Archivio del Tag ‘collisione’
-
Italia assediata, Francia e Germania ci imporranno Draghi
Se il governo Conte crolla di colpo, c’è già pronto Cottarelli. Ma il vero pericolo si chiama Mario Draghi: il presidente uscente della Bce potrebbe ripiegare su Palazzo Chigi, se non andasse in porto il piano principale che lo riguarda, cioè arrivare alla presidenza del Fmi e sottrarre il Fondo Monetario all’egemonia Usa, per metterlo al guinzaglio di Berlino e Parigi. Secondo l’analisi di Gianfranco Carpeoro, per l’Italia si è acceso l’allarme rosso: l’incredibile Trattato di Aquisgrana, che demolisce qualsiasi prospettiva comunitaria proiettando anche ufficialmente Germania e Francia nel ruolo di “padrone” neo-coloniali dell’Ue, ha come vittima principale proprio il Belpaese. A Roma non si perdona l’insubordinazione del governo gialloverde, l’unico esecutivo teoricamente all’opposizione di Bruxelles. Lo dimostra la “macchina del fango” scatenatasi contro Lega e 5 Stelle, per indebolirne la leadership. Il polverone sul padre di Di Maio (lavoro nero) e su quello di Di Battista (debiti), unitamente alla mazzata giudiziaria sui leghisti (maxi-risarcimento da 49 milioni di euro) a questo servono: a impedire che l’elettorato italiano si sollevi, nel caso in cui una crisi pilotata – banche, spread – precipitasse il paese nella bufera, replicando le condizioni del “golpe bianco” che nel 2011 consentì alla “sovragestione” europea di costringere alla resa Berlusconi e imporre il commissariamento dell’Italia, tramite Monti.Autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che svela i retroscena supermassonici di area Nato dietro ai recenti attentati affidati in Europa alla manovalanza dell’Isis, Carpeoro individua la Loggia P1 (mai riconosciuta, ufficialmente) come la vera “quinta colonna” del peggior potere internazionale, utilizzata per manipolare e indebolire la politica italiana, grazie al prezioso contributo di un establishment “collaborazionista”, reclutato da poteri stranieri per dominare il nostro paese. L’oligarchia Ue è in fibrillazione, in vista delle europee, dal momento in cui Lega e 5 Stelle – con tutti i loro limiti – hanno inserito l’Italia in una traiettoria di collisione con Bruxelles. Da qui le pressioni della Bce e della Banca d’Italia, le impennate dello spread e il “niet” di Mattarella per impedire a Paolo Savona l’accesso al ministero dell’economia. Infine, il lungo braccio di ferro sul deficit 2019 – non ancora concluso – con il governo italiano sottoposto alla minaccia della procedura d’infrazione. Obiettivo dei “sovragestori”: spuntare le armi dei gialloverdi e costringerli a rimediare una figuraccia davanti ai loro elettori, non consentendo loro di mantenere nessuna delle promesse elettorali. Guai se il “virus” della ribellione italiana – aumentare il deficit, violando il rigore di Maastricht – dovesse propagarsi in altri paesi, incoraggiando analoghe svolte politiche. Ad aumentare la tensione ha contribuito certamente anche la rivolta francese dei Gilet Gialli, capaci di spaventare seriamente i poteri che hanno insediato Macron all’Eliseo.Ora, su questo scenario già instabile piomba come un macigno l’inaudito accordo siglato da Francia e Germania, che toglie qualsiasi residua credibilità alla dimensione comunitaria dell’Ue: i due paesi si impegnano a coordinare le loro politiche economiche, fino al punto di istituire formalmente un “Consiglio dei ministri franco-tedesco”. «Si tratta di un atto gravissimo e senza precedenti», dichiara Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Un accordo apertamente ostile agli altri partner europei, «al quale si uniranno sicuramente anche quei lestofanti degli olandesi, che hanno già contribuito a impoverire l’Italia introducendo una normativa fiscale sleale, che ha sottratto al nostro paese ingenti risorse, attraverso il trasferimento in Olanda della domiciliazione fiscale di grandi aziende italiane». Con il nuovo trattato, dice Carpeoro, l’asse franco-tedesco getta la maschera e si prepara a colpire l’Italia in modo frontale, contando anche sull’immancabile collaborazione delle “quinte colonne” interne, «sempre pronte, come già nel Rinascimento, ad allearsi con lo straniero pur di far cadere il governo in carica».Ora il cerchio si stringe, par di capire: il Trattato di Aquisgrana – con l’Italia esclusa dall’Europa che conta – piomba come un fulmine su una situazione già molto allarmante, con la spada di Damocle della procedura d’infrazione (sempre presente) e la lettera della Bce che chiede alle banche italiane di liberarsi dei crediti inesigibili, dopo che il governo ha appena compiuto il salvataggio della genovese Carige. All’affronto franco-tedesco, dice Carperoro, l’Italia dovrebbe rispondere in modo simmetrico: cercando di siglare analoghi trattati – altrettanto ostili – con paesi mediterranei, come la Spagna e la stessa Grecia. Lo farà? Difficile dirlo: bombardato dai grandi media, tutti allineati al potere Ue, il governo Conte potrebbe cedere. Di Maio è stato bersagliato da un killeraggio inaudito, e presto potrebbe venire il turno di Salvini. L’unico vero alleato dell’Italia, cioè Donald Trump, appare isolato. Starebbe sostanzialmente evaporando una certa “sovragestione” americana esercitata fin dall’inizio sui 5 Stelle, quand’era il neocon Michael Ledeen, esponente del Jewish Institute, ad accompagnare Di Maio nei santuari del potere finanziario supermassonico. Ora si punta a indebolire e “sovragestire” l’imprudente Salvini, sommerso dalle polemiche (giustificate) per aver partecipato alla cena romana con l’entourage Pd di Maria Elena Boschi, che sulle banche interveniva per motivi di famiglia.Tutto questo, sintetizza Carpeoro, non fa che indebolire l’Italia: se il governo Conte dovesse cadere all’improvviso, sarebbe spianata la strada per il solito – orrendo – governo “tecnico”, i realtà pilotato dalla consueta élite supermassonica e, nel caso, affidato al neoliberista Carlo Cottarelli, già dirigente del Fmi, tra i massimi responsabili della catastrofe che ha messo in ginocchio la Grecia sotto i colpi dell’austerity. In prospettiva, comunque, secondo Carpeoro la minaccia maggiore viene da Draghi: proprio sul presidente della Bce, ormai in scadenza, punterebbero le oligarchie reazionarie europee per commissariare l’Italia in modo devastante, se a Draghi non riuscirà di conquistare la guida del Fondo Monetario Internazionale con l’obiettivo di sottrarlo all’influenza statunitense. Il piano: mettere il Fmi a completo servizio dell’ordoliberismo europeo: quello che oggi utilizza Francia e Germania come potenze neo-coloniali, come già alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per spegnere sul nascere qualsiasi tentazione di riforma dell’Ue in senso democratico. Uno scenario che i “sovragestori” temono possa rafforzarsi se alle prossime europee dovesse imporsi l’onda “populista” in diversi paesi, grazie anche al “cattivo esempio” dell’odiata Italia gialloverde, cioè il paese a cui il Trattato di Aquisgrana punta a “spezzare le reni”.Se il governo Conte crolla di colpo, c’è già pronto Cottarelli. Ma il vero pericolo si chiama Mario Draghi: il presidente uscente della Bce potrebbe ripiegare su Palazzo Chigi, se non andasse in porto il piano principale che lo riguarda, cioè arrivare alla presidenza del Fmi e sottrarre il Fondo Monetario all’egemonia Usa, per metterlo al guinzaglio di Berlino e Parigi. Secondo l’analisi di Gianfranco Carpeoro, per l’Italia si è acceso l’allarme rosso: l’incredibile Trattato di Aquisgrana, che demolisce qualsiasi prospettiva comunitaria proiettando anche ufficialmente Germania e Francia nel ruolo di “padrone” neo-coloniali dell’Ue, ha come vittima principale proprio il Belpaese. A Roma non si perdona l’insubordinazione del governo gialloverde, l’unico esecutivo teoricamente all’opposizione di Bruxelles. Lo dimostra la “macchina del fango” scatenatasi contro Lega e 5 Stelle, per indebolirne la leadership. Il polverone sul padre di Di Maio (lavoro nero) e su quello di Di Battista (debiti), unitamente alla mazzata giudiziaria sui leghisti (maxi-risarcimento da 49 milioni di euro) a questo servono: a impedire che l’elettorato italiano si sollevi, nel caso in cui una crisi pilotata – banche, spread – precipitasse il paese nella bufera, replicando le condizioni del “golpe bianco” che nel 2011 consentì alla “sovragestione” europea di costringere alla resa Berlusconi e imporre il commissariamento dell’Italia, tramite Monti.
-
Siberia: quel cratere aperto dal meteorite, pieno di diamanti
E’ rimasto segreto per anni. Eppure un buco di circa 100 chilometri di diametro, creato da un asteroide precipitato 35 milioni di anni fa, è il più grande giacimento di diamanti presente sulla Terra, nonché uno dei posti più inquietanti, scrive Noemi Penna sulla “Stampa”, in un servizio che presenta immagini che «sembrano esser state scattate su un pianeta alieno». Siamo a Popigai, nella Siberia orientale, a 400 chilometri dal primo centro abitato e a un’ora e mezza di elicottero dall’aeroporto di Khatanga. «Questa miniera è stata gelosamente nascosta dai russi per oltre 40 anni. E’ stata infatti scoperta all’inizio degli anni ‘70 ma è stata subito etichettata come “top secret”: durante la guerra fredda l’Unione Sovietica la considerava una “riserva strategica” e solo nel settembre del 2012 la Russia ha ufficialmente dichiarato l’esistenza di questo giacimento inestimabile». Negli anni si sono susseguite numerose spedizioni, ben prima della “ufficializzazione” e dalla “riscoperta” avvenuta nel 2009. I ricercatori dell’Istituto di geologia di Novosibirsk hanno certificato che il cratere contiene trilioni di carati, ovvero centinaia di migliaia di tonnellate: là sotto ci sono abbastanza diamanti da sopperire alle richieste globali per tremila anni.«Non stiamo parlando però di diamanti “tradizionali”: queste pietre preziose risultano infatti due volte più dure rispetto alle altre, hanno una forma tabulare con striature di colore grigio, blu o giallo e vengono definite “da impatto”», scrive Penna. «Si pensa infatti che siano state prodotte dall’onda d’urto dell’asteroide – che aveva un diametro compreso tra 5 e i 7 chilometri – su un grande deposito di grafite siberiano». La pressione d’urto avrebbe in sostanza trasformato la grafite presente nel terreno in diamanti, in un raggio di 13,6 chilometri dal punto d’impatto. «Questo ha fatto sì che il cratere di Popigai custodisca al suo interno una quantità di diamanti almeno 10 volte superiore di tutti i giacimenti presenti sul nostro pianeta finora scoperti». L’enorme cratere siberiano, che «sembra un paeaggio alieno segreto», è il settimo per dimensioni sulla Terra e, ricorda la “Stampa”, è stato designato dall’Unesco come parco geologico. Ma come si è formato, in realtà?Secondo Richard April, professore di geologia all’università di Hamilton, New York, ci sono due spiegazioni principali per la formazione dei cosiddetti “diamanti da impatto”, che si trovano in piccole quantità nei siti dell’impatto da meteorite in tutto il mondo. Una possibilità, scrive “Gaia News”, è che un meteorite cada in una zona ricca di qualche forma di carbonio, come i resti degli organismi viventi: le alte pressioni e le temperature generate dalla collisione sarebbero sufficienti a trasformare il carbonio terrestre in diamante. In un secondo scenario, invece, il carbonio arriva all’interno del meteorite e, allo stesso momento dell’impatto, si fonde trasformandosi in diamanti che si disperdono nel terreno. Secondo April però, nessuno dei due scenari potrebbe creare il numero di diamanti di cui parlano gli scienziati russi. C’è una terza possibilità che, secondo April, che potrebbe spiegare la formazione di così tanti diamanti extraduri nel cratere: è concepibile che il meteorite si sia infilato, come una palla da golf in buca, in un campo di diamanti preesistente. Uno dei “tubi vulcanici di kimberlite”, presenti in Siberia. «E’ possibile che i diamanti si siano ricristallizzati alle alte temperature; questo potrebbe anche spiegare il fatto che ci sono così tanti diamanti». Ma sarebbe la prima volta che gli scienziati assistono ad un fatto di tale portata.E’ rimasto segreto per anni. Eppure un buco di circa 100 chilometri di diametro, creato da un asteroide precipitato 35 milioni di anni fa, è il più grande giacimento di diamanti presente sulla Terra, nonché uno dei posti più inquietanti, scrive Noemi Penna sulla “Stampa”, in un servizio che presenta immagini che «sembrano esser state scattate su un pianeta alieno». Siamo a Popigai, nella Siberia orientale, a 400 chilometri dal primo centro abitato e a un’ora e mezza di elicottero dall’aeroporto di Khatanga. «Questa miniera è stata gelosamente nascosta dai russi per oltre 40 anni. E’ stata infatti scoperta all’inizio degli anni ‘70 ma è stata subito etichettata come “top secret”: durante la guerra fredda l’Unione Sovietica la considerava una “riserva strategica” e solo nel settembre del 2012 la Russia ha ufficialmente dichiarato l’esistenza di questo giacimento inestimabile». Negli anni si sono susseguite numerose spedizioni, ben prima della “ufficializzazione” e dalla “riscoperta” avvenuta nel 2009. I ricercatori dell’Istituto di geologia di Novosibirsk hanno certificato che il cratere contiene trilioni di carati, ovvero centinaia di migliaia di tonnellate: là sotto ci sono abbastanza diamanti da sopperire alle richieste globali per tremila anni.
-
L’Italia che difende i marò non aprì bocca dopo il Cermis
Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti, provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei “Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi, in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani – questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori indiani».Basta osservare le foto del Saint Antony, il battello da pesca colpito dai fucilieri: «Accettereste un passaggio – anche gratis! – su una simile bagnarola?». Nei luoghi “classici” della pirateria, come lo Stretto di Malacca, le imbarcazioni usate dai pirati sono potenti e veloci, si dispongono in tandem a prua della preda, tendendo una cima fra le due imbarcazioni pirata: così è la prua stessa della vittima, incocciando nella cima, a tirarsele sottobordo. Non è il caso del Saint Antony, che nel frattempo è affondato («Non c’è da meravigliarsi!»). Il peschereccio, continua Bertani, poteva raggiungere al massimo gli 8-9 nodi, contro i 12 della Enrica Lexie. «Le due imbarcazioni procedevano quasi su rotta di collisione», prua contro prua. «Una delle vittime – il timoniere – fu trovato morto “appeso” al timone: s’ipotizzò addirittura che dormisse, all’atto dei luttuosi eventi». Domanda: perché il comandante del mercantile, Umberto Vitelli, se era in dubbio riguardo alle intenzioni del peschereccio, non ha fatto bloccare il timone e aumentare la velocità? E perché non ha richiamato il personale dalla plancia? E’ è tutta a vetri, e se si spara si può essere colpiti.«Qualora il peschereccio avesse messo il “turbo” (cosa risultata a posteriori impossibile, perché era solo una vecchia carretta da pesca), a quel punto si poteva prendere in esame la risposta armata», scrive Bertani. «Quando ho parlato di “grilletto facile” non ho blaterato a vanvera». I due morti sul Saint Antony furono colpiti da munizionamento Nato (presenti i carabinieri italiani all’autopsia). E la barca «era ridotta a un colabrodo, mentre nessun colpo aveva raggiunto la Enrica Lexie, anche perché gli indiani erano disarmati». Dove avvenne lo scontro? Secondo la perizia del “collegio capitani”, a circa 20,5 miglia nautiche dalla costa, all’esterno delle acque territoriali ma all’interno della “zona contigua”, che l’India ha ratificato con la convenzione di Montago Bay, che recita: «La zona contigua si estende dal mare territoriale non oltre le 24 miglia nautiche dalla linea di base. In quest’area lo Stato costiero può sia punire le violazioni commesse all’interno del proprio territorio o mare territoriale, sia prevenire le violazioni alle proprie leggi o regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione». L’India, conclude Bertani, aveva dunque pieno diritto di effettuare l’arresto.«Si è fatto molto chiasso su questa vicenda, cercando d’aggrovigliare le miglia marine come fossero capelli – aggiunge Bertani – ma ci si dimentica che gli israeliani assalirono la Mavi Marmara (mercantile della Freedom Flotilla) a 40 miglia dalle loro coste, in piene acque internazionali, e nessuno mosse un baffo. Quello fu, a tutti gli effetti, un vero atto di pirateria». La vicenda dei marò è intricatissima, perché in India vige la pena di morte: più volte, però, magistrati e politici indiani hanno precisato che “per quel tipo di reato non è prevista la pena di morte”. Le autorità indiane, inoltre, hanno spiegato che ai militari italiani potranno infliggere ogni sentenza «eccetto la pena di morte, l’ergastolo e l’imprigionamento per un periodo eccedente 7 anni». Insomma, il massimo (per due omicidi, secondo gli indiani) sono 7 anni di reclusione: quasi come in Italia. «C’è da dire – continua Bertani – che la pazienza indiana è stata più volte messa a dura prova dalle intemperanze dell’allora presidente Napolitano – che ricevette i due marines come se fossero stati due eroi – e dalle “scommesse” dell’allora ministro degli esteri Terzi, il quale dichiarò che i due militari non sarebbero più tornati in India, dopo uno dei molti “permessi” che l’India concesse, senza esser tenuta a farlo».Tutt’altra storia quella del Cermis, la catastrofe innescata dai “Prowler” dei marines, impegnati in manovre spericolate per “passare sotto i cavi della funivia”. La faccenda fu spiegata con le confessioni dell’equipaggio e di altri membri dello staff americano e italiano: era stata una scommessa. L’aereo, già in fase di cabrata, “tagliò” la cima d’acciaio della funivia come la lama di un coltello. «Eppure, in quella vicenda, non ci fu un solo giorno di prigione per i militari americani, che si appellarono alla famosa convenzione che regola le missioni Usa all’estero: giudicati in patria, dove diedero loro un buffetto». Tutto il personale tornò a volare in breve tempo, appena le acque si furono chetate. «Chi chiede il giudizio in Italia per i due marò, dimentica un piccolo particolare: l’India non è un paese Nato! Quella sentenza, quel modo di trattare degli statunitensi, ci sta bene? Ne siamo soddisfatti?». A ben vedere, continua Bertani, «l’India non ha fatto altro che chiedere un’equanimità di giudizio (pur in presenza di sistemi giuridici diversi), comprendendo che fu un tragico incidente dovuto alla paura e alla carenza di comando e controllo del personale militare imbarcato: l’ufficiale più vicino alla Enrica Lexie era a Gibuti!».Piuttosto, insiste Bertani, «gli italiani dovrebbero indagare e punire chi lasciò soli nelle loro mortale decisione i due fucilieri: il sergente che comandava la squadra? Il comandante Vitelli? Un ufficiale distante tremila miglia marine?». Niente da dire: «Siamo dei veri specialisti nel creare procedure fumose, le quali finiscono per lasciare il cerino in mano all’ultima ruota del carro». E non si può pretendere che un simile pasticcio sia compreso e “perdonato” in India, «paese dal solido impianto giuridico, mutuato dal sistema britannico». In fondo, cos’ha fatto l’India? «Ha chiesto quello che dovevamo chiedere, noi italiani, all’indomani della tragedia del Cermis: si è comportata da paese sovrano. Siamo noi che ci comportiamo da paese subalterno agli Usa». Peraltro, resta completamente irrisolto il problema della pirateria, da quando i mercantili rifiutano di essere equipaggiati con armamento a disposizione del personale di bordo.Secondo Bertani, basterebbe dotare le navi di un cannoncino a tiro rapido, «che consentirebbe di avvertire il bersaglio con una raffica davanti alla prua, come si faceva un tempo». Armi precise, automatiche, facili da usare. Ma i marinai, i comandanti e gli armatori non ne vogliono sapere. Così, nei guai ci finiscono i marò, lasciati senza ordini e costretti a prendere decisioni, da soli, in pochi secondi. «L’unica cosa da non fare è trasformare un evento luttuoso, uno sbaglio, in una questione internazionale d’orgoglio patriottico, peraltro incomprensibile in simili frangenti», conclude Bertani. «Lasciamo che i due marò trascorrano la loro pena in ambasciata, in India (ciò che resterà da scontare dei 7 anni), e faremo una figura onorevole. Siamo ancora in tempo per rimediare, ricordando che l’India poteva comportarsi in ben altra maniera: altro che 7 anni!».Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti, provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei “Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi, in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani – questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori indiani».
-
Strage Moby Prince, mistero Nato con troppe navi-fantasma
Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.Navi-fantasma: il riascolto incrociato delle tracce radio, sostiene Francesco Sanna nel suo reportage, realizzato col contributo dello studio di ingegneria forense Bardazza di Milano, rivela la presenza di almeno tre natanti inzialmente non identificati, sfuggiti alle prime indagini sul disastro. Il nome del primo vascello-fantasma, l’Agrippa, viene fatto – via radio – dalla nave militarizzata americana Cape Breton, che incrocia a un miglio dall’Agip Abruzzo. Alla Cape Breton si sono rivolti i piloti di Livorno per ricostruire l’accaduto e organizzare i soccorsi. La nave Usa, carica di armamenti destinati alla base di Camp Darby tra Livorno e Pisa, rivela che “Agrippa” è a fuoco, ma l’incendio è sotto controllo. Nella prima inchiesta giudiziaria, la parola “Agrippa” viene male intepretata e tradotta in “adrift”, alla deriva. Nell’inchiesta-bis, aperta nel 2006 e chiusa con l’archiviazione nel 2010, i periti della Procura di Livorno distinguono invece nettamente il nome “Agrippa”. Problema: «Nell’area del porto di Livorno, quella sera del 10 aprile 1991, non c’è nessuna imbarcazione con quel nome», osserva Sanna. «Per giunta l’unica nave interessata da un incendio, oltre al Moby Prince avvolto dal greggio incendiato ma che nessuno vede per ore, è l’Agip Abruzzo».Quella notte, continua il giornalista del “Fatto”, un’altra nave-fantasma girava per il porto di Livorno: si chiamava Theresa e si mise in comunicazione radio con un terzo natante non identificato, “ship one”. Chi era Teresa, e chi era la “nave uno”? Secondo gli ingegneri dello studio Bardazza di Milano, che sta lavorando su mandato dei familiari delle vittime, «si trattava della Gallant II, un’altra nave militarizzata americana all’ancora quella sera davanti a Livorno». Benché il quesito cardine alla riapertura dell’inchiesta nel 2006 fosse proprio la tesi del presunto traffico illecito di armi che avrebbe coinvolto gli Stati Uniti, i pm di Livorno «non decisero alcun approfondimento su quell’Agrippa», precisa Sanna. Oggi, a distanza di 23 anni dalla strage, si può ipotizzare che “Agrippa” fosse la Agip Abruzzo, ma non si capisce come mai – parlando con la capitaneria di porto – la nave americana Cape Breton non menzionò la Moby Prince né l’incendio a bordo del traghetto.«Di navi fantasma la vicenda della tragedia del Moby Prince ha fatto la collezione», riassume Sanna, menzionando «un peschereccio bianco che qualche testimone ha visto allontanarsi dal punto della collisione», quella sera, subito dopo l’impatto. Per contro, c’è la sicurezza che il natante, “21 Oktobar II” (secondo Ilaria Alpi coinvolto in traffici di armi) era «ormeggiato e inservibile a una banchina del porto». Oltre a Theresa, «l’imbarcazione che usa dei nomi in codice per allontanarsi dalle navi incendiate», c’è quindi l’americana Cape Breton che, mentre parla con la capitaneria, chiama col nome in codice “Agrippa” una nave incendiata, quasi certamente la petroliera dell’Agip. «Ma basta scorrere con attenzione i nastri dei canali radio attivi, e registrati per un caso e senza che quasi nessuno lo sapesse – continua Sanna – per trovare almeno altre due imbarcazioni “fantasma” che quella sera erano nella rada del porto di Livorno». “Fantasma”, ovvero non registrate dall’Avvisatore Marittimo e mai identificate nelle inchieste giudiziarie. «Navi che hanno nome e carta d’identità tutt’altro che irrilevanti per le indagini ricostruttive: la fonte è certa e a portata degli inquirenti, benché trascurata finora da tutte le inchieste».Le comunicazioni finora “sfuggite” alle inchieste sono tutte in codice Nato. Una di queste proviene dalla Ntv Alliance, «una nave militare da ricerca, principalmente di tipo sottomarino», tuttora in forza alla Nato in acque italiane. «Cosa ci faceva questa nave nella rada di Livorno a mezz’ora dalla collisione tra Moby Prince e Agip Abruzzo?», si domanda Sanna. «E soprattutto: era ancora in prossimità del luogo dell’evento durante le operazioni di soccorso? Se così fosse, decadrebbe definitivamente il “pilastro” dell’irreperibilità del Moby Prince fino ad un’ora dopo l’incidente». Interrogativi inquietanti: «Può forse una nave come la Alliance perdere di vista per tutto quel tempo il secondo natante in una collisione?». Ma non è finita, perché quella notte «nella rada del porto toscano c’era anche almeno un’altra imbarcazione “fantasma”. Si chiama Amer Ved, nave cargo battente bandiera americana, le cui dimensioni (13.000 tonnellate di stazza lorda) suggerirebbero uno stazionamento in rada». La prova è la registrazione di una comunicazione radio. Ma neppure la Amer Ved era stata regolarmente registrata dall’Avvisatore Marittimo, né è mai stata presa in considerazione dalle inchieste.Eppure, aggiunge il “Fatto”, un collegamento con la scena della collisione la Amer Ved l’avrebbe anche: alle 22.50 del 10 aprile 1991 compare sul canale 16 una chiamata della nave militarizzata americana Gallant 2. «Siamo a 25 minuti dalla collisione (avvenuta alle 22.25 circa) e nessuno ha ancora identificato la nave che ha speronato l’Agip Abruzzo». Il comandante della Gallant, Theodossiou, «chiede l’attenzione di “America Cargo” – quindi non segnala un nome preciso ma una qualità dell’imbarcazione – e da “America Cargo” gli rispondono in un inglese masticato chiedendo “dov’è la posizione della nave”, senza specificare quale essa sia». Theodossiou chiuderà con un lapidario: «Me ne sto andando, abbi tu cura della cosa». La conversazione è alquanto enigmatica, sottolinea Sanna. Tuttavia emerge inequivocabilmente la presenza in rada di questa “America Cargo” e il suo domandare circa la posizione di un’altra nave. “America Cargo” potrebbe essere la Amer Ved? «Se sì, cosa stava facendo nella rada di Livorno e perché non è stata identificata durante le indagini? E di cosa si doveva curare, come consigliato dal capitano greco della Gallant 2 che ha tanta premura di “andarsene”?».Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.