni americane del 3 novembre. C’è chi, come business insider, scommette sulla chiusura di Facebook e parla di una operazione in grande stile che il governo post-Trump dovrà attuare. La vicenda di Cambridge Analytica è a tutti nota, e ora si è aggiunta solo l’indiscrezione per la cifra da pagare a seguito di violazione della privacy: cinque miliardi di dollari. La più elevata mai imposta dalla Federal Trade Commission contro un’azienda di tecnologia. Attenzione, non sarebbe certo la prima volta che accade qualcosa del genere ad un’azienda di grandi dimensioni. E penso alla compagnia petrolifera Standard Oil, fondata da Rockefeller nel 1870 e smembrata per decreto nel 1911 dall’antitrust americana.
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Altro che Bankitalia: comandano i boss del Casinò-Europa
Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.«Possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano», è l’accusa. «Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia», dissero i parlamentari europei. Questo “pericolo per la democrazia”, osserva Baranes, diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto del Ceo. «In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1». Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento Europeo su una direttiva comunitaria riguardante gli “hedge fund” e le “private equity”, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario. Al Parlamento Europeo, continua Baranes, sono attivi gruppi come l’Epfsf (European Parliamentary Financial Services Forum), che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento Europeo e l’industria dei servizi finanziari”.«Questo “dialogo” – scrive Baranes – comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali Jp Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri». E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in sede Ue nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. «Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili». Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.«Analogamente – aggiunge Baranes – il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 2 milioni per Ong, società civile e sindacati. Un rapporto di 60 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, Ong e sindacati». Uno squilibrio «ancora più impressionante» quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti”, ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, Bce o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche: «In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo». Nel “De Larosière Group on financial supervision in the European Union”, figurano ben 62 membri del mondo finanziario, e nessuno da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse. «Sulla Mifid, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5». La musica non cambia nel gruppo di esperti sui derivati: 86 provengono dal mondo finanziario, e nessuno da Ong, consumatori o sindacati.Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione Europea ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati. «Se possibile va ancora peggio alla Bce, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”». La parola stakeholder, precisa Baranes, viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. «Il gruppo presso la Bce prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei». I risultati? Ovvi: «Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci». Sicché, il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi «continua a lavorare indisturbato», mentre – al culmine del paradosso – sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita «a ritrovarsi con il cerino in mano e a dover accettare sacrifici e austerità».Osserva sempre Baranes: «La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati». Altro capitolo cruciale: «La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto». A settembre 2013 il commissario europeo Michel Barnier annunciava tranquillamente in un comunicato stampa: «Dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra». Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, «per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo», a dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers e dallo scoppio della crisi, «la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse».Era il 2014, ma da allora non si è andati oltre le parole: nessuno osa rievocare il Glass-Steagall Act creato da Roosevelt per mettere l’economia al riparo dalla finanza speculativa: quella provvidenziale diga, che separava il credito ordinario dalle banche d’affari, fu abbattuta da Bill Clinton. E non un partito, in Europa, che oggi metta in agenda la questione: si preferisce restare al riparo di piccole polemiche, come quelle che investono la presunta omessa vigilanza di Bankitalia (Ignazio Visco), in realtà – come tutti sanno e fingono di non sapere – messo lì apposta, come i predecessori, per chiudere un occhio sul “grande gioco” deciso lontano da Roma. «Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio», conclude Andrea Baranes, che cita il compianto sociologio Luciano Gallino. «Il paradosso – disse – è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli Stati».Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.
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Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero
Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari. No! Non possiamo essere complici. Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto. E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora primo ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui. Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i machete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.(Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.
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Macron, il gattopardo mannaro spremerà sangue francese
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: Emmanuel Macron è il nuovo gattopardo che si aggira per l’Europa, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”. E’ l’ultimo paladino del riformismo europeo, l’uomo della provvidenza. Giovane, rampante, volto pulito e sbarazzino. Ha il merito di aver arginato l’avanzata del “populismo xenofobo”, affermando “l’europeismo” contro il neosovranismo, mandando al settimo cielo personaggi come Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e lo statista Angelino Alfano, che twitta: «Brinda la Francia e chi crede nell’Europa, nel libero mercato, nella solidarietà». Piace, Macron, perché è il nuovo che avanza sulle ceneri di un sistema ormai al collasso, tra i socialisti francesi ridotti al livello del Pasok greco e la crisi del gollismo, incapace di arrivare al ballottaggio. Macron si definisce “né di destra né di sinistra”, ma incarna veramente il “nuovo che avanza”? A leggere biografia, programma e dichiarazioni, siamo di fronte ad un caso gattopardesco, insiste Russo Spena: dietro quell’idea di rottura con l’establishment, infatti, si nascondono esattamente gli stessi blocchi di potere e di interessi economici finora perfettamente dominanti.Dopo la prima tornata elettorale, Marta Fana e Lorenzo Zamponi spiegavano su “Internazionale” come il successo di Macron si basasse sulla debolezza del socialista Hamon e del gollista Fillon, e soprattutto sull’ampia visibilità garantitagli dai media, che l’hanno presentato come un argine affidabile contro l’ascesa dei “populisti” di destra e di sinistra: a spaventare i moderati, lo strappo anto-Ue promesso da Le Pen e Mélenchon, che ha messo in allarme soprattutto gli interessi immobiliari di fronte allo spettro di un crollo dei prezzi. Ma Macron non sembra affatto rappresentare un’inversione di rotta nell’Europa dell’austerity, continua Russo Spena: «Ha annunciato, tra le varie misure, di voler tagliare 120mila funzionari pubblici, oltre a proporre una nuova riforma del lavoro». Attenzione: la legge Loi Travail, il Jobs Act francese, già motivo di dure proteste giovanili, «è una sua filiazione politica». E ora il nuovo inquilino dell’Eliseo «è pronto addirittura ad irrigidire alcune norme in materia». Così, la sua svolta graverà «in primo luogo sui lavoratori e sui soggetti sociali più deboli», già in fibrillazione nelle piazze.Secondo un articolo del “Sole24ore”, Macron deciderà di intervenire subito liberalizzando ulteriormente il mercato del lavoro: già a luglio chiederà al Parlamento di votare la legge che consentirà al governo di agire rapidamente con decreti di immediata attuazione su almeno due punti chiave, a rischio di scontrarsi con sindacati e mobilitazioni sociali: il trasferimento di maggiori competenze a livello di categoria e impresa, nonché i tetti alle indennità di licenziamento. Come scrive l’economista Emiliano Brancaccio, «Macron incarna l’estremo tentativo del capitalismo francese di aumentare la competitività, accrescere i profitti e ridurre i debiti per riequilibrare i rapporti di forza con la Germania e stabilizzare il patto tra i due paesi sul quale si basa l’Unione Europea. Al di là degli slogan di facciata, cercherà di sfruttare il crollo dei socialisti e lo spostamento a destra dell’asse della maggioranza parlamentare per promuovere le riforme che gli imprenditori francesi invocano e che, a loro avviso, Hollande ha portato avanti con troppa timidezza».Per dirla con Paolo Barnard: «Il razzismo di Le Pen e ogni altra sua orripilante facciata erano noccioline in confronto al regalo che ci avrebbe fatto la sua vittoria, cioè: fine dell’Ue, dell’Eurozona e dell’economicidio di milioni di famiglie». Veder vincere Marine Le Pen sarebbe stato come «pagare il prezzo del bombardamento di Montecassino per la fine della Germania nazista». Ora abbiamo Macron, che «fa rima col peggio di Wolfgang Schaeuble», ma anche col nome Rothschild, in cui il rampante Emmanuel «fu centrale nella bella fetta di torta (10 miliardi di dollari) che la Nestlé si è pappata dal colosso mondiale dei più potenti e corrotti informatori farmaceutici del mondo, cioè la Pfizer». Peter Brabeck-Letmathe, che era il capo della Nestlé quando rifiutò a Barnard un’intervista per “Report”, «fu un patrigno di Macron mentre ammazzavano qualche milioncino di bambini col loro latte finto, venduto in Africa e in Sud America dicendo alle madri che il latte delle loro tette era infetto». E poi il nome Macron «fa rima con ’sti colossi francesi della sanità privata, roba che la rivoltante UniSalute è una scorreggia in confronto, cioè International Sos, che lavora in 1.000 laboratori-rapina in 90 paesi del mondo estorcendo ad ammalati disperati i risparmi per un’ecografia salvavita».E non è tutto: «Macron prende soldi da Meetic», la piattaforma online per “cuori solitari”, che incassa «una media di 150 milioni di dollari all’anno». E ancora: «Come potevano mancare nell’armadio di Macron nomi come Walter Lippmann, Edward Bernays, Samuel Huntington e Sundar Pichai? Ed ecco che uno dei fratellini di Macron è la Atari Corp., uno dei colossi mondiali della distrazione di massa sul divano, inclusi Casinò Social, e gioco d’azzardo, quelli della “terza ondata di apatizzazione dei popoli”, scritta e studiata a tavolino». Non ha dubbo, Barnard: «Macron è fratellino anche di questi, ’sto tizio descritto dai vostri giornali come “un liberale in economia ma di sinistra sulle questioni sociali”». E questo, spacciato come “il nuovo”, sarebbe il Macron-pensiero: nient’altro che l’ultima puntata del filone lib-lab capeggiato da Tony Blair, quella cosiddetta “terza via” entrata irreversibilmente in crisi. Riciclaggio politico: «L’establishment ha risolto così il modo per sopravvivere al crollo dei partiti tradizionali», dice Russo Spena su “Micromega”. Un circolo vizioso: «Le politiche dei Macron producono, come reazione, le politiche delle Le Pen, per arginare le quali poi i Macron ci chiedono il “voto utile”». Serve un’alternativa vera, perché «il cambiamento non passa per i gattopardi: i Macron non sono la soluzione, ma parte del problema».Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: Emmanuel Macron è il nuovo gattopardo che si aggira per l’Europa, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”. E’ l’ultimo paladino del riformismo europeo, l’uomo della provvidenza. Giovane, rampante, volto pulito e sbarazzino. Ha il merito di aver arginato l’avanzata del “populismo xenofobo”, affermando “l’europeismo” contro il neosovranismo, mandando al settimo cielo personaggi come Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e lo statista Angelino Alfano, che twitta: «Brinda la Francia e chi crede nell’Europa, nel libero mercato, nella solidarietà». Piace, Macron, perché è il nuovo che avanza sulle ceneri di un sistema ormai al collasso, tra i socialisti francesi ridotti al livello del Pasok greco e la crisi del gollismo, incapace di arrivare al ballottaggio. Macron si definisce “né di destra né di sinistra”, ma incarna veramente il “nuovo che avanza”? A leggere biografia, programma e dichiarazioni, siamo di fronte ad un caso gattopardesco, insiste Russo Spena: dietro quell’idea di rottura con l’establishment, infatti, si nascondono esattamente gli stessi blocchi di potere e di interessi economici finora perfettamente dominanti.
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Barnard: leggete a chi vanno i miliardi della Bce. E vomitate
Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.La Banca Centrale Europea crea tutti gli euro che esistono. E’ una specie di governo di questa Ue. Dopo appena 13 anni la moneta unica aveva letteralmente fatto a pezzi ogni singolo paese dell’Eurozona, Germania inclusa (diedi i dati in Tv 3.000 volte). Tutto il mondo finanziario extra europeo sapeva (e sa) che l’euro è fallito. A quel punto l’unico modo perché l’unione monetaria non crollasse in una catastrofe economica da libri di storia era se il creatore dell’euro, la Bce, si metteva a comprare una gran massa dei beni finanziari emessi dagli Stati-euro che ormai erano visti come semi-spazzatura dal mondo. Questo per artificialmente tenerne i prezzi e gli interessi a un livello di decenza. Draghi con la Bce lo fece: l’operazione si chiama Quantitative Easing (Qe). Ma non bastò, anzi, le cose andarono anche peggio per motivi che già scrissi 3 milioni di volte. Il problema era che anche le aziende private nell’Eurozona andavano da vomitare.Dovete sapere che anche le aziende emettono beni finanziari, cioè titoli. E allora Draghi alla disperazione si presentò l’anno scorso a giugno e annunciò un altro Qe, però questa volta per le aziende, col nome di Cspp. E si mise a comprare miliardi in titoli di aziende per puntellarle anche se semidecomposte. Dovete capire che un’azienda ha in pratica due modi di finanziarsi con prestiti: chiedere in banca o emettere titoli. E Draghi annuncia che ora la Bce gli compra i titoli. Ok. Uno dice: be’, se serve a salvare il mobilificio di Ancona con 80 operai, perché no? La risposta è tragica e ci apre sulle porte dell’infamia della Bce. Le piccole aziende non possono emettere titoli, sono condannate alla gogna del prestito da banche, fine. Infatti la Bce di Draghi precisò che avrebbe acquistato titoli di aziende “corporate”. Che significa? Che avrebbe comprato i titoli dei cani grossi, come Telecom, o Vw. Ops! Ma per noi italiani già questa è una sciagura, perché da noi le piccole medie aziende sono il 98% delle imprese e creano il 78% della ricchezza dell’Italia. Sfiga. Crepate. Titoli Benetton? Certo che li compriamo, dice Draghi.E allora uno apre il pdf che mi arrivò a fine ottobre per mail, e scopre, transazioni bancarie alla mano, a chi stanno andando i 125 miliardi che Draghi ha programmato di sborsare per ‘puntellare’ le aziende. E uno vomita. Petrolieri, mega imprese di servizi, industrie di armi, auto di stralusso, nucleare, colossi delle privatizzazioni, giganti dal fashion o del farmaco, persino casinò e produttori di champagne. Centoventicinque miliardi di regali a ’sti tizi. Operaio, commessa, crepate in Liguria, Marche, Puglia… L’ipotermico di Teramo? Ma scherziamo? Mille eurooooo? Ma cosa pretende? Palate di miliardi di euro invece a Shell, Eni, Repsol, Total, una trentina di aziende spagnole di servizi del gas, produttori di centrali nucleari come Teollisuuden, come Siemens, e Urenco. Poi gli Agnelli con la finanziaria Fiat Exor (Ferrari), Renault, Mercedes, Vw. Poi criminali di guerra come Thales, che hanno venduto armi in Africa sulla puzza di milioni di cadaveri. Poi i nemici giurati dell’acqua pubblica, cioè i colossi francesi Vivendi e Suèz. E ancora i super-colossi: Solvay, Nestlé, Coca Cola, Unilever, Novartis, Michelin, Ryanair, Luis Vuitton, Danone, assicurazioni Allianz, Deutsche Telekom, Bayer, Telefonica, Moët & Chandon, e il mostro delle scommesse Novomatic…Soldiiiiiiiiiiiiii yes! La Bce fa proprio l’interesse del pubblico, con qualcosa come 17.900 piccole medie aziende europee che sono il cuore dell’impiego in Ue totalmente fuori dal festino. Ecco cosa dovete rispondere a chi vi rampogna “Ci vuole più Europa”. Basterebbe questo articolo per tagliargli la gola, a ’sti assassini. In Italia ’sta porcata vede fiumi di soldi versati in prima fila ai super big dell’energia, ma nessuno becca palate di liquidi come l’Eni; seguono Snam, Enel, Terna, Hera, e altri minori. Poi: Atlantia (Mediobanca, Goldman Sachs, BlackRock e Cassa Risp. Torino), le Generali, Telecom Italia, Luxottica, e i soliti Agnelli con Exor. E tu che cazzo vuoi? Tu chi sei, cittadino? Chi sei, sfigato piccolo imprenditore? Chi siamo noi, eh?, da quando Jaques Attali, uno dei padri della Bce, ci definì «la plebaglia europea»? Eccovi una notizia. Anche se, mi si perdoni, non sono immani tragedie come i 104 indagati del Pd di Travaglio-Gomez, la Raggi e la Cgil che fa i ruttini sul Job Act. Good luck Italians, good luck piccoli imprenditori e dipendenti che mai avete capito un cazzo.(Paolo Barnard, “A chi vanno i miliardi della Bce – zitta centrItalia, crepa”, dal blog di Barnard del 30 gennaio 2017).Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.
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Casinò online: in Italia già bruciati 250 milioni nel 2016
In un mondo dove la moneta ormai da tempo è diventata prevalentemente virtuale e immateriale, di fatto c’è un’economia parallela, una specie di bit coin non dichiarato: quello dei giochi ed in particolare dei casinò on line. Ne sono spuntati a decine. La dimensione dell’uomo o della cinquantenne che vanno nel bar sotto casa per ipnotizzarsi ai colori di slot machine ed al (poco) tintinnare di monete che cadono sta lasciando il posto alla versione dell’uomo in canottiera e mutande che davanti ad un pc sfida una roulette. Spesso sono minorenni a gettarsi nella ricerca di soldi facili, magari dopo aver letto qualche trucchetto che poi si rivela farlocco. Per non parlare poi del boom delle scommesse sportive, con la spietata concorrenza tra le varie società a colpi di quote. Il business continua a dilagare e non a caso in Italia le società di gambling continuano ad investire, e molto. Secondo i dati diffusi da Agimeg a luglio, la spesa dei giocatori è stata di 34,5 milioni di euro, con un +43,8% rispetto all’ano scorso. Fin qui dall’inizio del 2016 sono stati spesi 243,5 milioni di euro.L’italiano, invitato da promozioni, bonus di benvenuto, grafiche sempre più ammalianti spera di fare il colpo del secolo. Il sogno italiano di vincere tanti soldi e di mollare tutto è duro a morire, per questo nel nostro paese si registra uno dei volumi d’affari più alti al mondo nel campo dei giochi, anche online. E questo fa gola alle grandi società estere del settore che non a caso hanno investito tantissimi soldi. Vuoi mettere poi la comodità di fare tutto in casa tua, senza farsi vedere da qualcuno? E la giocata scorre veloce. Inevitabilmente. Con tutto quello comporta. Più è virtuale il denaro più è facile spenderlo, staccato dalla sua materialità e della sua ormai non più esistente consistenza.Per non parlare poi dei casinò online mascherati, come sembrano essere i cosiddetti siti di trading. Qui si fa leva spesso sul cambiare vita, sul trovare il lavoro dei tuoi sogni senza padroni, dove si guadagnano cifre impensabili. Video sponsorizzati su Facebook appaiono all’improvviso con giovani ragazzi testimonial di questo nuovo corso. In realtà sembrano essere più che altro robe alla multilevel spesso legate alle cosiddette opzioni binarie, in cui non si nota molto la differenza rispetto ad un casinò online dove punti sul rosso o sul nero. Almeno lì lo dicono subito e sei consapevole di quello che può attenderti.(“Casinò on line, regno della moneta parallela”, dal sito della web-radio “Border Nights”, agosto 2016).In un mondo dove la moneta ormai da tempo è diventata prevalentemente virtuale e immateriale, di fatto c’è un’economia parallela, una specie di bit coin non dichiarato: quello dei giochi ed in particolare dei casinò on line. Ne sono spuntati a decine. La dimensione dell’uomo o della cinquantenne che vanno nel bar sotto casa per ipnotizzarsi ai colori di slot machine ed al (poco) tintinnare di monete che cadono sta lasciando il posto alla versione dell’uomo in canottiera e mutande che davanti ad un pc sfida una roulette. Spesso sono minorenni a gettarsi nella ricerca di soldi facili, magari dopo aver letto qualche trucchetto che poi si rivela farlocco. Per non parlare poi del boom delle scommesse sportive, con la spietata concorrenza tra le varie società a colpi di quote. Il business continua a dilagare e non a caso in Italia le società di gambling continuano ad investire, e molto. Secondo i dati diffusi da Agimeg a luglio, la spesa dei giocatori è stata di 34,5 milioni di euro, con un +43,8% rispetto all’ano scorso. Fin qui dall’inizio del 2016 sono stati spesi 243,5 milioni di euro.
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Usa, elezioni e soldi: chi si compra il futuro presidente
Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?In un’analisi pubblicata da “The AntiMedia” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, Anderson denuncia la pratica dilagante del ricorso ai “Super-Pac”, i nuovissimi “comitati di azione politica” costituiti da singoli, aziende e cartelli, con capacità di spesa praticamente illimitata e assolutamente non-trasparente: il candidato non è tenuto a tracciare pubblicamente il denaro ricevuto. «Inutile dire che si tratta di un’elezione in cui la maggior parte dei candidati sono alla ricerca di sostegno da parte dei donatori ricchi invece che dai cittadini che sarebbero chiamati a rappresentare», scrive Anderson. «Ci si sorprenderà nello scoprire chi è stato a donare soldi per il vostro candidato, e come tale contributo possa influenzare le posizioni politiche future». Guida la classifica Jeb Bush, che i sondaggi danno in calo perché “troppo moderato” per gli elettori repubblicani. L’ultimo rampollo della famigerata dinastia presidenziale super-guerrafondaia ha incassato 161 milioni di dollari dalla Golman Sachs, 65 da Neuberger Berman Llc, quasi 44 da Bank of America, 41,5 da Citigroup e quasi 40 da Tenet Healthcare.Secondo i reporter investigativi della Florida, per sostenere Jeb Bush si stanno attivando «signori texani del petrolio, banchieri d’investimento di New York, titolari di aziende sanitarie di Miami e perfino tre ex ambasciatori – due dei quali hanno servito sotto il fratello, l’ex presidente George W. Bush». Totale, 25 contributi da 1 milione di dollari ciascuno. Tre milioni invece sono arrivati da Mike Fernandez, miliardario cubano-americano fondatore di Coral Gables Mbf Healthcare Partners. Poi c’è Hushang Ansary, ambasciatore iraniano negli Stati Uniti dal 1967 al 1969, quindi Richard Kinder, boss della società di oleodotti e gasdotti Kinder Morgan. E Alfred Hoffman, ambasciatore statunitense in Portogallo dal 2005 al 2007, fondatore in Florida della società immobiliare Wci Community. Quindi NextEra Energy, società madre della Florida Power & Light, che fornisce il servizio elettrico a quasi la metà dello Stato. E Julian Robertson Jr., di New York, manager di fondi d’investimento (patrimonio personale di 3,4 miliardi, «ha fatto la sua fortuna investendo in campi da golf e vigneti in Nuova Zelanda»).A parte il corposo sostegno a Jeb, Wall Street pare schierata massicciamente dalla parte di Hillary, finora sempre sostenuta da Citigroup, Goldman Sachs, Dla Piper, Jp Morgan e Morgan Stanley. «Molti dicono che tali alleanze irrevocabilmente la incatenino a suddette istituzioni, rendendola incapace di regnare sopra la corruzione finanziaria di Wall Street», scrive Anderson. Tra gli attuali finanziatori figurano anche Morgan & Morgan, Sullivan & Cromwell, Akin, Gump, Yale University, Latham & Watkins. «E’ anche importante sottolineare che lo studio legale lobbista Akin, Gump, Strauss, Hauer & Feld, che impiega molti dipendenti di Hillary, ha preso le donazioni da due dei più grandi imprenditori delle carceri private, Corrections Corporation of America e Geo Group, con tasse incluse, per un totale di quasi 300.000 dollari». Si chiama “Priority Usa Action” il nuovissimo “Super-Pac” creato per sostenere la Clinton: 25 milioni di dollari in soli tre mesi. I più importanti super-donatori Pac sono George Soros e Steven Spielberg, ma la lista comprende 31 singoli donatori che hanno contribuito più di 200.000 dollari ciascuno. I progressisti contestano alla Clinton il ricorso ai miliardari, ma i sostenitori replicano che non c’è altra strada. Di recente, Hillary ha fatto notizia «abbracciando una tattica per rivelare pubblicamente – cosa che la nuova legge non richiede – i grandi donatori aziendali».Il terzo incomodo, Donald Trump, fa gara a sé: ha ribadito che sarà l’unico finanziatore della sua campagna elettorale e non accetterà donazioni. Secondo “Forbes”, il suo patrimonio ammonta a 4,5 miliardi. Trump assicura che si priverà di 100 milioni per auto-finanziarsi la campagna. Dovrà vedersela innanzitutto col super-finanziato Jeb Bush e gli altri due grandi sfidanti delle primarie, Marco Rubio e Ted Cruz, i cui cognomi ammiccano direttamente all’elettorato “latino”. Sostenuto dai “cubani”, Rubio ha finora raccolto quasi 32 milioni di dollari. Deve ringraziare Goldman Sachs, Steward Health Care, Titan Farms, Florida Cristalli e Oracle. Tra i supporter anche il miliardario Norman Braman e Laura Perlmutter, moglie di Isacco Perlmutter, Ceo di Marvel Entertainment. «La campagna gestita da Rubio è anche dotata di una notevole quantità di “denaro oscuro”», racconta Anderson. «La fonte è una norma su fondi senza scopo di lucro denominata Soluzioni Progettuali Conservatrici, che ha raccolto 15,8 milioni di dollari. Il no-profit, che naturalmente non è tenuto a rivelare i suoi donatori, ha lanciato una massiccia campagna pubblicitaria per attaccare l’accordo coll’Iran del presidente Obama».Altro outsider temibile, anche Ted Cruz ha contestato a Obama l’accordo con l’Iran. In più, si batte per tagliare i fondi a “Planned Parenthood”, i pro-abortisti ufficiali. Tra i suoi sponsor figurano la banca nazionale Woodforest, Morgan Lewis Llp, poi Gibson, Dunn & Crutcher, Pachulski e Stang, la Jennmar Corporation. «La campagna di Ted Cruz ha in realtà quattro “Super-Pac”, tutti finanziati da Robert Mercer, un magnate di Long Island (fondi d’investimento), negazionista del cambiamento climatico», spiega Anderson. «Insieme, hanno raccolto 31 milioni nelle prime quattro settimane della sua campagna». Hanno contribuito la rete politica dei fratelli Koch nonché i miliardari Farris e Dan Wilks, che devono la loro ricchezza al boom del fracking in Texas. Si rivolge invece agli elettori afroamericani il neurochirurgo Ben Carson, l’uomo nuovo dei repubblicani: «Ha sorpreso tutti suggerendo che se George W. Bush avesse iniziato un abbandono del petrolio sulla scia dell’11 Settembre, prendendo l’iniziativa diplomatica piuttosto che quella degli attacchi militari, la nazione poteva essersi evitata una guerra incredibilmente costosa contro il terrore».Con i suoi numeri da sondaggio in aumento, scrive Anderson, molti esperti si chiedono ora se Carson possa essere sfruttato come vicepresidente (di Jeb Bush, ovviamente). Carson è sostenuto da Coca-Cola, West Coast Venture Capital, Trailiner Corp, Ankom Tecnologia, Jea Senior Living. Il “dark money” proviene da “OneVote”, un “Super-Pac” guidato dallo stratega repubblicano Andy Yates, e da un altro cartello, “Run Ben Run”. Recentemente, Carson «ha raddoppiato la retorica anti-musulmana, che sembra aver portato le sue cifre raccolte ancora più in alto, innalzandole a 20 milioni in questo trimestre». Zero trasparenza sui fondi, ma non mancano informazioni indicative: pare che l’84% dei finanziamenti provenga da una folla di micro-donatori, assegni sotto i 500 dollari. Molto differenziato – ed estramamente “etico”, se paragonato agli altri – è il finanziamento di Bernie Sanders, l’unico democratico finora sceso in campo contro la Clinton. Socialista, capace di infiammare i progressisti, è finanziato quasi solo da sindacati, lavoratori, associazioni di categoria. Gli scettici temono che, come Obama, non avrebbe i muscoli necessari a opporsi al vero potere, Wall Street e il complesso militare-industriale.Oltre al libertario indipendente Rand Paul, con appena 3 milioni di dollari in tasca (e quindi ritenuto in procinto di abbandonare la gara), nelle retrovie repubblicane si muovo candidati minori, ancora in corsa, come Chris Christie, data all’1% nei sondaggi eppure forte di un budget di 11 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori figura la Winecup-Gamble, società del Nevada di proprietà dell’ex Ceo di Reebok, Paul Fireman, che ha dato al gruppo un milione di dollari. «Fireman, che vive vicino Boston, prevede un fantasmagorico profitto di 4,6 miliardi dai casinò a Jersey City se gli elettori dello Stato approveranno un emendamento costituzionale per permettere il gioco d’azzardo anche fuori Atlantic City». Altri supporter di Chris Christie sono Stephen Wynn, magnate dei casinò di Las Vegas, Steve Cohen (maganer di hedge funds), l’imperatrice del wrestlig Linda McMahon e la numero uno di Hewlett-Packard, Meg Whitman. Stesso budget (11 milioni) per John Kasich, governatore dell’Ohio, mentre è più povero il portafoglio di Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas (3 milioni), così come quello di Carly Fiorina (1,6 milioni); presidente di Hp ed esponente dell’ultra-destra, la Fiorina è sostenuta dall’ex finanziere d’assalto Tom Perkins nonché da vari campioni della Silicon Valley, come Paul Otellini (già Intel) e Jerry Perenchio (ex Ceo di Univision).«Come potete vedere – conclude Jake Anderson – le elezioni presidenziali 2016 sono, per la maggior parte, una guerra tra donatori aziendali a tutto campo». Secondo l’analista, è importante ricordare che molti di questi “totali” sono già obsoleti, giacchè i team dei candidati possono strategicamente nascondere le quantità donate, grazie alle nuove disposizioni di legge per proteggere la raccolta fondi da qualsiasi legittima curiosità. «Insomma, noi non conosciamo la reale portata del “denaro oscuro”», derivante dal cosiddetto “non profit” e da associazioni imprenditoriali. «Quello che sappiamo è che questa sarà l’elezione più costosa della storia. I fratelli Koch da soli hanno un budget di 889 milioni di dollari. Una volta aggiunto alla spesa prevista dai democratici e dai repubblicani, stiamo parlando di un ticket totale di circa 5 miliardi di dollari».Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?
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Banche, truffa e ipocrisia. E i morti della strage per la crisi?
Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili catastrofici incidenti stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche. L’ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica e non è un caso.Si vuole far passare il massacro di persone che non hanno retto al disastro economico e alla precarizzazione delle loro vite e di quelle dei loro cari come una serie di casi individuali. Invece la strage per suicidio economico è un evento collettivo, è il prodotto di una politica frutto di precise scelte e responsabilità, che ne dovrebbero sopportare tutto il peso criminale. In secondo luogo è ipocrita far credere che il povero pensionato sia stato travolto da una scheggia impazzita del sistema. No, è tutto il sistema che è impazzito come la città folle di cui abbiamo scritto all’inizio. Pochi giorni fa il ministro Poletti ha spiegato che sarebbe ora di farla finita con gli orari di lavoro e che sarebbe giusto retribuire i dipendenti a prestazione. Il suo ragionamento, applicato a chi lavora per un istituto di credito, vorrebbe dire che un impiegato per mangiare dovrebbe vendere più obbligazioni insicure che può. E in realtà il sistema sta proprio andando in quella direzione.In questi anni i dipendenti degli istituti di credito son stati sottoposti alla cura della competitività estrema. Molti son stati licenziati e sostituiti con giovani precari e sottopagati. Il Jobs Act ha oliato tutto il nuovo meccanismo. Nelle retribuzione si riduce sempre più la paga fissa, quella che con 16 mensilità faceva del bancario il dipendente più invidiato, mentre si estende quella a cottimo. Cioè prendi i soldi se la tua banca fa tanti contratti speculativi e tu contribuisci con la tua opera al suo successo. Consiglio di leggere cosa scrive un lavoratore bancario, anonimo perché a dire la verità si rischia il posto, sul sito di “clashcityworkers”. I dipendenti delle banche sono soldati della guerra per il profitto e guai a loro se perdono un affare, se un risparmiatore viene preso dai dubbi e rinuncia ad investire i suoi soldi. E anche sui risparmiatori la pressione non è certo piccola.Avete visto le ultime pubblicità delle banche? Su “Radio24” addirittura sono i soldi che parlano e protestano con il loro proprietario perché li tiene congelati in un cassetto, versione neoliberale della parabola dei talenti. Cosa volete che faccia, il pensionato, quando un sorridente impiegato gli sottopone un contratto di 50 pagine in più copie scritte in piccolo piccolo. Si pensa che dica come nei film americani: fermi tutti, voglio il mio avvocato? No, il sistema funziona sulla sottomissione di dipendenti e risparmiatori. E il sistema bancario impone ai dipendenti di vendere prodotti a rischio ai risparmiatori e ai risparmiatori di acquistarli. Le banche sono diventate parte del casinò globale della finanza speculativa, son già passati oltre vent’anni da quando il presidente Clinton cancellò la legge Glass Steagal che separava le banche d’affari dai normali istituti di credito. Oggi i risparmi dei cittadini servono alle banche per partecipare alla speculazione finanziaria globale e quindi i risparmiatori son sempre più destinati a finire come il parco buoi della Borsa.Se va bene a tutti, forse va bene anche a loro, se va male, va male solo a loro. Il sistema funziona così. In Europa 4000 miliardi di euro di danaro pubblico son stati spesi per salvare le banche, che hanno ricominciato a speculare su derivati e porcherie varie come e più di prima. Ora un legge bancaria europea, testata come altre iniquità con i memorandum imposti alla Grecia, impone che i salvataggi delle banche avvengano anche con i soldi dei risparmiatori che di quelle banche si sono fidati. Gli unici che non debbono mai pagare nulla sono i banchieri, ai quali anzi deve essere garantita la possibilità di tornare agli affari come e più di prima. Così i poveri risparmiatori, come i primi cassaintegrati di Pomigliano, finiscono in una società programmaticamente definita “bad company”. Cioè un cattiva compagnia senza futuro dove finiscono i poveri ed i perdenti. Mentre i vincenti, cioè i banchieri e i loro protetti e protettori, van tutti nella nuova società per ricominciare ad attrarre risparmio. Con gli stessi scopi di prima.Immaginatevi se sui contratti di investimento fosse stampato in caratteri giganti: Nuoce gravemente alla salute dei tuoi soldi. Immaginatevi se i dipendenti delle banche non ricevessero più bonus o premi di risultato, ma solo il vecchio salario fisso e soprattutto immaginativi se non rischiassero più il posto per insufficiente vendita di contratti. Immaginatevi poi il controllo o addirittura la proprietà pubblici sul sistema bancario e la separazione degli istituti che giocano al casinò finanziario da quelli ove si mettono i risparmi di una vita e si ricevono i prestiti per la casa. Immaginate insomma un sistema con limiti, controlli divieti veri. Non sentireste subito urlare che si attenta alla libertà dei mercati, che si limita la corsa alla prosperità e si colpisce l’Europa, che si vuole tornare allo statalismo o peggio ancora al socialismo? Così, dopo il pianto per l’ultima, il sistema riprende a macinare vittime come e più di prima, al massimo concedendosi le riflessioni sofferte di qualche banchiere temporaneamente riluttante. Ps: non ho voluto parlare delle famiglie Boschi e Renzi, non perché non pensi grave il loro conflitto d’interessi, ma perché considero anche questo un prodotto (scadente) del sistema impazzito.(Giorgio Cremaschi, “Decreto salvabanche e suicidi economici, quanta ipocrisia!”, da “Micromega” del 14 dicembre 2015).Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili catastrofici incidenti stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche. L’ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica e non è un caso.
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Escobar: a crollare non è la Cina, ma il delirio neoliberista
Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».La secca correzione a Shanghai/Shenzhen è parte della fine di un ciclo, chiarisce Escobar: diciamo pure addio alla Cina che faceva affidamento su tassi di investimento pari al 45% del Pil, e diciamo addio anche alla insaziabile richiesta cinese di beni. Il problema dell’aggiustamento del modello economico cinese, osserva il giornalista, è direttamente connesso all’ininterrotto stato comatoso del disordine neoliberale, che si protrae fin dal 2007/2008. «Non serve essere Paul Krugman per sapere che la nuova normalità è un mercato globale anemico: una crisi profonda in tutti i mercati emergenti, la stagnazione con recessione dell’Europa e la “fabbrica del mondo” cinese che non riesce a vendere quanto faceva prima. Nel frattempo, l’ipervalutato dollaro Usa sta uccidendo le esportazioni statunitensi, scese del 3% nel solo primo semestre. Anche le importazioni sono calate del 2.2%, il che dimostra la riduzione del potere d’acquisto della classe media, dovuta alla corrosione strutturale dell’economia statunitense».Ovunque ci si volti, continua Escobar, tutto lo scenario strutturale grida alla crisi del disordine neoliberale: «Quando il motore turbo-capitalista cinese incontra problemi, si dimostra palesemente come il casinò della finanza mondiale non abbia alcun tipo di supporto da nessun altra parte». Infatti, più di 5 trilioni di dollari di denaro virtuale sono stati bruciati da quando Pechino ha (moderatamente) svalutato lo yuan l’11 di agosto – innescando la vendita di massa. «Ora la Fed potrebbe posticipare alla fine del 2015 l’innalzamento dei tassi d’interesse, per la prima volta in quasi 10 anni. Nessuno si azzarda a predire uno scenario di rosea crescita, considerando la forza del dollaro, lo yuan moderatamente svalutato e una continua discesa dei prezzi del greggio». Eppure, «contrariamente a quanto sostengono le previsioni/speranze dell’Occidente, la Cina non sta implodendo». Lo dimistrano le ultime analisi diffuse da Credit Suisse: «La Cina continua ad avere un surplus molto ‘in salute’, le sue riserve di capitali sono ancora parzialmente bloccate e le sue maggiori istituzioni finanziarie sono in larga parte di proprietà dello Stato».Questi fattori, aggiunge la banca svizzera, darebbero alle autorità monetarie di Pechino lo spazio di azione per creare liquidità nel sistema, in caso ce ne fosse bisogno. Ciò che accade è che «la crescita strutturale della Cina continuerà a rallentare nei prossimi anni». Non ci sarà un «innesco del crollo del credito», e quindi «il sistema finanziario e il regime di cambio potrebbero essere mantenuti relativamente stabili». Tuttavia, sperare che gli introiti e i guadagni delle imprese cinesi ritornino ai livelli di alcuni anni fa «non è realistico». Ma, essenzialmente, «la paura di un ripetersi del crollo dei mercati asiatici del 1997 o della crisi mondiale del 2008 non è giustificata». In conclusione, Credit Suisse invita a mantenere la calma: «Gli investitori dovrebbero concentrarsi maggiormente sulle azioni dei mercati cinesi e di Hong Kong che hanno forti micro-fondamentali e sono meno dipendenti dalla crescita economica cinese, ma che sono state affossate dalla recente debolezza dei mercati».Quindi, dal punto di vista di Pechino, tutto è abbastanza sotto controllo. «Ancora una volta: in termini globali, quest’ultima bolla del casinò della finanza non è nemmeno lontanamente paragonabile alla crisi finanziaria asiatica del 1997/1998. Piuttosto, continuano a persistere i segnali di una ininterrotta e ricorrente debolezza dei mercati considerata la nuova normalità, da affiancare al rifiuto categorico da parte di Wall Street di dare una forte regolamentazione alla finanza», scrive Escobar. La palla ora è nel campo della Fed: cosa fare riguardo lo tsunami delle valute straniere che fanno salire il dollaro, rendendo non competitiva l’industria statunitense? L’era delle banche centrali che stampano valuta virtuale a basso costo, per conferire “volatilità del mercato”, potrebbe non essere finita. «Le banche centrali adorano mandare al rialzo i prezzi dei mercati azionari per il beneficio dello 0.0001%, per cui aspettiamoci altre delusioni in futuro, con la certezza che tutto ciò che è solido evaporerà, insieme al sogno neoliberale».Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».
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Renzi consegna la Cdp ai registi della svendita dell’Italia
Il lato oscuro del “rottamatore”: Cassa Depositi e Prestiti in mano a Goldman Sachs. Con un atto d’imperio il premier ha imposto le dimissioni a Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sostituendolo con Claudio Costamagna. L’ex-rottamatore ha deciso di entrare nel valzer delle nomine pubbliche minacciando di commissariare il Consiglio d’Amministrazione di Cdp e ottenendo, dopo lunghe trattative, la nomina del suo candidato. Claudio Costamagna ha un lungo passato in Goldman Sachs, una delle banche d’investimento e di consulenza finanziaria più grandi del mondo, che ha visto fra i suoi consulenti Mario Draghi, Romano Prodi e Mario Monti. Si aggiunga che Costamagna siede tuttora in diversi consigli di amministrazione di società quali Luxottica ed è presidente di Salini-Impregilo. Non manca un legame molto solido con l’Università Bocconi, che Costamagna ha il compito di “indirizzare verso l’internazionalizzazione” e dalla quale è stato eletto nel 2004 “uomo bocconiano dell’anno”.Perché nominare presidente di una società a controllo pubblico un uomo cresciuto negli ambienti della finanza e della grande industria privata? La risposta può trovarsi nel curriculum di Costamagna, che nel giugno 1992 ha partecipato alle famose riunioni segrete sul panfilo Britannia al largo di Civitavecchia, nelle quali banchieri anglo-americani e uomini pubblici e privati italiani decisero la linea di privatizzazioni delle aziende strategiche nazionali portata poi avanti col contributo decisivo di Romano Prodi. Claudio Costamagna è l’ultimo cavallo di Troia dell’economia italiana. Il boccone prelibato consiste nelle residue aziende strategiche a controllo pubblico, come Eni e le sue controllate, Enel e Finmeccanica, per ricordare solo le principali. Al di là delle dichiarazioni di circostanza, a confessare i reali propositi di questo commissariamento è lo stesso presidente del Consiglio, quando afferma che «l’Italia si trova oggi a un passaggio decisivo per la ripresa. Le riforme strutturali, l’attrazione degli investimenti, e una politica di bilancio basata sul taglio delle tasse sul lavoro stanno riportando il Paese alla crescita. In questo contesto il rafforzamento del ruolo di Cdp risulta ancora più cruciale».È la solita retorica governativa: l’Italia non crescerà sostenendo i redditi e creando lavoro, ma aprendosi allegramente agli investimenti esteri che, tradotto, significa cedere le eccellenze italiane e i settori strategici al profitto estero. D’altra parte basta guardare la parabola discendente della stessa Cassa Depositi e Prestiti. Nel 2003 è stata trasformata da ente di diritto pubblico in società per azioni, negli anni successivi il 18,4% delle sue azioni è passato nelle mani di diverse fondazioni bancarie che già oggi ne condizionano la politica, e negli ultimi anni, attraverso il Fondo Strategico Italiano (Fsi), ha stretto rapporti con fondi sovrani esteri che hanno cominciato a scalare le nostre società controllate dallo Stato. Al culmine della lunghissima crisi provocata dal casinò finanziario, il nostro premier rincara la dose e affida 250 miliardi di risparmi postali dei cittadini italiani all’ennesimo uomo del destino che svenderà i nostri gioielli nazionali per un piatto di lenticchie. “Ahi serva Italia, di traditori ostello”.(M5S Parlamento, “Cdp in mano a Goldman Sachs”, dal blog di Beppe Grillo del 22 giugno 2015).Il lato oscuro del “rottamatore”: Cassa Depositi e Prestiti in mano a Goldman Sachs. Con un atto d’imperio il premier ha imposto le dimissioni a Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sostituendolo con Claudio Costamagna. L’ex-rottamatore ha deciso di entrare nel valzer delle nomine pubbliche minacciando di commissariare il Consiglio d’Amministrazione di Cdp e ottenendo, dopo lunghe trattative, la nomina del suo candidato. Claudio Costamagna ha un lungo passato in Goldman Sachs, una delle banche d’investimento e di consulenza finanziaria più grandi del mondo, che ha visto fra i suoi consulenti Mario Draghi, Romano Prodi e Mario Monti. Si aggiunga che Costamagna siede tuttora in diversi consigli di amministrazione di società quali Luxottica ed è presidente di Salini-Impregilo. Non manca un legame molto solido con l’Università Bocconi, che Costamagna ha il compito di “indirizzare verso l’internazionalizzazione” e dalla quale è stato eletto nel 2004 “uomo bocconiano dell’anno”.
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Craig Roberts: i Clinton? In galera, anziché alla Casa Bianca
Glenn Greenwald ha rivelato che Hillary Clinton è il candidato presidenziale dei bankster e dei guerrafondai. Pam e Russ Martens registrano che Elizabeth Warren è la sua concorrente populista. Dubito però che un politico che rappresenti il popolo possa raccogliere abbastanza fondi per poter competere in una campagna presidenziale. Se comunque la Warren dovesse diventare una minaccia, tutto l’establishment si muoverebbe per costruirle intorno una cornice nella quale la potrebbero dipingere in qualsiasi modo pur di farla fuori. Hillary Clinton come presidente significherebbe guerra alla Russia. Con neocon-nazisti come Robert Kagan e Max Boot a gestire la politica militare e con una Hillary che fa confronti tra il presidente della Russia Putin e Adolf Hitler, la guerra dovrebbe essere una certezza. E, come hanno scritto Michel Chossudovsky e Noam Chomsky, la guerra, stavolta, sarebbe nucleare. Se Hillary fosse eletta presidente, i gangster finanziari e tutti quei criminali che traggono vantaggio dalle guerre riuscirebbero a completare il loro impossessamento del paese. E questo sarebbe per sempre, o almeno fino all’arrivo dell’Armageddon, la resa dei conti finale.Per comprendere a che cosa si andrebbe incontro con Hillary, proviamo a ripensare alla presidenza Clinton. Mise in moto delle trasformazioni che in qualche modo non vengono riconosciute. Clinton distrusse il partito democratico con gli accordi sul “libero commercio”, che regolò il sistema finanziario e inaugurò la politica di Washington – che ancora continua – del “cambio di regime”, con gli attacchi militari illegali su Jugoslavia e Iraq, e il suo regime cominciò ad usare una forza omicida e ingiustificata contro dei civili americani, per poi coprire gli omicidi depistando le indagini, con false investigazioni. Questi quattro grandi cambiamenti sono quelli che hanno gettato il paese in una spirale viziosa che ha portato alla militarizzazione della polizia e ad una ostentata iniquità dei redditi e della ricchezza. Si potrebbe capire perché i repubblicani volevano il “North American Free Trade Agreement”, ma fu Bill Clinton che lo trasformò in legge: è un meccanismo usato dalle multinazionali Usa per esportare la loro produzione di merci e servizi venduti sui mercati americani.Spostando la produzione all’estero, i risparmi sul costo del lavoro fanno aumentare i profitti delle multinazionali e il valore delle loro azioni, producendo dei guadagni di capitale per gli azionisti e dei bonus multimilionari in dollari per i loro dirigenti che hanno contribuito al raggiungimento degli obiettivi. I vantaggi per il capitale sono enormi, ma questi vantaggi sono tutti a spese dei lavoratori della manifattura Usa e delle minori entrate in tasse per le città e per gli Stati. Quando si chiudono gli stabilimenti e si manda il lavoro all’estero, non c’è più lavoro per la classe media. I sindacati delle industrie e della manifattura perdono iscritti, distruggendo così i sindacati dei lavoratori, che sono quelli che finanziano le campagne elettorali dei democratici. Il contrappeso del potere che era costituito dal lavoro contro il capitale, in questo modo era annullato. E i democratici dovettero ricorrere alle stesse fonti di sovvenzionamento dei repubblicani. Il risultato è uno Stato con un solo partito.L’indebolimento della base di tassazione che città e Stati hanno dovuto fronteggiare ha reso possibile un attacco dei repubblicani contro i sindacati del settore pubblico. Oggi il partito democratico non esiste più, visto che la politica del partito non è più finanziata da quei sindacati che rappresentano la gente comune. Oggi entrambi i partiti politici rappresentano gli interessi degli stessi gruppi di potere: il settore finanziario, il complesso militare barra security, le lobby di Israele, le industrie estrattive e l’agro-business. Non c’è più un partito che rappresenti veramente i propri elettori, malgrado il fatto che la gente comune continui a pagare con le proprie tasse tutti i costi dei salvataggi delle finanziarie e delle guerre intraprese, mentre le industrie estrattive e la Monsanto distruggono l’ambiente e portano al degrado la catena alimentare. Le elezioni non hanno più nulla a che vedere con le cose reali, come la perdita della protezione costituzionale da parte dei cittadini o un governo che agisca in base alle leggi esistenti. Al contrario, i partiti si mettono a discutere su argomenti come i matrimoni omosessuali e la raccolta di fondi federali per l’aborto. L’abrogazione della legge Glass-Steagall, firmata da Clinton, fu solo la prima mossa di quello che servì per rimuovere tanti altri vincoli che permisero al sistema finanziario di trasformarsi in un casinò, dove il gioco d’azzardo e le scommesse sono garantiti da fondi pubblici e dalla Federal Reserve. Le conseguenze definitive a cui porterà il paese questa trasformazione restano ancora da vedere.L’attacco del regime Clinton contro i serbi, secondo il diritto internazionale, fu un crimine di guerra, ma invece fu il presidente jugoslavo, che aveva cercato di difendere il proprio paese, che fu messo sotto processo come criminale di guerra. Quando il regime Clinton fece uccidere la famiglia di Randy Weaver a Ruby Ridge e altre 76 persone a Waco, sottoponendo i pochi sopravvissuti ad un processo-farsa, i crimini del regime contro l’umanità sono rimasti impuniti. Lo stesso sistema impostato da Clinton è continuato poi per altri 14 anni con i crimini commessi anche da Bush/Obama contro l’umanità in sette paesi, dove milioni di persone sono state uccise, mutilate e cacciate dalle loro case… ma questo sembra tutto accettabile. E ‘abbastanza facile per un governo fomentare la propria popolazione contro gli stranieri, come ben dimostrano i successi di Clinton, di George W. Bush e di Obama. Ma il regime Clinton riuscì a mettere americani contro altri americani. Quando l’Fbi gratuitamente uccise la moglie di Randy Weaver e il suo figlioletto, le denunce di Randy Weaver furono tacciate di propaganda e non considerate, senza motivo.Quando l’Fbi attaccò la setta dei Davidians – un movimento religioso staccatosi dalla Chiesa cristiana “avventista del settimo giorno” – con carri armati e gas velenosi, provocando un incendio che fece morire bruciate 76 persone, soprattutto donne e bambini, queste uccisioni e questo omicidio di massa furono giustificate dal regime Clinton, che considerò come accuse selvagge e infondate quelle che venivano mosse per chiedere giustizia per il massacro compiuto dal governo. Tutti gli sforzi di attribuire la responsabilità per i crimini compiuti dalla polizia furono bloccati e (purtroppo) cominciarono a costituire dei precedenti che sono serviti a far approvare una normativa che garantisce, in casi simili, l’immunità dalla legge. Questa immunità ora si è estesa a tutte le polizie locali, che possono regolarmente compiere abusi e uccidere cittadini americani sulle loro strade e nelle loro case.La mancanza di rispetto delle leggi internazionali da parte di Washington è un argomento su cui i governi di Russia e Cina si lamentano sempre più, e che ebbe origine con il regime Clinton. Le bugie di Washington su Saddam Hussein e sulle “armi di distruzione di massa” cominciarono durante il regime Clinton, così come l’obiettivo di un “cambio di regime” in Iraq e come i bombardamenti illegali di Washington e gli embarghi che costarono la vita di mezzo milione di bambini iracheni che persero la vita (ma che il segretario di Stato di Clinton disse che erano giustificabili). Il governo degli Stati Uniti aveva già fatto cose malvagie in passato. Ad esempio, la guerra ispano-americana fu un trampolino di lancio per costruire l’impero, e Washington ha sempre tutelato gli interessi delle società americane da qualsiasi oppositore latino-americano, ma il regime Clinton ha globalizzato la criminalità. I golpe per il cambio di regime sono diventati sempre più spericolati fino a rischiare una guerra nucleare, perché ormai non sono più governi come quello di Grenada o dell’Honduras ad essere rovesciati. Oggi si prendono di mira Russia e Cina. E certe zone, che fino a pochi anni fa erano parte integrante della Russia stessa, come Georgia e Ucraina, sono state trasformate in Stati vassalli di Washington.Washington ha finanziato le Ong che organizzano la “lotta studentesca” di Hong Kong, nella speranza che le proteste si diffonderanno fino in Cina e che destabilizzino il governo. L’incoscienza di questi interventi negli affari interni di paesi stranieri, potenze nucleari, è senza precedenti. Hillary Clinton è una guerrafondaia, e la stessa cosa sarà anche il candidato che presenteranno i repubblicani. L’irrigidimento della retorica anti-russa che parte da Washington e dai suoi pessimi Stati-fantoccio della Ue sta mettendo il mondo sulla strada della propria estinzione. Gli arroganti neoconservatori, con la loro esasperante convinzione che gli Stati Uniti siano il paese “eccezionale e indispensabile”, vedrebbero un abbassamento dei toni della loro retorica e una de-escalation delle sanzioni come un passo indietro. Quanto più i neocon e i politici come John McCain e Lindsey Graham salgono nei toni della loro retorica, tanto più ci si avvicina alla guerra.Mentre oggi il governo degli Stati Uniti istiga la polizia agli arresti preventivi e alle incarcerazioni di chiunque potrebbe un giorno commettere un crimine, quella che invece dovrebbe essere arrestata e incarcerata, buttando via la chiave, dovrebbe essere tutta intera la squadra di questi guerrafondai-neocon, prima che riescano a distruggere l’umanità. Gli anni di Clinton hanno prodotto una gran quantità documentazione sui tanti crimini e sulle coperture di fatti come l’attentato di Oklahoma City, Ruby Ridge, Waco, lo scandalo dei laboratori criminali dell’Fbi, la morte di Vincent Foster, il coinvolgimento della Cia nel traffico di droga, la militarizzazione delle forze dell’ordine, il Kosovo… e si può andare avanti finché si vuole. La maggior parte di questi documenti sono stati scritti da persone che non avevano un punto di vista parziale, né liberal, né conservatore, perché nessuno si rendeva ancora conto della natura della trasformazione che stava avvenendo nella governance americana. Quelli che hanno dimenticato e quelli che sono troppo giovani non hanno la capacità di vedersi o di riconoscersi in quello che sono stati gli anni di Clinton. Recentemente ho parlato del libro di Ambrose Evans-Pritchard “The Secret Life of Bill Clinton”. Altro libro con una documentazione importante è “Feeling Your Pain”, di James Bovard.Sia il Congresso che i media hanno lavorato non poco per appoggiare e per dare le opportune coperture a molti eventi importanti avvenuti durante la presidenza Clinton, ma si sono concentrati solo su faccende di poco conto come le vendite immobiliari di Whitewater o la relazione sessuale di Clinton con la stagista della Casa Bianca Monica Lewinsky. Clinton e il suo regime corrotto hanno mentito su molte cose ben più importanti, ma la Camera dei Rappresentanti lo ha messo sotto accusa solo per le bugie raccontate sulla sua relazione con Monica Lewinsky. Ignorando le numerose (e ben più importanti) ragioni che avrebbero potuto portare a un impeachment, si è parlato tanto solo di un fatto inconsistente, e il Congresso e i media sono stati complici nel permettere che crescesse a dismisura un ramo dannoso dell’esecutivo. Questa mancanza di responsabilità ci ha portato alla tirannia in patria e alla guerra all’estero, e sono questi i due mali che ci stanno avviluppando tutti, ogni giorno di più.(Paul Craig Roberts, “Con le prossime presidenziali Usa, la guerra sarà più vicina”, da “Information Clearing House” del 18 novembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Glenn Greenwald ha rivelato che Hillary Clinton è il candidato presidenziale dei bankster e dei guerrafondai. Pam e Russ Martens registrano che Elizabeth Warren è la sua concorrente populista. Dubito però che un politico che rappresenti il popolo possa raccogliere abbastanza fondi per poter competere in una campagna presidenziale. Se comunque la Warren dovesse diventare una minaccia, tutto l’establishment si muoverebbe per costruirle intorno una cornice nella quale la potrebbero dipingere in qualsiasi modo pur di farla fuori. Hillary Clinton come presidente significherebbe guerra alla Russia. Con neocon-nazisti come Robert Kagan e Max Boot a gestire la politica militare e con una Hillary che fa confronti tra il presidente della Russia Putin e Adolf Hitler, la guerra dovrebbe essere una certezza. E, come hanno scritto Michel Chossudovsky e Noam Chomsky, la guerra, stavolta, sarebbe nucleare. Se Hillary fosse eletta presidente, i gangster finanziari e tutti quei criminali che traggono vantaggio dalle guerre riuscirebbero a completare il loro impossessamento del paese. E questo sarebbe per sempre, o almeno fino all’arrivo dell’Armageddon, la resa dei conti finale.