Archivio del Tag ‘Cesare Pavese’
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Il disastro del lockdown e i valori dei poeti del vino italiano
Per capire quanto in profondità abbia colpito, l’epocale coprifuoco “cinese” istituito dall’Italia di fronte alla comparsa del coronavirus, basta fare un giro tra le colline del vino: alla vigilia dell’estate erano una meta ambitissima del turismo internazionale, e adesso sono un deserto. Export bloccato e cantine con montagne di bottiglie rimaste invendute, winery desolatamente vuote e ristoranti con ai tavoli solo qualche italiano, regolarmente distanziato e costretto a indossare la mascherina. Vale anche per le Langhe, le colline di Pavese e Fenoglio che videro esplodere un clamoroso boom economico a partire dagli anni Novanta grazie ai cosiddetti Barolo Boys, i ragazzi che rivoluzionarono l’antico vino nobile dei Savoia mettendosi a vinificarlo alla francese, affinandolo in botte piccola. Dalle Langhe all’America il passo è stato brevissimo: in un amen, a Barolo e dintorni s’è cominciato a parlare soprattutto inglese, in mezzo a tedeschi e svizzeri, belgi e giapponesi. E’ fiorita una specie di Toscana, in un angolo di Piemonte che portava ancora i segni dell’atavica povertà contadina: persino Bob Dylan ha voluto partecipare ai concerti di “Collisioni”, in quell’isola di vigneti con attorno wine-tasting, cantine di design interrate e climatizzate, bed & breakfast e cucine di charme, wine-bar di stampo newyorkese. Una specie di Rinascimento cosmopolita, con tanto di università: la scuola superiore di scienze gastronomiche aperta a Pollenzo da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.Tutto sta a rimboccarsi le maniche, ancora una volta? Lo assicura un genio del marketing come Oscar Farinetti, che in mezzo a quei vigneti è cresciuto. Ha ragione? Solo a metà: giusto attingere all’ottimismo della volontà, mobilitando risorse anche morali per fronteggiare una crisi paurosa, cercando di trasformarla in un’occasione per riconvertire l’economia, premiando il profilo anche ecologico del “food & wine”. Ma forse i conti sarebbe meglio farli con l’oste, cioè con il convitato di pietra della grande depressione: la macroeconomia, questa sconosciuta. Se privatizzi il pianeta, appaltando la politica a piccoli mestieranti locali, puoi scordarti che lo Stato abbia il potere – aiutando, agevolando, detassando – di far decollare l’economia privata. Il visionario patron di Eataly – che ha fatto davvero moltissimo, per far brillare il sistema-Italia nel mondo, e pure in anni difficili – viene da una tradizione socialista: il padre partigiano, poi vicesindaco di Alba. L’Italia che seppe rimboccarsele davvero, le maniche, era quella del dopoguerra: miracolata dal Piano Marshall e poi trainata dall’economia mista alimentata dal colosso Iri, il più grande complesso industriale d’Europa. Un sistema smantellato in modo brutale prima con la “privatizzazione” del debito pubblico e poi con la svendita dei maggiori asset pubblici, strategici per il Made in Italy.Per un capriccio della storia, proprio nel periodo più buio per l’Italia – la grande precarizzazione, le delocalizzazioni selvagge, la folle austerity imposta dall’Ue – ha potuto fiorire, di colpo, il paradiso del vino. Anno dopo anno, i numeri di Vinitaly hanno stracciato ogni record, facendo volare l’intero sistema vinicolo italiano, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, con fenomeni-mostro come il Prosecco e i suoi 800 milioni di bottiglie vendute in tutto il pianeta. La festa sembrava non dovesse finire mai, nelle colline piemontesi – Langhe, Monferrato – ora elevate al rango di patrimonio paesaggistico dell’umanità sotto la tutela delle Nazioni Unite, attraverso l’Unesco. Un volano formidabile: paesini fino a ieri sconosciuti, trasformati all’improvviso in mete internazionali, con un indotto virtuoso e declinato a livello “glocal”, all’insegna della valorizzazione dell’ambiente e della genuinità delle filiere corte. In questo piccolo paradiso, c’è un’area Unesco quasi altrettanto nota – il Roero, sulla riva sinistra del Tanaro proprio di fronte ad Alba e Barbaresco – che di bottiglie ne produce solo 8 milioni, cioè la centesima parte del potenziale di fuoco di Treviso e Valdobbiadene. Un mondo di artigiani: il loro passaporto per gli Stati Uniti si chiama Arneis, un bianco che tradizionalmente era il meno prestigioso, tra i vitigni coltivati su quelle colline.Nomi che hanno fatto storia, nel Piemonte vinicolo – Ceretto, Negro – hanno ripescato l’Arneis dall’oblio contadino, facendone un signor vino, modernissimo, a suo agio sulle migliori tavole di Tokyio e di Los Angeles. E anche l’Arneis – insieme al Barolo – ha contribuito a trasformare il periferico Piemonte, a lungo rassegnato a languire come entroterra dell’universo Fiat, in un attore di primissima grandezza, nel mondo (felicemente globalizzato, in questo caso) delle degustazioni per veri indenditori. Oggi, anche il sistema-Piemonte piange le amare lacrime del maledetto coronavirus: il Monferrato, patria della Barbera, sconta una contrazione delle vendite che viaggia attorno al 40%. Una specie di ecatombe, da cui non si sa come uscire: c’è chi propone addirittura di mandare al macero il vino invenduto per distillarlo e ricavarne alcol, così da recuperare almeno i costi di produzione. Se nelle Langhe del Barolo il grande silenzio della primavera 2020 resterà negli annali come immane sciagura memorabile, forse il piccolo Roero soffre meno: con la sua economia differenziata (agricoltura mista, tanta frutta), è meno dipendente dal turismo internazionale. «Però anche qui la batosta è stata forte: paragonabile alla grandine che, quarant’anni fa, avrebbe fatto saltare la vendemmia, facendoci perdere un anno intero di lavoro, e quindi di entrate vitali per la famiglia».A parlare è Sergio Marchisio, un autentico pioniere: il primo a spumantizzare l’Arneis, il primo a vinificare il Nebbiolo in anfora. Un’azienda modello, certificata biologica, e con un debole per la biodonamica di Rudolf Steiner. Missione: scommettere innanzitutto sul recupero della fertilità naturale del suolo. «Dopo dieci anni il risultato lo senti nel bicchiere, in termini di pienezza e ampiezza di profumi». La sua cantina, a Castellinaldo d’Alba, sembra uno scrigno di silenziosa energia alchemica: nel ventre della terra riposano anfore panciute, contrassegnate dall’effigie del benefico serpente che avvolge l’uovo primordiale. Impatto zero, pannelli fotovoltaici e verdissimi filari che avvolgono l’officina delle delizie. «Certo, la processione dei turisti venuti da lontano si è interrotta anche qui. Ma non per questo ci scoraggiamo: i nostri valori sono più grandi, più forti del coronavirus». A proposito di valori: se c’è qualcosa di eroico, nel sistema-vino che negli ultimi decenni ha tenuto alta nel mondo l’eccellenza italiana, è la sua capacità di offrire bellezza raffinata, worldwide, attingendo con notevole coraggio alla passione, tipica del miglior Made in Italy, nutrito di praticità artigiana. Il paese crollava – Pil, disoccupazione – e le cantine conquistavano il pianeta, imparando l’inglese e sbalordendo pubblico e critica.Una storia che per certi aspetti sembra dar ragione all’incrollabile ottimismo di Farinetti. E che oggi – di fronte alle macerie del lockdown, tra mercati che franano – fa capire quando può essere feroce questo disastro, che è risucito a spiazzare persino gli invincibili, appassionati guerrieri del grande vino italiano. «Personalmente – confessa Sergio Marchisio – a cambiare il mio modo di vivere e di pensare è stata una frase di Steiner: quella in cui invita a riflettere sul fatto che l’uomo, in fondo, è l’unico abitante del pianeta che riesce ad avvelenare il cibo di cui si nutre». Se è per questo, siamo riusciti ad avvelenare l’acqua, i terreni, i cieli. «Esatto. Ecco perché, se le viti hanno nostalgia del sole, anziché usare prodotti chimici le accontento con semplici micro-cristalli di quarzo, minerale specchiante che conserva in sé la memoria della luce e del calore». Filosofi e poeti, tra i filari? Un amico e collega di Marchisio – Paolo Carlo Ghislandi di Cascina I Carpini, maestro del Timorasso (super-bianco dei Colli Tortonesi) – sa che ai suoi filari piace ascoltare la musica classica: Rachmaninov, di preferenza. E cita una poetessa francese, Colette: «Nel regno vetegale, la vite è l’unica che rende intellegibile, all’uomo, il valore della terra». Quando saremo usciti dall’incubo che ci è piovuto addosso, sarà naturale ripensare a loro, i pensatori-contadini che, custodendo le loro verdissime colline, sembrano rinnovare una specie di promessa, prodigiosamente alchemica. Viene che il sospetto che non si tratti solo di vino: come se in qualche modo, in punta di piedi, lavorassero anche per l’armonia dell’universo.(Giorgio Cattaneo, 21 giugno 2020).Per capire quanto in profondità abbia colpito, l’epocale coprifuoco “cinese” istituito dall’Italia di fronte alla comparsa del coronavirus, basta fare un giro tra le colline del vino: alla vigilia dell’estate erano una meta ambitissima del turismo internazionale, e adesso sono un deserto. Export bloccato e cantine con montagne di bottiglie rimaste invendute, winery desolatamente vuote e ristoranti con ai tavoli solo qualche italiano, regolarmente distanziato e costretto a indossare la mascherina. Vale anche per le Langhe, le colline di Pavese e Fenoglio che videro esplodere un clamoroso boom economico a partire dagli anni Novanta grazie ai cosiddetti Barolo Boys, i ragazzi che rivoluzionarono l’antico vino nobile dei Savoia mettendosi a vinificarlo alla francese, affinandolo in botte piccola. Dalle Langhe all’America il passo è stato brevissimo: in un amen, a Barolo e dintorni s’è cominciato a parlare soprattutto inglese, in mezzo a tedeschi e svizzeri, belgi e giapponesi. E’ fiorita una specie di Toscana, in un angolo di Piemonte che portava ancora i segni dell’atavica povertà contadina: persino Bob Dylan ha voluto partecipare ai concerti di “Collisioni”, in quell’isola di vigneti con attorno wine-tasting, cantine di design interrate e climatizzate, bed & breakfast e cucine di charme, wine-bar di stampo newyorkese. Una specie di Rinascimento cosmopolita, con tanto di università: la scuola superiore di scienze gastronomiche aperta a Pollenzo da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.
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Meglio il Premio Ikea: il Nobel ha ignorato i grandi del ‘900
«Basta col Nobel, fate il Premio Ikea». Provocazione d’autore firmata Marcello Veneziani, che su “La Verità” se la ride: avevate dubbi che avrebbero premiato una donna, magari fan di Greta, col Nobel per la Letteratura? Così è stato, con Olga Tokarczuk, polacca, verde, “di sinistra”, che scrive “per superare i confini”, premiata in tandem con Peter Handke. «Si va per gender e non per valore, per messaggio ideologico e non per qualità». L’anno scorso il premio non fu assegnato per via di Jean-Claude Arnault, marito di una giurata, accusato di molestie da 18 donne. «Si può bloccare un evento letterario planetario per un episodio di molestie sessuali, sottomettere il genio alla mannaia del Me Too?», si domanda Veneziani. «Non l’hanno fatto neanche a Hollywood dove sono più fricchettoni correct, dopo la vicenda Weinstein, ben più devastante perché toccava pure gli Oscar mentre qui non ci sono premiati abusanti o abusati sessualmente». Nella fattispecie, «è un mistero il nesso tra la Grande Letteratura e la piccola libidine di un fotografo, marito di una componente della giuria». In passato, continua lo scrittore, la mancata assegnazione del Nobel fu per ragioni come una guerra mondiale. Ma la vergogna del Nobel è un’altra: non sono mai stati premiati alcuni tra i maggiori nomi della letteratura planetaria.«Il premio più prestigioso del mondo – scrive Veneziani – ha dimenticato o rimosso quasi tutto il Grande Novecento letterario». Nomi come Marcel Proust, Franz Kafka, James Joyce, Oscar Wilde: letti e studiati nelle scuole come maestri, ma ignorati dal Nobel, «La stessa sorte, la stessa omertà, ha colpito giganti come Eugéne Ionesco e Aldous Huxley, Paul Valéry e G.K. Chesterton, George Orwell ed Ezra Pound, Ernst Junger e Louis-Ferdinande Céline». Niente Nobel, nemmeno per loro. «Per non dire di Leon Bloy ed Henri de Monterlhant, Fernando Pessoa e Yukio Mishima, Emil Cioran e Gottried Benn, George Bernanos e Stefan Zweig, Karl Kraus e Hugo von Hofmannsthal, e Lev Tolstoj fino a J.R.Tolkien». E l’elenco potrebbe continuare. Non è stata risparmiata nemmeno la letteratura italiana, «dove il Nobel ha dimenticato i due poeti italiani più amati e imitati al mondo, Gabriele D’Annunzio e F.T. Marinetti». Prima di loro il Nobel ha trascurato Giovanni Pascoli e poi Giuseppe Ungaretti. Assenti a Stoccolma anche Curzio Malaparte e Cesare Pavese, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, Giovannino Guareschi e Dino Buzzati. «Sorprendono invece i premiati: da Grazia Deledda a Dario Fo, poi un po’ meglio con Salvatore Quasimodo e soprattutto con Eugenio Montale». Certo, «per fortuna o per errore ci sono pure i nostri Giosuè Carducci e Luigi Pirandello». Ma i quattro quinti della nostra grande letteratura sono stati ignorati dagli svedesi.«Curiosi pure i filosofi premiati col Nobel: un trittico, Bertrand Russell, Henri Bergson e Jean-Paul Sartre (che rigettò il premio)». Ignorati invece Benedetto Croce, José Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, George Bataille, Roger Callois, Gabriel Marcel. «Insomma – conclude Veneziani – il Nobel è una strage di letteratura, un premio ignorante». In molti casi (di assegnazione o di non assegnazione) «ha contato il politically correct, se consideriamo che quasi nessun grande autore scomodo è stato premiato». In compenso «si sono dati premi di genere o etnici», del tipo: quest’anno si premia una femminista, o l’autore di un paese povero. La Svezia, ricorda Veneziani, è la patria del politically correct, più degli Stati Uniti. «I verdetti, emessi da diciotto svedesi, decretano da più di un secolo i falsi destini della letteratura e proclamano i presunti Grandi, salvo poi essere smentiti dai lettori, dal tempo che è galantuomo e dai critici». Un consiglio all’intelligenza svedese: «Visto che capite poco di capolavori ed eccellenze letterarie, lasciate stare la letteratura, dedicatevi all’Ikea dove siete leader. Applicatevi ai mobili in serie, a basso costo, alle viti, ai bulloni, ai montaggi faidate. Al posto del Nobel funzionerebbe meglio il Premio Ikea, con versi smontabili e testi ricomponibili direttamente a casa vostra».«Basta col Nobel, fate il Premio Ikea». Provocazione d’autore firmata Marcello Veneziani, che su “La Verità” se la ride: avevate dubbi che avrebbero premiato una donna, magari fan di Greta, col Nobel per la Letteratura? Così è stato, con Olga Tokarczuk, polacca, verde, “di sinistra”, che scrive “per superare i confini”, premiata in tandem con Peter Handke. «Si va per gender e non per valore, per messaggio ideologico e non per qualità». L’anno scorso il premio non fu assegnato per via di Jean-Claude Arnault, marito di una giurata, accusato di molestie da 18 donne. «Si può bloccare un evento letterario planetario per un episodio di molestie sessuali, sottomettere il genio alla mannaia del Me Too?», si domanda Veneziani. «Non l’hanno fatto neanche a Hollywood dove sono più fricchettoni correct, dopo la vicenda Weinstein, ben più devastante perché toccava pure gli Oscar mentre qui non ci sono premiati abusanti o abusati sessualmente». Nella fattispecie, «è un mistero il nesso tra la Grande Letteratura e la piccola libidine di un fotografo, marito di una componente della giuria». In passato, continua lo scrittore, la mancata assegnazione del Nobel fu per ragioni come una guerra mondiale. Ma la vergogna del Nobel è un’altra: non sono mai stati premiati alcuni tra i maggiori nomi della letteratura planetaria.
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Quale 25 Aprile e quale Liberazione, nella Colonia Italia?
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti, abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano, sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche definiscono razzismo. Mistificando per tale quello di chi smaschera l’operazione colonialista, detta globalizzazione, ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti, identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma tutti i missi dominici dell’Impero.Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta. E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato, federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i De Sica, Rossellini, Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente, tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla canna di un fucile.Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini, e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua, della sua comunità, del suo passato, presente, futuro, nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto “giustizia di popolo”.Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati, dall’estrema sinistra a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo” (e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa, proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne autorizza l’abbattimento: fatto che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù, ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’ insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e, quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini, incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che, sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora, preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.
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I cent’anni di Ingrao e l’estinzione della sinistra italiana
Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.Pietro Ingrao, uno strano Charlie Brown che ha fatto scuola: il suo stile «attraverso Bertinotti giunge sino a noi, essendo palese l’ascendenza ingraiana anche di Landini». Ingrao, ricorda Giannuli, appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si enfatizzò l’antifascismo «come negazione assoluta e incontaminata del fascismo», eppure «il fascismo seminò concetti che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana». Usi obbedir tacendo: la cultura della disciplina. Ingrao era stato influenzato dalla figura di Giuseppe Bottai, «il maggior intellettuale del regime e, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni». Dalle sue riviste, continua Giannuli, presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post-fascista e antifascista: Salvatore Quasimodo e Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini. E poi Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale. «Diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza».Ad avvicinare Bottai e Ingrao, «due figure inconsuete del Novecento italiano», secondo Giannuli «non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza», nonché «una certa sofisticatezza intellettuale e l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca». In controluce, anche «il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio». Bottai divorziò da Mussolini solo all’ultimo, e «non senza un profondissimo tormento interiore», mentre Ingrao «ha avuto sempre fede nel Partito, contro il quale non cercò mai di aver ragione» Tant’è vero che «in nome di questa fede approvò – colpa non da poco, anche se condivisa con molti – il brutale intervento sovietico in Ungheria». Così, Ingrao «piegò il capo dopo la sconfitta all’XI congresso». In più «restò fedele al partito anche quando (contro le sue convinzioni) esso cessò di essere comunista, per distaccarsene anni dopo e da solo. Era fedeltà all’ideale o feticismo organizzativo? Lasciamo decidere a chi ci legge».Questo attaccamento insieme fideistico e tormentato, continua Giannuli, lo ha portato ad essere “l’uomo delle occasioni mancate”: nel 1966 tentò di dare battaglia all’XI congresso, ma senza avere il coraggio di presentare una sua mozione di minoranza e finendo sconfitto senza neppure aver combattuto davvero la sua battaglia. Tre anni dopo, assistette inerte all’espulsione del gruppo del “Manifesto” (tutti suoi storici seguaci) senza avere il coraggio di votare contro (come fecero Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice) e neppure di astenersi, ma «tristemente votò a favore». Nel 1973 incassò la proposta di compromesso storico di Berlinguer, accennando solo una “lettura di sinistra” che non spostava di un millimetro i termini politici della questione (fu più esplicito nella critica il vecchio Longo). Nel 1976, infine, «incassò con altrettanta mancanza di coraggio anche la politica di Unità Nazionale, accontentandosi di andar a fare il presidente della Camera». Altra ombra sul suo passato: «Non si dissociò neppure per un attimo dalla politica della fermezza sul caso Moro», evitando di adoperarsi per una trattativa che avrebbe potuto salvare il leader democristiano.Ingrao, prosegue Giannuli, ebbe un suo momento di fulgore dall’80 all’84, quando Berlinguer ruppe con Amendola e cercò il suo appoggio, per reggere la svolta del dopo-terremoto e della “questione morale”, ma con l’unico risultato di inasprire l’isolamento identitario e settario del Pci, che ne avviava la decadenza. «L’ultima occasione di incidere nella storia di questo paese la ebbe con la trasformazione del Pci in Pds». Dopo essersi messo alla testa del cartello di opposizione che sfiorò il 30% al congresso di scioglimento, «come sempre gli mancò il coraggio del passo successivo: guidare la scissione di Rifondazione». Ingrao infatti si tirò indietro: «Preferì restare inutilmente nel Pds per uscirne, da solo e fra le lacrime, pochi anni dopo». Spiegazione: «In queste ripetute battaglie perse senza esser date, ha inciso certamente la sua devozione al partito, assunto non come mezzo ma come fine in sé». Era spesso accusato di astrattezza, dice Giannuli, e i detrattori avevano ragione: Amendola, il leader della destra riformista del Pci, forniva a «analisi datatissime, come quella di Pietro Grifone sulla contrapposizione fra rendita e profitto in Italia», ma almeno era molto concreto nella proposta, sempre incerta fra alleanze sociali destinate a non tradursi mai in alleanze politiche.«In politica estera, dopo il 1970, Ingrao non ha mai proposto l’uscita dalla Nato», aggiunge Giannuli. Sul piano istituzionale invece ha puntato sulle autonomie locali, senza però prevedere la proliferazione incontrollata di poltrone. «Altra proposta caratterizzante della sua azione sul piano istituzionale – continua Giannuli – fu il tentativo di ridare centralità al Parlamento, attraverso un regime assembleare che scavalcasse la tradizionale divisione fra maggioranza ed opposizione. Il frutto fu la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 che proprio Ingrao, in veste di capogruppo alla Camera, trattò con il capogruppo della Dc, Andreotti. Ma il risultato finale non fu quello di un improbabile regime assembleare, quanto la premessa del consociativismo Dc-Pci». Libertà e autonomia ai parlamentari? «In presenza di un partito retto con la ferrea regola del centralismo democratico, come era il Pci, era una pretesa piuttosto irragionevole». Indeterminata anche la sua critica al “socialismo reale” dei regimi dell’est. Poi il Muro è crollato, e il vecchio Ingrao è scomparso dai radar. Proprio come la sinistra italiana, che dopo Tangentopoli ha consegnato il paese al dominio dell’élite neoliberista, quella della privatizzazione universale che impone i suoi diktat tramite l’Ue a guida tedesca e il braccio secolare dell’euro.Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.
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Patrimonio dell’umanità le Langhe di Pavese e Fenoglio
Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».Senza la gente vuol dire senza il loro racconto. La loro memoria, che non parla di un mondo arcadico, ma di vite agre, di una storia aspra come la terra dura della vigna, di solitudini e silenzi, da sfidare cavando di bocca le parole con le pinze, come sapeva bene Cesare Pavese, che in una delle sue prime poesie, in “Lavorare stanca”, scrisse che “qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio”. Pavese, che conosceva bene il calore umido che sale dal tufo sotto la vite, e quale odore abbia quel caldo («ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie»). E sapeva quanto di natura e di fatica ci sia dietro una vigna: «Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il respiro e il suo sudore».Come lo sapeva Beppe Fenoglio, quello della “Malora”, ma soprattutto quello del “Partigiano Johnny”, dove la natura si fonde inestricabilmente alla vita, e l’epopea partigiana si intreccia di fatica, e sudore – esattamente come il lavoro – e di paura e ferocia e, ancora, silenzio, nel paesaggio ora aspro, ora cupo, ora ridente, quasi sempre freddo, che accompagna come un involucro mimetico le vicende del protagonista. È impossibile pensare le Langhe – e il Roero, e il Monferrato: quello che oggi va sotto il nome un po’ commerciale di “distretto enogastronomico” – senza l’immaginario elaborato dalla loro letteratura, da Pavese, e Fenoglio, e Lajolo, e Arpino, che li hanno resi, appunto, patrimonio dell’umanità nel senso più proprio: di “linguaggio universale”. Paesaggio parlante e comunicante.Non stupisce che di qui sia incominciata l’avventura di Carlin Petrini e della sua banda, con la rievocazione di “Cantè j’euv”, sagra tradizionale sopravvissuta sotto la superficie della modernizzazione, giunta fino al trionfo di Slow Food e di Terra Madre. E non stupisce che qui trovi la propria sede naturale la cultura del vino come prodotto vivente. Non dimentichiamo le battaglie di Bartolo Mascarello contro la pratica del “barrique”, considerata una forma di sconsacrazione, e contro il dilagare dei capannoni ai piedi delle colline. Non dimentichiamolo nel momento in cui a quella terra viene attribuito l’ambìto riconoscimento. Certo la tentazione di considerarlo un brand utile per operazioni di marketing territoriale è forte, e lascia immaginare flussi impetuosi di turisti. Ma è bene ricordare che la dizione letterale dell’Unesco è “bene protetto”, non “esposto”. E che quel riconoscimento implica una responsabilità alla tutela, più che un incentivo al consumo dei luoghi.(Marco Revelli, “L’epopea delle vigne patrimonio dell’umanità”, da “La Repubblica” del 23 giugno 2014, all’indomani del riconoscimento Unesco conferito a Langhe e Monferrato).Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».
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Un Comitato di Liberazione Nazionale contro le euro-tasse
Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.«La tragedia dell’economia attuale, quella del tuo reddito, del tuo mutuo e del futuro di tuo figlio – scrive Barnard nel suo blog – è che una generazione di miserabili economisti prezzolati a suon di parcelle dal Potere ha fatto dimenticare a tutti il Dna dell’economia per l’Interesse Pubblico, quella che veramente creò la ricchezza moderna. Così ci hanno guadagnato quattro porci di speculatori, sulla pelle di milioni». Ed è successo. «Immaginate: è come se Maria De Filippi, il Gabibbo, Jovanotti e Mammuccari ci avessero fatto dimenticare che il Dna della lingua italiana sono Dante, Petrarca, Foscolo, Carducci o Pavese e Moravia – infatti è successo anche questo, e la lingua che parliamo è una cosa abominevole». Barnard cita un economista democratico di 70 anni fa, Michal Kalecki: «Basterebbe ricordare che razza di genio illuminato era costui e che cuore aveva per l’interesse della gente». Meglio si capirebbe che «la penicillina della salvezza delle nostre vite economiche è stata annientata, nascosta, con risultati orripilanti sulla vita di tutti noi».Nel 2013, l’Italia si ritrova un governo «illegittimo», sorretto da un uomo come Napolitano, accusato di “cestinare” la Costituzione. «Il potere deve tornare ai cittadini», dice Barnard, attraverso un nuovo Cln come quello sorto nel 1943. Obiettivo, abbattere il “fascismo finanziario” di Bruxelles. Come? Con una sorta di rivolta fiscale. «Azione numero 1: Il reato di evasione fiscale è abolito. Lo decidono gli italiani per legittima difesa. Evaderemo tasse fino al raggiungimento del 9% di deficit, poiché le identità macroeconomiche dimostrano oltre ogni dubbio che il deficit dello Stato è la ricchezza di cittadini e aziende per la salvezza nazionale. O l’alza il governo (unitamente a un taglio delle tasse), o l’alziamo noi con l’evasione. Vita o morte dell’Italia è in gioco». Un appello che Barnard considera patriottico: «Nel nome della patria e della Costituzione italiana, oggi la salvezza del paese passa per l’evasione fiscale delle tasse dell’Economicidio impostoci dal fascismo tecnocratico europeo».Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.
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Ribellarsi al sudiciume: che ne dite, onesti militanti del Pd?
Da un bel po’ di tempo ci ho alcune domandine che mi ronzano fastidiosamente per la testa ma ieri, mentre sul “Fatto Quotidiano” leggevo la replica di Luigi Zanda alle affermazioni, decisamente tranchant, di Giorgio Bocca sulla corruzione all’interno del Partito Democratico, il ronzio è diventato un frastuono tremendo. La lettera di Zanda era casualmente (forse) piazzata proprio sotto un articolo che rievocava alcuni personaggi di prim’ordine della cultura italiana (fra gli altri, Cesare Pavese e Piero Calamandrei) i quali patirono sì sotto il fascismo, ma in silenzio, desolati ma inerti.
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I morti e la pietà, ogni guerra è una guerra civile
Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vedere, a riempircene gli occhi.
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Cinema full immersion tra King Kong, Amélie e Armando Ceste
Pomeriggio e sera al cinema, con un programma a cura di Vittorio Sclaverani ed Eloise Liguoro che prevede 14 proiezioni in 3 sale