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L’Aspen: rivolte senza rivoluzione, non ci fanno paura
Per fortuna le nostre sono proteste senza un vero progetto politico, capace di cambiare le cose e costruire un’alternativa sociale basata sulla giustizia. Lo dichiara l’Aspen Institute, influente think-tank dell’oligarchia mondiale, che in Italia annovera tra i suoi dirigenti personaggi come Enrico Letta e Giulio Tremonti. Finanziato da fondazioni come Rockefeller, Ford e Carnegie Corporation, l’Aspen lavora per «la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato». Originale l’ultimo studio commissionato al bulgaro Ivan Krastev, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia e tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”. Lo studio «fornisce lo sguardo dei “padroni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni», come se fossimo giunti alla fine di un’epoca fondata sui diritti.«L’unica “ideologia” che conquista cuore e menti, di fronte al feticcio meccanico del capitalismo disincantato attuale, resta tristemente la religione», scrive Dante Barontini su “Contropiano”. «Ma le rivolte nascono dalla crisi economica, dal peggioramento delle condizioni di vita, dalla confusa sensazione che “non ci sia futuro”, e tantomeno “miglioramento”». L’ideologia «arriva dopo, come “spiegazione” e promessa». Per questo «siamo arrivati, come mondo, ad un punto limite: e nessuno sa dove sia costruibile il passaggio epocale ad un altro modello di vita». All’Aspen, aggiunge Barontini, non interessa ovviamente “superare” il capitalismo: «La posizione “ideologica” è dunque saldamente conservatrice, ma questo non ha mai impedito ai padroni del mondo di guardare in faccia ai problemi reali per trovare anche ciò che serve alla conservazione». Lo sguardo di Krastev coglie momenti rilevanti, comuni a paesi lontani fra loro, per intercettare lo “spirito del tempo” e ovviamente neutralizzare la richiesta di cambianento.Per conto dell’Aspen, il bulgaro Krastev «analizza i movimenti di rivolta come da un osservatorio satellitare, disinteressandosi dei dettagli» e andando al sodo. Dice: «Le proteste differivano, ma gli slogan erano incredibilmente simili: ai quattro angoli del globo i manifestanti si scagliavano contro la corruzione delle élite, le crescenti diseguaglianze economiche, la mancanza di solidarietà e di giustizia sociale e il disprezzo per la dignità umana». Ma aggiunge: «I manifestanti, a differenza dei loro padri rivoluzionari, non mirano a un rovesciamento violento dell’ordine costituito». La nuova generazione degli “indignados” – di Grecia e Spagna, Italia e Ucraina, Brasile e Portogallo – non ci pensa proprio a “cambiare il sistema”: «Non possiede le conoscenze di base, le categorie, la cultura per poter pensare che questo “sistema” sia rovesciabile; non è insomma in grado di immaginare un altro realistico modo di vivere». Soprattutto, aggiunge Barontini, «è ai margini del pensiero politico, non dentro».Per Krastev, «si tratta di una rivoluzione senza ideologia e senza scopi definiti: in mancanza di alternative politiche, si risolve in uno scoppio di indignazione morale». Una febbre passeggera, che non spaventa affatto il potere. Lo studioso bulgaro, continua “Contropiano”, sembra profondamente consapevole del fatto che la gestione del mondo è troppo complessa per lasciarla decidere a opinioni labili, poco consapevoli e altamente disinformate («insomma, a libere elezioni»). Ed è perfettamente a suo agio nell’affontare in modo ironico il mantra dei “social network” come mezzo d’elezione delle nuove proteste planetarie: «I nuovi movimenti si concepiscono come reti, nella convinzione che queste possano avere la meglio sulla gerarchia: l’onnipotente rete è l’arma organizzativa d’elezione, allo stesso modo in cui il piccolo ma disciplinato partito rivoluzionario era l’arma d’elezione dei comunisti».E qui, osserva Barontini, scatta l’ironia crudele di chi è seduto in una lussuosa suite nel cielo del capitale nei confronti delle formiche formicolanti sulla superficie o nelle viscere della terra: «Uno che sa benissimo che “la rete” ha dei gestori, dei proprietari, dei sorveglianti». E lo sa ovviamente anche Krastev, che dice: «I governi hanno appreso in fretta a esercitare il controllo e la manipolazione nell’universo digitale. “Caro utente, sei stato schedato come partecipante a una massiccia turbativa dell’ordine pubblico”: questo il messaggio che i manifestanti ucraini si sono ritrovati sul cellulare a metà gennaio, nel momento esatto in cui la legislazione anti-dimostrazioni veniva approvata dal Parlamento. La stessa tecnologia che aveva portato la gente in strada l’ammoniva di tornarsene a casa». Gli attivisti di Occupy Wall Street sono stati trattati con forse più irritante sufficienza dall’establishment Usa: il pacchetto dei profili Facebook dei “sensibilizzati al movimento” è stato valutato 25 milioni di dollari. E qualche multinazionale delle vendite online o della pubblicità mirata – oltre che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti – se l’è certamente comprato.Negli Stati Uniti o in Spagna, prosegue Barontini, gli esecutivi hanno prontamente riconosciuto la legittimità delle preoccupazioni espresse dai manifestanti e hanno dato mostra di ascoltare la piazza. Le proteste non hanno inciso sulle politiche dei governi; piuttosto, hanno cambiato il modo in cui questi comunicano ciò che fanno. Chiaro, no? «Un governo furbo non spiana le proteste popolari a manganellate, ma le “rintontonisce de bucie”. O, come si dice adesso, “cambia la comunicazione”». Il quasi-conflitto di oggi è pressoché innocuo, «molto più “potabile” della guerra rivoluzionaria novecentesca». Chiarisce Krastev: «Oggi, il sistema non interessa quasi più a nessuno. La rivoluzione attuale non è fatta di lettori; gli odierni studenti radicali si preoccupano solo di come essi stessi vivono il sistema, non della sua natura e dei meccanismi che lo governano. Non pensando in termini di gruppi sociali, questi ragazzi hanno un’esperienza comune, ma mancano di un’identità collettiva», in assenza di cultura politica.Riflettendo sulle proteste di São Paulo dell’estate scorsa, il ricercatore brasiliano Pablo Ortellado ha osservato che in tutto il Brasile i manifestanti protestavano sulla scorta di due messaggi simultanei e tra loro contraddittori: “Il governo non ci rappresenta” e “Vogliamo servizi pubblici migliori”. Era una protesta di consumatori radicali, più che di rivoluzionari utopici. Così, quando le condizioni di vita diventano intollerabili, chi oggi protesta «è portato a ritenere che ci sia una “ingiustizia” (dei ladri, una “casta”) che fa funzionare in modo distorto o inefficace un meccanismo altrimenti “buono”», sottolinea “Contropiano”. «I manifestanti sono individui esasperati: amano stare insieme e combattere insieme, ma non hanno un progetto collettivo», sostiene Krastev. «Diffidano delle istituzioni, ma non sono interessati a prendere il potere: sono una miscela tra un desiderio genuino di comunità e un incoercibile individualismo».I manifestanti di oggi, in fondo, si comportano come “consumatori” insoddisfatti. E così, l’arretramento politico dell’attuale società “ribelle” è tale che l’analista dell’Aspen «affonda il coltello nella piaga con autentica gioia», spiegando che «le proteste del XXI secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali», quando le persone «non scendevano in piazza con l’ambizione di rovesciare il re o di sostituirlo con un altro a loro più gradito», ma si limitavano a manifestare «per obbligare il sovrano a fare qualcosa in loro favore, o per impedirgli di far loro del male». L’etica del rigetto può essere radicale e totale, come il rifiuto del capitalismo globale di Occupy Wall Street, oppure modesta e localistica, come le proteste contro la nuova stazione ferroviaria di Stoccarda. «Ma il principio è lo stesso: le proteste possono riuscire o fallire, ma ciò che ne definisce il profilo politico è un generalizzato “no”. Per essere gridato, questo “no” non ha più bisogno di leader o istituzioni: bastano telefonini e social network». Il potere ne ride apertamente, sapendo benissimo come aggirare e manipolare la protesta, mentre il neoliberismo totalitario dell’élite sta mandando in pensione la vecchia democrazia liberale, con elezioni ormai svuotate di senso e Stati senza più sovranità.«Per molti aspetti – chiosa l’analista dell’Aspen – le odierne proteste di massa sono atti in cerca di concetti, pratica senza teoria. Sono l’espressione più plateale della convinzione diffusa che le élite non governino nell’interesse del popolo e che l’elettorato ha perso il controllo sugli eletti». Ma oltre le manifestazioni non si va mai, aggiunge Barontini: «Proteste impolitiche, strumenti organizzativi affidati alla Rete, assenza di identità collettiva e progetto politico, legami reciproci labili… Una contestazione con queste caratteristiche non ha possibilità di mettere in crisi il potere. Basta un cerino di violenza – controllato da una mente politica (posizionata nel satellite iperuranio della finanza globale, per cui conto Krastev scrive) – per “far sciogliere come neve al sole” piazze anche più di grandi di Tahrir, al di là delle buone intenzioni o dell’estrazione sociale di chi le riempie». Nessuno progetta alternative al capitalismo globalizzato. «L’unica cosa di cui abbia timore questo potere è il sempre possibile riaffacciarsi del “comunismo”, il diavolo di San Pietroburgo, il soffio liberatore degli anni ‘60 e ‘70, dal Vietnam al ‘68, dal ‘77 a L’Avana». Krastev alla fine diventa esplicito: le proteste, come le elezioni, servono a tenere il più lontano possibile la rivoluzione, la promessa di un futuro radicalmente diverso. «Il “laureato senza futuro” non è il nuovo proletario», perché «confonde “ideologia” e “visione del mondo”». E il cambiamento continua a non apparire all’orizzonte.Per fortuna le nostre sono proteste senza un vero progetto politico, capace di cambiare le cose e costruire un’alternativa sociale basata sulla giustizia. Lo dichiara l’Aspen Institute, influente think-tank dell’oligarchia mondiale, che in Italia annovera tra i suoi dirigenti personaggi come Enrico Letta e Giulio Tremonti. Finanziato da fondazioni come Rockefeller, Ford e Carnegie Corporation, l’Aspen lavora per «la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato». Originale l’ultimo studio commissionato al bulgaro Ivan Krastev, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia e tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”. Lo studio «fornisce lo sguardo dei “padroni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni», come se fossimo giunti alla fine di un’epoca fondata sui diritti.
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Odifreddi: contro la mafia, la vuota scomunica del Papa
Mi stupisco dell’eccitazione con cui le parole del Papa sui mafiosi sono state recepite dai media, al solito entusiasti per qualunque cosa esca dalla sua bocca. Anche la più retorica e ininfluente, com’è appunto una scomunica: la quale, giova ricordarlo, è un ostracismo dalla comunità ecclesiale e dai suoi riti, che pretende di rispecchiare su questa Terra un analogo ostracismo effettuato in Cielo da Dio. Detto altrimenti, chi è scomunicato non può entrare in Chiesa quaggiù, e non può entrare in Paradiso lassù. Anche senza andar oltre, noi membri del mondo civile dovremmo sorridere di questi deliri di potenza da parte di uomo che pretende di farsi interprete dei pensieri e delle decisioni di un Dio, invece di esaltarli come pronunciamenti epocali. Soprattutto quando, informandoci anche solo un minimo, scopriamo che esistono scomuniche latae sententiae, cioè comminate automaticamente per colpe gravissime quali, udite udite: aver effettuato o procurato un aborto, essere iscritti a un partito comunista o votarlo, appartenere a una loggia massonica, professare eresie in disaccordo con l’insegnamento dogmatico della Chiesa, e altre amenità del genere.Ora, la maggioranza della popolazione mondiale ricade sotto queste categorie! Siamo quasi tutti automaticamente scomunicati, e molti sono felicissimi di esserlo! Ad esempio, lo sono tutti coloro, come me, che meritano la scomunica automatica perché si rifiutano di credere alle amenità che la Chiesa vorrebbe loro propinare, a partire da questa assurda faccenda delle scomuniche. Ma soprattutto, la scomunica è risibile perché pretende di poter escludere dai riti una buona serie di persone che non sa neppure di aver escluso automaticamente. Se una donna abortisce nel segreto di un consultorio, o un uomo vota comunista nel segreto di un’urna, chi può impedir loro di entrare in Chiesa o di fare la comunione, se così desiderano, pur essendo ufficialmente scomunicati? La scomunica non è dunque altro che un vuoto pronunciamento, che lascia il tempo che trova nella maggior parte dei casi. E così lo lascerà anche nel caso dei camorristi o dei mafiosi che ora il Papa ha aggiunto alla lista, sapendo benissimo che le sue parole non avranno alcun effetto pratico, a parte uno: aumentare la popolarità gratuita sua personale e dell’istituzione sulla quale egli regna, anacronismo per anacronismo, da monarca assoluto.A meno che non si creda, come alcuni commentatori hanno provato a supporre, che la Chiesa finirà di sostituirsi allo Stato, dopo tutto il resto, anche nella determinazione di appartenenza alla camorra o alla mafia. Forse è questo che quei commentatori desiderano: che sia il prete della parrocchia a stabilire se qualcuno è un malavitoso, sulla base delle dicerie dei parrocchiani, e non il giudice del tribunale, sulla base dei testimoni dell’accusa. Forse dietro all’entusiasmo per le vuote parole del Papa c’è la credenza, questa sì da “scomunicare”, che esistano istanze di giustizia e di morale “superiori” alle leggi e ai tribunali degli uomini. Quando invece, come ben sappiamo nel caso dei camorristi e dei mafiosi, quelle supposte istanze “superiori” non sono altro che le stesse che essi stessi seguono, da bravi cristiani ma pessimi cittadini. E’ proprio perché camorristi e mafiosi fanno la comunione, che la Chiesa si preoccupa di scaricarli. Ma sono i concreti fatti laici, e non le vuote parole religiose, che servono per contrastare le azioni criminali che essi compiono nella società, indipendentemente dai riti che essi praticano in chiesa.(Piergiorgio Odifreddi, “Una vuota scomunica”, da “La Repubblica” del 23 giugno 2015, ripreso da “Micromega”).Mi stupisco dell’eccitazione con cui le parole del Papa sui mafiosi sono state recepite dai media, al solito entusiasti per qualunque cosa esca dalla sua bocca. Anche la più retorica e ininfluente, com’è appunto una scomunica: la quale, giova ricordarlo, è un ostracismo dalla comunità ecclesiale e dai suoi riti, che pretende di rispecchiare su questa Terra un analogo ostracismo effettuato in Cielo da Dio. Detto altrimenti, chi è scomunicato non può entrare in Chiesa quaggiù, e non può entrare in Paradiso lassù. Anche senza andar oltre, noi membri del mondo civile dovremmo sorridere di questi deliri di potenza da parte di uomo che pretende di farsi interprete dei pensieri e delle decisioni di un Dio, invece di esaltarli come pronunciamenti epocali. Soprattutto quando, informandoci anche solo un minimo, scopriamo che esistono scomuniche latae sententiae, cioè comminate automaticamente per colpe gravissime quali, udite udite: aver effettuato o procurato un aborto, essere iscritti a un partito comunista o votarlo, appartenere a una loggia massonica, professare eresie in disaccordo con l’insegnamento dogmatico della Chiesa, e altre amenità del genere.
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Educati e repressi, come il mostro della porta accanto
Si può cercare di analizzare l’apparentemente incomprensibile, l’inconcepibile? E’ il copione che con crescente insistenza ripropone la cronaca, anche da aree teoricamente evolute come l’hinterland milanese, «civilizzato se non civile». Il caso di Yara Gambirasio a Brembate quello della donna uccisa a Motta Visconti coi due figli piccoli. Giusto evitare di sbattere il mostro in prima pagina, dice Massimo Fini, perché l’anonima folla inferocita e pronta al linciaggio «fa più paura e orrore dello stesso assassino». A Motta Visconti il killer è stato Carlo Lissi, marito e padre delle vittime, reo confesso. «Fino all’altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello». Un delitto che sgomenta, scrive Fini sul “Gazzettino”, perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità, senza un movente plausibile. «Si tratta di uno di quei “delitti delle villette a schiera”, come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti», quelli che i criminologi chiamano «“crimini espressivi”, omicidi senza un perché». In netto aumento, in Italia. Motivo? Se cacci la violenza dalla porta, quella rientra dalla finestra – travestita da mostro.Massimo Fini denuncia «la pretesa della società contemporanea di abolire nel modo più assoluto ogni forma di aggressività, sia fisica che verbale», dimenticando che l’aggressività, «che è una componente fondamentale e vitale dell’essere umano», se viene «compressa come una molla», alla fine «risalta poi fuori nelle forme più mostruose». Un esempio: Lisi, l’assassino di Motta Visconti. «Io credo che se non fosse stato costretto dal contesto sociale a condurre una vita così perfettina, se avesse potuto dare un paio di ceffoni a una moglie che evidentemente non sopportava più senza rischiare la galera per maltrattamenti, se avesse potuto insultare il capoufficio o dare un cazzotto a un collega senza essere immediatamente licenziato, se avesse potuto andare allo stadio senza recitare la parte del tifoso perbene ma quella di “Genny ‘a carogna”, forse, sfogatosi in altro modo, non avrebbe ucciso».Fini cita lo psicologo e psichiatra austriaco Bruno Bettelheim, che ricorda come nel suo villaggio natale l’uccisione collettiva del maiale – cerimonia molto cruenta, cui partecipavano anche i bambini come lui – fosse uno sfogo naturale dell’aggressività dei componenti della comunità, che in quel modo evitava guai peggiori. «Tutte le culture che hanno preceduto la nostra conoscevano queste verità psicologiche elementari», conclude Fini. Gli antenati «non cercavano di abolire del tutto l’aggressività», ma si limitavano a canalizzarla «in modo che fosse controllabile e restasse entro limiti accettabili». Esempi in tutto il mondo: dai neri africani col rituale della “guerra finta” agli antichi greci con la figura del “capro espiatorio”, «non a caso chiamato “pharmakos”, medicina». In altre parole: «Se si vuole evitare il Grande Male bisogna accettare i piccoli mali e, sul lato opposto, bisogna accontentarsi dei piccoli beni invece di pretendere il Bene Assoluto. Perché Bene e Male sono due facce della stessa medaglia e concrescono insieme. E quanto più si vorrà grande il Bene, tanto più si creerà, inevitabilmente, un Male equivalente. Come dimostrano anche alcune recenti esperienze internazionali».Si può cercare di analizzare l’apparentemente incomprensibile, l’inconcepibile? E’ il copione che con crescente insistenza ripropone la cronaca, anche da aree teoricamente evolute come l’hinterland milanese, «civilizzato se non civile». Il caso di Yara Gambirasio a Brembate quello della donna uccisa a Motta Visconti coi due figli piccoli. Giusto evitare di sbattere il mostro in prima pagina, dice Massimo Fini, perché l’anonima folla inferocita e pronta al linciaggio «fa più paura e orrore dello stesso assassino». A Motta Visconti il killer è stato Carlo Lissi, marito e padre delle vittime, reo confesso. «Fino all’altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello». Un delitto che sgomenta, scrive Fini sul “Gazzettino”, perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità, senza un movente plausibile. «Si tratta di uno di quei “delitti delle villette a schiera”, come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti», quelli che i criminologi chiamano «“crimini espressivi”, omicidi senza un perché». In netto aumento, in Italia. Motivo? Se cacci la violenza dalla porta, quella rientra dalla finestra – travestita da mostro.
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Fini: media cialtroni, smascherati solo se la crisi precipita
Credo che l’informazione sia finita. Non il nostro mestiere, ma l’informazione. L’informazione è finita per eccesso di informazione. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva la vita, il secondo ti nutre, il terzo di fa piacere, ma, alla lunga, il decimo ti uccide. Noi siamo attraversati di continuo da messaggi, non solo di tipo informativo, ma anche pubblicitari, per cui non riusciamo più a ritenere nulla di quel che leggiamo. Qualche anno fa lessi un articolo americano che spiegava come i giovani cresciuti in era pre-televisiva avessero una quantità di informazioni molto superiore ai loro coetanei nati dopo. Non parlo di qualità, ma di quantità. È un processo naturale, oserei dire di difesa. Come non puoi emozionarti di tutto, così non puoi ritenere tutto. Non credo che sia una morte definitiva, perché non c’è mai nulla di definitivo, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ripeto, ma per eccesso.I veri cambiamenti avvengono soltanto quando ci si ritrova in condizioni di crisi veramente profonda. Se ci fosse una crisi economica veramente forte, e adesso non ci siamo ancora, allora forse le persone si sveglierebbero e non farebbero come adesso, che tirano a campare. E questo vale per tutto, non soltanto per l’informazione. L’informazione è un campo strano: se leggi soltanto quella mainstream sai che al 90 per cento è taroccata, se invece cerchi in rete ti ritrovi con una massa talmente vasta di informazioni che non sai più nemmeno come gestirla. Qual è l’errore peggiore che può fare un giornalista? Non scrivere quello che vede e non dire quello che pensa, senza dimenticare mai che quello che pensa non è la verità assoluta, visto che non c’è nessuna verità. La cosa peggiore che può fare un giornalista è non essere onesto. Io l’ho sempre detto: se in un’inchiesta dovessi scoprire che mia madre è una puttana, scriverei che mia madre è una puttana. Questo deve fare il giornalista.Naturalmente non c’è una verità oggettiva, non esiste, ma questo è un tema più profondo, qui sfociamo nella metafisica. C’è un bellissimo film degli anni Cinquanta di Akira Kurosawa che si chiama Rashomon. Kurosawa ti fa vedere la scena di un samurai e di sua moglie che vengono aggrediti in un bosco. Lei viene stuprata e lui ucciso. Poi c’è il processo, e al processo ognuno racconta la sua verità. E Kurosawa ti fa vedere ogni volta la stessa scena, senza cambiare una virgola, ma ogni volta la verità è diversa. L’onestà intellettuale è un atteggiamento mentale che dovrebbe rappresentare la normalità. Significa trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi ti sta antipatico. Una cosa se secondo te è sbagliata, o giusta, lo devi riconoscere indipendentemente da chi la fa. Questo vuol dire essere coerente e onesto intellettualmente, se no fai l’agitatore, che è un altro mestiere.Il grande corruttore in questo senso è stato Eugenio Scalfari, il quale incominciò a dire una cosa per poi dire il suo contrario sei mesi dopo, finché arrivò all’apice assoluto e, in un articolo su Bettino Craxi, scrisse una seconda parte in cui riusciva a smentire ciò che lui stesso aveva detto nella prima. Un tempo questo non sarebbe stato possibile, perché come diceva Giorgio Bocca esisteva una “società degli eccellenti”. È un concetto da prendere con le molle, ma insomma, certe cose non le potevi fare, se no eri squalificato. Poi è saltato tutto, e infatti lo vediamo nel giornalismo di oggi, ma anche nella politica. «Stai sereno», dice Renzi a Letta, e dopo due giorni gli ha preso il posto. Ecco, almeno per queste cose, un tempo l’Italia era diversa, c’erano delle regole, anche non scritte, ma certe cose non le potevi fare. E non solo nel giornalismo, anche nella vita quotidiana. Era un’Italia, quella dei Cinquanta e Sessanta, in cui l’onestà era un valore per tutti: per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, in cui se venivi meno alla parola data o a una stretta di mano venivi escluso dalla comunità, e anche per le classi medie e il proletariato.Quale è stato il punto di rottura? Il boom economico, l’idolatria del quattrino. L’idolatria del quattrino ha cambiato gli italiani radicalmente: ora ci si vende per niente. Lo vediamo tutti i giorni, i recenti scandali che abbiamo visto ne sono la prova. Il dio quattrino è diventato l’unico idolo condiviso di questo paese. Questa è la verità. Il giornalismo e gli intellettuali – uh, che brutta parola – hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica. Gli intellettuali hanno tradito il loro compito, il loro mestiere. E qual è il mestiere dell’intellettuale o del giornalista è, per usare una vecchia formula un po’ usurata, quella del cane da guardia del potere, il controllore. Un ruolo che in alcune parti del mondo ancora esiste, penso agli Stati Uniti, paese che detesto per molti motivi, ma a cui bisogna dare questo merito: la stampa, o almeno, delle parti della stampa sembrano ancora avere l’indipendenza minima, quella che ti permette quando parli dell’Afghanistan, per esempio, di criticare l’operato del tuo governo e del tuo esercito.In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo mestiere, è totalmente versipelle, ma ci sono esempi di tutti i tipi. Giuliano Ferrara direi che ne è l’emblema, perché è una persona intelligente, anche se in questo caso l’intelligenza mi sembra una aggravante più che un’attenuante. In ogni caso, è questo mondo quello di cui parlo: i Ferrara, i Della Loggia, i Panebianco, i Battista e via dicendo, sono loro che hanno squalificato il lavoro del giornalista. Ma ci sono anche esempi positivi, penso ai Rizzo, agli Stella, che hanno fatto parecchia gavetta e che sono degli ottimi giornalisti. Il problema è che restano in uno stato di perenne gavetta, non avranno mai il peso che può avere un editorialista del “Corriere della Sera”, che poi non si sa nemmeno più perché debbano essere loro gli editorialisti del “Corriere”.Qual è il prezzo che un giornalista paga per difendere la propria onestà intellettuale? Come paga? Be’, con la marginalizzazione, l’estromissione, l’annullamento. Del resto, non si può fare la rivoluzione con la mutua, come pretendevano quelli del ‘68. Se ti metti contro devi essere disposto a pagarne il prezzo, e il prezzo è quello. Una nuova generazione di giornalisti potrà cambiare le cose? È molto difficile. Prima di tutto perché è difficilissimo entrare. Una volta assumevi il figlio del collega o il nipote di un politico, ma insieme assumevi anche uno bravo. Adesso quelli bravi fanno molta più fatica. Forse il web sarà utile in questo senso, per creare qualcosa di nuovo e indipendente, anche se la rete ha tutta una serie di problemi che non rendono affatto facile emergere. Con l’abbondanza che può offrire il web farsi notare è sempre più un’impresa eccezionale.Ci sono tantissimi finti anticonformisti in Italia, ci sono sempre stati, e se ne stanno benissimo incistati in quello che si chiama pensiero unico, che non sanno nemmeno bene che cos’è. È il pensiero uscito dalla rivoluzione industriale, che si basa su una distinzione netta tra destra e sinistra, che sono in realtà due facce della stessa medaglia. Questo quando sono onesti intellettualmente. Quando sono disonesti sembrano anche la stessa faccia, perché fondamentalmente si conformano al potente del momento. È normale, è quello di cui parlava Flaiano quando diceva “salire sul carro del vincitore”. Adesso c’è Renzi, prima c’era Berlusconi, poi chi sa chi ci sarà. Una volta i giornali davano spazio anche a personaggi eterodossi. Certo li usavano come foglia di fico, ma almeno li facevano scrivere. Pensa all’esempio di Pasolini, che ha scritto cose micidiali sulle pagine del “Corriere della Sera”, opinioni eterodosse che oggi non hanno più spazio. Questo tipo di intellettuale è esistito in Italia per molto tempo. Mi vien da pensare anche a una parte della carriera di Bocca, o di Montanelli. Adesso però io non riesco a vedere personaggi di questo genere, di questa statura intellettuale. Insomma, o fai parte della compagnia del giro, quella dei Fazio, dei Saviano, dei Gramellini, o non avrai spazio. Per avere spazio devi essere cooptato da qualcuno.(Massimo Fini, dichiarazioni rilasciate ad Andrea Coccia per l’intervista “I giornalisti? Sono più disonesti dei politici”, pubblicata da “Linkiesta” il 15 giugno 2014).Credo che l’informazione sia finita. Non il nostro mestiere, ma l’informazione. L’informazione è finita per eccesso di informazione. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva la vita, il secondo ti nutre, il terzo di fa piacere, ma, alla lunga, il decimo ti uccide. Noi siamo attraversati di continuo da messaggi, non solo di tipo informativo, ma anche pubblicitari, per cui non riusciamo più a ritenere nulla di quel che leggiamo. Qualche anno fa lessi un articolo americano che spiegava come i giovani cresciuti in era pre-televisiva avessero una quantità di informazioni molto superiore ai loro coetanei nati dopo. Non parlo di qualità, ma di quantità. È un processo naturale, oserei dire di difesa. Come non puoi emozionarti di tutto, così non puoi ritenere tutto. Non credo che sia una morte definitiva, perché non c’è mai nulla di definitivo, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ripeto, ma per eccesso.
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Israele, il genocidio dell’acqua per sterminare i palestinesi
L’accesso all’acqua potabile è un presupposto essenziale per la sopravvivenza di ogni comunità, e i servizi igienico-sanitari sono altrettanto essenziali per la salute pubblica. Le leggi internazionali universalmente accettate, istituite per proteggere il diritto di accesso all’acqua potabile, sono sistematicamente violate dal governo israeliano nella Palestina occupata, accusa Elias Akleh: Israele «ha trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale». Cisgiordania e Gaza soffrono la sete, mentre le comunità rurali dipendono dalle magre forniture israeliane. Numeri: nelle principali città, un palestinese ha accesso ad appena 70 litri d’acqua al giorno, contro i 100 litri raccomandanti dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nelle campagne la dose scende ad appena 20-30 litri, mentre negli insediamenti israeliani verdeggiano parchi e giardini con piscine. «È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene».Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, mentre i coloni israeliani irrigano i loro frutteti consumando anche 400 litri d’acqua al giorno a persona, le comunità beduine devono cavarsela con 10-20 litri al giorno, acqua di cisterna a bassa qualità. «Consapevoli della disastrosa situazione dell’acqua nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza – scrive Akleh in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – i paesi donatori hanno sostenuto gli sforzi dell’Autorità Palestinese per sviluppare il settore idrico e igienico-sanitario, e hanno destinato fondi per la costruzione di bacini idrici, impianti di trattamento delle acque reflue, e per la riparazione e l’ampliamento delle reti idriche e fognarie». Sono strutture vitali per la popolazione, finanziate dall’Ewash, coalizione che raggruppa 30 Ong internazionali. Eppure, annota Akleh, «con la sua lunga storia di violazioni di molte leggi internazionali, grazie alla collaborazione della sua società idrica nazionale Mekorot e della società agro-industriale israeliana Mehadrin, il governo israeliano ha adottato politiche discriminatorie sistematiche, gravi e dannose, per ostacolare l’accesso all’acqua ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, combinato con l’imponente furto delle risorse idriche».Un rapporto dell’Onu rivela che le società Mekorot e Mehadrin minano gravemente l’accesso dei palestinesi all’acqua, in particolare nella valle del Giordano, pompando l’acqua dei pozzi e delle sorgenti d’acqua palestinesi verso le colonie illegali israeliane (insediamenti) in Cisgiordania. «L’acqua palestinese è stata rubata e convogliata in Israele a costo zero», poi una parte della “refurtiva” viene rivenduta alle città palestinesi: «In questo modo Israele sta rubando ai palestinesi sia la loro acqua che il loro denaro». Tel Aviv, continua Akleh, esercita un potere sottile: «Attraverso la lentezza della burocrazia, blocca la maggior parte delle licenze e i permessi per i nuovi impianti idrici in Cisgiordania, ponendo come condizione la reciproca approvazione da parte dei palestinesi dei progetti nelle colonie illegali, gli insediamenti: un accordo che l’Autorità Nazionale Palestinese rifiuta per paura di legittimare queste colonie». Così, l’Anp non è stata in grado di realizzare infrastrutture su larga scala per proteggere la popolazione: tra il ‘95 e il 2011, i palestinesi si sono visti approvare solo 4 progetti su 30 per le acque reflue e appena 3 pozzi agricoli sui 38 richiesti nel solo 2011.«A causa delle artificiose carenze di acqua imposte da Israele e della mancanza di impianti di trattamento delle acque reflue e delle reti fognarie, la maggioranza dei palestinesi ha dovuto ricorrere alla vecchia pratica di costruire pozzi d’acqua privati, pozzi neri e fosse settiche», racconta Akleh. «Nelle aree rurali i palestinesi dipendono dalle vasche di raccolta d’acqua piovana, dalle cisterne e dai serbatoi d’acqua. Ciò aumenta i timori per la salute pubblica e per i danni all’ambiente». Non è tutto. «Oltre ai tempi prolungati della burocrazia israeliana e al libero furto dell’acqua palestinese, il governo israeliano ha adottato ed attuato politiche e pratiche immorali e illegali, con l’obiettivo di distruggere le risorse idriche palestinesi e di contaminare i loro terreni agricoli per stimolare l’auto-evacuazione dei palestinesi da una zona ambita e la diffusione di una malattia mortale tra i loro bambini cagionevoli». Anche per questo, l’esercito israeliano «svolge ordinariamente quelli che vengono chiamati ordini di demolizione di cisterne comunali e pozzi d’acqua in terreni agricoli privati a causa di una presunta mancanza di autorizzazione». Molte di queste cisterne «sono vecchie di centinaia di anni, più vecchie dello stesso stato illegale di Israele», e includono «serbatoi di acqua trainati da animali e da trattori».Solo nel 2011 l’esercito israeliano ha demolito 89 strutture “Wash” in Cisgiordania, tra cui 21 pozzi, 34 cisterne e molti piccoli serbatoi rurali nella valle del Giordano. «Tale demolizione comprendeva anche la distruzione degli orti, delle stalle e delle baracche degli animali». Una devastazione che viola l’articolo 53 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta la distruzione di proprietà privata o pubblica, ed è una chiara violazione del diritto all’acqua, tutelato dall’articolo 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. «Il governo israeliano – continua Akleh – utilizza questa negazione dell’accesso all’acqua per innescare gli spostamenti delle persone, soprattutto nelle zone che fanno parte del programma per l’espansione coloniale, in particolare per il fatto che queste comunità sono composte per lo più da agricoltori, che dipendono dall’acqua per il loro sostentamento. Di solito, l’interruzione della fornitura delle risorse idriche precede l’esproprio dei terreni per nuovi progetti coloniali».Il muro di separazione per l’apartheid israeliano, 700 chilometri in costruzione dal 2002, «è stato deliberatamente deviato attraverso la Cisgiordania per includere, nella parte israeliana, il ricco e fertile terreno agricolo palestinese con grandi falde acquifere sotterranee, in particolare all’interno delle provincie di Jenin, Qalqilya e Tulkarem». Il muro, continua Akleh, ha ulteriormente ridotto l’accesso dei palestinesi all’acqua e ha portato alla perdita di accesso a 49 pozzi e serbatoi ad uso agricolo e domestico. A Gaza invece si usano i raid aerei per bombardare le risorse idriche e gli impianti di trattamento dell’acqua, le strutture fognarie, e persino le cisterne agricole antecedenti all’istituzione dello Stato ebraico. «Dal 2005 le incursioni militari israeliane hanno intenzionalmente distrutto almeno 300 pozzi agricoli situati nella zona cuscinetto designata da Israele», devastando anche serbatoi d’acqua sui tetti e molti chilometri di tubazioni e reti d’irrigazione. Durante l’operazione “Piombo Fuso”, sono state rase al suolo strutture idriche per un valore di 6 milioni di dollari.«La situazione a Gaza è particolarmente terribile», sottolinea Akleh. «I palestinesi si basano interamente sulla falda acquifera quasi esaurita, contaminata da acqua salata e dalle acque reflue inquinate, la cui acqua è inadatta al consumo umano». Il brutale assedio imposto da Israele limita l’importazione di molti beni essenziali, tra cui il combustibile necessario per il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. «Senza energia elettrica, gli impianti di trattamento delle acque reflue e le pompe d’acqua in buono stato non possono funzionare, con il conseguente inquinamento prodotto dalle acque reflue». Risultato: «Si stima che 89 milioni di litri di liquami scorrano ogni giorno nel Mar Mediterraneo ad aumentare il livello di nitrati in acqua, fino a sei volte superiore ai limiti dell’Oms di 50 milligrammi per litro. Questo contamina anche il pesce da cui molti palestinesi a Gaza dipendono come principale prodotto alimentare». Fino al 95% dell’acqua estratta dalla falda costiera di Gaza non è adatta al consumo umano. Molte famiglie ripiegano sull’acqua di cisterna, che però è contaminata dai batteri: per l’Onu, diarrea ed epatite virale sono le principali cause di morbosità nella popolazione dei rifugiati della Striscia di Gaza.Il danno peggiore alle risorse idriche palestinesi, ai loro terreni agricoli e all’ambiente, è causato dai coloni, gli estremisti religiosi ebraici armati fino ai denti, «guidati dalla loro religione di suprematismo razzista e senza ostacoli», e protetti dal tacito incoraggiamento del governo di Tel Aviv. «Occupano illegalmente e con la forza le cime delle colline dei terreni agricoli palestinesi, vi costruiscono le loro colonie illegali e iniziano ad attaccare le comunità palestinesi limitrofe». Veri e propri pogrom: attaccano le case palestinesi, incendiano i loro raccolti e le stalle degli animali, confiscano le sorgenti d’acqua. E poi «avvelenano i pozzi con sostanze chimiche, li inquinano con i pannolini sporchi, con le proprie feci o con i polli morti», giungendo a crivellare di colpi di serbatoi sui tetti, dopo averli rovesciati a terra. Colonizzatori fanatici: «Sono i maggiori produttori pro capite di acque reflue in Cisgiordania, e scaricano grandi quantità di acque reflue direttamente nell’ambiente, contaminando il terreno agricolo adiacente e i corsi d’acqua ad uso agricolo».Strategia: inquinare la campagna palestinese, scaricandovi le acque fognarie senza alcuna depurazione, per favorire la propagazione di malattie e sfrattare la popolazione. Secondo le Nazioni Unite, il problema è devastante da quando ai palestinesi sono state strappate le sorgenti: i coloni «hanno usato minacce, intimidazioni e recinzioni». Israele, riassume Elias Akleh, sta deliberamente violando tutte le leggi internazionali che ha sottoscritto: il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Icescr), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia (Crc), la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), la Quarta Convenzione di Ginevra e il suo protocollo aggiuntivo sulla protezione delle vittime dei conflitti armati, nonché molti dei regolamenti dell’Aja. Negare il diritto all’acqua «è considerato un crimine di genocidio», per il quale Israele «è molto famoso».L’accesso all’acqua potabile è un presupposto essenziale per la sopravvivenza di ogni comunità, e i servizi igienico-sanitari sono altrettanto essenziali per la salute pubblica. Le leggi internazionali universalmente accettate, istituite per proteggere il diritto di accesso all’acqua potabile, sono sistematicamente violate dal governo israeliano nella Palestina occupata, accusa Elias Akleh: Israele «ha trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale». Cisgiordania e Gaza soffrono la sete, mentre le comunità rurali dipendono dalle magre forniture israeliane. Numeri: nelle principali città, un palestinese ha accesso ad appena 70 litri d’acqua al giorno, contro i 100 litri raccomandanti dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nelle campagne la dose scende ad appena 20-30 litri, mentre negli insediamenti israeliani verdeggiano parchi e giardini con piscine. «È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene».
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Non trovi lavoro? Ti ha fregato Joseph Lee, 358 anni fa
Prendi il paradigma sociale, quello che oggi suona come una canzone di Gigliola Cinguetti, cioè una roba vecchia, da nonne. Prendilo e pensa a cosa vuole dire. Vuol dire che noi umani viviamo in gruppi, e siccome siamo tutti collegati, ci conviene avere un sistema dove ogni individuo mette un poco del suo per creare una rete di sicurezza comune. Così, se a chiunque capita una sventura, casca nella rete di sicurezza, non si sfracella al suolo, e tutto il sistema continua senza troppi danni. Logico, fila come l’olio. Eppure l’hanno distrutta, la rete. Si chiamava Stato (Sociale). Oggi va di moda un paradigma diverso, che è questo: noi viviamo in gruppi, ma l’individuo è sacro e sovrano, deve poter fare quello che vuole, e soprattutto è personalmente responsabile della sua fortuna/sventura. Faccia il suo interesse individuale con meno regole possibili, lo Stato non deve metterci bocca, e alla fine tutta la società ne trarrà profitto. Questo paradigma si chiama con un nome francese, il Laissez Faire, lasciate fare.Ora mi prudono le dita, comincerei un trattato di 80 pagine su come il Laissez Faire sia diventato modernità, dogma economico unico, Eurozona, Austerità, morte del sociale, morte dei diritti, disoccupazione di massa, Economicidio, etc. Ma no. Ancora solo pochissime righe. Vi faccio notare come funziona il Vero Potere. Prima lezione: quanto vecchie sono le sue idee. Questo mi affascina del Vero Potere. Esso non cambia mai idea, mai. Stabilì i suoi principi secoli fa, e li ripropone oggi identici sotto le vetrate da terzo millennio dell’Eurotower di Francoforte. Il Laissez Faire nasce in particolare nel 1656 da un tizio di nome Josph Lee, che lasciò scritto questo: «E’ una massima innegabile che ciascuno, per la luce della natura e della ragione, farà ciò che torna a suo maggior vantaggio… Il progredire della singola persona tornerà a vantaggio della comunità».Da allora il principio non è mai cambiato. I Neofeudali del Vero Potere lo hanno oggi portato all’apice, con la distruzione della sovranità di spesa degli Stati in Eurozona, dove viene proibito alla collettività di sborsare anche un singolo centesimo per creare il VERO lavoro. Non è la collettività che deve fare rete di sicurezza, mai! L’individuo si arrangi, sgomiti, o si riduca la vita a scaricare bancali all’Ikea dopo 6 anni di università, spacci, lecchi scarpe, faccia la puttana, si arricchisca sulla miseria di milioni di altri, o crepi. E se crepa è colpa sua, “voleva dire che era un inetto” (Margaret Thatcher, Monti, Barroso, Rehn, Amato, Draghi, Lagarde, tutti Mr & Ms Laissez Faire).Un Programma di Piena Occupazione finanziato dallo Stato, a reddito degno per il 100% dei disoccupati italiani, secondo la Mosler Economics Mmt, e che ti salverebbe vita, la dignità e i figli, caro disoccupato, è impossibile in un sistema odierno di Laissez Faire. Mi spiace, anzi, sorry, visto che lo devi a Mr. Joseph Lee che era inglese, e ti ha fottuto 358 anni fa. Il Vero Potere è antico, non cambia mai le sue idee. Impara a conoscerlo, che magari poi sei tu che lo fotti. Se lo conosci lo fotti (qualcuno lo dica ai 5 stelle).(Paolo Barnard, “Non trovi lavoro, ti ha fottuto Joseph Lee 358 anni fa”, dal blog di Barnard dell’11 maggio 2014).Prendi il paradigma sociale, quello che oggi suona come una canzone di Gigliola Cinguetti, cioè una roba vecchia, da nonne. Prendilo e pensa a cosa vuole dire. Vuol dire che noi umani viviamo in gruppi, e siccome siamo tutti collegati, ci conviene avere un sistema dove ogni individuo mette un poco del suo per creare una rete di sicurezza comune. Così, se a chiunque capita una sventura, casca nella rete di sicurezza, non si sfracella al suolo, e tutto il sistema continua senza troppi danni. Logico, fila come l’olio. Eppure l’hanno distrutta, la rete. Si chiamava Stato (Sociale). Oggi va di moda un paradigma diverso, che è questo: noi viviamo in gruppi, ma l’individuo è sacro e sovrano, deve poter fare quello che vuole, e soprattutto è personalmente responsabile della sua fortuna/sventura. Faccia il suo interesse individuale con meno regole possibili, lo Stato non deve metterci bocca, e alla fine tutta la società ne trarrà profitto. Questo paradigma si chiama con un nome francese, il Laissez Faire, lasciate fare.
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Investire in Italia? Sì, quando l’euro ci avrà rasi al suolo
«Nell’epoca dell’avidità e delle guerre per massimizzare i profitti delle SpA nessun politico calato dall’alto avrà il coraggio di spegnere l’interruttore dell’immoralità», e ovviamente «nessun partito pensa di riformare il processo decisionale della politica – riforma dei partiti, elezioni primarie per legge, democrazia diretta», sostiene Peppe Carpentieri. «Una delle più grandi menzogne spacciate dai media e dai politici nostrani è che l’Eurozona avrebbe promesso un miglioramento del benessere collettivo». I mantra della “religione” liberista? Crescita e competitività, a parole. Nei fatti, invece, il cambio fisso dell’Eurozona, il patto di stabilità e crescita nonché il Fiscal Compact «sono tutti strumenti che hanno sostenuto il processo di recessione avviato prima con lo Sme, poi nel 1981 con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia, e accelerato con la deregolamentazione bancaria e finanziaria, fino ad esplodere nel 2008 con la crisi dei mutui subprime che ha raggiunto l’Eurozona».Gli Stati che aderiscono all’euro, e quindi abdicano alla sovranità monetaria – cioè rinunciano ad una propria politica monetaria – e decidono di farsi condizionare dallo spread e dalle “opinioni” dei mercati finanziari, scrive Carpentieri in un post ripreso da “Megachip”. I mercati finanziari hanno anch’essi la loro “religione”, cioè «l’avidità e la crescita del Pil». E così, «accade che i fondi di investimento internazionali guidati da soggetti privati, favoriti dalla deregolamentazione globale, scelgono di investire i capitali seguendo la crescita del Pil, l’andamento demografico e lo sviluppo urbano dei singoli Stati». Non conviene più investire nel nostro paese? Ovvio: «I vantaggi di investire in Italia non ci sono poiché la globalizzazione sposta gli interessi verso i paesi emergenti». Molto meglio puntare su paesi neppure democratici, senza sindacati né diritti umani, ma con «l’opportunità di sfruttare e usurpare risorse materiali», senza contare i «vantaggi fiscali» e le «opportunità per massimizzare i profitti», utilizzando lavoratori-schiavi. I diritti civili e la cultura democratica? «Rappresentano un ostacolo oggettivo, per i fondi di investimento privati».Consapevoli di questa enorme contraddizione fra avidità e democrazia, il progetto politico dell’Eurozona «rappresenta non solo una minaccia concreta per gli uomini liberi, ma è di fatto un progetto immorale, incostituzionale, che pregiudica la sopravvivenza delle generazioni presenti e future», sottolinea Carpentieri. «Non è tollerabile e tanto meno accettabile che la Repubblica italiana sia cancellata dalla storia per l’apatia dei cittadini stessi, manipolati, ingannati e traditi da dipendenti politici, nella migliore delle ipotesi incapaci e stupidi, nella peggiore traditori della Repubblica». La depressione dell’Eurozona e soprattutto dei paesi periferici dell’Ue ha una radice comune: «Cessione della sovranità monetaria, assenza di una banca pubblica che faccia l’interesse pubblico, sgretolamento dello Stato sociale, un sistema contabile fiscale stupido perché i criteri della crescita impediscono di fare investimenti pubblici, assenza di una politica industriale utile allo sviluppo umano».Tutto questo, ovviamente, non viene mai ammesso dall’establishment e dal suo mainstream: si continua a «blaterare di crescita e sviluppo», cercando solo di «confondere le idee degli elettori». Nella realtà, i mercati finanziari «ignorano le chiacchiere di questi utili idioti». L’Unione Europea «serve ai paesi “centrali” per drenare risorse (tasse), e serve a produrre disperazione, istigazione al suicidio e povertà crescente nei paesi “periferici”». Sicché, «quando i paesi “periferici” avranno raggiunto i livelli di povertà dei paesi emergenti, può darsi che i famigerati mercati finanziari avranno pietà e interesse nell’investire anche in Italia», ma in quel caso «non ci saranno più gli italiani». A quel punto, di fronte alla catastrofe socio-economica, ridiventerà finalmente “conveniente” investire in Italia, quando cioè ci si metterà in fila per un lavoro qualsiasi, con paga “cinese”. E’ una macchina imponente, che funziona a meraviglia. Da dove vengono tutti quei soldi, impiegati contro di noi? Dai paradisi fiscali, che insieme agli strumenti finanziari «rappresentano il modo più efficace di far perdere le tracce e distribuire soldi per corrompere politici e pagare la politica delle multinazionali SpA: guerre e controllo del debito».Per Moisés Naìm, economista e direttore di “Foreign Policy”, già dirigente della Banca Mondiale, il numero dei territori che offrono servizi off-shore continua a crescere. Una piaga inarrestabile: «Non si tratta di catturare questa o quella persona, qui si tratta di un problema di sistema, “sistema mondo” intendo, che sta minacciando l’equilibrio globale». L’alta finanza ha creato paradisi bancari come Euroclear e Clearstream, dove vige il segreto assoluto: «Conti su cui è possibile far comparire e scomparire il denaro occultandone la fonte di provenienza». L’organizzazione “taxjustice.net”, continua Carpentieri, ha creato un indice della segretezza finanziaria, una ricchezza monetaria che sfugge alle regole fiscali nazionali: «Si tratta di un sistema globale che consente di non pagare tasse o pagarne poche grazie alle maglie larghe di leggi deboli e inefficaci». Secondo “Taxjustice”, ci sono da 21 a 32 trilioni di dollari depositati nei paradisi fiscali. In cima alla classifica brilla la Svizzera, seguita da Lussemburgo, Hong Kong, le Cayman, Singapore, gli Usa.Secondo John Christensen, dato che il capitale di privato depositato offshore è pari a 11.500 miliardi di dollari, «se questo capitale generasse un profitto modesto diciamo del 7% e se questo reddito fosse tassato a un’aliquota molto bassa, ad esempio del 30%, i governi del mondo avrebbero ogni anno un surplus di reddito pari a 250 miliardi di dollari, che potrebbero spendere per alleviare la povertà e raggiungere gli obiettivi di sviluppo fissati dalle Nazioni Unite». Sicuramente, aggiunge Carpentieri, in termini di giustizia sociale determinate istituzioni bancarie, grandi imprese e politici dovrrebbero «pagare il danno morale, sociale e ambientale che stanno causando a singole comunità, a singoli Stati e all’umanità intera». La soluzione? «Il ripristino della sovranità monetaria per favorire l’interesse della Repubblica e avviare un percorso di transizione, dall’era industriale verso una comunità fondata sul lavoro dell’equilibrio ecologico e non più sul profitto».«Nell’epoca dell’avidità e delle guerre per massimizzare i profitti delle SpA nessun politico calato dall’alto avrà il coraggio di spegnere l’interruttore dell’immoralità», e ovviamente «nessun partito pensa di riformare il processo decisionale della politica – riforma dei partiti, elezioni primarie per legge, democrazia diretta», sostiene Peppe Carpentieri. «Una delle più grandi menzogne spacciate dai media e dai politici nostrani è che l’Eurozona avrebbe promesso un miglioramento del benessere collettivo». I mantra della “religione” liberista? Crescita e competitività, a parole. Nei fatti, invece, il cambio fisso dell’Eurozona, il patto di stabilità e crescita nonché il Fiscal Compact «sono tutti strumenti che hanno sostenuto il processo di recessione avviato prima con lo Sme, poi nel 1981 con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia, e accelerato con la deregolamentazione bancaria e finanziaria, fino ad esplodere nel 2008 con la crisi dei mutui subprime che ha raggiunto l’Eurozona».
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Il giudice: l’euro condanna a morte l’Italia antifascista
Il trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».Una volta attuate, dichiara Barra Caracciolo ad “Abruzzo Web”, le democrazie costituzionali contemporanee portano a una crescita incrementata programmaticamente da un intervento pubblico «che è, prima di tutto, correttivo dell’assetto di forze che il capitalismo tende a creare». Un assetto «redistributivo verso la parte più debole, e largamente maggioritaria, della comunità sociale». L’effetto di questa correzione statale è che «tutti stanno meglio», perché la priorità indiscutibile è «la soddisfazione dei bisogni collettivi, non certo la stabilità finanziaria intesa come garanzia della intangibilità dei profitti del capitalismo finanziario». La democrazia moderna quindi “aiuta” la maggioranza, non i privilegiati, e questo «non sta bene a chi sta in cima alla piramide», anche perché la crescita del benessere diffuso «comporta una crescita culturale della massa e fa sì che questa abbia maggiore peso politico», contrastando le élite che tendono invece a condizionare i governi dall’alto del loro potere economico. Ed ecco spiegata l’attuale Ue con la sua Eurozona: sbaraccare lo Stato democratico e restituire il potere all’oligarchia, secondo uno schema pre-moderno, neofeudale.Certo, chi è a favore dell’euro spara a zero contro l’Italia, considerata incapace di intercettare al meglio i fondi europei. Errore, interviene il magistrato: i fondi europei sono nel bilancio dell’Ue ma non dell’unione monetaria, «che è stata deliberatamente creata senza un bilancio fiscale federale: i trattati non offrono strumenti compensativi degli squilibri interni all’area euro, e le dimensioni dei cosiddetti fondi Ue sono assolutamente inadeguate al Pil europeo». Ogni altro sistema federale al mondo – Usa, Canada, la stessa Germania – dispone di ben altro budget. Dato il peso economico dell’Europa, secondo l’economista francese Jacques Sapir servirebbe un bilancio federale europeo paragonabile a quello degli Stati Uniti. «Ma di questo bilancio, la Germania dovrebbe sopportare un peso pari a 8-9 punti del proprio prodotto interno lordo: un risultato semplicemente impensabile, e certamente respinto senza equivoci dalla stessa Germania».Dall’Unione Europea (non dall’area euro) si ripete che agli Stati come l’Italia viene semplicemente “restituita”, in parte, una somma che gli Stati hanno già versato. Per effettuare questa contribuzione netta, dati i vincoli di bilancio (drastica limitazione del deficit, fino all’attuale vincolo al pareggio di bilancio), «dobbiamo sostanzialmente rinunciare ai programmi pubblici previsti dalla nostra Costituzione» dice Caracciolo. «L’Unione Europea, in pratica, ne vieta la piena attuazione nei livelli solidaristici da essa previsti, non si scappa. Insomma, diamo dei soldi e ne riceviamo di meno, il meccanismo è questo. Le priorità, poi, vengono pianificate a livello eurocentrico, secondo finalità settoriali, ben diverse da quelle previste dalla nostra Costituzione». Cifre: ogni anno, secondo la Corte dei Conti, sono oltre 6 miliardi in meno che riceviamo rispetto alla nostra contribuzione. Inoltre, per la stabilizzazione della moneta unica – cioè degli squilibri creati dall’euro – solo negli ultimi tre anni abbiamo dovuto pagare, a vario titolo ed emettendo debito pubblico aggiuntivo (che ci viene poi rimproverato come “colpa”, costringendoci a ulteriori dosi di austerità) oltre 53 miliardi, tra cui i 10 miliardi di soccorsi bilaterali concessi a Spagna e Grecia.Ma anche spendendo per sostenere i paesi più deboli, l’Unione Europea non fa la cosa giusta, nel modo giusto: «I fondi accumulati per tenere su i sistemi bancari greci o spagnoli non sono stati usati per incrementare i bilanci di intervento sull’economia reale di quei paesi, ma vengono direttamente dati in pagamento alla Bce», che compra – da Francia e Germania – i titoli di Stato spagnoli e greci Parigi e Berlino avevano acquisito. Oppure, gli “aiuti” vengono immediatamente girati dagli Stati debitori al sistema bancario dei paesi creditori, quello tedesco in primis. In ogni caso, data la sua esiguità, per un vero “salvataggio” non sarebbe sufficiente neppure il fondo del Mes, il meccanismo europeo di stabilità. E così, nel frattempo le tasse aumentano: «Dall’assetto giuridico attuale non possiamo attenderci che una continua progressione della pressione fiscale», dice Barra Caracciolo. Una super-tassazione, «spesso artificiosa e contraria alla Costituzione», realizzata sia attraverso la moltiplicazione del tipo di imposte, sia attraverso «il continuo allargamento normativo delle basi imponibili», che però tendono a contrarsi dato che siamo in recessione.Uno dei drammi italiani è proprio il crollo della domanda interna di consumi, che aggrava il debito perché riduce il gettito fiscale e compromette il futuro: «Se non c’è più domanda interna, non c’è incentivo alcuno a fare nuovi investimenti in Italia. Chi vorrebbe produrre non lo fa perché non ci sono prospettive di vendere il prodotto, e il carico fiscale rende difficile immaginare anche la convenienza dell’esportazione». Per il magistrato, «siamo nel pieno della visione neoclassica dell’economia», quella della destra economica. «Siamo praticamente in stagnazione dal 1992». Già all’epoca del Trattato di Maastricht «era evidente che non si potesse tollerare un vincolo di cambio e di bilancio fiscale del genere e mantenerlo insieme alla crescita». L’euro – moneta rigida e non sovrana – non può che deprimere l’economia, tagliando le gambe all’unico possibile volano risolutivo, l’intervento statale: in una situazione di crisi, senza investimenti pubblici il settore privato crolla.«In un’economia liberista come quella dell’area euro, fondata sulla lotta all’inflazione e sulla limitazione dell’intervento pubblico, si finisce nella trappola della liquidità», spiega Luciano Barra Caracciolo. «Anche se i tassi praticati dalla banca centrale sono vicini allo zero, i soldi rimangono là, fermi. E i risparmi fermi non si trasformano in investimenti». Questo viene regolarmente imputato «alla mancanza di produttività del lavoro, che viene ulteriormente compresso nel salario: ciò che chiamano “riforme strutturali”», dalla riforma Fornero al Jobs Act di Renzi, dopo il pacchetto Treu del primo governo Prodi e poi la legge Biagi. Secondo Giulio Sapelli, siamo sull’orlo di una guerra. In realtà, la competizione tra Stati è già esplosa: avremmo dovuto cooperare, ma è lo stesso Trattato di Maastricht a parlare di “economia sociale di mercato fortemente competitiva”, prefigurando quindi «una competizione tra Stati per la supremazia sul mercato unico».Eccoci qua: «Privi di governo federale e di sovranità monetaria, stretti da vincoli di bilancio che escludono ogni autonoma politica economica e industriale nazionale, gli Stati non hanno più la parte essenziale della sovranità. Ma quella sovranità, sottrattagli ben oltre i limiti previsti dalla Costituzione per consentire di aderire a un’organizzazione internazionale, non è poi esercitata da nessuno, in termini di politiche di interesse generale dei popoli. È come se ci fosse un buco nero in cui la sovranità si disperde». Gli Stati della nuova Europa? «Devono competere tra loro, altre vie non vengono indicate». Secondo Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia, tutto questo non porta sviluppo: si può anche vincere sulle esportazioni, ma nessuno vince se si vuole realizzare questo obbietivo tutti insieme simultaneamente. Risultato: zero crescita comune, proprio grazie alla perduta sovranità “dispersa nel nulla”. L’export in ogni caso non è la soluzione: «Le esportazioni si mandano avanti comprimendo domanda interna e salari: quindi, negli effetti sociali, siamo in guerra», sottolinea Caracciolo. «Chi perde si trova di fronte a perdite epocali e a un impoverimento che diviene irreversibile».Apriamo gli occhi, aggiunge il magistrato: «Non è l’euro ad aver garantito la pace: semmai è uscire dall’euro che porterebbe finalmente a una “pace”, intesa come armonizzazione cooperativa sul piano commerciale e industriale, che oggi non c’è perché è appunto incentivata una guerra commerciale-finanziaria dalla stessa struttura istituzionale della non-politica monetaria accentrata nella Bce». A questa analisi, la propaganda comune – e i mezzi di informazione di massa – replicano nel solito modo, cioè puntando il dito contro i presunti vizi italiani: non abbiamo mai saputo governarci bene, quindi non cresceremmo nemmeno in caso di uscita dall’euro. Il che è falso, puntualizza il giudice: «L’Italia se la cavava benissimo, riuscendo a stare almeno alla pari di Francia e Inghilterra, con una struttura industriale più dinamica». Fino all’irruzione dello Sme, il sistema monetario europeo e quindi il “vincolo esterno” alla spesa pubblica, «la realtà economico-industriale italiana non era affatto quella mostruosità che è stata dipinta ad arte da chi voleva “ridimensionare” l’Italia». Cifre alla mano, Bara Caracciolo smentisce i pro-euro: tra gli anni ‘70 e gli ‘80 l’Italia aveva una bassa spesa pubblica, inferiore di 10 punti alla spesa tedesca.C’era un deficit strutturale, certo, «ma il deficit non è un in sé un elemento negativo per il prodotto interno lordo», visto che corrisponde «all’immissione pubblica di moneta nel sistema», cosa che da noi «ha generato un grande risparmio privato», il primo d’Europa: gli italiani, in altre parole, si sono arricchiti anche grazie all’azione strategica dello Stato, che ha “speso a deficit per i cittadini”, aziende e famiglie, permettendo al sistema-paese di svilupparsi nel modo che abbiamo visto. Il debito pubblico? Altra mistificazione: nel 1981, al momento del divorzio fra Tesoro (Andreatta) e Banca d’Italia (Ciampi), il debito era appena al 58%, sottolinea Barra Caracciolo. Poi è esploso, quando è stato affidato ai titoli di Stato sul mercato finanziario privato, imbrigliando lo Stato prima con lo Sme – tassi di cambio a oscillazione limitata – e infine con l’euro, moneta iper-rigida che ci vincola «a realtà economiche come la Germania, strutturalmente inconciliabili con la nostra». Morale: «Sottraendo deficit e debito dalle mani dello Stato sovrano, si è avuta un’esplosione degli interessi». Non a caso, naturalmente: «Già in quel momento hanno cominciato ad arricchirsi minoranze di privati che sono diventati i sottoscrittori privilegiati di questo debito a interessi superiori al livello dell’inflazione, determinandosi un trasferimento a loro favore dei soldi dei contribuenti».Uno dei refrain del centrosinistra – da Prodi a Renzi – è la necessità di tagliare la spesa pubblica. E’ solo «una scusa», replica Luciano Barra Caracciolo. «In termini assoluti la spesa italiana non è mai stata alta, era sotto controllo: il problema del deficit era in realtà dovuto alla pressione fiscale relativamente bassa rispetto agli altri paesi europei come Francia e Germania», con in più una vasta evasione fiscale. Con Maastricht, si è cercato di “rimediare” aumentando la pressione fiscale su tutte le categorie produttive. Questo, insieme al cambio sfavorevole (l’euro troppo “forte”) e al venir meno del sostegno pubblico (il taglio del deficit) ha provocato «il blocco dello sviluppo industriale», cioè la grande crisi italiana, sottoposta allo choc improvviso della moneta unica, del rigore fiscale e della fine del sostegno pubblico. Il problema dunque non è l’Italia, ma questa Unione Europea. Il famoso malgoverno italiano? «Non era peggiore di altri ordinamenti in competizione, come Francia e Germania», e in ogni caso gli illustri tangentocrati del passato non hanno certo impedito al paese di svilupparsi rapidamente, arricchendo famiglie e aziende. «Capiamoci bene», insietre Caracciolo: «Con le attuali politiche fiscali, e specialmente col pareggio di bilancio, si azzererà il risparmio privato delle famiglie».«È un fatto di contabilità nazionale, non si può non capire un concetto così elementare», continua il magistrato. «Se devo tenere il deficit sotto un certo limite, si deve comprimere la domanda fino a provocare la recessione». Ma attenzione: il deficit non è un problema. Al contrario: «E’ il risparmio del settore privato». Sono soldi che lo Stato spende per cittadini e aziende. Se invece si taglia, e quindi si comprime la domanda interna di beni e servizi, il saldo arriva allo zero. Pareggio di bilancio, appunto. Così, l’onere degli interessi viene trasferito «nelle mani di chi detiene il debito pubblico», cioè «non certo le famiglie, ormai marginalizzate». Peggio ancora: «Col pareggio di bilancio si arriverà addirittura a un risparmio negativo: per fronteggiare la vita e le tasse, i cittadini dovranno vendere i propri beni patrimoniali, intaccando lo stock di risparmio. Questi beni andranno in sovraofferta, e i prezzi caleranno drammaticamente. Guardate i prezzi degli immobili, già in aperta flessione. In vent’anni di Fiscal Compact i valori reali saranno ridotti almeno a un terzo rispetto ai picchi della metà degli anni 2000. Alla fine del processo saremo tutti più poveri».E mentre il Pd continua a chiedere “più Europa”, proponendo il tedesco Martin Schulz alla guida dell’Ue, «si sta deindustrializzando l’Italia: la Germania su tutte vuole controllarla, in quanto sua principale concorrente industriale nell’area euro». Obiettivo: fare del nostro paese «una gigantesca fabbrica-cacciavite, a bassi salari, progressivamente decrescenti». Insiste il giudice: «La Germania non vuole un’Italia viva e vitale, proprio perché è il principale concorrente sul mercato unico. Fingendo di non volerci – come confermano le posizioni di Helmut Kohl durante la trattativa finale per l’introduzione dell’euro – costrinse l’Italia a entrare nella moneta unica, sapendo di poterla neutralizzare definitivamente nella sua competitività grazie al livello di cambio impostoci per sempre». Certo, televisioni e giornali non hanno certo aiutato gli italiani a capire quello che stava accadendo: «Gli editoriali italiani degli ultimi trent’anni sui più importanti quotidiani ci hanno detto enormi bugie, falsificando il senso economico del deficit e della spesa pubblica. Un lavoro ben orchestrato dai padroni finanziari. Colpevolizzando gli italiani e l’Italia spendacciona siamo arrivati alla povertà: dovevamo espiare i peccati e rinunciare a tutti i nostri diritti sociali. In Europa funziona così». Alla Bce è vietato espressamente di sostenere gli Stati e l’occupazione. «Se non cambiamo è la fine: di tutti».I trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».
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Zupo, ex dirigente Pci: il M5S unico erede di Berlinguer
«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».Questione morale non significa solo “non rubare”, è l’idea che lo Stato e le istituzioni democratiche sono un bene pubblico, «da preservare con attenzione essendo di proprietà di una comunità, frutto di sforzi di generazioni che nel passato hanno costruito le fondamenta per quelle future». Per Zupo, la “questione morale” impugnata dal leader del Pci era figlia della grande tradizione liberale, proveniente dalla Rivoluzione Francese, «non relegabile al campo della sinistra» ma cara a qualsiasi sincero democratico. Poi, dopo Berlinguer, il declino inarrestabile dei grandi ideali, in quel partito. Zupo “salva” anche il successore di Berlinguer, Alessandro Natta: dice che fu «defenestrato, mentre era in ospedale, dai vari D’Alema, Occhetto e Veltroni: lo dichiararono dimissionario – mentre era un falso – e lui apprese dal giornale radio di non essere più segretario del Pci». Prima di morire, nel 2001, Natta ha rilasciato un’intervista all’Unità: denunciava «la degenerazione che si era creata con Occhetto».Domanda: tra le forze politiche organizzate di oggi, chi ha preso il testimone di Berlinguer sulla questione morale? «Lo so, farò inorridire i miei compagni di una volta», premette Zupo. «Sono comunista semel semper berlingueriano e dopo il Pci non mi sono iscritto a nessun partito perché nessuno ha portato più avanti quei valori. Ora – dichiara – vedo nel M5S l’unico possibile erede». Una convinzione radicata: «Ho votato il movimento alle ultime elezioni nazionali e – pur non essendo un uomo ricco – l’ho finanziato. Sono andato al comizio di San Giovanni a Roma, prima del voto, e sono rimasto colpito dall’enorme partecipazione e dalla composizione della piazza: cittadini, lavoratori, giovani. La rappresentanza come servizio nelle istituzioni, a termine, per poi ritornare al proprio status di prima. Senza fortune politiche come avviene per gli altri partiti». Confortante, per Zupo, anche il dopo-voto: «I parlamentari 5 Stelle sono persone normalissime: casalinghe, ingegneri, impiegati, gente dalla porta accanto, non arruffoni di soldi e poltrone. Per questo sono del M5S e tornerò a votarlo».«Dall’altra parte – continua l’avvocato – abbiamo quel Pd che, tra l’incostituzionale “Porcellum” e la nuova legge elettorale, ha abrogato le preferenze togliendo alle persone il diritto di poter selezionare la propria classe dirigente. Il nominare loro i parlamentari è solo l’ennesimo atto di autoreferenzialità di una politica ormai lontana dai cittadini». Ormai il Pd è il partito di Renzi. «Berlinguer riteneva che Occhetto fosse solo un venditore di slogan e non un costruttore di politiche. Io penso lo stesso del premier Matteo Renzi, non aggiungo altro: è il nulla». Nella sinistra ufficiale, ci sono anche personaggi come Civati, il quasi-dissidente. «Civati è una persona simpatica e educata ma è compatibile al sistema», dice Zupo: «Ogni volta è lì lì per rompere e poi rientra nei ranghi: voto il M5S perché voglio una forza capace di ribaltare il tavolo su cui questi signori consumano la politica, e non qualcuno che cambi loro le stoviglie».Ai 5 Stelle, conclude l’avvocato, sono stati tesi dei trabocchetti, per esempio da Bersani, e i neoparlamentari hanno commesso errori d’inesperienza e ingenuità: per questo vanno sostenuti, perché continuino a crescere. Il Pd, invece, «ha disperso un immenso patrimonio, quello del Pci». Come diceva Natta, «non hanno tenuto conto che eravamo il punto di arrivo di una particolarità storica, significativa e apprezzata a livello internazionale: un partito socialdemocratico, sul modello scandinavo, che aveva con sé la classe operaia». Tutto questo, sostiene Zupo, non deve andare perduto, e il Movimento 5 Stelle è un’occasione: «In Europa il malcontento si sta riversando verso partiti reazionari, fascisti o addirittura neonazisti, mente qui da noi prende le sembianze del M5S che è invece antifascista, democratico e progressista. Basta osservare come Grillo ha replicato al corteggiamento di Marine Le Pen. Questa specificità del M5S andava compresa e sostenuta, e non osteggiata come fatto dal Pd. Anche le istituzioni che continuano ad accusare il movimento di populismo sbagliano in maniera grossolana».«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».
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L’oro alla patria: costretti a cedere i gioielli di famiglia
Grazie ad una miracolosa operazione di trasparenza sul giro d’affari dei “Compro Oro”, è stato svelato al Senato che gli italiani, nel biennio 2011-2012, hanno svenduto ai tanti negozietti appositi circa 300 tonnellate di oro e preziosi, per un totale di 14 miliardi di euro. Cifra enorme, equivalente alla finanziaria del 2013: «Le famiglie italiane si sono fatte una finanziaria da sole», commenta Debora Billi. «Io lo trovo assolutamente vergognoso. Trovo indegno di un paese civile (nota frase abusata dai politici in campagna elettorale) che i cittadini siano ridotti a vendersi l’oro in quantitativi industriali per riuscire a tirare avanti. E’ una cosa da vomito. In un certo senso, hanno dato l’oro alla patria. Hanno tirato la fine del mese da soli, mentre il loro paese era occupato a dirottare i soldi delle tasse verso gli interessi sul debito anziché provvedere a chi si trovava in difficoltà come sarebbe compito di una comunità. Chissà, forse “ce lo chiede l’Europa”».
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Hopkins: filiera corta, la nostra rivoluzione fa miracoli
Se la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.Come forma di sviluppo abbiamo la creazione di società energetiche, di piccole società agricole, l’agricoltura urbana, il tentativo di rivitalizzare a livello locale le comunità, dare supporto a agli imprenditori locali. Nella città di Bristol, una delle Transition Town, c’è la valuta locale, hanno fatto la Sterlina di Bristol con il supporto dell’amministrazione comunale. Uno dei progetti realizzato recentemente da Transition Network è “The New Economy in Twenty Enterprises”, la nuova economia in venti imprese. Abbiamo mappato tutto il territorio del Regno Unito e scelto venti imprese rappresentative dell’economia di transizione, che potevano essere replicate ovunque, non dipendenti perciò da una particolare situazione geografica o altro. Abbiamo scelto una banca della comunità, la comunità che aveva la propria valuta, piuttosto che il proprio sistema di trasporti, gestito dalla comunità, l’agricoltura, le aziende agricole della comunità, fonti energetiche.Alcune di queste iniziative nascono e si sviluppano in modo del tutto spontaneo; la differenza che fa “Transition” è creare un collegamento tra tutte queste cose. Infatti dalla natura, dall’ecologia, abbiamo imparato che la cosa potente è il collegamento tra i vari elementi, che vanno così a formare un sistema. “Transition” fa questo: tesse il tessuto che collega l’economia locale, consentendo a queste iniziative di parlare le une con le altre facendo sì che la resilienza della comunità diventi una forma di sviluppo economico.“Transition” è nata nel Regno Unito nel 2005 e da allora si è diffusa in tutto il mondo: siamo presenti in 44 paesi e ci sono migliaia di iniziative “Transition” in tutto il mondo. E’ è un movimento che si auto-organizza, nel senso che noi non siamo come un franchising della Coca Cola, che è sempre uguale ovunque esso si trovi, il nostro modello è diverso a seconda di dove nasce.C’è un movimento “Transition”, un’organizzazione, un Network Transition anche in Italia, che è stato uno dei primi posti a replicarlo, con grande successo, nel paese di Monte Veglio, in provincia di Bologna. C’è questa storia molto positiva, dove l’amministrazione locale ha promulgato una risoluzione per rendere il paese più resiliente, quindi esiste “Transition Italy”, Ci sono a disposizione possibilità di training, di collaborare a dei progetti. C’è una rete molto attiva, molto vitale, in Italia, cui ci si può collegare se si è interessati a “Transition”. Spesso pensiamo che il cambiamento possa accadere soltanto attraverso le proteste, i picchetti con i cartelli, le dimostrazioni, e sottovalutiamo quello che è il potere di ritirare il nostro supporto a ciò che non ci piace. C’è un movimento negli Stati Uniti che si chiama Divest, cioè “disinvestite”, che invita e incoraggia a disinvestire dal combustibile fossile per investire invece nelle rinnovabili.Si può disinvestire in un modo molto semplice, cioè con la spesa che facciamo ogni giorno: invece di fare delle scelte di acquisto che vanno a privilegiare l’economia “corporate”, quella delle grandi aziende, si scelgono prodotti che stimolano la resilienza locale, una economia locale, più inclusiva. Ogni giorno possiamo scegliere dove depositare i nostri risparmi, se dare supporto alle aziende locali o meno. Ho letto, per esempio, che negli Stati Uniti, prima che scoppiasse la guerra con l’Iraq, l’amministrazione Bush aveva previsto le dimostrazioni, ma era anche altrettanto sicuro che quella protesta non si sarebbe tradotta in cambiamento di modello del consumo – infatti le persone non hanno smesso di comprare benzina. Quindi il sistema è concepito proprio per lasciar sfogo a questo rumore, a queste dimostrazioni, perché tanto questo non corrisponde a un cambiamento delle azioni delle persone. Oggi, dare supporto all’economia locale rappresenta una delle scelte più radicali che si possano fare.(Rob Hopkins, “La transizione verso le economie locali”, sintesi del video-intervento di Hopkins sul blog di Beppe Grillo del 24 marzo 2014).http://www.beppegrillo.it/2014/03/passaparola_-la_transizione_verso_le_economie_locali_-_rob_hopkins.htmlSe la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.
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Giannuli: sono di sinistra, per questo non voterò Tsipras
La lista Tsipras? «E’ un aggregato che non ha nessuna vitalità o prospettiva. E’ la sommatoria deprimente di quel che resta di alcuni apparati di sinistra, alla ricerca disperata di margini di sopravvivenza, ma senza alcun reale progetto politico». Aldo Giannuli boccia sonoramente l’esperimento messo in piedi per le europee da Barbara Spinelli e Paolo Flores d’Arcais. E di chiara di aver «ascoltato con crescente desolazione» un recente comizio di Moni Ovadia, che sosteneva: «Non si torna indietro dall’Europa, perché bisogna battere i nazionalismi che hanno portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale». Replica Giannuli: «Ancora con questa accozzaglia di luoghi comuni? Ci mancava solo che dicesse che di mamma ce n’è una sola e che non ci sono più le mezze stagioni. Vogliamo riflettere su cosa è in concreto questa Europa e le sue istituzioni, al di là della propaganda “europeista” in cui non crede più nessuno?».Secondo Giannuli, non essendoci né un’analisi («e come volete che venga fuori in poche settimane di raffazzonata corsa a fare le liste?») non c’è neppure una linea politica e, di conseguenza, nessuna azione politica. «E voi pensate di prendere voti così?». Il politologo, docente universitario e con alle spalle una lunga militanza, anche in Rifondazione Comunista, si dichiara «non ostile» alla “Lista Tsipras”, ma la considera «una cosa morta». E aggiunge: «Posso fare le mie condoglianze, ma non ho molta voglia di restare a vegliare la salma. Se altri ritengono di doverlo fare, per carità, facciano pure, ma, ci rivediamo dopo le esequie». Ci sono molti modi di essere “di sinistra”, charisce Giannuli. «Ad esempio, io sono convinto della inconciliabilità fra capitalismo e giustizia sociale, perché il capitalismo è costitutivamente portatore di ingiustizie sociali. Ed è il motivo per cui mi definisco comunista. Poi altri la pensano diversamente, ad esempio la lista Tsipras si muove nell’ottica di una socialdemocrazia moderata, cercando di realizzare “spazi di giustizia sociale” all’interno del sistema dato, che non rimette in discussione».Dunque, se uno si considera “di sinistra” – cioè convinto del «nesso inscindibile fra giustizia sociale e libertà individuali e politiche», all’interno di una comunità di persone che aspirano a «un ordinamento sociale giusto e libero» – come può credere nella “Lista Tsipras”, che di fatto non propone di radere al suolo l’attuale ordinamento dell’Unione Europea, sostanziale dittatura dell’élite finanziaria imposta attraverso strumenti come l’austerity, il Fiscal Compact e la camicia di forza dell’Eurozona? Come dire: è illusorio pensare di riformare e correggere l’Ue, bisogna proprio abbatterla. Ma il vero problema è che, in Italia, il “popolo di sinistra” ha ben poche chanches: se la “Lista Tsipras” è così deludente, quello che ha attorno è ancora peggio. Per Giannuli, il Pd è ormai un partito «organicamente di destra», ligio ai diktat dell’élite finanziaria europea, anche se tiene ancora in ostaggio una residua porzione di “popolo di sinistra”, per lo più composta da pensionati, segnati più che altro «da una nobile ma sterile nostalgia». Si salva solo Civati, ma il suo «è un gruppo minuscolo e neanche tanto coeso». Dov’è finito, allora, il popolo della sinistra? Soprattutto nell’astensionismo e nel Movimento 5 Stelle.Nel 2006, ricorda Giannuli, le liste di sinistra (Rifondazione, Pdci, Verdi) ottennero complessivamente circa 4 milioni di voti. Nel 2013 “Rivoluzione Civile” guidata da Ingroia (con dentro anche un pezzo di Idv) ottenne 765.000 voti, e Sel un milione di suffragi. Totale, meno di 2 milioni di voti. E gli altri 2 milioni persi per strada? Fronte Pd: nel 2008 il partito di Veltroni ottenne 12 milioni di voti, mentre nel 2013 quello di Bersani si è fermato a 8 milioni e mezzo, perdendo cioè quasi 3 milioni e mezzo di elettori. Sommati a quelli della sinistra radicale, fanno 5 milioni e mezzo di italiani. Dove sono finiti? «Mi pare che non sia necessario fare calcoli particolarmente raffinati o interpellare chiromanti per capire che si sono divisi fra astensione e M5s». Il resto, oggi, è ancora collocato nel Pd per «una residua ma non trascurabile quota, direi un 25-30%», più forse un 10% nella «pozzanghera in cui si agitano Rifondazione, Sel, Pdci». Giannuli non ha dubbi: «Se qualcosa di sinistra ripartirà in questo paese, è dall’area dell’astensione o da quella del M5s che può succedere. Non certo dal Pd, da Rifondazione o Sel».Certo, ammette Giannuli, i grillini dovrebbero accelerare una sorta di evoluzione democratica. Pessime le espulsioni a catena dei dissidenti, «una pratica stalinista». Un problema anche «la proprietà privata del simbolo» del movimento creato da Grillo. D’accordo, serviva a «tutelare il simbolo da parte di “assalti” esterni», ma resta «una soluzione strampalata». Molto meglio «avere uno statuto ed una regolare costituzione come soggetto politico». Il professor Giannuli è convinto che, tra un po’, il M5S «rivedrà questa stramba sistemazione». Certo, il “populista” fondatore-padrone resta ingombrante, ma anche decisivo sul piano elettorale. «Non ho mai nascosto le mie critiche alle pose leaderistiche di Grillo», premette Giannuli, che però ribalta il ragionamento: come mai, nonostante il populismo, le esternazioni “isteriche” di Grillo e la mancanza di democrazia di cui è accusato, il M5S prende tutti quei voti, sottraendoli tanto al Pd quanto alla cosiddetta sinistra radicale? «Non sarà che, nonostante tutte le sue numerose pecche (che i suoi elettori conoscono benissimo, state tranquilli) il M5S appare più credibile, poniamo, di Rivoluzione Civile o della lista Tsipras?». Possibile che i signori della sinistra ufficiale siano così poco credibili da essere superati «da un rivale così pieno di difetti»?La lista Tsipras? «E’ un aggregato che non ha nessuna vitalità o prospettiva. E’ la sommatoria deprimente di quel che resta di alcuni apparati di sinistra, alla ricerca disperata di margini di sopravvivenza, ma senza alcun reale progetto politico». Aldo Giannuli boccia sonoramente l’esperimento messo in piedi per le europee da Barbara Spinelli e Paolo Flores d’Arcais. E di chiara di aver «ascoltato con crescente desolazione» un recente comizio di Moni Ovadia, che sosteneva: «Non si torna indietro dall’Europa, perché bisogna battere i nazionalismi che hanno portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale». Replica Giannuli: «Ancora con questa accozzaglia di luoghi comuni? Ci mancava solo che dicesse che di mamma ce n’è una sola e che non ci sono più le mezze stagioni. Vogliamo riflettere su cosa è in concreto questa Europa e le sue istituzioni, al di là della propaganda “europeista” in cui non crede più nessuno?».