Archivio del Tag ‘compagni di merende’
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Sangue sul Chianti: anatomia di un’Italia in emergenza
“Scarabeo”, “La loggia degli innocenti”, “Le rose nere di Firenze”: quello che non ha potuto dire apertamente, come investigatore, il commissario Michele Giuttari lo ha scritto – usando nomi di fantasia – nei suoi fortunatissimi romanzi polizieschi. Lo afferma l’avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dell’ombra: quella da cui nascono alcuni fra i più atroci incubi italiani, tra cui i cosiddetti omicidi rituali. Spaventosi gialli in parte ancora irrisolti, come quelli attribuiti alla banda chiamata Mostro di Firenze. A un passo dalla svolta definitiva arrivò proprio lui, Giuttari, insieme al procuratore perugino Giuliano Mignini, quando i Compagni di Merende allusero al “dottore di Perugia” come possibile mandante: le acque del Lago Trasimeno restituirono un corpo, frettolosamente attribuito a quel giovane medico. Non annegato, si seppe poi, ma strangolato. Una volta riesumato e messo a confronto con le foto del cadavere ripescato, si scoprì che si trattava di due persone diverse. Il morto del lago (mai scoperto chi fosse) doveva solo servire a convincere tutti che il povero medico fosse davvero caduto in acqua, trovandovi la morte.Il colpo di genio? Far rilevare le impronte digitali alla salma, nel dubbio che fosse stato proprio lui – il dottore – a sfidare il pool di Firenze, spedendo ai magistrati alcuni macabri frammenti dei cadaveri straziati delle coppiette uccise. Bingo: quando il super-detective corse a frugare nell’archivio super-blindato dei reperti, scoprì che era stato appena saccheggiato. Le lettere-chiave, sparite. Altro avvertimento: nel cortile della questura, le gomme dell’auto del commissario erano state tagliate. Poco dopo, Michele Giuttari lasciò la polizia. E insieme al magistrato di Perugia, fu perseguitato con accuse giudiziarie pretestuose (poi sgonfiatesi, ma solo dopo aver allontanato lui e il giudice dal vero Mostro di Firenze). Oggi, Michele Giuttari è un autore di bestseller tradotti e venduti in tutto il mondo, in oltre cento paesi diversi. Un prodigioso macinatore di trame mozzafiato e di parole asciutte, esatte, precise come le indagini che ne avevano fatto un campione della polizia italiana.Un implacabile cacciatore di mafiosi, Giuttari. Criminali di primo livello, come i killer di Cosa Nostra che avevano fatto scoppiare le bombe stragistiche di Milano, Firenze e Roma, all’inzio degli anni ‘90, quando l’Italia – caduto il Muro di Berlino – “doveva” finire in pasto ai poteri finanziari che controllano l’Ue, e andare incontro alla buia morsa dell’austerity. Poteri che utilizzarono largamente tutto il marcio su cui aveva galleggiato la mitica Prima Repubblica, prospera e corrotta. Analisti e politologi, negli ultimi anni, hanno ricostruito il quadro: la demolizione dei vecchi partiti, ormai inutili e spesso impresentabili, non sarebbe mai potuta avvenire se la magistratura di Milano non si fosse “accorta”, di colpo, del dilagare del pubblico malaffare. Gli inafferrabili mafiosi? I capi storici sarebbero stati arrestati, anche quelli, ma solo dopo aver “sistemato” Falcone e Borsellino, che si erano spinti oltre, seguendo la pista dei soldi che probabilmente collegava Brooklyn e Bruxelles, magari passando anche per il vecchio Ior e gli affari di Calvi e Sindona, altri due personaggi (di taglia ben diversa) messi a tacere a tempo debito.Oggi è di moda parlare di Deep State: il punto di saldatura tra super-tecnocrati “collaborazionisti”, colletti bianchi della nuova mafia e mercenari dell’establishment al soldo di un potere apolide, quello del denaro, insieme a precisi segmenti dell’apparato statale, le “barbe finte”, gli 007 senza bandiera incaricati delle operazioni più inconfessabili. Un sottobosco che, pian piano, emerge anche dalle pagine di “Sangue sul Chianti”, ultima fatica letteraria di Michele Giuttari, che opera sul campo attraverso il suo alter ego cartaceo, il commissario Ferrara. Non un giallo politico, beninteso: trattasi di noir puro, composto – con un’orchestrazione perfetta, cronometrica e implacabile – per la gioia degli amanti di questo genere narrativo che, secondo la francese Fred Vargas, viene ormai utilizzato sempre più spesso, dagli scrittori, per “rifugiarsi” nel pretesto di una trama poliziesca. Un luogo protetto, da cui dire la loro su come va il mondo, per davvero, anche portando allo scoperto i fili invisibili che legano un assassino ai suoi insospettabili, illustri mandanti.E così, anche “Sangue sul Chianti” – un libro che letteralmente si lascia divorare, alla velocità della luce – mette in scena un teatro d’ombre in cui finiscono per muoversi affaristi di provincia e piccoli drogati, brutali spacciatori stranieri ma anche clan mafiosi con libero accesso a paradisi fiscali. Tutti retroscena perfettamente noti ai soliti apparati, quelli d’intelligence, che – lungi dall’intervenire – sfruttano la situazione: e se proprio si mette male, se cioè spunta qualche “sbirro” troppo sveglio, sono anche pronti a far scorrere il sangue, sul Chianti e non solo, magari per occultare tracce che renderebbero evidente la reale natura del gioco, non presentabile al cittadino comune che si ciba di cronaca, magari nera. Ed è quella, infatti, a dominare il libro, che sa offrire benissimo la percezione della crescente insicurezza sociale, nella Firenze del 2005, mentre l’Italia sta scivolando giorno per giorno verso l’inesorabile crisi economica che, di lì a non molto, la porterà a genuflettersi davanti alle nuove, o forse antiche divinità bancarie dell’Unione Europea.Nel fondamentale memoir “Confesso che ho indagato”, titolo che rifà il verso alla strepitosa autobiografia di Pablo Neruda, Giuttari insiste su un punto cardine: guai a delegare alla sola tecnologia il compito di risolvere le indagini, perché niente potrà mai sostituire il lampo dell’intelligenza (non artificiale) che nasce dalla sensibilità – umanissima – del poliziotto che scava nel buio, nel dolore dei parenti delle vittime e tra le pieghe della scena del crimine, attingendo anche al talento naturale da cui nascono le migliori intuizioni. Certo, occorre essere maestri nell’arte dell’interrogatorio, prima che intervenga – in modo magari maldestro e ingombrante – il protagonismo della magistratura inquirente (non altrettanto dotata, nella specialità in cui eccellono gli “sbirri” purosangue, che sanno fiutare la preda). Così, anche stavolta, gli appassionati del legal thriller e del poliziesco classico troveranno pane per i loro denti, osservando in azione gli uomini del commissario Ferrara: riconosceranno il piglio inconfondibile di indagini condotte a misura d’uomo, inclusi gli inevitabili errori, lontanissimo dagli effetti speciali di tante, recenti polizie televisive.Puntare l’uomo, marcarlo stretto, indovinargli l’anima: sapendo che la possibile cantonata è sempre dietro l’angolo, e che l’assassino potrebbe anche essere la persona di cui, da sempre, ti fidi di più. “Sangue sul Chianti” mostra, in modo esemplare, di che pasta erano fatti gli investigatori italiani della vecchia guardia, come i segugi che – in Sicilia – finirono spesso nel tragico cimitero dell’antimafia, durissima trincea dalla quale proveniva lo stesso Giuttari, messinese d’origine. Il suo ultimo noir punta in alto: lo sporco si annida proprio lassù, nel vertice della piramide, in tutte le sue declinazioni (pubbliche e private). Brillano diamanti e sfavilla il lusso, nel paradiso dorato del “Chiantishire”, che d’un tratto può colorarsi di rosso come il Sangiovese. Ma il male ha sempre bisogno di collaborazione, anche da parte della gente minuta: le debolezze umane sono in agguato ovunque, a poco prezzo. E fanno parte, anche loro, di una trama formidabile, che tiene insieme cacciatori e lepri, vivi e morti, guardie e ladri. Il piccolo delinquente, l’uomo comune che cede alla tentazione solo per una volta, nella vita. E il più pericoloso criminale tuttora a piede libero: il potere.Sbaglierebbe, chi vedesse nell’autore Michele Giuttari una specie di anarchico travestito da ex poliziotto: la severità del suo sguardo politico è la stessa di chi ha creduto, in modo incrollabile, nelle istituzioni di un’Italia risorta dalle macerie dell’ultima guerra mondiale. In tutt’altra maniera, ne dà prova anche uno scrittore come Giuseppe Genna nel thriller “Nel nome di Ishmael”, che lambisce il dramma della sparizione dei bambini: lo fa in una pagina memorabile, dedicata al “sacrificio” di Enrico Mattei come eroico edificatore civile dell’Italia democratica del dopoguerra. Se oggi – 2021, anno secondo dell’Era Covid – il paese è diventato letteralmente irriconoscibile, in fondo anche le pagine di “Sangue sul Chianti” sembrano suggerire che forse non tutto è perduto, se a far tardi la notte (anche rischiando la pelle) ci sono uomini come quelli della Squadra Mobile del commissario Ferrara.(Il libro: Michele Giuttari, “Sangue sul Chianti”, Fratelli Frilli Editore, 467 pagine, euro 18,90).“Scarabeo”, “La loggia degli innocenti”, “Le rose nere di Firenze”: quello che non ha potuto dire apertamente, come investigatore, il commissario Michele Giuttari lo ha scritto – usando nomi di fantasia – nei suoi fortunatissimi romanzi polizieschi. Lo afferma l’avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dell’ombra: quella da cui nascono alcuni fra i più atroci incubi italiani, tra cui i cosiddetti omicidi rituali. Spaventosi gialli in parte ancora irrisolti, come quelli attribuiti alla banda chiamata Mostro di Firenze. A un passo dalla svolta definitiva arrivò proprio lui, Giuttari, insieme al procuratore perugino Giuliano Mignini, quando i Compagni di Merende allusero al “dottore di Perugia” come possibile mandante: le acque del Lago Trasimeno restituirono un corpo, frettolosamente attribuito a quel giovane medico. Non annegato, si seppe poi, ma strangolato. Una volta riesumato e messo a confronto con le foto del cadavere ripescato, si scoprì che si trattava di due persone diverse. Il morto del lago (mai scoperto chi fosse) doveva solo servire a convincere tutti che il povero medico fosse davvero caduto in acqua, trovandovi la morte.
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Covid: basta ritardare le cure, ed ecco la strage di Stato
Primo, non curare: evitare di somministrare farmaci appropriati, in modo tempestivo, a chi manifesta le avvisaglie del Covid. I sintomi sono chiari, dicono i medici: ed è possibile intervenire con successo, fermando sul nascere l’esplosione della malattia, attraverso il ricorso a medicinali opportuni, diversi per ogni singola fase della patologia. Lo spiegano bene i dottori, volontari, che – per colmare il vuoto devastante lasciato delle autorità sanitarie – si sono raccolti in associazioni come “Ippocrate”, che assistono le persone colpite dalla sindrome Covid: fondamentali, dicono, sono le cure precoci. Terapie domiciliari: letteralmente risolutive. Ormai a confermarlo sono le statistiche: in un anno, un medico romano come il dottor Mariano Amici ha curato a guarito il 100% del suoi pazienti (non meno di 2.000) senza doverne far ricoverare nemmeno uno. Che fine farebbe, l’emergenza pandemica, se l’Italia si decidesse finalmente a dotarsi di un protocollo nazionale per le cure domestiche? Che senso avrebbero le zone rosse, e la stessa corsa alla vaccinazione?Visto da questa angolazione, il dibattito sui vaccini (efficaci o meno, innocui o rischiosi, obbligatori o facoltativi) perde completamente di senso: se il Covid diventa una specie di super-influenza affrontabile da casa, sotto controllo medico e con l’impiego di farmaci assolutamente ordinari e collaudati, che senso ha vaccinarsi? E perché imporre ancora la sciagura nazionale del distanziamento (sciagura economica, sociale, psicologica e sanitaria) se dal Covid si può uscire con antinfiammatori, cortisonici e altri medicinali, evitando tranquillamente il ricovero in ospedale? La tragedia è proprio questa: a far esplodere il terrore generale, con l’aiuto dei grandi media, è stato lo stress inflitto alle strutture ospedaliere, letteralmente prese d’assalto da malati ormai in gravi condizioni, molti addirittura in pericolo di vita, essendo stati abbandonati per giorni nelle loro case, senza cure. L’indicazione sanitaria nazionale, infatti, parla ancora di “Tachipirina e vigile attesa”. Vigile attesa di cosa? Del fatale peggioramento: che costringerà il malato a essere ricoverato fuori tempo massimo, quando ormai nemmeno l’ospedale in alcuni casi potrà più salvarlo.Questa è la storia, infame, dell’emergenza Covid. I gestori politici della sanità continuano a ripetere che la Terra è piatta: non esistono cure, se non in ospedale (quando ormai è tardi), e non esistono misure di prevenzione che non siano il vaccino. Secondo le cifre ufficiali, questa tragica sceneggiata basata sull’impostura è già costata oltre centomila morti. Se il governo Conte ha avviato con zelo straordinario la procedura del terrore, il governo Draghi non accenna a interromperla. Certo, nel frattempo emergono le imprese dei “compagni di merende” che spegnevano le voci di dissenso e zittivano i funzionari onesti, pronti a denunciare l’assenza di un piano pandemico aggiornato (che avrebbe limitato il caos e, probabilmente, i morti). Ma il ministro della sanità – l’atroce Roberto Speranza – dopo un anno è ancora al suo posto: pronto a rinchiudere 60 milioni di italiani, per una malattia che ormai i medici hanno capito che è curabilissima da casa, rendendo irrilevante la vaccinazione. Strage di Stato, la chiamano Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni: per quanto ancora verrà tenuta in piedi, questa farsa sanguinosa?Primo, non curare: evitare di somministrare farmaci appropriati, in modo tempestivo, a chi manifesta le avvisaglie del Covid. I sintomi sono chiari, dicono i medici: ed è possibile intervenire con successo, fermando sul nascere l’esplosione della malattia, attraverso il ricorso a medicinali opportuni, diversi per ogni singola fase della patologia. Lo spiegano bene i dottori, volontari, che – per colmare il vuoto devastante lasciato delle autorità sanitarie – si sono raccolti in associazioni come “Ippocrate”, che assistono le persone colpite dalla sindrome Covid: fondamentali, dicono, sono le cure precoci. Terapie domiciliari: letteralmente risolutive. Ormai a confermarlo sono le statistiche: in un anno, un medico romano come il dottor Mariano Amici ha curato a guarito il 100% del suoi pazienti (non meno di 2.000) senza doverne far ricoverare nemmeno uno. Che fine farebbe, l’emergenza pandemica, se l’Italia si decidesse finalmente a dotarsi di un protocollo nazionale per le cure domestiche? Che senso avrebbero le zone rosse, e la stessa corsa alla vaccinazione?
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Magaldi: strage di Stato, indagate Speranza e complici
«Ha tentato in modo arrogante e mafioso di occultare una verità che un funzionario onesto aveva evidenziato». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, attacca il ministro Roberto Speranza: così come lo stesso Conte, non poteva essere all’oscuro delle inaudite manovre messe in atto per insabbiare il dossier di un valente funzionario dell’Oms, Francesco Zambon, che all’inizio della primavera 2020 aveva inutilmente segnalato l’assenza di un piano pandemico aggiornato. «Mi complimento con Massimo Giletti, che l’11 aprile nel suo programma su La7, “Non è l’arena”, ha riassunto la vicenda: Ranieri Guerra, già direttore generale del ministero della salute e dunque responsabile dei piani pandemici, prima non ha aggiornato il piano per l’Italia, e poi – divenuto direttore vicario dell’Oms – si è vantato con Silvio Brusaferro, neo-portavoce del Cts, di aver intimato a Zambon di cambiare le carte in tavola, arrivando infine a far ritirare il rapporto».Per Magaldi, «anche Brusaferro dovrebbe essere costretto a dimettersi subito, per rimozione della verità e per truffa», nell’ambito di una manovra che l’ha visto agire come «compagno di merende di Ranieri Guerra e dello stesso Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto del ministro Speranza». Insiste Magaldi: non è immaginabile che Speranza non fosse al corrente dei fatti, impegnato com’era a «promuovere la logica del terrore e delle morti, molte delle quali evitabili con un piano pandemico aggiornato e prontamente applicato, quindi con una ben diversa capacità di gestione dell’emergenza». Conclusione: l’esponente di Leu «non può più essere ministro, dopo questa storia: Draghi non può permettersi di continuare ad avere un “ministro della malasanità” come Speranza, che mi auguro venga anche processato, specie dopo le verminose comunicazioni tra Guerra e Brusaferro, mostrate in primis da Giletti: sono parte di un comportamento non scusabile e non accettabile, che probabilmente presenta anche profili penali».Esponente della massoneria sovranazionale progressista, Magaldi preme su Draghi: «Ho informazioni ancora più esplosive su quanto è accaduto e sta ancora accadendo», premette. «Credo che Draghi sia sempre più incline a meditare: non solo sulla gente da cui è circondato e di cui deve liberarsi al più presto, ma anche sul paradigma finora adottato». Sottolinea il leader “rooseveltiano”: «Ancora prima della salute viene la libertà: se tuteli la libertà e persegui la verità, allora tutelerai anche la salute. Invece, quelli come Speranza – che hanno messo al primo posto la salute biologica e calpestato le libertà costituzionali – alla fine non si sono curati nemmeno della salute, come viene fuori dagli scandali che stanno emergendo». Magaldi cita il saggio “Strage di Stato” (Lemma Press), scritto dal medico Pasquale Bacco e dal magistrato Angelo Giorgianni. «Il libro dà conto di verità inaudite e ben documentate: ed è stato vittima di uno scandaloso linciaggio, che denota una vocazione alla menzogna, alla diffamazione e alla calunnia».Magaldi accusa Giuliano Ferrara, fondatore del “Foglio”, che definisce «preclaro esemplare di conformismo e piaggeria nei confronti del potere: ha agito da cialtrone, criminalizzando quel libro senza neppure averlo letto, altrimenti si sarebbe accorto che non contiene affatto gli accenti “negazionisti” che gli ha attribuito». In altre parole, Ferrara «ha fatto il processo alle intenzioni», avvezzo a dare del “negazionista” «a chiunque si discosti dal pensiero unico». Magaldi critica anche il magistrato antimafia Nicola Gratteri, che ha preso le distanze da quel libro nonostante ne avesse firmato la prefazione: «E’ stato costretto all’abiura perché evidentemente non ha la stoffa di Giordano Bruno. Come diceva Manzoni di Don Abbondio: uno il coraggio non se lo può dare».Magaldi conferma la denuncia contenuta nel libro di Bacco e Giorgianni: «La vicenda Covid è stata una strage di Stato, che peraltro è tuttora in corso: con omicidi, sequestri di persona e atti di violenza privata». Il paese sta crollando, non certo risollevato dai magri “ristori” di Draghi: «Un commerciante a Scanzano ha scritto: “Se mi private della possibilità di lavorare, non mi sento più in dovere di pagare le tasse”». La rabbia sociale è in aumento: «Ormai, intorno a noi vediamo macerie, economiche ed esistenziali. E c’è gente che ha visto morire amici e parenti che potevano essere assistiti diversamente, morti perché mal curati e non perché il virus, di per sé, fosse così letale». Altro scandalo, infatti, la perdurante mancanza di un protocollo sanitario nazionale per le cure precoci, a domicilio: «Tutte vie non percorse: si è deciso di affidarsi al solo vaccino, che non è una terapia ma una semplice profilassi preventiva. Speriamo almeno che sia efficace».Tra le spine degli ultimi giorni, anche l’obbligo vaccinale per i sanitari: una sorta di Tso, con la somministrazione di farmaci recentissimi e ancora sostanzialmente sperimentali. «Il Movimento Roosevelt – annuncia Magaldi – si batterà per assistere i medici “renitenti”, in eventuali azioni legali: deve restare inviolato il diritto del cittadino a non essere “violentato” sul piano terapeutico, come invece facevano i nazisti con i loro prigionieri, ridotti a cavie». Probabilmente, non sono molti i medici e gli infermieri contrari a vaccinarsi. Però il governo, osserva Magaldi, sembra avere paura proprio della loro protesta: «Il potere costituito teme sempre gli eretici, e a maggior ragione – come in questo caso – se i dubbi sono espressi dai sanitari: si rischia di compromettere il conformismo “militare” complessivo che sorregge il paradigma “terroristico”, vigente da ormai un anno».Purtroppo, conclude il leader “rooseveltiano”, «su tutta questa vicenda pesa come un macigno il fatto che siano saltati alcuni principi costituzionali: prima vanno ripristinati quelli». Ormai, aggiunge, «la libertà di pensiero e di espressione è sempre più soffocata, anche sui social media». Urge l’adozione di un cambio di paradigma, insiste Magaldi: aiuti immediati e sostanziosi per le aziende in agonia, e finalmente cure efficaci e tempestive per chi contrae il Covid, senza quindi dover più ricorrere (tardivamente) all’ospedale. Prima ancora: «Il cittadino deve restare libero di scegliere di rischiare: tra le possibili conseguenze del coronavirus e le possibili conseguenze di un vaccino». Mario Draghi? «Credo che debba studiare di più, sul piano del rapporto tra effettiva tutela della salute e rispetto di quei principi democratici e liberali, in nome dei quali ha giustamente dato del tiranno al “fratello contro-iniziato” Erdogan». Primo passo, dunque: «Fare pulizia, come già avvenuto nel caso di Arcuri, anche nella catena di comando della sanità». Un ambiente che Magaldi vede «affollato di mascalzoni che devono andarsene a calci nel culo, indagati ed eventualmente condannati dalla magistratura: non possono essere loro, i dispensatori della verità di Stato, in una faccenda seria come quella del Covid».«Ha tentato in modo arrogante e mafioso di occultare una verità che un funzionario onesto aveva evidenziato». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, attacca il ministro Roberto Speranza: così come lo stesso Conte, non poteva essere all’oscuro delle inaudite manovre messe in atto per insabbiare il dossier di un valente funzionario dell’Oms, Francesco Zambon, che all’inizio della primavera 2020 aveva inutilmente segnalato l’assenza di un piano pandemico aggiornato. «Mi complimento con Massimo Giletti, che l’11 aprile nel suo programma su La7, “Non è l’arena”, ha riassunto la vicenda: Ranieri Guerra, già direttore generale del ministero della salute e dunque responsabile dei piani pandemici, prima non ha aggiornato il piano per l’Italia, e poi – divenuto direttore vicario dell’Oms – si è vantato con Silvio Brusaferro, neo-portavoce del Cts, di aver intimato a Zambon di cambiare le carte in tavola, arrivando infine a far ritirare il rapporto». Per Magaldi, «anche Brusaferro dovrebbe essere costretto a dimettersi subito, per rimozione della verità e per truffa», nell’ambito di una manovra che l’ha visto agire come «compagno di merende di Ranieri Guerra e dello stesso Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto del ministro Speranza».
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La rockstar Andrea Scanzi e l’Italia dei compagni di merende
Cos’è più avvilente, in questa primavera italiana? L’ex giornalista Andrea Scanzi o l’ex politico Pierluigi Bersani? Il primo intasa i social network per svelare agli italiani la loro immensa fortuna: essere governati da Giuseppi, cioè l’unico premier europeo che vanta almeno due record assoluti, il maggior numero di morti da Covid e il maggior numero di persone rimaste senza assistenza economica, sull’orlo della disperazione. Il secondo, lo Smacchiatore, dopo aver promosso a pieni voti il professor Monti e il suo micidiale pareggio di bilancio in Costituzione, ora torna a dare segni di vita spiegando, in televisione, che tedeschi e olandesi fanno benissimo a massacrare gli italiani, notoriamente un popolo di lazzaroni e incalliti evasori fiscali. Se a festeggiare il fantasma di Bersani è un tripudio di pernacchie, tutt’altra accoglienza incoraggia invece l’autoproclamata “rockstar del giornalismo italiano” (testuale, dal suo profilo Facebook), il cui ego-mongolfiera ora si gonfia a dismisura, nei giorni del lockdown infinito, beandosi dello strabiliante punteggio raggiunto dai suoi gargarismi quotidiani: un milione e mezzo di “like” e oltre centomila visualizzazioni per le imperdibili dirette video. «Ma ho anche dei difetti», ci informa, umilmente magnanimo, il nuovo amicone di Giuseppi.L’espressione “compagni di merende” deriva dal contesto oscuro e luttuoso del Mostro di Firenze, atroce caso nazionale tuttora irrisolto, benché rischiarato (solo nei suoi successivi romanzi, tuttavia) dall’allora commissario Michele Giuttari, a cui tagliarono le gomme dell’auto parcheggiata in questura, dopo essere giunto a un passo dalla verità insieme al pm perugino Giuseppe Mignini, colpito – insieme a Giuttari – dall’accusa di abuso d’ufficio. Poliziotto e magistrato avevano intuito che a macellare 16 persone sulle colline di Firenze non erano stati i patetici Pacciani, Vanni e Lotti, ma ben altri compagni di merende. I tre rozzi paesani (uno dei quali, Pacciani, prima incastrato con prove false e poi ucciso con farmaci letali per un cardiopatico come lui) sapevano probabilmente qualcosa dell’organizzazione chiamata Mostro di Firenze, ma sono stati utilizzati essenzialmente come diversivo per depistare le indagini, allontanandole dalla zona off limits, quella degli intoccabili. Un copione schematico, usato anche nella tragedia nazionale di Tangentopoli: come compagni di merende furono trattati i protagonisti dell’intera classe politica della Prima Repubblica, debolissima e declinante, diffusamente corrotta, ma non pericolosa quanto quella che le sarebbe succeduta, autrice della storica svendita del paese, oggi in ginocchio.La fu-sinistra, in blocco, credette davvero alla storiella dei compagni di merende. E così sostenne compatta tutti i tagli previsti dall’austerity, a partire dal primo decreto Treu sulla flessibilità del lavoro, premessa generale per il crollo dei diritti sociali che ha aperto la precaria stagione dei laureati nei call center e della fuga dei cervelli, poi comodamente imputata al cattivone di turno, l’orrido Berlusconi. Il primo a distaccarsi da quella sinistra, da cui pure proveniva, fu il grande Giulietto Chiesa, appena scomparso. Non hanno capito quello che è successo, ripeteva: non hanno la minima idea di chi siano i poteri a cui hanno consegnato l’Italia. Era avanti anni luce, Giulietto Chiesa: aveva compreso perfettamente che la dicotomia destra-sinistra apparteneva al Novecento, e che la nuova partita fra alto e basso era un derby spietato tra oligarchia e democrazia, tra finanza e politica. Guerra o pace, abuso o diritto, pochi o molti. Le bandiere di ieri? Scolorite, tutte: da custodire, ma come gloriosi cimeli storici, in nome del senso della realtà (quello che il 25 aprile 2020 s’è fatto fatica a rintracciare, sui balconi italiani pavesati in tricolore per lo spettacolo più surreale: prigionieri della post-democrazia, sottoposti al nuovo regime di polizia sanitaria, ma felici di cantare Bella Ciao come se fossero liberi).Se qualcuno pensa di essere in Corea del Nord, ascoltando il soave Scanzi decantare il Caro Leader, si sbaglia: siamo in Italia, più che mai. Siamo nel paese che un tempo era la quinta potenza industriale del pianeta, benché frenata dalle sue piaghe endemiche come l’evasione fiscale, la corruzione dilagante, lo strapotere delle mafie. Vent’anni di disinformazione martellante hanno fatto il miracolo: nessuno dei mali storici è scomparso, ma le condizioni generali sono precipitate grazie alle minacce letali che i Travaglio e gli Scanzi non hanno mai voluto vedere, denunciare, indagare. Sono le regole truccate dell’austerity europea, quelle che oggi costringono Giuseppi a dare di sé uno spettacolo indecoroso, al punto da chiedere scusa – fuori tempo massimo – per l’assoluta inettitudine del suo governo, di fronte a una catastrofe come quella del coronavirus. Ma nemmeno l’ammenda tardiva di Conte basta a smuovere la “rockstar del giornalismo italiano”, che esorta a venerare il Re Sole, l’Avvocato del Popolo venuto da Volturara Appula (e dal Vaticano). Giuseppe Conte? E’ il nulla assoluto, sentenzia Alessandro Di Battista, a lungo coccolato dal “Fatto Quotidiano” e ora ridotto a recitare il ruolo di immacolato outsider. Ma anche il Dibba, in fondo, dice – senza ridere – che un governo di unità nazionale sarebbe ancora peggio di quello in carica, visto che farebbe strame di quel che resta del paese.Sembra l’ultima edizione della storia dei compagni di merende: Di Battista evoca i lupi mannari che, guidati magari dal un super-tecnocrate come Draghi, darebbero la stura a ogni possibile speculazione, maxi-appalti fuori controllo e grandi opere inutili. Di nuovo: non è una barzelletta, l’ha detto veramente (lui, che fa ancora parte del Movimento 5 Stelle, cioè l’illusione ottica nazionale che – dopo aver insediato Giuseppi – ha rinnegato una dopo l’altra tutte le promesse elettorali, nessuna esclusa: Tap e Tav, trivelle in Adriatico, F-35, obbligo vaccinale). Di fronte a questo, il grande Andrea Scanzi non ha trovato di meglio che esprimere la sua arte sopraffina, tra una comparsata e l’altra del salotto televisivo di Lilli Bilderberg Gruber, nel vergare l’immortale capolavoro “Il cazzaro verde”, dedicato al demagogo che straparlò in un comizio di Pieni Poteri – prima che a prenderseli, i Pieni Poteri, e senza avvisare gli italiani, fosse il favoloso Giuseppi, il premier che gli italiani ingrati non si meriterebbero. Riavvolgendo il nastro: che faceva, Salvini, un anno fa? La buttava in caciara, per non dover ammettere il cocente fallimento del governo gialloverde di fronte al suo avversario, il rigore Ue. E che faceva, la stampa? Niente di meglio: la buttava in caciara, anche lei, prendendosela comodamente con il “cazzaro verde”. Facile, no?Sta per scadere, finalmente, il tempo di Giuseppi? Marta Cartabia (Corte Costituzionale, vicinissima a Mattarella) avverte che la Carta non la si può deformare, neppure di fronte a un’emergenza sanitaria. Entro un mese potrebbe subentrare Draghi, si sbilancia in televisione Stefano Zurlo, di “Libero”, il quotidiano di Vittorio Feltri (veterano della stampa italiana, che i Bilderberg Boys del giornalismo-rockstar ormai manganellano, trattandolo come un soggetto psichiatrico). E a proposito di giornalisti: oscuri dilettanti come Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa sostenevano che con un politico fosse lecito, al massimo, prendere un caffè. Poco prima che l’Italia si trasformasse nel più grande carcere del mondo, Marco Travaglio si appartò con il primo ministro: cenetta intima in un ristorante sull’Appennino, celebre per i piatti a base di funghi. Anche Giulietto Chiesa frequentava politici, ma nel suo caso si chiamavano Mikhail Gorbaciov. E le cene si succedettero solo quando l’uomo che mise fine alla guerra fredda era ridiventato un privato cittadino, benché illustre. A Gorby diedero anche il Nobel per la Pace. E Giuseppi, a quale Nobel potrebbe ambire? Bel problema, ma niente paura: una formidabile menzione adorante potrebbe sempre scrivergliela l’immaginifico Scanzi, la rockstar di cui l’Italia prostrata dalla galera-Covid sentiva davvero il bisogno.(Giorgio Cattaneo, “La rockstar Andrea Scanzi e l’Italia dei compagni di merende”, dal blog del Movimento Roosevelt del 2 maggio 2020).Cos’è più avvilente, in questa primavera italiana? L’ex giornalista Andrea Scanzi o l’ex politico Pierluigi Bersani? Il primo intasa i social network per svelare agli italiani la loro immensa fortuna: essere governati da Giuseppi, cioè l’unico premier europeo che vanta almeno due record assoluti, il maggior numero di morti da Covid e il maggior numero di persone rimaste senza assistenza economica, sull’orlo della disperazione. Il secondo, lo Smacchiatore, dopo aver promosso a pieni voti il professor Monti e il suo micidiale pareggio di bilancio in Costituzione, ora torna a dare segni di vita spiegando, in televisione, che tedeschi e olandesi fanno benissimo a massacrare gli italiani, notoriamente un popolo di lazzaroni e incalliti evasori fiscali. Se a festeggiare il fantasma di Bersani è un tripudio di pernacchie, tutt’altra accoglienza incoraggia invece l’autoproclamata “rockstar del giornalismo italiano” (testuale, dal suo profilo Facebook), il cui ego-mongolfiera ora si gonfia a dismisura, nei giorni del lockdown infinito, beandosi dello strabiliante punteggio raggiunto dai suoi gargarismi quotidiani: un milione e mezzo di “like” e oltre centomila visualizzazioni per le imperdibili dirette video. «Ma ho anche dei difetti», ci informa, umilmente magnanimo, il nuovo amicone di Giuseppi.
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Franceschetti: delitti rituali, se i killer agiscono come automi
«Ora è finita», dice il cannibale Jeffrey Dahmer ai suoi giudici. Si è arreso, il Mostro di Milwaukee, dopo aver ucciso, squartato e divorato 17 vittime. «Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato: non ho voluto mai la libertà, e oggi non chiedo attenuanti». Il serial killer dichiara ufficialmente di aspettarsi la pena capitale: sarebbe un sollievo, per lui. Confessa tutti i suoi delitti, ma precisa: «Non ho mai odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio, o entrambe le cose. So quanto male ho causato, ma ora mi sento in pace: grazie a Dio, non potrò più fare del male». Si è convertito, Dahmer: «Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati». E’ il 1992 quando viene condannato all’ergastolo. Due anni dopo, però, viene ucciso da un detenuto affetto da schizofrenia, il cui nome (Christopher Scarver) contiene, curiosamente, il riferimento a Cristo. Solo un caso? Chi lo sa. Certo è che, nei delitti anomali – cioè non scatenati da moventi ordinari (denaro, passione, vendetta) – ci si imbatte spesso in una mole impressionante di «coincidenze eccezionali». Lo sostiene Paolo Franceschetti, già avvocato delle Bestie di Satana e poi indagatore di casi intricatissimi come quello del Mostro di Firenze: una inquietante sequenza di omicidi rituali. Domanda: com’è possibile che si verifichino tutte quelle maledette coincidenze? Ed è credibile che una forza sconosciuta guidi la mano dei killer?Franceschetti, buddista praticante e autore del saggio “Alla ricerca di Dio”, suggestiva indagine trasversale sulla spiritualità, esplorata “dalle religioni ai maestri contemporanei”, propende per una spiegazione occultistica: quella cioè di chi crede davvero che la ritualità della cosiddetta magia possa produrre effetti concreti, pericolosamente tangibili e persino letali. A colpirlo, è l’ineffabile ricorrere di troppe concatenazioni altamente simboliche e altrimenti inspiegabili, a suo parere: come se “l’invisibile” fosse una specie di lavagna, sulla quale poter imprimere precisi desideri. Dal canto suo, Franceschetti vanta anni di coraggiose ricerche condotte con rigore, partendo dalle carte giudiziarie. «Nei delitti delle Bestie di Satana – scrive, sul blog “Petali di Loto” – alcuni dei nomi dei ragazzi coinvolti sono, appunto, nomi di bestie: Volpe, Leoni, Zampollo (zampa di pollo)». La figura simbolica di Satana, nella tradizione cristiana, è sconfitta dell’arcangelo Michele: «E guarda caso, i due personaggi che in tutta la vicenda risultano la chiave per scoprire i delitti si chiamano Michele». Il primo è Michele Tollis, il padre di uno dei ragazzi assassinati, il cui cognome richiama la preghiera “qui tollis peccata mundi”. L’altro invece è un carabiniere, Michelangelo Segreto, all’epoca comandante della stazione di Somma Lombardo. «Michelangelo: qui non abbiamo solo Michele, ma anche l’angelo».La Bestia dell’Apocalisse, sottolinea Franceschetti, in alcune raffigurazioni ha le zampe di pollo e la testa di leone: i “registi” dell’operazione Bestie di Satana, che ha coinvolto giovani sbandati (e spesso innocenti, sostiene il loro ex legale) era dunque una terribile, sanguinosa allegoria vivente, messa in scena per “rappresentare” l’Apocalisse di Giovanni? Franceschetti si concentra sulle coincidenze: Volpe sparò a Mariangela Pezzotta, colpendola alla gola. Come si chiama il luogo in cui avvenne il delitto? Golasecca. La vicenda delle Bestie di Satana, almeno per la versione ufficiale diffusa dalla stampa, finì il giorno che Volpe e Ballarin, dopo aver ucciso Mariangela, si schiantarono con l’auto presso la diga di Panperduto, dove poco dopo furono fermati. Traduzione simbologica: proprio a Panperduto, le Bestie di Satana “si perdono”. E il dio pagano Pan, aggiunge Franceschetti, nella tradizione cattolica era «una delle rappresentazioni di Satana», secondo la Chiesa medievale ancora impegnata a debellare il tenace paganesimo che resisteva nelle campagne. Qualcuno si è preso gioco di quei ragazzi, allestendo (a loro insaputa) una trama spaventosa?Da Varese a Firenze, cambiano gli attori ma resta invariato l’affollamento di coincidenze anomale. Nei delitti del Mostro, le zone del delitto – se segnate su una mappa – disegnano un cerchio (magico) attorno a Firenze, rileva Franceschetti. Il capoluogo toscano «è per eccellenza la città di Dante, il poeta che mise per iscritto nella “Divina Commedia” il sapere templare e rosacrociano». In vari scritti, inclusi due saggi, Franceschetti attribuisce l’operazione “Mostro di Firenze” alla cosiddetta Rosa Rossa, potente setta formata da individui coltissimi e socialmente altolocati, passati dall’iniziale esoterismo alla degenerazione dell’occultismo più sanguinario, sulle orme del “mago nero” Aleister Crowley, teorico dei sacrifici umani a scopo propiziatorio. Il primo a mettere gli inquirenti sulla pista esoterica dei delitti rituali fu il criminologo Francesco Bruno, all’epoca consulente del Sisde. Più tardi, l’indicazione dei servizi segreti fu recepita dal super-poliziotto Michele Giuttari, commissario messo a capo dell’unità investigativa speciale istituita a Firenze per venire finalmente a capo del giallo.Giuttari però fu fermato a un passo dalla risoluzione del caso: la pista “magica” l’ha narrata anni dopo, in romanzi divenuti bestseller, in cui l’eminenza grigia dell’organizzazione – nella fiction – risulta essere nientemeno che un prestigioso magistrato, il procuratore di Firenze. Titoli evocativi: “La loggia degli innocenti”, “Scarabeo”, “Le rose nere di Firenze”. Pedofilia, massoneria deviata, occultismo (e quel fiore, la rosa) all’ombra del potere. Lo stesso Franceschetti non ha esitato a puntare il dito contro l’allora capo della Procura fiorentina Piero Luigi Vigna, poi promosso procuratore nazionale antimafia. La moglie di Vigna, ha scritto Franceschetti, morì travolta da un’auto-pirata dopo aver denunciato il marito allo stesso Giuttari: era scossa dalla strana morte della moglie del farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, deceduta in una struttura psichiatrica dopo aver dichiarato «Vigna spara, mio marito taglia». Giuttari si arrese quando scoprì che era stato violato l’archivio d’indagine sul Mostro: conteneva le impronte digitali su lettere anonime inviate anni prima agli inquirenti – buste contenenti anche resti umani, appartenenti alle vittime.Grazie a quel misterioso furto nel quartier generale della polizia non fu possibile incrociare le impronte sulle buste con quelle del medico perugino Francesco Narducci, dichiarato “annegato” nel Lago Trasimeno e citato in varie deposizioni dai “compagni di merende”, Pacciani e soci. A Perugia il pm Giuseppe Mignini fece riesumare il cadavere e scoprì che non era Narducci, il morto ripescato nel lago: prima del funerale c’era stata una clamorosa sostituzione della salma, perché la tomba riportò alla luce il vero Narducci – non annegato, ma vistosamente strangolato, sull’isoletta del Trasimeno che aveva raggiunto il 3 ottobre 1985, imbarcandosi in stato di forte agitazione, come se temesse l’appuntamento che lo attendeva. Giuttari ha ormai lasciato la polizia, dopo una sfolgorante carriera di detective antimafia, e ora affida ai romanzi la possibile verità sul Mostro di Firenze. Dal canto suo, Franceschetti insiste sui dettagli cifrati, simbologici: un codice fuori della portata di personaggi come Pacciani, Vanni e Lotti. «Il primo delitto del Mostro è quello di Pasquale Gentilcore, e la “Vita Nova” di Dante si apre con il verso “a ciascun’alma presa e gentil core”. Più in generale la trama dei delitti richiama dal punto di vista simbolico la “Divina Commedia” e il quadro del Botticelli “La Primavera”, la cui allegoria sembra “contenere” tutti gli omicidi del Mostro.Franceschetti cita persino il delitto Moro: la vicenda si apre in via Fani (Mario Fani, fondatore del circolo di Santa Rosa) e si chiude in via Caetani al numero 9 (cioè esattamente davanti al conservatorio di Santa Caterina della Rosa) dove viene parcheggiata la Renault rossa in cui c’era il cadavere del presidente della Dc. Per inciso: Michelangelo Caetani era uno stimato dantista, e – volendo stare al “gioco” dei simboli – le iniziali del binomio “Renault rossa” sono le stesse dell’invisibile Rosa Rossa. «Di recente – racconta sempre Franceschetti su “Petali di Loto” – mi ha abbastanza colpito il delitto avvenuto nella mia città», Viterbo (patrona: Santa Rosa), «il giorno in cui io aveva un’udienza per la vicenda del Mostro di Firenze», a causa della querela presentata contro Franceschetti dal giornalista Mario Spezi. I fatti: duplice omicidio il 13 dicembre 2017, giorno di Santa Lucia, proprio in strada Santa Lucia. Al numero 26 (due volte 13, «ovverosia due volte il numero della morte», per certo esoterismo numerologico) vengono ritrovati uccisi due coniugi, e la donna si chiama Rosa Rita Franceschini.In altre parole, ragiona Franceschetti, «il giorno in cui, a Viterbo, si celebra un processo che riguarda quello che io ho additato come uno dei principali esponenti della Rosa Rossa (organizzazione che ha la Rosa, e Santa Rita, tra i suoi simboli principali, con cui firma i suoi delitti), viene uccisa una donna che ha, nel nome di battesimo, i simboli dell’organizzazione, e il cui cognome ha una certa assonanza con il mio». Difficile, per un simbologo, non notare la coincidenza. Quella volta furono addirittura i giornali a parlare di omicidio rituale, perché la coppia uccisa era disposta in un modo particolare sul letto, e il loro figlio (accusato del delitto) aveva appena finito di leggere il romanzo “Il grande Dio Pan” di Arthur Machen, che descrive una scena simile a quella del delitto commesso a Viterbo. «Potrei andare avanti per ore», aggiunge Franceschetti, che al tema del delitto rituale ha dedicato centinaia di pagine. La domanda che si pone oggi è un’altra. Ovvero: come si creano, queste coincidenze così straordinarie?Se si esclude il caso, Franceschetti non crede che un copione così complicato possa essere progettato a tavolino: scegliere i nomi delle vittime e stabilire in che data e a che ora ucciderle «richiederebbe anni di lavoro e sarebbe ad alto rischio di fallimento, a causa delle troppe variabili». Senza contare che «se dietro tutto questo ci fosse un’intelligenza umana, prima o poi – in qualche processo, in qualche atto parlamentare o in qualche libro – qualcuno ne darebbe testimonianza». Invece, solo per fare un esempio, nel delitto Moro «non risulta da nessuna parte che qualcuno abbia ordinato di acquistare proprio una Renault rossa, per poi andarla a depositare proprio al numero 9». Ed è qui che Franceschetti, per darsi una spiegazione, parla della magia. Non si limita a dire che gli assassini compiono rituali magici – cosa peraltro plausibile e confermabile. Franceschetti va oltre: per tentare di risolvere il rompicapo, ritiene che la stessa magia sia, esattamente, la spiegazione mancante. Il presupposto, indimostrabile, sta nel credere che la pratica magica “funzioni” davvero, sul piano materiale. Tradotto: compio un rito, e il rito scatena “forze occulte” così potenti da influire nella realtà, compresa quella di un omicidio, provvedendo anche al corredo “perfetto” delle coincidenze simboliche.Lo stesso Franceschetti ha più volte rivelato che la magia – sempre ridicolizzata dai media – sia in realtà praticata dalle alte sfere del potere, insospettabilmente dedite all’occultismo e alla divinazione. Sempre secondo Franceschetti, alcuni delitti rituali vengono commessi con il concorso di una certa “magia”, che deve per forza “funzionare”. O meglio: «Mentre l’assassino o gli assassini agiscono sul piano materiale, un altro gruppo, o dei singoli, agiscono sul piano magico ed esoterico». Sempre sul terreno dell’indimostrabile, Franceschetti aggiunge che la cosiddetta “azione magica” potrebbe scatenare «l’azione di entità che si affiancano agli esseri umani per raggiungere il fine dell’operazione». Come se i killer agissero in una sorta di trance? «Alcune di queste entità prendono il possesso delle persone coinvolte, agendo al posto loro». Stati mentali alterati? «Un prete cattolico definirebbe queste persone “indemoniate”, mentre in gergo esoterico si dicono “parassitate”: si tratta infatti di veri e propri “parassiti psichici” che prendono il controllo, a lungo o per pochi attimi, di singole persone o addirittura di gruppi».Automatico il riferimento a pratiche messe a punto da servizi segreti militari – i programmi Monarch e Mk Ultra – per manipolare individui, trasformandoli in strumenti inconsapevoli. Franceschetti preferisce parlare del ruolo (intermedio) che sarebbe svolto da quelle che chiama “entità”. Secondo lui prendono vari nomi, a seconda delle tradizioni di riferimento: eggregore, “elementali”. «Corrado Malanga li chiamava “alieni”, e chiamava “addotti” coloro che erano sotto il controllo di queste entità. I preti li chiamano demoni e chiamano indemoniate le persone soggette a questi fenomeni. La psichiatria li chiama spesso schizofrenici» (succede quando il paziente “sente le voci”: la diagnosi parla di psicosi). «Tutte le tradizioni magiche, di tutte le culture, e da sempre, si occupano di queste “entità” e del loro rapporto con gli esseri umani», osserva Franceschetti. Non è delirio paranoico, assicura: il fenomeno esiste. Ma di cosa si tratta, esattamente? Franceschetti propende per la sua tesi “spiritualistica”, ovvero: si tratterebbe di «entità non umane», anche se poi è il killer – una volta “riavutosi”, ad ammettere: «Non so perché l’ho fatto, so solo che dovevo farlo».Lo stesso Dahmer, pentito, implorò i giudici: «Datemi il massimo della pena». Il cosiddetto Mostro di Foligno, Luigi Chiatti, ha chiesto scusa ai familiari delle sue vittime. Lo statunitense Jonh Wayne Gacy, soprannominato Killer Clown, che stuprò e assassinò decine di bambini, dichiarò al processo che a uccidere non era stato lui, ma il suo “doppio”. Altro dettaglio molto interessante, segnala Franceschetti, è che alcuni serial killer hanno raccontato agli inquirenti di esser stati avvicinati da persone eleganti e facoltose che si erano dichiarate “interessate alla loro attività”. «Sono molti i casi di persone che hanno ucciso e fatto vere e proprie stragi: erano persone normali, fino a un attimo prima; e poi, in pochi secondi, si sono trasformate in mostri». La causa? Franceschetti parla di “energia dell’eggregora” che scatenerebbe la furia omicida, dopo il presunto rito magico. Tornando invece al livello investigativo del ragionamento, troppe volte gli inquirenti hanno sottovalutato la matrice occultistica e rituale di un delitto, pur in presenza di segni simbolici estremamente evidenti. Jung le chiama “coincidenze significative”. Per Einstein, sono «Dio che passeggia in incognito». E il credente, si sa, ritiene che tutto venga dalla “divinità”, i cui piani sono ovviamente imperscrutabili – come il buio in cui naufragano troppe indagini.«Ora è finita», dice il cannibale Jeffrey Dahmer ai suoi giudici. Si è arreso, il Mostro di Milwaukee, dopo aver ucciso, squartato e divorato 17 vittime. «Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato: non ho voluto mai la libertà, e oggi non chiedo attenuanti». Il serial killer dichiara ufficialmente di aspettarsi la pena capitale: sarebbe un sollievo, per lui. Confessa tutti i suoi delitti, ma precisa: «Non ho mai odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio, o entrambe le cose. So quanto male ho causato, ma ora mi sento in pace: grazie a Dio, non potrò più fare del male». Si è convertito, Dahmer: «Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati». E’ il 1992 quando viene condannato all’ergastolo. Due anni dopo, però, viene ucciso da un detenuto affetto da schizofrenia, il cui nome (Christopher Scarver) contiene, curiosamente, il riferimento a Cristo. Solo un caso? Chi lo sa. Certo è che, nei delitti anomali – cioè non scatenati da moventi ordinari (denaro, passione, vendetta) – ci si imbatte spesso in una mole impressionante di «coincidenze eccezionali». Lo sostiene Paolo Franceschetti, già avvocato delle Bestie di Satana e poi indagatore di casi intricatissimi come quello del Mostro di Firenze: una inquietante sequenza di omicidi rituali. Domanda: com’è possibile che si verifichino tutte quelle maledette coincidenze? Ed è credibile che una forza sconosciuta guidi la mano dei killer?
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Violenza-spettacolo, le amnesie dei media e le regie occulte
Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinadole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esperazione.«Giornalisti bugiardi e cialtroni: ne caccerei nove su dieci», ebbe a dire recentemente un reporter di razza come lo statunitense Seymour Hersh, Premio Pulitzer. La sua tesi: se la stampa non avesse abdicato al suo ruolo, rinunciando a fare il proprio dovere, in questi ultimi decenni avremmo avuto meno vittime. Meno abusi e meno stragi, meno guerre, meno terrorismi opachi. E forse, costringendo politici e governi a dire la verità, qualche oscuro mandante sarebbe stato costretto a venire allo scoperto. I grandi media sono ormai “Presstitutes”: così li chiama Paul Craig Roberts, liberale, già viceministro di Reagan. Non sono più veri mass media, ma strumenti orwelliani di propaganda, megafoni di un regime finanziario unificato, proprietario universale dell’editoria cartacea e radiotelevisiva che ha trasformato l’informazione in gossip, in politica-marketing e tifoseria da stadio contro nemici apparenti come la Russia di Putin, o fabbricati a tavolino come i tagliagole-kamikaze dell’Isis. E’ tutto spettacolo, soltanto spettacolo – senza mai analisi, spiegazioni, memoria storica, retroscena e denunce argomentate, al punto da spingere milioni di utenti a spegnere il televisore cercando rifugio nella galassia magmatica del web, alla ricerca affannosa di informazioni e ricostruzioni (attendibili, o almeno plausibili) su qualsiasi guaio contemporaneo, dall’euro alle scie chimiche, dalle guerre ai vaccini obbligatori.Lo spettacolo, oggi, è quello della violenza imposta dagli uomini neri che Madrid ha spedito a Barcellona? Ieri era quello della Troika euro-tedesca impegnata a gambizzare un altro popolo alle prese con un referendum, quello greco. Quando i primi NoTav si agitavano in corteo nella loro valle di Susa, appena dopo il duemila, non immaginavano neppure lontanamente la reale geografia della partita in corso: ancora non era arrivato Mario Monti a usare il manganello (finanziario) contro gli italiani. In Francia, il pallido François Hollande era riuscito a conquistare l’Eliseo promettendo la fine del rigore imposto da Berlino? E’ stato “sistemato” a colpi di attentati, insieme ai francesi: che adesso si godono Macron, l’omino-Rothschild confezionato in vitro direttamente dalle officine supermassoniche cui sovrintendono personaggi come Jacques Attali, il finto-socialista che spinse a destra la politica di Mitterrand, nel segno euro-imperiale dell’ordoliberismo da cui è appena scappata la Gran Bretagna votando la Brexit. E’ tutto spettacolo, quello che va in televisione: e se ci va, è sempre bene chiedersi perché. Secondo un analista indipendente come Federico Dezzani, a manipolare la Catalogna indipendentista sarebbero gli stessi super-poteri oligarchici che orchestrarono il crollo della Prima Repubblica in Italia, corrotta ma ancora relativamente sovrana, ostile al falso europeismo neo-feudale degli oligarchi interessati a smantellare l’economia della penisola, aprendo la stagione della crisi infinita.La polizia che malmena gli inermi non è mai un bello spettacolo, e a Madrid non potevano non saperlo. Non poteva non sapere, il debolissimo governo Rajoy, che l’intera Europa avrebbe simpatizzato, in diretta televisiva, con gli abitanti di Barcellona. Ha ragione Dezzani: non può essere a Madrid, la vera regia di questa pagina imbarazzante, con troppo sangue e troppe ossa rotte. Forse non è nemmeno a Marsiglia, dove – in contemporanea – le forze di sicurezza francesi hanno abbattuto a pallettoni, tanto per cambiare, l’ennesimo presunto jihadista accoltellatore, destinato come tutti gli altri a non parlare più. La regia dell’orrore non è nemeno a Nizza, dove la polizia locale (un po’ come i Mossos catalani) si rifiutò di obbedire agli ordini di Parigi, quando il ministro dell’interno le impose di distruggere i filmati delle telecamere che avevano ripreso la strage del 14 luglio sulla Promenade des Anglais. Una parte di questa ipotetica regia probabilmente risiede proprio a Parigi, dove – dopo il non-suicidio di un valente commissario – il governo silenziò e chiuse le indagini su Charlie Hebdo con l’imposizione del segreto di Stato (segreto militare), togliendo il dossier al coraggioso magistrato che aveva scoperto una strana triangolazione per la fornitura delle armi al commando stragista, Kalashnikov slovacchi giunti in Francia via Belgio attraverso un uomo della Dgse, il servizio segreto parigino.Se tutto è spettacolo, in televisione, manca sempre il vero mandante, perché sfugge regolarmente il movente. Era di quello che si occupava il giudice italiano Gabriele Chelazzi, stranamente morto dopo aver scritto una lettera di protesta alla Procura di Firenze, che accusava di averlo lasciato solo, senza uomini e mezzi. Lo racconta un super-poliziotto, Michele Giuttari, che fece condannare i “compagni di merende”. Prima del Mostro di Firenze (la cui vera storia si è rassegnato a scriverla nei suoi romanzi), Giuttari aveva sgominato – con Chelazzi – la gang di Cosa Nostra impegnata a realizzare gli attentati dinamitardi di Milano, Firenze e Roma. Un’indagine record, con decine di mafiosi in manette. Per ordine di chi avevano agito? Totò Riina, Leoluca Baragarella. D’accordo, si domanda Giuttari: ma chi aveva ordinato a Riina e Bagarella di piazzare ordigni fuori dalla Sicilia? E per quale oscuro motivo? Per una ragione formidabile e al tempo stesso indicibile: terremotare l’Italia e renderla fragile, mentre i poteri forti organizzavano la tagliola fatale del Trattato di Maastricht, l’inizio della fine delle economie prospere e sovrane. A dirlo non è Giuttari ma Dezzani, lo studioso che ora accusa i politci catalani di essersi fatti strumento di quegli stessi poteri oligarchici che – c’è da giurarci – spingeranno il vento nelle vele degli autonomisti lombardi e veneti al referendum del 22 ottobre, sperando di veder presto anche l’Italia sbriciolarsi, come la Spagna, per meglio dominare, finanziariamente, un popolo ormai ipnotizzato dalla televisione.Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinandole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esasperazione.
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Strana morte di Chelazzi: indagava sui mandanti delle stragi
«Tutti sono utili ma nessuno è indispensabile. Poi però ci sono le eccezioni. Una di queste era il magistrato Gabriele Chelazzi: morto d’infarto in una caserma romana della Guarda di Finanza dopo esser stato “lasciato solo”, come da lui stesso scritto, nell’indagine sui mandanti delle stragi del ‘92-93». A parlare è l’ex superpoliziotto Michele Giuttari, a sua volta fermato – ripetutamente, dall’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, l’uomo del G8 di Genova – di fronte al “secondo round” dell’indagine sul Mostro di Firenze: la caccia ai veri mandanti, all’ombra di Pacciani e dei suoi “compagni di merende”, Vanni e Lotti. «Tutti colpevoli, per carità, ma non da soli: Pacciani, nato e vissuto in estrema povertà, alla fine degli anni ‘90 disponeva di un patrimonio di 900 milioni di lire: da dove provenivano tutti quei soldi?». Questa la molla che allora spinse la Procura di Firenze a sollecitare l’altra indagine, quella “fermata”: col trasferimento di Giuttari all’ufficio stranieri e poi con la sua incriminazione, insieme al pm perugino Mignini (con accuse poi destitute di ogni fondamento, 8 anni dopo). Nel frattempo l’inchiesta era “morta”. Come il giudice Chelazzi che, anni prima, insieme a Giuttari era riuscito – in tempi rapidissimi – ad arrestare gli esecutori e incriminare il gotha di Cosa Nostra per gli attentati di Firenze, Milano e Roma. Mancavano i mandanti, e se ne stava occupando – ancora – Chelazzi. Trattativa Stato-mafia: chi tocca muore?
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Giuttari: morto Chelazzi, silenzio sui mandanti delle stragi
Gabriele Chelazzi era il titolare dell’inchiesta sulle stragi di mafia del ‘93: a Firenze il 27 maggio ‘93, a Roma e Milano quasi in concomitanza, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del ‘93. E il 14 aprile, sempre del ‘93, l’attentato di via Fauro a Roma, ai danni di Maurizio Costanzo. Io ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con Chelazzi per questa inchiesta sulle stragi, in veste di responsabile del settore investigativo del centro Dia di Firenze, prima di assumere l’incarico di capo della Mobile. Gabriele Chelazzi era alla Procura nazionale antimafia con Vigna a Roma, ma aggregato a Firenze per continuare le indagini sui possibili mandanti delle stragi di mafia. Viveva a Roma in una caserma della Finanza, e una mattina la scorta lo trova morto. Aveva 56 anni. E sul comodino trovano una lettera, che lui aveva scritto nella notte, indirizzata al procuratore capo di Firenze (Ubaldo Nannucci), nella quale lamentava di esser stato lasciato solo, di sentirsi isolato. E’ morto. A me piace, quando ne ho la possibilità, ricordare questo magistrato. La società civile gli deve tantissimo. E’ il magistrato che, poco prima che morisse, per primo andò nella sede dei servizi segreti, a Roma, a sequestrare quelle carte che son tornate alla ribalta alla vigilia dell’interrogatorio del presidente della Repubblica, Napolitano, sulla trattativa mafia-Stato.Lui è stato il primo: magistrato serio. Ebbene, è morto. E quell’indagine sui possibili mandanti delle stragi dei mafia? S’è sentito più niente? Niente, come sui possibili mandanti dei delitti fiorentini (del “Mostro”). Non si sa più nulla. Grandissimo magistrato, Chelazzi. Purtroppo i migliori se ne vanno – nei momenti meno opportuni, peraltro. E’ vero che nessuno è indispensabile, ma ci sono anche le eccezioni: alcuni sono davvero indispensabili. Gabriele, per questa vicenda delle stragi di mafia, era insostituibile: hanno continuato, due suoi colleghi, ma non s’è risolto nulla. Era insostibuibile – per la conoscenza che ormai aveva acquisito, per la sua capacità, la sua professionalità. E quindi ci sono, le eccezioni. Mi piacere ricordarlo, questo magistrato, di cui l’opinione pubblica non sa nulla. Perché ha sempre lavorato in sordina, ha saputo fare il suo dovere. E con lui instaurai un bellissimo rapporto, perché fui mandato alla Dia di Firenze (dalla Dia di Napoli) proprio per collaborare all’inchiesta sulla strage di via dei Georgofili. Indagavano la Digos e i carabinieri, però la Dia – organismo antimafia – non aveva delega. Allora, arrivato a Firenze, mi metto a esaminare gli atti, compresi quelli della Dia di Roma per la cattura di latitanti di Cosa Nostra in Versilia, e trovo un elemento che mi incuriosisce: un contatto telefonico 24 ore prima dell’attentato, a Firenze, tra l’allora sconosciuto Gaspare Spatuzza e il titolare di una ditta palermitana di trasporti.Io arrivo a Firenze, alla Dia, il 5 dicembre ‘93, quindi sei mesi dopo l’attentato di via dei Georgofili. La mia attività di analisi si protrae fino al 28 febbraio, quando porto la mia nota al pm Gabriele Chelazzi, che conosco in quella circostanza. Mi presento con l’esito dell’attività svolta e, nello stesso tempo, con delle proposte investigative – perché io ho sempre inteso in un certo modo l’operato dell’investigatore: non deve appiattirsi sulle posizioni del pubblico ministero, aspettando le deleghe, ma deve essere anche propositivo, creativo, e deve manifestare le proprie idee. Per me, l’ufficiale della polizia giudiziaria – della polizia, dei carabinieri – deve essere il centro motore della vera indagine. Così a Chelazzi ho portato anche proposte investigative, chiedendo delle deleghe. Bene, ho ancora presente questo magistrato: mentre legge la mia nota, annuisce. Alla fine mi dice: «Ipotesi interessante, però noi stiamo seguendo un’altra pista, con la Digos. Le farò sapere, ne devo parlare con Vigna», che era il suo capo. Mi chiama dopo neppure 48 ore e mi dà le deleghe, poi io ne chiedo altre e, insomma, il lavoro di sviluppa. Per farla breve: con questa pista, abbiamo identificato 28 mafiosi, poi risultati colpevoli di tutti i quattro attentati del ‘92-93 a Firenze, Milano e Roma – tra cui Bagarella, Riina, i fraelli Graviano.Da un dettaglio che già c’era, negli atti, ma non era stato letto nella maniera giusta, si è riusciti a individuare i covi di questi latitanti, cioè i luoghi dove avevano preparato le autombombe poi fatte esplodere – due alloggi a Roma e una villetta a Fiano Romano: covi in cui quei latitanti palermitani avevano preparato gli ordigni, dopo aver portato l’esplosivo a Roma. E mi ricordo che, in queste perquisizioni, venne anche Chelazzi. Guardate che un pm, in una perquizione, non lo vedete mai. Chelazzi è venuto, e ha fatto intervenire la scientifica con un’apparecchiatura, l’Egis, per il rilevamento di tracce di esplosivo. E in tutti quei posti, infatti, abbiamo trovato tracce di contaminazione dello stesso esplosivo utilizzato negli attentati: ecco il risultato scientifico che a va a coniugarsi con i risultati delle indagini classiche, tradizionali. Questa è la vera attività investigativa – oggi invece si parte dalla scienza, per trovare il Dna, ma non si arriva mai a una certezza sul colpevole. Ecco, quel magistrato è venuto addirittura a coordinare l’attività di perquisizione sul posto – figura rara.Sempre indagando sui covi, abbiamo trovato anche la villa di Forte dei Marmi (presa in affitto per tre mesi, nel ‘93, da un prestanome dei fratelli Graviano, per 25 milioni di lire, in contanti) dove qui mafiosi avevano trascorso parte della latitanza, insieme a un altro grosso personaggio, oggi indicato come l’imprendibile primula rossa e nuovo capo di Cosa Nostra: Matteo Messina Denaro. Fu un’attività di investigazione “pura”, tradizionale, senza il contributo di pentiti – i pentiti sono intervenuti dopo la loro cattura, a dare conferme e ad ampliare l’orizzonte investigativo, però sono tutti frutti dell’investigazione “pura” (così l’ho definita, in un libro scritto per l’Università di Pisa). E la pista che stava seguendo la Digos di Firenze prima che intervenissi io, come funzionario Dia (tre giovani parlemitani, riconducibili a un’area mafiosa, che avevano dormito in un albergo di via Scala la notte dell’attentato) non era una pista fondata. E allora mi chiedo: se avessero continuato su quella pista, magari avremmo avuto una condanna in primo grado e un’assoluzione in appello, senza una vera certezza giurisprudenziale. Certezza che invece abbiamo avuto con la condanna definitiva dei 28 mafiosi, in appena quattro anni. E’ stata l’unica volta che, in Italia, sono stati scoperti i colpevoli delle stragi. In genere, delle stragi non si sa mai nulla di preciso? Di queste sappiamo, invece. Non sappiamo se ci sono stati possibili mandanti esterni. Forse l’avremmo saputo se Gabriele Chelazzi avesse avuto la possibilità di proseguire nel suo cammino investigativo.(Michele Giuttari, dichirazioni rilasciate nell’ambito dell’incontro pubblico “Il Salotto d’Europa” a Pontremoli il 12 agosto 2015, in occasione della presentazione della sua autobiografia “Confesso che ho indagato”. Poliziotto di razza, formatosi alla Direzione Investigativa Antimafia, Giuttari è noto per il successo nelle indagini sulle stragi del ‘92-93 e per quelle sul Mostro di Firenze, concluse con la condanna di Pacciani, Lotti e Vanni; ulteriori indagini sui possibili mandanti occulti dei “compagni di merende” furono ostacolate dall’allora capo della polizia, Gianni De Gennaro, che ordinò il trasferimento di Giuttari, e dall’allora procuratore capo Nannucci, che inquisì Giuttari insieme al pm perugino Mignini, poi prosciolti entrambi da ogni accusa – ma dopo 8 anni, nei quali nel frattempo l’inchiesta era “defunta”. Giuttari, lasciata la polizia, è divenuto un autore “cult” di romanzi “noir” tradotti in tutto il mondo, come “Scarabeo”, “La loggia degli innocenti” e “Il basilisco”, accanto a memoir come “Il Mostro, anatomia di un’indagine”).Gabriele Chelazzi era il titolare dell’inchiesta sulle stragi di mafia del ‘93: a Firenze il 27 maggio ‘93, a Roma e Milano quasi in concomitanza, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del ‘93. E il 14 aprile, sempre del ‘93, l’attentato di via Fauro a Roma, ai danni di Maurizio Costanzo. Io ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con Chelazzi per questa inchiesta sulle stragi, in veste di responsabile del settore investigativo del centro Dia di Firenze, prima di assumere l’incarico di capo della Mobile. Gabriele Chelazzi era alla Procura nazionale antimafia con Vigna a Roma, ma aggregato a Firenze per continuare le indagini sui possibili mandanti delle stragi di mafia. Viveva a Roma in una caserma della Finanza, e una mattina la scorta lo trova morto. Aveva 56 anni. E sul comodino trovano una lettera, che lui aveva scritto nella notte, indirizzata al procuratore capo di Firenze (Ubaldo Nannucci), nella quale lamentava di esser stato lasciato solo, di sentirsi isolato. E’ morto. A me piace, quando ne ho la possibilità, ricordare questo magistrato. La società civile gli deve tantissimo. E’ il magistrato che, poco prima che morisse, per primo andò nella sede dei servizi segreti, a Roma, a sequestrare quelle carte che son tornate alla ribalta alla vigilia dell’interrogatorio del presidente della Repubblica, Napolitano, sulla trattativa mafia-Stato.
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Anche la Spagna nel copione “Isis”, con il solito passaporto
«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», a Barcellona. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisone del presidente Kennedy.Quella del camion lanciato a bomba contro la folla, sottolinea Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è una modalità tristemente “pratica”, a basso rischio organizzativo: un furgone non desta sospetti, l’azione criminale può essere rapida, solitaria e micidiale. Il destino dell’attentatore? Sempre lo stesso: viene abbattuto subito, sul posto, come i 5 kamikaze che avrebbero colpito Cambrils, poco dopo Barcellona, o viene comunque ucciso nel giro di poche ore, al massimo qualche giorno, come Anis Amri, caduto a Milano in un conflitto a fuoco con la polizia italiana dopo aver provocato la “strage di Natale” a Berlino. Per l’atroce massacro di Barcellona la polizia ha arrestato due sospetti, ma – precisa il “Corriere della Sera – tra questi «non c’è l’autore materiale dell’attentato», che si sarebbe dileguato. L’uomo identificato, Bouhlel, potrebbe avere le contate: «Se trovano il passaporto, poi lo uccidono», ha sostenuto Maurizio Blondet, in relazione agli altri attentati-fotocopia di Nizza, Berlino e Londra. Un tragico copione? Ebbene sì, sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”: «Dati gli strumenti a disposizione dell’intelligence, è matematicamente impossibile, oggi, che si possano compiere stragi senza disporre di connivenze e coperture, negli apparati di sicurezza, da parte di funzionari infedeli, complici dei veri mandanti dei terroristi».Per la prima volta, la sigla “Isis” – qualunque cosa significhi – colpisce il Sud Europa, dopo aver mietuto vittime in Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna. Una minaccia indiretta rivolta all’Italia, paese fortunamente non ancora finito nel mirino, forse anche per il suo ruolo strategico di “autostrada mediterranea” dei migranti? In realtà, sostiene Carpeoro, «gli addetti ai lavori sanno bene che il dispositivo antiterrorismo del nostro paese è il migliore del mondo». Dispositivo particolarmente vigile, aggiunge Magaldi, che fornisce una spiegazione ancora una volta di stampo massonico: «Oggi, i servizi segreti italiani collaborano strettamente con settori dei servizi Usa riconducibili alla super-massoneria internazionale progressista, ostile all’egemonia anche stragistica delle Ur-Lodges neo-conservatrici». Affermazioni estremamente impegnative, che Magaldi – già affiliato alla superloggia “Thomas Paine” – probabilmente circostanzierà nel “sequel” del libro “Massoni”, in uscita entro fine anno, scritto forse anche con il contributo di un eminente supermassone molto controverso come il finanziere George Soros, promotore delle Ong che fanno capo a “Open Society”, struttura sospettata di aver ispirato e supportato golpe, “regime change”, primavere arabe e rivoluzioni colorate, fino all’attuale esodo dei migranti africani e mediorientali veso l’Europa, via Italia.In ogni crimine, la svolta nelle indagini scatta sempre in un momento preciso: quando gli investigatori individuano il movente. Quello del cosiddetto Mostro di Firenze (16 vittime) non è ancora stato accertato: non a caso, in carcere erano finite soltanto tre persone, i “compagni di merende”, e la sentenza indicava la necessità di sviluppare altre indagini, dato che Pacciani – il cui patrimonio si era misteriosamente gonfiato – non poteva aver fatto tutto da solo, con il semplice “aiuto” di Vanni e Lotti. Anche per questo, forse – la mancanza di un movente credibile – le autorità giudiziarie hanno riaperto l’inchiesta. Ipotesi, formulata dall’avvocato di una delle vittime: quegli oscuri delitti accompagnarono in modo cronometrico le tappe di sangue del terrorismo che, all’epoca, devastò l’Italia. Delitti efferati, per distrarre l’opinione pubblica? Gli indagatori della “pista esoterica”, come l’avvocato Paolo Franceschetti, propendono per un’altra ipotesi: delitti rituali, atrocemente compiuti secondo modalità “magico-cerimoniali”. Lo sostenne il criminologo Francesco Bruno, ingaggiato dall’allora capo del Sisde, Vincenzo Parisi: fu il primo a parlare di connotazioni “religiose”. Nel romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore Giuseppe Genna – con il quale si complimentò Cossiga, per l’acume dimostrato – l’oscura setta che, nel libro, uccide bambini, lo fa nella convinzione di “propiziare” attentati politici che seguono, di poche ore, il ritrovamento dei piccoli cadaveri. Attentati e omicidi di rilievo internazionale, da Aldo Moro a Olof Palme, fra retroscena popolati da personaggi del calibro di Kissinger.Per Magaldi, l’ex plenipotenziario della Casa Bianca, nonché fondatore della Trilaterale con David Rockefeller e i Rothschild, è stato anche al vertice della Ur-Lodge “Three Eyes”, che nel libro “Massoni” è indicata come la vera “mente” della Loggia P2 di Licio Gelli e della strategia della tensione in Italia negli anni ‘70. Un’altra superloggia, la “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi fondata da Bush padre all’inzio degli anni ‘80, sarebbe invece l’ispiratrice del neo-terrorismo internazionale, da Al-Qaeda all’Isis: ne avrebbero fatto parte Osama Bin Laden e il “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, oltre all’entourage Bush e a politici europei come Tony Blair (inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam) e Nicolas Sarkozy (fautore dell’abbattimento di Gheddafi), nonché il turco Erdogan (organizzatore, in Turchia, delle “retrovie” dell’Isis nell’attacco alla Siria). Una “Spectre del terrore”, che disporrebbe di propri uomini in alcune strutture di intelligence, a loro volta capaci di “coltivare” manovalanza islamista per gli attentati. «La cosiddetta Isis sta aumentando l’intensità delle stragi», ha sostenuto Carpeoro, «perché una parte di quella élite sta “disertando”, si sta sfilando dalla “filiera del terrore”». Carpeoro azzarda un pronostico: «Nel giro di due anni al massimo, magari attraverso Wikileaks, avremo le prove del fatto che Al-Qaeda e Isis sono un’emanazione dei Bush».«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», nel capoluogo della Costa Azzurra. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisione del presidente Kennedy.
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Il vero Mostro di Firenze: oscurare le troppe stragi di Stato
«Non più delitti attribuibili a un gruppo di sbandati dediti all’alcol e alla prostituzione hard discount, quali erano i “compagni di merende” di Pacciani &. C, ma una tragedia legata addirittura a una sciagurata “pista nera”», ovvero: «Delitti studiati a tavolino in ambienti eversivi per distrarre da ciò che succedeva nel paese, con le vittime che non sarebbero state scelte a caso, ma mirate». Scrive Stefano Cecchi sulla “Nazione”: a 49 anni dal primo duplice delitto, dopo 16 morti e una storia processuale infinita e straziante, «l’Italia scopre che la storia mandata in archivio come “Il Mostro di Firenze” potrebbe avere un altro movente, addirittura apocalittico». La magistratura ha riaperto il caso, a sorpresa, mettendo nel mirino un uomo di 86 anni, ex legionario Giampiero Vigilanti, ora residente a Prato ma nel 1951 a Vicchio, nel Mugello, dove Pacciani – che conosceva – uccise l’ex rivale sorpreso con la sua ragazza. «Abile a sparare, appassionato di armi e frequentatore di poligoni», lo descrive la “Nazione”. «Legato agli ambienti dell’estrema destra e anche a quelli dei servizi segreti», negli anni della P2 e di Gladio. «Adesso è ufficialmente sospettato di aver avuto un ruolo negli omicidi del Mostro di Firenze».Trentadue anni dopo il delitto degli Scopeti, quello dell’ultima delle otto coppiette trucidate con la solita, introvabile Beretta calibro 22, c’è almeno un altro indagato per la storia che ha fatto conoscere al mondo il lato più oscuro del capoluogo toscano, continua il quotidiano di Firenze. I più attenti si ricorderanno di Vigilanti, classe 1930, perché lambito dalle indagini che poi virarono su Pacciani e i “compagni di merende”. «Da diversi mesi, Vigilanti, ora residente a Prato, è sotto torchio. L’ex legionario, alto e forte anche oggi che ha 86 anni, è stato accompagnato nei luoghi dei delitti. Dice e non dice. Sembra però sapere. Molto, tanto che dalle sue parole, i carabinieri sono arrivati a perquisire anche un medico che vive in Mugello il cui grado di coinvolgimento è ancora da chiarire». Una silenziosa svolta nell’indagine, tenuta ostinatamente aperta dal procuratore Paolo Canessa con l’aiuto del collega Luca Turco, che apre anche una inedita e clamorosa “pista nera”: delitti studiati a tavolino o cavalcati in ambienti eversivi per distrarre magistrati e opinione pubblica da ciò che accadeva nell’Italia della strategia della tensione.Il primo a indicare questa strada, a suon di esposti – aggiunge la “Nazione” – è stato il legale della coppia di francesi uccisa nel 1985 agli Scopeti, l’avvocato Vieri Adriani. «Ci sono sinistre vicinanze tra stragi e misteri di quel difficile periodo storico e i delitti del “mostro». Il 4 agosto ’74 esplode la bomba sull’Italicus, il 14 settembre il mostro uccide a Sagginale Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore. Prima che il 6 giugno ’81 a Mosciano venissero massacrati Carmela Di Nuccio e Giovanni Foggi, imperversava la storia della loggia di Licio Gelli e c’era stato l’attentato al Papa, senza dimenticare la bomba a Bologna dell’80. Il 23 ottobre ’81, il giorno dopo l’uccisione a Calenzano di Susanna Cambi e Stefano Baldi, c’era uno sciopero generale. Il giorno prima che Antonella Migliorini e Paolo Mainardi morissero sotto i colpi della calibro 22, era stato ritrovato impiccato sotto il ponte dei frati neri a Londra il banchiere Roberto Calvi. Il 9 settembre ’83 vengono ritrovati i cadaveri dei tedeschi Uwe Rusch e Horst Meyer: il 10 agosto precedente era evaso Licio Gelli dal carcere svizzero. E, secondo la nuova chiave di lettura, non sarebbero casuali le vittime.La Pettini era la figlia di un partigiano di Vicchio. «Il giorno del delitto – ricorda il giornale di Firenze – ricorreva il trentennale della liberazione del Paese e alcuni dettagli fanno pensare a una esecuzione in stile nazifascista: i vestiti dei due fidanzati vennero ritrovati piegati fuori dalla macchina, come se fosse stato dato loro un ordine sotto il tiro dell’arma». E Vigilanti? «L’ex legionario conosceva Pacciani, di cinque anni più anziano di lui, e come lui viveva a Vicchio nel 1951, quando il contadino uccise il rivale sorpreso ad amoreggiare con la fidanzata». Dopo un primo tentativo alla fine degli anni ’40, Vigilanti si arruolò nella Legione Straniera subito dopo la condanna di Pacciani, nel 1952. Un’altra coincidenza? «L’ex legionario, che rientrò in Italia nel 1960, ha conosciuto anche i ‘sardi’», prime vittime del “mostro”, «perché ha abitato nella stessa strada di Salvatore Vinci, a Vaiano». A Vigilanti, gli investigatori si erano avvicinati già nel 1985: gli trovarono in casa articoli della “Nazione” sul delitto di Sagginale del ’74, una pagina sulla strage dell’Italicus, i ritagli dell’elezione del presidente Cossiga. La polizia tornò a casa dell’ex legionario per caso, nel ’94, a causa di una denuncia di un vicino, con cui aveva avuto una lite. «Quella volta, spuntarono 180 proiettili Winchester serie H: gli stessi del mostro, fuori produzione, all’epoca, da almeno una dozzina d’anni».Secondo il blog “Maestro di Dietrologia”, gli omicidi “mediatici” del Mostro di Firenze sarebbero stati «un singolo episodio all’interno di una più vasta strategia della tensione», che secondo il blog perdura tuttora e include «tutto il palinsesto degli omicidi mediatici degli ultimi anni, da Meredith a Cogne, Erba, Elisa Claps, Melania Rea, da Yara a Sarah Scazzi, fino Marco Prato compreso». Il mainstream deride i “complottisti”? «Da oggi la controinformazione avrà una legittimazione maggiore», se le indagini di Firenze sulla “vera storia” del Mostro accerteranno le verità ipotizzate. «Strategia della tensione di omicidi mediatici – aggiunge “Maestro di Dietrologia” – ai quali corrispondevano sempre “step” strutturali di eventi transnazionali, nazionali e economico-politici, esoterici, gestiti da avanguardie di reparti come Gladio, P2, Rosa dei Venti, ovviamente dall’estrema destra». Organizzazioni la cui unica missione è stata quella di «contemplare stragi, omicidi e terrore, essendo da sempre lo strumento principe del padronato turbo-capitalista e neo-aristocratico», ruolo che oggi a livello globale è interpretato «dalla fantomatica Isis, avanguardia sionista di Ur-Lodges reazionarie occidentali che utilizzano “candidati manciuriani” fondamentalisti islamici come carne da macello e reparti di contractor per le operazioni più complesse».Come narra lo Giuseppe Genna nel capolavoro “Nel nome di Ishmael”, romanzo «che descrive in maniera sublime la realtà occulta del potere», a determinati omicidi “mediatici” (con relativi capri espiatori) corrispondono «messaggi operativi in codice, che appartengono a linguaggi militar-esoterici». Gli stessi studi, aggiunge “Maestro di Dietrologia”, sono stati condotti negli ultimi vent’anni dal ricercatore Giuseppe Cosco, dalla giornalista Gabriella Carlizzi e poi dall’avvocato Paolo Franceschetti, «che ha avuto il merito di ampliare certi concetti, espandendoli a diversi omicidi mediatici e raffigurando una strategia operativa che agisce anche a livello internazionale». Sono gli stessi paradigmi che evocava il regista Elio Petri, con personaggi come il poliziotto-killer di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, fino al Pasolini dell’atroce “Salò”, che mette in scena la mattanza “sacrificale” organizzata da vertici politici, militari, giudiziari e aristocratici. Narrazioni allucinanti, che suggeriscono «come il potere costituito faccia omicidi anche apparentemente casuali per “dialogare” in codice, addirittura multi-omicidi che serviranno a comporre “frasi” che potranno essere usate militarmente come “start” di operazioni». Massacri che verranno poi regolarmente attribuiti «a poveri cristi, i quali diventeranno i soliti capri espiatori». Morale: i nomi dei veri colpevoli «ce li possiamo scordare», ma almeno possiamo intravedere «quali mondi stanno dietro a certi delitti».«Non più delitti attribuibili a un gruppo di sbandati dediti all’alcol e alla prostituzione hard discount, quali erano i “compagni di merende” di Pacciani &. C, ma una tragedia legata addirittura a una sciagurata “pista nera”», ovvero: «Delitti studiati a tavolino in ambienti eversivi per distrarre da ciò che succedeva nel paese, con le vittime che non sarebbero state scelte a caso, ma mirate». Scrive Stefano Cecchi sulla “Nazione”: a 49 anni dal primo duplice delitto, dopo 16 morti e una storia processuale infinita e straziante, «l’Italia scopre che la storia mandata in archivio come “Il Mostro di Firenze” potrebbe avere un altro movente, addirittura apocalittico». La magistratura ha riaperto il caso, a sorpresa, mettendo nel mirino un uomo di 86 anni, l’ex legionario Giampiero Vigilanti, ora residente a Prato ma nel 1951 a Vicchio, nel Mugello, dove Pacciani – che conosceva – uccise l’ex rivale sorpreso con la sua ragazza. «Abile a sparare, appassionato di armi e frequentatore di poligoni», lo descrive la “Nazione”. «Legato agli ambienti dell’estrema destra e anche a quelli dei servizi segreti», negli anni della P2 e di Gladio. «Adesso è ufficialmente sospettato di aver avuto un ruolo negli omicidi del Mostro di Firenze».
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Troppi testimoni uccisi, non chiamatelo Mostro di Firenze
Ho deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un’auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del Mostro di Firenze. Se n’è scritto tanto, e i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di Stato italiane.L’ostinato occultamento delle prove affinché non si giunga alla verità, grazie al coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti; l’inefficienza degli apparati statali nel reprimere queste situazioni; l’impreparazione culturale quando si tratta di affrontare questioni che esulano da un nomale omicidio o rapina in banca e si toccano temi esoterici. Dal 1968 al 1985 vengono uccise otto coppie di giovani nelle campagne di Firenze. In 4 di questi duplici omicidi vengono prelevate delle parti di cadavere, seni e pube in particolare. La vera e propria caccia al Mostro comincia dopo il terzo omicidio, quando si capisce che dietro ad essi c’è la stessa mano. Dopo errori giudiziari, e vicende varie, si arriva all’incriminazione di Pietro Pacciani nel 1994. Appare chiaro che Pacciani è colpevole, o perlomeno che è gravemente coinvolto in questi omicidi. Gli indizi infatti sono gravi, precisi e concordanti: in particolare lo inchiodano il ritrovamento di un bossolo di pistola nel suo giardino, inequivocabilmente proveniente dalla pistola del Mostro (una beretta calibro 22); l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani; e soprattutto un portasapone e un blocco da disegno, di marca tedesca, che verrà riconosciuto come appartenente alla coppia tedesca uccisa dal Mostro.C’era poi un biglietto trovato in casa sua, con scritto “coppia” e un numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali poi fecero il resto, mostrando che Pacciani mentiva, celando agli investigatori diverse cose importanti. Eppure il processo fa acqua da tutte le parti. Tante cose, troppe, non quadrano in quel processo. Non quadra il movente, perché Pacciani – benché violento e benché in passato avesse già ucciso, per giunta con modalità che a tratti ricordano quelle di alcuni delitti – non sembra il ritratto del serial killer. Non quadrano alcuni particolari (ad esempio le perizie stabiliranno che l’uomo che ha sparato doveva essere alto almeno un metro e ottanta, mentre Pacciani è alto molto meno). Inoltre durante il processo alcuni dei suoi amici mentono palesemente per coprirlo, sembrando quasi colludere con lui. Perché mentono? In primo grado Pacciani verrà condannato. In secondo grado verrà assolto. L’impianto accusatorio, in effetti, era abbastanza fragile. Però proprio il giorno prima della sentenza di secondo grado, la Procura di Firenze riesce a trovare nuovi testimoni (quattro) che inchiodano Pacciani e soprattutto riescono a spiegare il motivo di alcune incongruenze. Due di questi testimoni sono infatti complici di Pacciani e, autoaccusandosi, svelano che in realtà quei delitti erano commessi in gruppo.Ma la Corte di appello di Firenze decide di non sentire questi testimoni, e assolve Pacciani. La sentenza verrà annullata dalla Cassazione, ma nel frattempo Pacciani muore in circostanze poco chiare. Apparentemente muore di infarto, ma Giuttari, il commissario che segue le indagini per la Procura di Firenze, sospetta un omicidio. Nel 2002 l’indagine sul Mostro si riapre, ma a Perugia. Per capire come e perché si riapre però dobbiamo fare un passo indietro. Il 13 ottobre del 1985 viene trovato nel Lago Trasimeno il corpo di un giovane medico perugino, Francesco Narducci. Il caso viene archiviato come un suicidio, anche se la moglie non crede a questa versione dei fatti. E sono in molti a non crederlo. Anzi, da subito alcuni giornali ipotizzano un coinvolgimento del Narducci nei fatti di Firenze. Nel 2002 la procura di Perugia, intercettando per caso alcune telefonate, sospetta che il medico perugino sia stato assassinato e fa riesumare il cadavere. Il cadavere riesumato ha abiti diversi rispetto a quelli indossati dal cadavere nel 1985.Altri, numerosi e gravi indizi, nonché le testimonianze della gente che quel giorno era presente al ritrovamento, portano a ritenere che il cadavere ripescato allora non fosse quello di Narducci, e che solo in un secondo tempo sia stata riposta la salma del vero Narducci al posto giusto. Indagando sul caso, il Pm di Perugia, Mignini, scopre che il giorno del ritrovamento le procedure per la tumulazione furono irregolari; che quel giorno sul molo convogliarono diverse autorità, tutte iscritte alla massoneria, come del resto era iscritto alla massoneria il padre del medico morto e il medico stesso. E si scopre che il Narducci era probabilmente coinvolto negli omicidi del Mostro di Firenze. Anzi, forse era proprio lui che, in alcune occasioni, asportò le parti di cadavere. Le indagini portano ad ipotizzare una pluralità di mandanti coinvolti negli omicidi del mostro, che commissionavano questi omicidi per poi utilizzare le parti di cadavere per alcuni riti satanici. In particolare, il Lotti confessa che questi omicidi venivano pagati da un medico. E con un accertamento sulle finanza di Pacciani verranno trovati capitali per centinaia di milioni, di provenienza assolutamente inspiegabile.Vengono mandati 4 avvisi di garanzia a 4 persone, tra cui il farmacista di San Casciano Calamandrei, un medico e un avvocato, che sarebbero i mandanti dei delitti del Mostro di Firenze. Mentre per occultamento di cadavere, sviamento di indagini e altri reati minori (che inevitabilmente andranno in prescrizione) vengono rinviate a giudizio il padre di Ugo Narducci e i fratelli di Francesco; il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean e molti altri, quasi tutti iscritti alla stessa loggia massonica, la Bellucci di Perugia, e alcuni di essi, compreso il padre di Narducci, collegati addirittura alla P2. Appartengono alla P2 Narducci e il questore Trio, mentre l’avvocato Fabio Dean è il figlio dell’avvocato Dean, uno dei legali di Gelli. In questa vicenda sono presenti ancora una volta i servizi segreti e i loro depistaggi, nonché tutte le mosse tipiche che vengono attuate quando occorre depistare.In pratica l’indagine conosce una prima fase, che arriva fino al processo di appello di Pacciani, in cui essa scorre senza problematiche particolari, tranne ovviamente quella tipica di ogni indagine, e cioè l’individuazione dei colpevoli. Ma appena si apre la pista dei mandanti si scatena un vero inferno. Anzitutto lo screditamento degli inquirenti, che vengono derisi, sminuiti; vengono continuamente sottolineati gli errori fatti da costoro (come se fosse semplice condurre un’indagine del genere senza commetterne); la Procura fiorentina viene spesso presentata dai giornali come una Procura che vuole a tutti i costi incastrare degli innocenti; Giuttari viene presentato come uno che vuole farsi pubblicità; un pazzo che crede alla folle pista satanista; quando il commissario è vicino alla verità lo si isola, oppure si cerca di trasferirlo con una meritata promozione (che però metterebbe in crisi tutta l’inchiesta). Più volte giornali e televisioni annunceranno scoop fantastici tesi a demolire il lavoro di anni della Procura di Firenze, e di Perugia. Alcuni giornalisti che ipotizzano il collegamento tra massoneria, delitti del Mostro e sette sataniche vengono querelati, anche se le querele verranno poi ritirate.Vengono fatte indagini parallele e non ufficiali, di cui non vengono informati gli inquirenti. Il Pm Mignini scopre che dopo l’ultimo delitto del Mostro la polizia di Perugia aveva indagato su Narducci e sul Mostro, e ciò risulta dai prospetti di lavoro, datati 10 settembre 1985. Ma di queste indagini non viene avvisata la Procura di Firenze. Ma in compenso anche i carabinieri, per non essere da meno, fanno le loro indagini parallele di cui non informano gli inquirenti. Alcuni carabinieri confidano che anni prima avevano fatto un’irruzione nell’appartamento fiorentino del Narducci per trovare le parti di cadavere che il Narducci teneva nell’appartamento, ma che erano stati “preceduti”. Anche di questi fatti la Procura di Firenze non viene informata. Queste indagini parallele erano coordinate a Perugia dall’ispettore Napoleoni, che pare agisse addirittura all’insaputa del suo diretto superiore, Speroni (così scrive Licciardi nel suo libro). Su Narducci c’era un fascicolo da tempo, ma il fascicolo venne smarrito, e ritrovato dopo anni privo di varie parti. Così come scomparvero misteriosamente molti reperti che erano stato acquisiti durante le indagini, come la famosa pietra a forma di piramide trovata sulla scena di uno dei delitti.Non manca poi – stando alla ricostruzione di Giuttari nel suo libro – anche il procuratore capo di Firenze, Nannucci (che è sempre stato contrario all’indagine sui mandanti) che avvisa un indagato, il giornalista Mario Spezi, dell’imminente indagine; questo fatto verrà segnalato alla Procura di Genova, che però archivierà la posizione del procuratore. Infine, ci sono gli immancabili depistaggi dei servizi segreti deviati. Il Sisde aveva già dai tempi del terzo delitto preparato un dossier che ipotizzava che non fosse coinvolto un solo serial killer, ma i componenti di una setta satanica che agivano in gruppo, e ciò appariva evidente da alcuni particolari della scena del delitto. Ma questo dossier – che porta la data del 1980 – non viene mai consegnato agli inquirenti di Firenze. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, consulente del Sisde. In totale, sono tre gli studi commissionati dal Sisde che si persero misteriosamente per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie degli inquirenti fiorentini. Guarda caso, proprio quei dossier che ricostruivano la pista dei mandanti plurimi e delle messe nere. Ma qualche anno dopo Francesco Bruno, intervistato, sosterrà che a suo parere il serial killer è un mostro isolato, ancora in libertà.Ci sono poi le solite morti sospette tipiche di tutte le grosse vicende giudiziarie italiane. Una vera strage, in realtà. O meglio, una strage nella strage. La prima morte sospetta è quella del medico perugino trovato morto nel Lago Trasimeno. Poi la morte di Pacciani, per la quale la Procura di Firenze apre un fascicolo per omicidio. E poi la solita mattanza di testimoni. Elisabetta Ciabiani, una ragazza di venti anni che aveva lavorato nell’albergo dove Narducci e la sua loggia massonica si riunivano e che aveva rivelato al suo psicologo, Maurizio Antonello (fondatore dell’Associazione per la ricerca e l’informazione delle sette) il nome di alcuni mandanti del Mostro e aveva rivelato il coinvolgimento della Rosa Rossa nei delitti: Elisabetta verrà trovata uccisa a colpi di coltello, compresa una coltellata al pube, ma il caso venne archiviato come suicidio. Mentre lo psicologo Maurizio Antonello verrà trovato “suicidato”, impiccato al parapetto della sua casa di campagna.Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, l’amante di Pacciani, che viene trovato impiccato, ma con i piedi che toccano per terra; uno degli innumerevoli casi di suicidi in ginocchio, che non fanno certo l’onore delle nostre forze di polizia subito pronte ad archiviare il caso come suicidio nonostante l’evidenza dei fatti. Francesco Vinci e Angelo Vargiu, sospettati di essere tra i compagni di merende di Pacciani (il primo è anche amante di Milva Malatesta) trovati morti carbonizzati nell’auto. Anna Milva Mattei, anche lei bruciata in auto. Claudio Pitocchi, morto per un incidente di moto, che sbanda ed esce di strada all’improvviso, senza cause apparenti. Anche questa è una modalità che troviamo in tutte le vicende italiane in cui sono coinvolti servizi segreti e massoneria: Ustica, soprattutto, e poi nel caso Clementina Forleo. Milva Malatesta e il suo figlio Mirko, anche loro trovati carbonizzati nell’auto; una fine curiosamente simile a quella che volevano far fare al perito del Moby Prince poche settimane fa. La stessa tecnica. Così come la tecnica dei suicidi in ginocchio è identica a quella dei morti di Ustica e di tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Tecniche identiche, che fanno ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti deviati.Rolf Reineke, che aveva visto una delle coppiette uccise poche ore prima della loro morte, che muore di infarto nel 1983. Domenico, un fruttivendolo di Prato che scompare nel nulla nell’agosto del 1994 e venne considerato un caso di lupara bianca. E poi ce ne sono tanti altri. C’è il caso di tre prostitute, una suicidatasi e due accoltellate, che avevano avuto rapporti a vario titolo con i “compagni di merende”, e chissà quanti alltri di cui si non si saprà mai nulla. Un discorso a parte va fatto per Luciano Petrini. Consulente informatico, nel 1996 avvicinò una persona (anche lei testimone al processo), Gabriella Pasquali Carlizzi, dandole alcune informazioni sul Mostro e mostrando di sapere molto su questa vicenda; ma il 9 maggio fu ucciso nel suo bagno, colpito ripetutamente con un portasciugamani a cui tolsero la guarnizione per renderlo più tagliente. Nella casa non compaiono segni di scasso o effrazione. Conclusioni: omicidio gay. Nessuno prende in considerazione altre piste. Nessuno prende in considerazione – soprattutto – l’ipotesi più evidente: Petrini aveva svolto consulenza nel caso Ustica, sul suicidio del colonnello dell’aereonautica Mario Ferraro, quel Mario Ferraro che venne trovato impiccato al portasciugamani del bagno. Ma il fatto che sia stato ucciso – guarda caso – proprio con un portasciugamani, non induce a sospettare di nulla. Omicidio gay!?!?La verità sul mostro di Firenze non si saprà mai. Non si sapranno mai i nomi dei mandanti, perlomeno non di tutti. Non mi interessa poi così tanto capire se Pacciani era il vero Mostro o fu solo incastrato. Se Narducci era il Mostro, o se erano altri. Se Pietro Toni, il procuratore che chiese l’assoluzione di Pacciani e definì «aria fritta» l’ipotesi dei mandanti sia in mala fede oppure se gli sia sfuggito un “leggerissimo” particolare: che una simile mattanza di testimoni e di occultamenti presuppone un’organizzazione dietro tutto questo. E che a fronte dei depistaggi, delle sparizioni di fascicoli, dei tentativi di insabbiamento, l’ipotesi del mandante isolato diventa fantascientifica, perché in tal caso si impone di presupporre che tutti gli investigatori che si sono occupati delle vicende del mostro siano impazziti o si siano messi d’accordo per fregare Pacciani e gli altri, e che tutti i testimoni siano morti per delle coincidenze. Atteniamoci quindi ad un dato di fatto. Quando in un’indagine importante compare il binomio massoneria-servizi segreti, questo binomio indica che sono coinvolti dei mandanti eccellenti, al di là di ogni immaginazione.Finisco questo articolo riportando le parole di un mio amico di infanzia, ufficiale dei carabinieri di un paese della Toscana. Mi ha detto: «Certo, Paolo, che dietro ai delitti del Mostro di Firenze ci sono alcune sette sataniche legate a logge deviate della massoneria. I fatti di Perugia parlano chiaro. Noi spesso sappiamo chi sono e cosa fanno certi personaggi. Ma abbiamo l’ordine di non indagare. Vedi, un tempo, se toccavi il tasto mafia-politica e indagavi su questo filone, o scrivevi un pezzo di giornale, morivi. Oggi la politica ha capito che è inutile uccidere per questo, perché i magistrati si possono trasferire, i reati vanno in prescrizione. Insomma, ci sono altri mezzi per insabbiare un’inchiesta. Ma il tasto delle sette sataniche, e dei coinvolgimenti eccellenti in queste sette, non si può toccare, altrimenti si muore. Pensa che ogni anno, in Italia, spariscono migliaia di bambini. Oltre ai dati ufficiali della polizia di Stato, ce ne sono molti altri – Rom, immigrati clandestini – che non compaiono nelle statistiche. E questi bambini finiscono nel circuito delle sette sataniche, che sono collegate spesso al circuito dei sadici e pedofili, che pagano cifre astronomiche per video ove i bambini muoiono veramente».Questo mio amico non sapeva, all’epoca, che ero coinvolto anch’io in vicende che riguardavano la massoneria deviata e raccontò queste cose con tranquillità, davanti alla mia fidanzata dell’epoca, mentre eravamo seduti in un bar. Tempo dopo, quando lo venne a sapere e gli feci delle domande, negò di avermi mai dato quelle informazioni. Ma, lo ripeto, quello che importa non sono i nomi. Non è se Tizio o Caio sia coinvolto, e in che cosa sia coinvolto. Anche perché il singolo nome talvolta può essere il frutto di un errore, di un tentativo di screditare qualcuno. E francamente a me non è questo che fa paura. Ciò che fa paura è la vastità delle connivenze; il fatto che per delitti di questa gravità ed efferatezza ci possano essere coperture eccellenti e che la macchina della giustizia sia paralizzata. Il fatto che gli organi investigativi siano impreparati quando si affrontano vicende che sfiorano l’esoterismo e i servizi segreti deviati. Eppure la vicenda del Mostro di Firenze dovrebbe interessare tutti, non solo gli amanti dei gialli, dell’horror e dell’esoterismo. Il vero mostro, in questa vicenda, non è solo chi ha ucciso, ma anche tutte le persone che hanno coperto la verità, che in virtù dei loro legami con la massoneria deviata o con pezzi deviati dello Stato hanno coperto, colluso, e taciuto. Il vero mostro è la massoneria deviata, che come una piovra si è insinuata in tutti i punti vitali dello Stato. Il Mostro di Firenze è solo uno dei suoi tentacoli.(Paolo Franceschetti, estratti da “Il Mostro di Firenze: quella piovra che si insinua nello Stato”, dal blog di Franceschetti del 16 dicembre 2007).http://paolofranceschetti.blogspot.it/2007/12/il-mostro-di-firenze-quella-piovra-che.htmlHo deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un’auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del Mostro di Firenze. Se n’è scritto tanto, e i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di Stato italiane.