Archivio del Tag ‘controrivoluzione’
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Polvere di Stelle: ko l’ambigua Scientology dei Casaleggio
Dopo la solenne mazzolata alle europee, grida d’allarme e pianti isterici si sono levati sui social, per l’emorragia colossale di consensi fuoriuscita dal M5S, mentre opinionisti di ogni genere sono subito corsi ad analizzare motivi e cause di una tale clamorosa débacle. Probabilmente, dato lo scarso coinvolgimento suscitato in genere dalle elezioni europee, una parte dell’elettorato potrebbe tornare alle politiche, comunque la leadership pentastellata non si è certo distinta per coerenza e rispetto delle fantomatiche promesse elettorali. Inoltre la vera causa della batosta consiste soprattutto nel fatto che il partito del né né non ha alcuna identità politica seria, nessuna ‘rivoluzione più o meno gentile’, ma una sola identità, quella del partito azienda. Dentro il corso della modernità liquida del terzo millennio il M5S si è adattato perfettamente, con prepotente vitalità, ancorandosi alla storia politica italiana, come fa il camaleonte con il ramo con cui si mimetizza, invadendo il panorama politico con promesse mirabolanti, irrompendo sulle piattaforme social con slogan propagandistici sempre più ossessivi e circondandosi di una folla di followers guidati più da un fanatismo morboso che da un serio giudizio critico sull’operato concreto del loro partito di riferimento, osannato oltre ogni possibile dubbio, secondo pratiche fideistiche che ricordano più una sorta di scientology italiana, che un movimento democratico.Facile cascare nel delirio collettivo provocato dalla genialità dell’esperimento di Gianroberto Casaleggio, però il M5S non è una forza politica nata dal basso, ma una semplice riproduzione della prima società di Casaleggio, la Webegg, gruppo per la consulenza delle aziende in Rete, controllata da I.T. Telecom Spa. Esperimento cui Casaleggio ha lavorato alla fine degli anni Novanta, quando da amministratore delegato cominciò a testare nei forum intranet dell’azienda i meccanismi di formazione e produzione del consenso attraverso la propaganda virale. Testi e regia dei Vday infatti, gli eventi antecedenti alla nascita del Movimento, erano in pratica decisi dalla Casaleggio. Grillo è stato l’uomo immagine, il frontman del consenso elettorale che poteva raccogliere e rilanciare la rabbia che saliva da più parti della società civile e incrementare il sentimento d’indignazione contro il sistema. In questa prima fase il MoV sosteneva alcune istanze che poi smentirà tutte: l’uscita dalla Nato, il rifiuto assoluto di comparire sulle tv, la decrescita felice, il plauso ad uno stile di vita francescano, un deciso sovranismo, una forte critica all’euro e all’Unione Europea.Gianroberto Casaleggio ha progettato attentamente la sua scalata al potere, tutelando con cura paranoica la fuga di notizie sulla sua storia professionale, anche se ai più attenti molte cose non erano sfuggite. Lo stesso Gianroberto teorizzava spesso sul potere degli ‘influencers’, i piazzisti di prodotti sul mercato, o fake persuaders, coloro che orientano il consenso degli utenti, creando e dirottando correnti di pensiero per finalità di marketing, anche politico. La persuasione funziona perfettamente quando è invisibile, e il marketing più efficace è quello che s’insinua subdolamente nella nostra coscienza, attraverso un processo di propagazione virale riprodotta sui social, simulando magnificamente l’autonomia delle nostre opinioni, che in realtà sono di altri. Il guru del web riuscì ad incastrare Grillo nell’avventura politica che si stava aprendo nel 2005, e con l’apertura del blog di Grillo cominciò la traversata nel deserto del nuovo partito populista. Tutta la comunicazione veniva studiata sistematicamente da Casaleggio, e Grillo serviva da amplificatore seducente e accattivante dei depistaggi ideologici, veri o presunti, della nuova creatura politica.Il blog fu subito ispiratore di liste civiche e di meetup territoriali, cui le persone partecipavano con grande entusiasmo, sentendosi protagonisti, esponenti preziosi del MoV, in realtà venivano spesso ignorati dai vertici, a meno che rispondessero ai canoni elettorali che facevano loro comodo, giovani, fotogenici, malleabili, succubi e dotati molto più di soft skills che di hard skills, più attitudini che competenze. Una volta eletti, una ‘squadra di esperti’ li avrebbero guidati nelle proposte e nei dibattiti politici. L’ipnosi collettiva scatenò effetti immediati, eliminò la sensazione d’impotenza, perché era taumaturgico gridare un “vaffa” verso i decrepiti e corrotti politici della casta, e illuse sulla possibilità di un riscatto, che poteva trovarsi finalmente a portata di mano. Il sogno si sa è sempre più forte del realismo, ed è la carica emozionale indispensabile per muovere le coscienze attraverso “parole guerriere”. Ma il riscatto non può arrivare, perché il MoV è una controrivoluzione, l’anarchismo interno in realtà è guidato dalla diarchia Casaleggio (oggi unico proprietario del simbolo e della società srl) e Di Maio, tutti gli altri stanno sotto.La selezione della classe dirigente è uno dei problemi seri, perché in Parlamento sono arrivate persone che non hanno mai letto la Costituzione, oppure diretti dipendenti, comprati a suon di promesse e di pretese. «Descrivere il potere dei Casaleggio è come comporre un puzzle», dicono due ex collaboratori del MoV, Nicola Biondo e Marco Canestrari nel loro ultimo libro di recente pubblicazione “Il sistema Casaleggio”. «Ci sono migliaia di pezzettini: associazioni aperte e chiuse, avvocati, notai, relazioni, contatti, incontri, cene, convegni, partiti politici, aziende pubbliche e private. Frammenti di racconto che presi da soli non hanno un grande significato. Bisogna ricostruire e collegare i tasselli con pazienza, per capire come ciascuno sia parte di uno schema coerente. Il paravento dietro cui si nasconde questo inganno è l’asserita volontà di costruire un nuovo modello di democrazia, la “democrazia diretta”, governata da un’applicazione web di pessima qualità chiamata Rousseau». Peraltro, secondo Davide Casaleggio, Rousseau dovrebbe sostituire i processi democratici esistenti oggi in Occidente: «Il Parlamento diventerà superfluo», ha profetizzato in un’intervista del luglio 2018.La scalata ai vertici del partito è avvenuta al momento della scomparsa di Gianroberto, quando il figlio Davide si è assicurato un ruolo assolutamente anomalo: non ha una carica politica eppure gestisce l’attività del MoV, come presidente dell’Associazione Rousseau, tesoriere e amministratore unico. Ma mentre Casaleggio ha il potere di governare i dati degli iscritti, le procedure di votazione dei candidati, le proposte da presentare in Parlamento, i soldi versati dai donatori e dai parlamentari (300 euro al mese, 6 milioni in 5 anni di legislatura, quindi soldi pubblici che vanno ad un’associazione privata), al contrario il movimento non può indicare i vertici, non può influenzare le decisioni, non può modificare le regole interne. Il nuovo statuto del partito, datato 30 dicembre 2017 e scritto dall’avvocato Luca Lanzalone (ora in carcere), blinda l’accordo tra l’Associazione e il partito. Gli strumenti informatici del MoVimento saranno forniti da Rousseau, per sempre, e il regolamento per le candidature quantifica la cifra di 300 euro al mese.Ora da un po’ di tempo si parla di una segreteria politica, di una rete territoriale, ma nulla lascia prevedere che il MoV possa trasformarsi in qualcosa di diverso rispetto ad uno strumento attraverso il quale i Casaleggio hanno concentrato nelle loro mani influenza e potere. Dopo il voto sulla Diciotti poi si è capito che gli iscritti sono pronti a ratificare qualsiasi proposta, se pilotati nel modo giusto da video orientati al lavaggio di cervello. Anche oggi, nel dopo tracollo alle europee, a decidere è solo un piccolo direttorio di poche persone, Casaleggio, Di Maio, Bugani. Il MoV si è presentato all’opinione pubblica italiana attraverso tre messaggi chiari: noi siamo il movimento della trasparenza, della legalità, della democrazia diretta. In realtà in questo non-partito, un soggetto non eletto da nessuno, attraverso un’associazione privata di nome Rousseau, controlla la gestione e le attività di un MoV, in maniera unidirezionale.Il conflitto di interessi, ambiguo e opaco, meriterebbe di essere messo a fuoco in modo netto: a quale titolo il capo di una srl impone a dei parlamentari eletti senza vincolo di mandato l’obbligo di essere sudditi di un’associazione privata? E comunque spiega perfettamente il crollo del MoV alle europee, perché se il partito del “né destra né sinistra” ha potuto raccattare moltissimi voti alle ultime politiche, proprio grazie all’ambiguità del proprio messaggio poliedrico e multilaterale, poi però di fronte alle sfide di governo non riesce più a gestire il consenso. Del MoV delle origini è rimasto solo un brand elettorale, svuotato di ogni energia progettuale di ampio respiro, adagiatosi costantemente su toni da political newsjacking perpetua, ostinatamente regolata su spot propagandistici di grande effetto, semplici, immediati, capaci di colpire l’immaginario collettivo. Ma la rappresentanza politica di istanze democratiche dovrebbe essere un’altra cosa…(Rosanna Spadini, “Polvere di Stelle”, da “Come Don Chisciotte” del 29 maggio 2019).Dopo la solenne mazzolata alle europee, grida d’allarme e pianti isterici si sono levati sui social, per l’emorragia colossale di consensi fuoriuscita dal M5S, mentre opinionisti di ogni genere sono subito corsi ad analizzare motivi e cause di una tale clamorosa débacle. Probabilmente, dato lo scarso coinvolgimento suscitato in genere dalle elezioni europee, una parte dell’elettorato potrebbe tornare alle politiche, comunque la leadership pentastellata non si è certo distinta per coerenza e rispetto delle fantomatiche promesse elettorali. Inoltre la vera causa della batosta consiste soprattutto nel fatto che il partito del né né non ha alcuna identità politica seria, nessuna ‘rivoluzione più o meno gentile’, ma una sola identità, quella del partito azienda. Dentro il corso della modernità liquida del terzo millennio il M5S si è adattato perfettamente, con prepotente vitalità, ancorandosi alla storia politica italiana, come fa il camaleonte con il ramo con cui si mimetizza, invadendo il panorama politico con promesse mirabolanti, irrompendo sulle piattaforme social con slogan propagandistici sempre più ossessivi e circondandosi di una folla di followers guidati più da un fanatismo morboso che da un serio giudizio critico sull’operato concreto del loro partito di riferimento, osannato oltre ogni possibile dubbio, secondo pratiche fideistiche che ricordano più una sorta di scientology italiana, che un movimento democratico.
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Ecco i nomi dei massoni golpisti che hanno creato la crisi
Puoi chiamarli neoliberisti. Monopolisti. Privatizzatori. C’è chi li ha definiti, anche, golpisti bianchi. Ma sono essenzialmente massoni. Attenzione: le obbedienze nazionali non c’entrano. Si tratta di supermassoni in quota alle Ur-Lodes, le oscure superlogge sovranazionali. Precisamente: quelle di segno neo-aristocratico, che detestano la democrazia e confiscano il potere dei cittadini, rimettendolo nelle mani di un’élite pre-moderna, pre-sindacale, ultra-padronale. E’ così che hanno costruito il nuovo medioevo in cui viviamo, il neo-feudalesimo regolato dall’Ue e dalla sua Commissione di non-eletti. Giochi di specchi: laddove si parla di finanza e geopolitica, citando banche centrali e governi, si omette sempre di scoprire chi c’è dietro. Sempre gli stessi, sempre loro: un club ristrettissimo di padreterni, di “contro-iniziati” che si credono onnipotenti e autorizzati, come per diritto divino, a manipolare in eterno il popolo bue, ridotto a bestiame umano. Lo ricorda Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, sodalizio fondato dal massone progressista Gioele Magaldi proprio con l’intento di smascherare l’attuale governance europea finto-democratica, dopo la clamorosa denuncia contenuta nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Una rivelazione: dietro ai principali tornanti della nostra storia recente ci sono sempre gli stessi personaggi, i medesimi circoli occulti: grazie a loro, in fondo, poi in Italia crollano anche i viadotti autostradali.
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Amoroso: Federico Caffè visse a lungo, dopo la scomparsa
«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente alla Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti. Un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano», detto con parole sue. Il suo credo: l’economia dev’essere al servizio del benessere della comunità, partendo dai bisogni dei più deboli. Come economista, scrive Da Rin, era affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. Teoria e pratica del welfare universale, per demolire le diseguaglianze: «In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista». Gli allievi ne parlano così: «Le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la musica». La sua umanità rivestiva un aspetto centrale, «qualcosa di spiritualmente indefinibile che sprigionava dalla sua persona». Il professor Caffè «era capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare». Tra gli ex allievi, proprio Bruno Amoroso è stato l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè.Amoroso ha vissuto e insegnato in Danimarca per 40 anni, dopo essere sbarcato in Scandinavia con il proposito di approfondire gli studi sui sistemi di welfare e sulla loro esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi. In un bellissimo libro, “Memorie di un intruso”, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta tutto della sua vita, «e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè», sottolinea Da Rin sul “Sole”. «Pur con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca». Laureato a pieni voti e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di politica economica della Sapienza, trovò lavoro come “assistente lavapiatti”, facendo poi anche il portiere di notte. Due anni dopo, divenne finalmente “professore associato” in una università danese. Sempre in “Memorie di un intruso”, Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, “Come è profondo il mare”. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci ha consegnato un segreto: scrive di averlo visto e frequentato, il maestro, dopo la sua scomparsa. «A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento», scrive Da Rin, a cui Amoroso ha rilasciato un’intervista decisiva, parlando dell’antico maestro con il sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè – ha ribadito Amoroso – sono riconducibili al piano etico, oltre che a quello scientifico». Tra gli allievi più noti del professore ci sono Mario Draghi, Ignazio Visco di Bankitalia, Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, Guido Rey, Enrico Giovannini, Nino Galloni. Da “allievo prediletto”, Bruno Amoroso è stato il destinatario di centinaia di lettere confidenziali. Per Amoroso, è importante ribadire il primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone».È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti, ammette il “Sole 24 Ore”. «L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane», scrive Da Rin. Profonda capacità di analisi, una lucidità previsiva. «Perché credi che i sistemi di welfare siano in crisi?», ha domandato Amoroso al giornalista. «Certo, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti». Una riflessione di straordinaria attualità, scrive il “Sole”, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli. L’ipotesi suicidio – aggiunge Da Rin – si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile. «E il ritiro in convento emerge in tutta evidenza», con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinate condizioni». Così rispose il padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della “Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 27 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro “L’ultima lezione”.In un altro bel libro, “La Stanza rossa”, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. «Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal professore al suo allievo preferito», sggiunge Da Rin sul “Sole”. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e trepidante». Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazione esistenziale». Il convento, appunto. «Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti», osserva Da Rin. Federico Caffè cita Giuseppe Ungaretti: «Mi pesano gli anni futuri».Una decisione, quella di scomparire, che sarebbe maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, “La scomparsa di Majorana”, che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro è finita a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. Convincente e plausibile, il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito, quello del «rifiuto della scienza». Per Amoroso, aggiunge il “Sole”, quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione culturale in atto. L’altro mistero – riflette Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e di amicizia – è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano “comunista”, come il “Manifesto”? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “Manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.
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Rivoluzione d’Ottobre, oggi, per demolire il potere dell’élite
La Rivoluzione d’Ottobre è la più importante rivoluzione dell’epoca moderna. Finora almeno, aggiungo con un moto di ottimismo. Il 25 ottobre 1917, calendario giuliano, la questione sociale ed il rifiuto della guerra presero il potere in Russia, dando avvio ad un colossale percorso di liberazione dell’umanità. Nonostante gli errori e gli orrori dello stalinismo, l’Unione Sovietica è stata determinante nella sconfitta del nazifascismo e nell’avvio di un’epoca di progresso sociale e di liberazione dei popoli in tutto il mondo, epoca che è durata alcuni decenni, fino agli anni ottanta del secolo scorso. La portata storica generale della Rivoluzione di Ottobre si misura ancora di più nel mondo attuale, ove un capitalismo che non ha più paura del nemico sta mostrando tutta la sua ingorda follia. Non è vero che l’Ottobre abbia esaurito la sua spinta propulsiva, come fu detto quasi 40 anni fa. Anche nella portata della controrivoluzione liberista si misura la forza della rivoluzione sovietica. Quando scoppia una rivoluzione? Secondo Lenin quando le classi dominanti non possono più governare come sempre han governato e le classi subalterne non vogliono più vivere come sempre hanno vissuto. Con questo concetto, si vuole chiarire che le condizioni della rivoluzione siano sia la crisi generale del sistema di potere dominante, sia l’esplodere della soggettività delle masse.Noi oggi viviamo in un sistema economico e politico che ha esaurito tutte le proprie capacità riformiste. Un sistema incapace di qualsiasi vera mediazione sociale, chiuso in sé stesso e nelle sue élites. Un sistema non riformabile. Nel 1914 l’Europa si suicidò con la Prima Guerra Mondiale, una sporca inutile strage che non solo distrusse milioni di vite, ma anche quella che allora era la sinistra, la socialdemocrazia, che nella sua maggioranza tradì sé stessa e chi rappresentava approvando il massacro. Oggi l’Europa si sta suicidando con le politiche di austerità governate dalla Ue, politiche che fanno guerra sociale ai popoli e che hanno visto la stessa distruzione della sinistra ufficiale, che quelle politiche ha approvato e gestito. Oggi torna la necessità di rotture rivoluzionarie, che qui in Europa viene annunciata da crisi politiche diffuse e da una rabbia di massa, che viene espressa in varie e anche opposte forme con quello che oggi viene genericamente definito populismo. La crisi delle classi dominanti non ha ancora dispiegato tutta la sua portata, esse sono ancora capaci di coinvolgere nel proprio potere una parte degli oppressi e soprattutto delle loro rappresentanze. Tuttavia il logoramento del sistema avanza e le rotture avvengono, come sempre partendo dai punti più deboli.Le rivoluzioni le scatenano le masse e nessun surrogato è possibile di esse. Ma questo non significa che si debba stare con le mani in mano. Innanzitutto bisogna cogliere e capire le linee di rottura rivoluzionaria. Che proprio per il concetto stesso di rivoluzione sono sempre diverse da quanto normalmente si presenti sulla scena politica, sono rivoluzioni appunto. Qual era l’argomentazione di fondo dei menscevichi contro Lenin e Trotsky? Che non si dovesse far fare salti alla storia e che in Russia non ci fossero le condizioni oggettive per la rivoluzione. Oggi i neo menscevichi delle varie anime della sinistra usano gli stessi argomenti per giustificare Tsipras in Grecia: e come poteva lui da solo andare contro tutta l’Europa? Oppure per condannare senza appello la Catalogna: cosa c’entra quella mobilitazione popolare per l’indipendenza con la giusta lotta di classe? Oppure per non rompere con Ue e Nato: non sapete che disastro se ci isoliamo da quelle strutture, che in fondo ci tutelano da rischi peggiori?Tutte queste argomentazioni sono piene di parziali verità, ma assieme costituiscono un’unica menzogna. La menzogna è che si debba attendere una evoluzione di tutto il mondo verso momenti migliori, per il cambiamento. Questa evoluzione non esiste, o si arriva ad un processo rivoluzionario, o si precipita nella barbarie verso cui già stiamo scivolando. Lenin e Marx erano prima di tutto dei geni rivoluzionari e in quanto tali dei giganteschi scienziati sociali. Essi non attendevano la conferma delle proprie teorie, ma le verificavano nella rottura rivoluzionaria reale. Marx auspicò che la comunità contadina russa fosse alla base di una rivoluzione sociale, che in quel paese saltasse alcune fasi dello sviluppo capitalistico. Lenin mise in pratica quella intuizione adottando la parola d’ordine populista della terra ai contadini, che i bolscevichi avevano fieramente avversato, senza la quale non avrebbe vinto la guerra rivoluzionaria contro le armate bianche finanziate da tutto l’Occidente. Le rivoluzioni ci spiazzano sempre, proprio perché esse nascono dalla necessità delle masse. Esse per loro natura sono la rottura della politica consolidata, in tutte le sue espressioni.La soggettività rivoluzionaria si misura proprio in quel momento. Se essa è vera e sufficientemente preparata e forte, allora può svolgere il ruolo necessario di direzione del processo, che se ne avvantaggia. Se non lo è allora la rivoluzione va per conto suo, nel bene o nel male, e lascia le “avanguardie” a dare rancorosi voti alla storia. Per questo oggi io sento più attuale che mai la lezione dell’Ottobre sovietico. Quando il sistema è bloccato prima o poi le rivoluzioni esplodono e compito dei veri rivoluzionari è capire ciò che accade e provare a governarlo. Governarlo verso il consolidamento della rottura rivoluzionaria, anche se essa non corrisponde a quanto previsto dai manuali delle giovani marmotte marxiste leniniste, anche se essa non avviene dove si sperava e nel modo e con le dimensione e che si sperava. Perché l’alternativa alla rivoluzione non è un cambiamento più lento e più sicuro, ma la reazione, la regressione brutale. Per questo oggi più che mai dobbiamo prima di tutto essere grati a coloro che nel 1917 hanno dato l’assalto al cielo. E farci carico delle necessità rivoluzionarie del presente.(Giorgio Cremaschi, “L’attualità della Rivoluzione d’Ottobre”, da “Micromega” dell’8 novembre 2017).La Rivoluzione d’Ottobre è la più importante rivoluzione dell’epoca moderna. Finora almeno, aggiungo con un moto di ottimismo. Il 25 ottobre 1917, calendario giuliano, la questione sociale ed il rifiuto della guerra presero il potere in Russia, dando avvio ad un colossale percorso di liberazione dell’umanità. Nonostante gli errori e gli orrori dello stalinismo, l’Unione Sovietica è stata determinante nella sconfitta del nazifascismo e nell’avvio di un’epoca di progresso sociale e di liberazione dei popoli in tutto il mondo, epoca che è durata alcuni decenni, fino agli anni ottanta del secolo scorso. La portata storica generale della Rivoluzione di Ottobre si misura ancora di più nel mondo attuale, ove un capitalismo che non ha più paura del nemico sta mostrando tutta la sua ingorda follia. Non è vero che l’Ottobre abbia esaurito la sua spinta propulsiva, come fu detto quasi 40 anni fa. Anche nella portata della controrivoluzione liberista si misura la forza della rivoluzione sovietica. Quando scoppia una rivoluzione? Secondo Lenin quando le classi dominanti non possono più governare come sempre han governato e le classi subalterne non vogliono più vivere come sempre hanno vissuto. Con questo concetto, si vuole chiarire che le condizioni della rivoluzione siano sia la crisi generale del sistema di potere dominante, sia l’esplodere della soggettività delle masse.
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La Cia mi disse: piazzeremo il nostro uomo a Mosca (Gorby)
Fui esiliato in Occidente nel 1978, quando il corso trentennale della guerra fredda ebbe una svolta radicale. I capi della guerra fredda studiavano la società sovietica fin dall’inizio. La nuova scienza della sovietologia fu sviluppata impiegando migliaia di esperti e coinvolgendo centinaia di centri di ricerca. Al suo interno, un ramo distinto della cremlinologia apparve. In modo pedante studiava la struttura dello Stato sovietico, l’apparato del partito, l’apparato centrale del partito, il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il Politburo e i singoli dipendenti dell’apparato governativo. Ma per molto tempo (forse fino alla fine degli anni ’70), l’obiettivo principale era la manipolazione ideologica e psicologica della popolazione, la creazione di masse pro-occidentali di cittadini sovietici che in realtà avrebbero giocato il ruolo di “quinta colonna” dell’Occidente (intenzionalmente o meno) lavorando alla disgregazione ideologica e morale della popolazione sovietica (per non parlare di altre operazioni). Così fu creato il movimento dei dissidenti. In breve, il lavoro principale fu svolto attraverso la distruzione della società sovietica “dal basso”.Gli importanti risultati ottenuti divennero i fattori della futura controrivoluzione. Ma non bastava per far collassare la società sovietica. Alla fine degli anni ’70, i capi occidentali della guerra fredda capirono che il sistema di governo era la base del comunismo sovietico e l’apparato di partito era il suo nucleo. Dopo aver studiato a fondo l’apparato di partito, la natura delle relazioni tra i suoi membri, la loro psicologia e loro qualifiche, i metodi di selezione e altre caratteristiche, i capi della guerra fredda conclusero che la società sovietica poteva essere distrutta solo dall’alto, distruggendone il sistema di governo. Per distruggerlo fu necessario e sufficiente distruggere l’apparato di partito, a partire dal vertice, il Comitato Centrale del Pcus. Così puntarono i loro principali sforzi in tale direzione. Trovarono i punti più vulnerabili nella struttura sociale sovietica. Non mi fu difficile notare tale cambiamento, perché ebbi l’opportunità di osservare e studiare la parte occulta della guerra fredda. Nel 1979, in una mia conferenza (“Come uccidere un elefante con un ago”), mi fu chiesto quale a mio parere fosse il punto più vulnerabile del sistema sovietico. Risposi: ciò che è considerato il più affidabile, l’apparato del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, e al suo interno, il Comitato Centrale, e all’interno di questi, il segretario generale.Tra le risate omeriche del pubblico, dissi: «Se mettete il vostro uomo in quella posizione rovinerà l’apparato di partito, dando così inizio a una reazione a catena con conseguente frattura del sistema di governo e di amministrazione. La conseguenza sarà la dissoluzione della società». Feci riferimento al precedente di Pizarro. Il lettore non deve pensare che diedi l’idea agli strateghi della guerra fredda. Se ne resero conto senza di me. Uno degli impiegati dell’intelligence mi disse che presto (le forze occidentali) avrebbero messo il loro uomo sul “trono sovietico”. Al momento non credevo fosse possibile. Parlai ipoteticamente del segretario generale come “ago” dell’Occidente. Ma gli strateghi occidentali già sapevano che era una proposta realistica. Svilupparono un piano per vincere la guerra: prendere il controllo del potere supremo in Unione Sovietica, promuovendo il “loro” uomo a segretario generale del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, costringerlo a distruggere l’apparato del Pcus, attuando la revisione (“perestroika”) per avviare la reazione a catena e conseguente frantumazione della società sovietica.Tale piano era realistico, allora, perché la crisi ai vertici del potere sovietico era già evidente, a causa della senescenza del Politburo del Comitato Centrale del Pcus. Presto il “loro” uomo nel ruolo di “ago” occidentale apparve (se non fu “preparato” in anticipo). Certo, il piano funzionò bene. Ciò che distingue tale operazione da guerra fredda è che il metodo per “uccidere l’elefante con un ago” fu applicato a un meno potente, ma comunque potente, avversario, evitando la possibilità che la “guerra fredda” diventasse pericolosa al punto in cui i vantaggi dell’Occidente scomparissero, come accaduto nella guerra della Germania contro l’Unione Sovietica nel 1941-1945. Il metodo in questione permise di evitare rischi e perdite, risparmiare tempo e vincere per procura. Il metodo inventato dai deboli per combattere gli avversari più forti fu adottato dalle forze più potenti del pianeta nella loro guerra per il dominio sulla razza umana.(Alexandr Zinoviev, “Come uccidere un elefante con un ago”, dal blog “Aurora” del 23 novembre 2015. Filosofo dissidente, Zinoviev è autore di un saggio su come l’Occidente ha distrutto l’Unione Sovietica. “Aurora” pubblica anche l’introduzione della vedova, Olga, presidentessa dello Zinoviev Club, anticipato da “Rossija Segodnija”, agenzia di stampa russa. «Zinoviev – scrive Aurora” – diceva spesso che, a giudicare dal comportamento di Gorbaciov, non si poteva escludere la possibilità che lavorasse per l’Occidente, ma che infine non ha molta importanza, perché quello che fece servì esattamente gli interessi dell’Occidente». Il saggio “Come uccidere un elefante con un ago” è stato scritto da Zinoviev nel 2005, un anno prima della morte. Si basa sui ricordi di numerosi incontri che ebbe con i rappresentanti della élite politica occidentale responsabili della politica verso l’Urss, impegnati a «lavorare sul punto debole del nemico». Zinoviev cita l’episodio di Francisco Pizarro, conquistatore del Perù, che dimostrò straordinaria vivacità mentale nel trovare il punto debole degli indios, che capitolarono senza combattere perché scioccati per l’attacco al loro capo, «che consideravano un dio invulnerabile e intoccabile». Nel saggio, Zinoviev scrive che il tallone d’Achille dell’Urss era la sua dirigenza. «Zinoviev fu spesso chiamato dissidente, ma non si ritenne mai tale», precisa la moglie, Olga Zinovieva. «Era critico del sistema sovietico, ma non suo nemico». E negli ultimi anni «spesso ripeteva che, se avesse saputo quale destino terribile attendeva l’Urss, non avrebbe scritto un solo libro o articolo che la criticasse»).Fui esiliato in Occidente nel 1978, quando il corso trentennale della guerra fredda ebbe una svolta radicale. I capi della guerra fredda studiavano la società sovietica fin dall’inizio. La nuova scienza della sovietologia fu sviluppata impiegando migliaia di esperti e coinvolgendo centinaia di centri di ricerca. Al suo interno, un ramo distinto della cremlinologia apparve. In modo pedante studiava la struttura dello Stato sovietico, l’apparato del partito, l’apparato centrale del partito, il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il Politburo e i singoli dipendenti dell’apparato governativo. Ma per molto tempo (forse fino alla fine degli anni ’70), l’obiettivo principale era la manipolazione ideologica e psicologica della popolazione, la creazione di masse pro-occidentali di cittadini sovietici che in realtà avrebbero giocato il ruolo di “quinta colonna” dell’Occidente (intenzionalmente o meno) lavorando alla disgregazione ideologica e morale della popolazione sovietica (per non parlare di altre operazioni). Così fu creato il movimento dei dissidenti. In breve, il lavoro principale fu svolto attraverso la distruzione della società sovietica “dal basso”.
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Più crisi, meno democrazia: l’élite “deve” sottometterci
Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».L’ipotesi di combattere le cause dell’impoverimento di massa e della disuguaglianza, scrive Formenti su “Micromega”, non viene nemmeno presa in considerazione, «quasi si trattasse di fenomeni “naturali”». Meglio dunque ricorrere al comodo fantasma del “populismo”, «termine che continua a essere usato in modo propagandistico, senza alcuno sforzo di analisi politologica e senza compiere distinzioni ideologiche, mischiando nello stesso calderone Trump e Sanders, Maduro e Marine Le Pen, Podemos e la Lega, l’M5S e i neonazi tedeschi». Se tale è lo scenario, tanto vale ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia, cambiando le regole, in modo da rendere superflua l’approvazione popolare. Un esempio, dice Formenti, viene dal “New York Times”, dove Eduardo Porter auspica leggi speciali e riforme che diano più potere al governo, «dopo essersi chiesto se globalizzazione, mutamenti demografici e rivoluzione culturale abbiano eroso il consenso del popolo americano nei confronti della “democrazia del libero mercato”, al punto da indurlo a votare per un uomo come Trump (Sanders non è nemmeno citato!), che ha fatto campagna sostenendo che il sistema serve gli interessi di un’élite cosmopolita contro quelli della gente comune».Porter, «bontà sua», ammette che «il popolo ha molte ragioni per lamentarsi», ma poi «conclude incongruamente che il vero motivo del successo populista non sta in queste ragioni, bensì nei difetti del sistema elettorale (!?)», quindi conclude «citando i suggerimenti di riforme orientate a garantire la “governabilità” offerti da alcuni solerti politologi». Stessa musica sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio, dove Michele Salvati «ribadisce che sì, la vita della maggioranza dei cittadini è grama e tale resterà a lungo» per cui, appurato che «le “leggi” dell’economia non ammettono deroghe e che dunque occorrerà in ogni caso farle digerire al popolo», a tale scopo «servirà comunque “riformare” la Costituzione». Il compito si è rivelato impossibile per un’unica forza politica? E allora «non resta che lavorare alla costruzione di una grande coalizione “anti populista” che abbia la maggioranza necessaria per compiere le riforme senza che poi debbano essere sottoposte a referendum».Sempre sul “Corriere”, Gustavo Ghidini rilancia con forza «l’imprescindibile esigenza di “normalizzare” la comunicazione online». Gli argomenti sono i soliti: combattere le bufale, gli incitamenti all’odio, l’uso di termini offensivi e “politicamente scorretti”. E’ evidente, scrive Formenti, come «il senso di queste e altre definizioni possa essere opportunamente dilatato per colpire ben altri bersagli, come la libertà di opinione ed espressione, ed è altrettanto evidente come questa crociata sia, non casualmente, iniziata subito dopo che sondaggisti e studiosi di comunicazione hanno accusato Internet di avere favorito i successi elettorali “populisti”, bypassando un sistema dei media mainstream sempre più blindato a sostegno del pensiero unico liberal-liberista e delle forze politiche che ne incarnano gli interessi». Insomma: per Formenti «la grande controffensiva è iniziata, ed è destinata a farsi più feroce a mano a mano che l’insofferenza dei cittadini nei confronti delle élites si farà più forte, fino a generare (si spera) una domanda esplicita di rottura sistemica».Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».
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I 5 Stelle? Crolleranno quando nascerà un’alternativa seria
I 5 Stelle scivolano nella palude romana, per la gioia del mainstream politico e mediatico che finalmente li vede in seria difficoltà alla prova del comando? Male, anzi malissimo. Ma chi scommette sul crollo dei grillini si illude, dice Aldo Giannuli: la base pentastellata sa benissimo che il movimento di Grillo non ha una vera classe dirigente, ed è pronta – ancora – a perdonargli ingenuità anche gravi, pur di non tornare ai figuranti del sistema precedente. Se i grandi media e i partiti concorrenti (Pd in testa) sparano a man salva sui 5 Stelle dichiarandoli incapaci di governare, ben altre critiche provengono dall’area di opinione che si esprime su molti blog: il vero problema dei grillini è che non hanno soluzioni radicali e risolutive per la crisi, sociale ed economica, innescata dal dominio della finanza e, in Europa, tradottasi nei diktat dell’Unione Europea e della Bce, con la storica confisca della moneta sovrana. Anche a Roma i grillini si sono tenuti alla larga dal problema, evitando di denunciarlo apertamente. Eppure, vengono ancora visti da una larga parte di elettorato come una forza politica alternativa, l’unica in campo.Tutta la polemica di queste settimane – gli incarichi discutibili, le procedure di trasparenza – si sviluppa a valle del grande problema: come rilanciare l’economia italiana, a partire da una metropoli come Roma, senza disporre di investimenti strategici? Come è possibile impostare un governo radicalmente “rivoluzionario” senza prima rivendicare, ad alta voce, il diritto alla sovranità finanziaria, senza più la tagliola del patto di stabilità imposto da Bruxelles? Sono i temi sui quali era stata lanciata, dal Movimento Roosevelt di Gioele Magaldi, la candidatura (altamente simbolica) di un fuoriclasse dell’economia keynesiana, il professor Nino Galloni. Premessa: per poter impostare una politica sociale, di sviluppo e benessere, occorre prima azzerare tutti i vincoli imposti dal sistema dell’Eurozona, anche con azioni dimostrative – e un palcoscenico come quello di Roma sarebbe perfetto, per ottenere la massima risonanza anche a livello europeo, “costringendo” anche i maggiori partiti a prendere atto che è giunto il momento di cambiare passo, regole, paradigma: la missione dell’ente pubblico non può essere il pareggio di bilancio, perché solo l’investimento pubblico può rilanciare le aziende.Nessuno, oggi, cavalca questa battaglia in Italia – nemmeno la Lega di Salvini lo fa in modo organico. Eppure, il 30% dell’elettorato (perlomeno, quello votante) scommette ancora sui 5 Stelle, non avendo altra offerta politica da prendere in considerazione. Il politologo Giannuli, non certo ostile ai grillini, avverte: il consenso attorno al Movimento 5 Stelle non è un fenomeno solo italiano, ma è «qualcosa che investe tutto l’Occidente o, quantomeno, Europa ed Usa». L’elettorato mette in discussione «la legittimazione dei sistemi di potere consolidati». Negli anni ‘30, ricorda Giannuli, «si affermò un modello di democrazia sociale, fondato sul compromesso socialdemocratico fra capitalismo e organizzazioni del movimento operaio: pace sociale contro redistribuzione della ricchezza e Stato assistenziale». Questo ordine, continua Giannuli, «è andato in frantumi man mano che è avanzata la controrivoluzione neoliberista per affermare un nuovo ordinamento basato sul comando della finanza, la delocalizzazione industriale, la precarizzazione di massa, la distruzione del ceto medio». Risultato: «Una concentrazione della ricchezza senza precedenti e una globalizzazione pensata in funzione del monopolarismo imperiale americano».Oggi, otto anni dopo l’esplosione definitiva di una crisi che «ha distrutto risparmi, posti di lavoro, garanzie sociali, falcidiando salari e stipendi, si sta manifestando la rivolta delle classi subalterne e dei ceti medi che ritirano la delega ai partiti tradizionali di sistema (liberali, socialdemocratici, cattolici, conservatori) aggregandosi in nuove formazioni abbastanza improvvisate». Formazioni che, nel caso dei 5 Stelle, non indicano neppure chiaramente la causa del problema, né avanzano soluzioni precise – ma agli elettori, almeno per ora, sembra bastare la semplice denuncia del malessere, dei sintomi sociali più acuti. Toni che ricorrono dall’Europa agli Usa, dal Front National di Marine Le Pen fino a Donald Trump. Lo scenario, peraltro, è dominato dalle ondate migratorie cui stiamo assistendo: «E’ un fenomeno strutturale che non torna indietro», e produce immediate ripercussioni elettorali: i delusi, che ormai sono la stragrande maggioranza, «possono passare da una formazione antisistema ad un altro movimento simile o forse passare all’astensione, ma, in gran parte, non pensano affatto di rifluire nella gabbia del sistema dalla quale sono uscite. E questo vale anche per il M5S».Per questo, insiste il politologo dell’ateneo milanese, sbaglia chi pensa che gli elettori stiano per abbandonare i grillini: sono pronti a perdonare loro «una quantità di sciocchezze», viste come «il prezzo da pagare per portare il sistema al crollo». Perché di questo sarebbero convinti, molti elettori di Grillo: credono davvero che la missione del movimento sia l’abbattimento del sistema, anche se il M5S non ha finora neppure sfiorato il tema capitale, cioè la drammatica sottomissione al supremo potere euro-Ue – sottomissione che rende semplicemente impossibile la realizzazione di qualsiasi politica alternativa, democratica, partecipativa e trasparente, fondata sulla riconversione sociale dell’economia. La crisi morde, e produce «umori contrastanti», dall’insofferenza verso la folle pressione fiscale alla classica rivolta contro la “casta” (vista come detentrice di privilegi, non come l’entità che ha svenduto il paese alla super-casta Ue). «Poi c’è di tutto: da quelli che temono gli immigrati al sindacalismo radicale, da vegani e nonviolenti a frange fascistoidi, da pezzi di sinistra comunista a cattolici impegnati nel volontariato. Tutto e il contrario di tutto».«E questo magma – avvisa Giannuli – attraverserà molte trasformazioni, diventerà cose diverse, ma non sparirà nel nulla». Il Movimento 5 Stelle? Rischierà davvero di sparire solo quando comparirà un’alternativa seria, realmente anti-sistema, decisa a ribaltare per davvero le regole del gioco. E cioè: fine della svendita dell’interesse pubblico, fine delle privatizzazioni e di tutte le altre conseguenze-capestro imposte dal regime autoritario dell’Eurozona, dalla super-tassazione al pareggio di bilancio. Servirà un gruppo dotato di visione prospettica, capace di rifondare l’economia abbattendo i falsi dogmi del neoliberismo, che prevedono la demolizione dello Stato come garante del cittadino. Ma anche qui, conclude Giannuli, è inutile farsi illusioni: «Per ora, non c’è nessun segno che lasci presagire una sfida del genere in tempi politicamente prevedibili». I 5 Stelle, dunque, potranno dormire sonni tranquilli: con buona pace dell’Italia che, senza una vera alternativa, continuerà ad affondare.I 5 Stelle scivolano nella palude romana, per la gioia del mainstream politico e mediatico che finalmente li vede in seria difficoltà alla prova del comando? Male, anzi malissimo. Ma chi scommette sul crollo dei grillini si illude, dice Aldo Giannuli: la base pentastellata sa benissimo che il movimento di Grillo non ha una vera classe dirigente, ed è pronta – ancora – a perdonargli ingenuità anche gravi, pur di non tornare ai figuranti del sistema precedente. Se i grandi media e i partiti concorrenti (Pd in testa) sparano a man salva sui 5 Stelle dichiarandoli incapaci di governare, ben altre critiche provengono dall’area di opinione che si esprime su molti blog: il vero problema dei grillini è che non hanno soluzioni radicali e risolutive per la crisi, sociale ed economica, innescata dal dominio della finanza e, in Europa, tradottasi nei diktat dell’Unione Europea e della Bce, con la storica confisca della moneta sovrana. Anche a Roma i grillini si sono tenuti alla larga dal problema, evitando di denunciarlo apertamente. Eppure, vengono ancora visti da una larga parte di elettorato come una forza politica alternativa, l’unica in campo.
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Media ridicoli: Trump impresentabile, come Silvio e Reagan
Ricordate la battuta di Marx su Napoleone III? La storia si ripete sempre due volte, scriveva il genio di Treviri, la seconda in forma di farsa. Di recente la storia ha preso il vizio di ripetersi più di due volte, ma la battuta funziona ancora, solo che, a ogni replica, l’elemento farsesco si acuisce, fino al grottesco. La colpa è dei media, i quali, nel raccontarci il mondo contemporaneo, ripropongono ossessivamente gli stessi schemi, che suonano ogni volta più ridicoli e stantii. Un esempio? Guardate come ci stanno raccontando la resistibile ascesa di Donald Trump, fino alla sua “intronazione” a candidato repubblicano alle imminenti elezioni presidenziali americane – evento che si è appena celebrato in quel di Cleveland. Ogni volta che leggo un articolo sul “New York Times”, sull’“Economist”, sul “Guardian” o sul nostro “Corriere della Sera”, mi scattano ricordi su come, qualche decennio fa, furono raccontate le fortune politiche di personaggi come Ronald Reagan o Silvio Berlusconi: il primo dipinto come un vecchio, patetico attore di western, un ridicolo parvenu che, se fosse riuscito a farsi eleggere, avrebbe sicuramente combinato pasticci; il secondo come un volgare arricchito, digiuno di ogni più elementare nozione e competenza politica, destinato a ottenere, tuttalpiù, una breve parentesi di notorietà come Guglielmo Giannini e il suo Uomo Qualunque.Sappiamo come sono andate le cose: Reagan ha inaugurato la controrivoluzione liberista e contribuito ad affossare l’impero sovietico, Berlusconi si è trasformato nell’“eroe” di un ventennio che ha rivoltato come un calzino il nostro sistema politico. Ed entrambi sono stati servilmente celebrati come straordinari “innovatori” dai media che li avevano presi in giro. Ora tocca a Trump. La grande stampa americana non riesce a digerire il fatto che un outsider si sia fatto beffe dell’establishment repubblicano e delle lobby che lo sostengono, per cui, scongiurato il pericolo di una candidatura Sanders in campo democratico, si stanno scatenando, sia attaccandone da “sinistra” (parola che suscita ilarità ove si considerino i pulpiti da cui provengono gli attacchi) le dichiarazioni razziste, sessiste e xenofobe, sia cercando di metterne in ridicolo i gesti, l’aspetto fisico e il linguaggio. Il “Corriere” del 19 luglio scorso si è allineato a tale strategia, pubblicando un articolo dello scrittore Richard Ford in cui leggiamo frasi come «non potrei cenare da solo con Trump nel mio ristorante preferito di Parigi. Rovinerebbe la cena»; oppure: «Sono certo che non potrei discutere con lui di un grande romanzo appena letto»; mentre, nella pagina a fianco, compare un trafiletto sulla “odissea tricologica” del tycoon (accompagnato da immagini che ritraggono Trump nelle varie fasi della metamorfosi subita dalla sua improbabile chioma).Sorvolando sui tempi in cui il “Corriere” sviolinava Berlusconi (dimostrandosi assai più indulgente con le di lui chiome), è chiara l’intenzione di mettere alla gogna questo “villano rifatto”. Al pari di sua moglie, sbeffeggiata in un altro articolo di Maria Laura Rodotà, nel quale ci si chiede come potrebbe questa “ex modella di biancheria intima” diventare First Lady. Essendo cinico e maligno, penso che a nessuno di questi giornali importi qualcosa se alla Casa Bianca dovesse approdare un “cafone” (non sarebbe certo il primo). Ciò che spaventa non è il candidato sporco, brutto e cattivo: sono gli elettori sporchi brutti e cattivi, cioè quel proletariato bianco impoverito e incazzato che sostiene Trump allo stesso modo in cui si è “permesso” di votare Brexit. Così come spaventano le sparate di Trump contro il free trade, le promesse di abbandonare l’Europa al proprio destino (si paghi da sola le sue avventure neocoloniali), le minacce contro Wall Street e i super ricchi e altre cosette di sinistra che sembra aver “rubato” al populista di sinistra Bernie Sanders.Vorrei rassicurare lor signori: non credo che Trump possa vincere, visto che la macchina politica – ormai trasversale – e le super lobby che appoggiano la Clinton le regaleranno quasi certamente la vittoria (benché la maggioranza del popolo americano la odi cordialmente – e con buone ragioni). Ma quand’anche vincesse, vedrete che la sua demagogia antisistema sparirà come d’incanto, e lui farà esattamente quello che l’establishment si attende da un “buon” presidente. Dopodiché “New York Times”, “Economist”, “Corriere” e compagnia cantante inizieranno a sviolinarlo così come hanno sviolinato Reagan e Berlusconi. Un’altra replica, un’altra farsa.(Carlo Formenti, “Trump e i media, la storia si ripete in farsa”, da “Micromega” del 21 luglio 2016).Ricordate la battuta di Marx su Napoleone III? La storia si ripete sempre due volte, scriveva il genio di Treviri, la seconda in forma di farsa. Di recente la storia ha preso il vizio di ripetersi più di due volte, ma la battuta funziona ancora, solo che, a ogni replica, l’elemento farsesco si acuisce, fino al grottesco. La colpa è dei media, i quali, nel raccontarci il mondo contemporaneo, ripropongono ossessivamente gli stessi schemi, che suonano ogni volta più ridicoli e stantii. Un esempio? Guardate come ci stanno raccontando la resistibile ascesa di Donald Trump, fino alla sua “intronazione” a candidato repubblicano alle imminenti elezioni presidenziali americane – evento che si è appena celebrato in quel di Cleveland. Ogni volta che leggo un articolo sul “New York Times”, sull’“Economist”, sul “Guardian” o sul nostro “Corriere della Sera”, mi scattano ricordi su come, qualche decennio fa, furono raccontate le fortune politiche di personaggi come Ronald Reagan o Silvio Berlusconi: il primo dipinto come un vecchio, patetico attore di western, un ridicolo parvenu che, se fosse riuscito a farsi eleggere, avrebbe sicuramente combinato pasticci; il secondo come un volgare arricchito, digiuno di ogni più elementare nozione e competenza politica, destinato a ottenere, tuttalpiù, una breve parentesi di notorietà come Guglielmo Giannini e il suo Uomo Qualunque.
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Friaul, il nazi-Stato dei Cosacchi a insaputa dei friulani
Il Friuli si sarebbe chiamato Pfufferstaats Friaul, uno Stato-cuscinetto inserito nella “Grande Austria” per contribuire a isolare l’Unione Sovietica. A insaputa dei friulani, durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti spedirono 40.000 cosacchi tra i monti della Carnia: sarebbero stati il nerbo della nuova ipotetica nazione de-italianizzata, come ricorda Gaetano Dato rievocando l’epopea friulana dei cavalieri russi anti-sovietici. «Erano soldati e profughi arrivati in Friuli dal Don, dal Kuban, dall’Astrakahn, dalla Siberia, dal Caucaso e da tutte le altre terre cosacche. In rotta, insieme all’armata hitleriana, nel maggio del ‘45. «Oltre Timau, quando la salita verso il Plöckenpass comincia a stringersi e a fare tornanti sempre più stretti, i cadaveri dei cavalli, e pure di qualche cammello, punteggiavano la scarpata». Sul lago di Wörth, in Austria, speravano di ricevere un ordine che avrebbe potuto dar loro un nuovo incarico a guerra finita. «Ma innanzitutto dovevano sopravvivere agli agguati dei partigiani e comunque dovevano incontrarsi prima dell’arrivo degli inglesi, sempre che questi ultimi avessero preceduto gli jugoslavi in Carinzia».Il 7 maggio del ‘45, al castello di Hornstein, luogo dell’appuntamento, il “leiter” Franz Hradetzky parlò per l’ultima volta del Pfufferstaats Friaul, lo Stato che, se l’Asse avesse vinto la guerra, avrebbe dovuto proteggere i confini sud-occidentali dell’ex impero asburgico. La disposizione, ricorda Dato sul blog di Aldo Giannuli, era arrivata da Himmler. Dopo l’8 settembre del ‘43 e la costituzione del protettorato dell’Ozak (litorale adriatico), il capo delle SS aveva affidato a Hradetzky e ai suoi propagandisti del “Kommando Adria” un’operazione speciale: ridestare i «sentimenti nazionali nel popolo friulano», come premessa per l’istituzione del Friaul. Stretti i contatti tra le curie del Litorale e i funzionari agli ordini del comando nazista, decisivi per i rapporti coi sarcedoti sloveni e l’arruolamento forzoso della popolazione per costruire opere pubbliche per la difesa terrestre e antiaerea. Inoltre, «alcuni settori della Chiesa vedevano di buon occhio il progetto della Grande Austria», dopo che l’Armata Rossa «aveva ripreso controllo del mondo ortodosso e i soldati di Stalin e di Tito dilagavano negli Stati cattolici dell’Europa orientale e balcanica».Il principe arcivescovo di Salisburgo, Andreas Rohracher, insieme ad altri esponenti del Vaticano come Alois Hudal, tentò una disperata mediazione nell’aprile del ‘45, fra nazisti austriaci e servizi segreti inglesi e americani: «La Grande Austria – spiega Gaetano Dato – doveva comprendere anche la Slovenia, la Croazia, l’Ungheria e la Romania. Si trattava di un progetto con qualche saldatura col più vasto tentativo vaticano dell’Intermarium, una lega di Stati cattolici fra i mari Adriatico e Baltico capace di contenere il mondo sovietico». Vi guardavano con particolare attenzione il generale polacco Wladyslaw Anders e i suoi 100.000 soldati sparsi per l’Italia, in attesa di rientrare in patria e vendicare il massacro sovietico di Katyn. Naturalmente, né la Grande Austria né l’Intermarium poterono mai realizzarsi: «Il 1945 non era un tempo di restaurazioni. Il dominio dell’Europa era finito e il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Usa e Urss avevano già spartito il pianeta in sfere di influenza, e al massimo potevano lasciare agli inglesi la patata bollente della guerriglia greca», guidata dal comunista Markos Vafiadis.Gli americani, continua Dato, si erano inoltre presi la briga, coi britannici, di sostenere ustaša e cetnici, per tenere sulle spine Tito in Jugoslavia, ma forse solo perché erano a loro volta rimasti impantanati a Trieste per via del Territorio Libero. «Ma questo era tutto. Non c’era spazio per il terzaforzismo cattolico, che riuscì soltanto a mettere in salvo alcuni capi e gerarchi nazifascisti». L’offerta che Hradetzky aveva pensato di fare ai sopravvissuti del “Kommando Adria”, al momento dell’incontro in quel 7 maggio, non si era dunque ancora concretizzata nei modi opportuni. «La speranza era che in tempi brevissimi la mobilitazione per la nuova Grande Austria potesse salvare ciascuno dalla prigionia. Nulla di più sbagliato. Poco tempo dopo, lo stesso “leiter” dei corrispondenti di guerra fu arrestato dagli jugoslavi, e processato a Lubiana», insieme a molti altri responsabili dell’Ozak. Tuttavia scampò alla pena capitale e, dopo 16 anni di lavori forzati, riuscì a tornare in Austria: «Così, le sue testimonianze a Pier Arrigo Carrier negli anni Settanta hanno riportato alla luce la breve storia dei tentati preparativi per la costituzione del Friaul», in quella “Grande Austria” che nei sogni del “partito degli austriaci” avrebbe dovuto prendere il sopravvento sui tedeschi del nord, assorbendo anche la Boemia e persino la Baviera.Sarebbero state concesse ampie autonomie a croati e sloveni, attraverso la costituzione di Stati autonomi, ma federati al Reich. Agli sloveni in particolare sarebbe stata tolta la regione della Stiria slovena, da germanizzarsi completamente, e sarebbe stato ricostituito il ducato di Carniola, che era tramontato con la fine degli Asburgo. Il Pfufferstaats Friaul sarebbe stato un altro degli Stati autonomi federati, uno Stato cuscinetto con lo scopo di isolare ogni possibile “infezione” dal lato italiano, specialmente in direzione delle terre giuliane, dalmate e del Quarnero, in cui il sentimento irredentista aveva una certa presa. A tale scopo il Pfufferstaats Friaul avrebbe tagliato ogni continuità territoriale tra queste aree e la penisola italiana. Il “ribaltone” italiano dell’8 settembre 1943 aveva spinto Himmler a includere il Friuli nei piani di ingegneria etnica che avrebbero dovuto rettificare l’Europa del Nuovo Ordine. In Friuli, per l’Ozak, gli italiani erano «una minoranza», cioè appena 100.000 su una popolazione di 700.000 persone, di cui 200.000 «sloveni» e il resto, la maggioranza, erano friulani, «appartenenti al gruppo retoromanzo», lo stesso che abita «i Grigioni in Svizzera» e che in Tirolo «costituisce il gruppo dei Ladini».Era dunque opportuno agire per tempo e far sorgere la voglia di indipendenza ai friulani ben prima della fine della guerra. Il capo delle SS contattò quindi Hradetzky nell’autunno del 1943. «Fu redatto un piano che prevedeva la forzata nazionalizzazione delle masse friulane, previa la distillazione delle loro tradizioni popolari, per essere loro riproposte attraverso mass media ed eventi pubblici». Un modello di nazionalizzazione congeniale ai nazisti, basato sul meccanismo della “invenzione della tradizione” secondo lo schema classico analizzato da Eric Hobsbawm. Così, Hradetzky mise in piedi un gruppo di studio sulle tradizioni popolari, in cerca di un “eroe nazionale” friulano. Ercole Carletti, segretario della Filologica Friulana, società culturale perseguitata dal fascismo, rifiutò di collaborare: la Filologica si ispirava a Graziadio Isaia Ascoli, linguista ebreo e patriota del Risorgimento che nella seconda metà dell’800 studiò estensivamente il friulano. I nazisti ripiegarono su Ermes Cavassori, giornalista de “Il Popolo del Friuli”, il quotidiano fascista di Udine, e su altri soggetti coinvolti dallo stesso Cavassori, a cominciare dallo zio, il maestro Luigi Garzoni.Fabbricare una narrazione nazionale: sul fronte degli studiosi austriaci fu reclutato Karl Felix Wolff, già membro della commissione culturale dell’Alpenvorland, il protettorato che occupava il Trentino Alto Adige. Insieme ai suoi collaboratori, scrive Dato, Wolff aveva lavorato soprattutto a una raccolta di fiabe friulane, che però non giunse mai alla stampa, a causa del precipitare degli eventi. Alcuni dei “racconti friulani” fecero in tempo a uscire su “La Voce di Furlania”, periodico fondato da Cavassori e Garzoni. Temi prevalenti del giornale: tradizioni popolari, lotta all’internazionalità e inviti alla popolazione a collaborare con i tedeschi. Il titolo della testata dava anche il nome a una rivista teatrale messa in scena settimanalmente a Udine. Furono inoltre fondati oltre 40 gruppi corali, mentre altre associazioni provvedevano alla riscoperta delle tradizioni folcloristiche, a cominciare dagli abiti tradizionali. «Pare che, secondo Hradetzky, la popolazione avesse entusiasticamente aderito a queste iniziative, mostrando così un certo consenso nei confronti dell’amministrazione nazista. Naturalmente queste notizie venivano accolte con apprensione dal governo della Repubblica di Salò, ma ormai Mussolini e i fascisti non potevano fare molto per opporsi ai progetti di Berlino per il Nuovo Ordine». Ma l’operazione restava debole: «Fu impossibile riuscire a individuare, nella storia friulana, dei precedenti storici la cui strumentalizzazione potesse veicolare la trasformazione di un movimento per il risveglio culturale, in un movimento indipendentista».Dopo la fine del patriarcato di Aquileia, nel 1492, e la conseguente fine dell’indipendenza dell’area della ladinità, non esisteva alcun episodio in cui la popolazione locale avesse cercato di riacquistare una qualche precedente e mitizzata autonomia. I friulani, scrive Dato, erano sempre stati sottomessi, prima a Venezia prima e poi agli austriaci. Accolti solo nel 1866 nella giovane nazione italiana, «mai i friulani si erano interessati a una propria questione nazionale». Spiazzati, i nazisti, anche dall’assenza di un eroe “nazionale” friulano, l’equivalente di uno Skanderbeg per l’Albania. «Il massimo che riuscirono a recuperare fu la vicenda di Padre d’Aviano, diplomatico presso gli Absburgo e molto conosciuto per la sua lotta contro l’invasione turca». Ma il tutto «non andò oltre alla cerimonia di deposizione di una lapide ad Aviano». E il progetto di Himmler e Hradetzky, come molti altri, fu interrotto dalla guerra. «Rimane il dubbio su cosa pensassero al riguardo i cosacchi, che insieme ai caucasici, in 40.000 avevano occupato la Carnia nell’estate del 1944. “La Voce di Furlania” aveva parlato dei cosacchi solo una volta, per pubblicizzarne, manco a dirlo, uno spettacolo folcloristico, che pare stesse riscuotendo un grande successo in tutto il Kűnstenland».Il progetto della Grande Austria, nei piani del Nuovo Ordine, andava integrato con quello di un cordone di sicurezza che avrebbe dovuto circondare e isolare la Russia. Hitler voleva promuovere una schiera di Stati sottomessi alla sovranità tedesca, grazie anche a un’attenta alchimia fra le varie minoranze, che un calcolato piano di deportazioni avrebbe messo in atto. I paesi coinvolti sarebbero stati Estonia, Lituania, Lettonia, Ucraina, la Nazione Tartara del bacino del Volga, una federazione di nazioni caucasiche, il Turkestan e infine uno Stato cosacco. Coinvolti da subito nell’invasione dell’Urss e pieni di speranze nel riuscire a vendicare le sconfitte della controrivoluzione del 1917-21, gli atamani cosacchi firmarono nel novembre del ‘43 un accordo col Reich che prevedeva una serie di garanzie. In primo luogo, l’affidamento di un vasto territorio da amministrare, oltre a un ruolo di primo piano nel governo della Russia. Tuttavia nell’accordo era prevista l’eventualità che, se l’andamento della guerra avesse impedito anche temporaneamente la consegna dei territori al governo cosacco (provvisoriamente insediato a Berlino), al “popolo della steppa” sarebbe stata riservata una regione in Europa occidentale.Nella primavera del 1944, poiché i partigiani friulani stavano rischiando di tagliare le comunicazioni fra i Balcani e il Reich, fu stabilito che quel territorio sarebbe stato proprio il Friuli. «Pertanto, nell’estate del 1944 un vasto contingente di soldati cosacchi, con le loro famiglie e i pope dalla lunga barba, si insediò a Tolmezzo e nel resto della Carnia». I tedeschi, ricorda Dato, presero a chiamare la zona “Kozakenland”, mentre per i nuovi arrivati la Carnia friulana era ormai “Cossackia”. Cominciarono persino a cambiare i nomi dei paesi e delle strade: Alesso, pressoché evacuato della sua popolazione autoctona, divenne Novočerkassk, come la città al cuore della controrivoluzione del Don, cosparsa di sangue dai massacri del 1920. «Ai friulani, intanto, non fu mai detto nulla di quell’accordo, che rimase a lungo segreto, anche se i cosacchi dicevano apertamente nei villaggi che quella terra era ormai diventata loro, almeno finché avessero potuto andarsene per tornare a invadere la Russia dei senzadio». Cosa sarebbe stato del Friuli, se avesse vinto l’Asse? «Forse – conclude Dato – sarebbe sorto un nuovo processo di etnogenesi, che avrebbe trasformato friulani e cosacchi in un nuovo popolo, in modo simile a quanto avvenuto in Europa con l’arrivo dei guerrieri della steppa nella tarda antichità. E del resto così li vedevano i friulani: come Unni giunti da lontano sul dorso dei cavalli, con i colbacchi pelosi e il pugnale sempre in vista».Il Friuli si sarebbe chiamato Pfufferstaats Friaul, uno Stato-cuscinetto inserito nella “Grande Austria” per contribuire a isolare l’Unione Sovietica. A insaputa dei friulani, durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti spedirono 40.000 cosacchi tra i monti della Carnia: sarebbero stati il nerbo della nuova ipotetica nazione de-italianizzata, come ricorda Gaetano Dato rievocando l’epopea friulana dei cavalieri russi anti-sovietici. «Erano soldati e profughi arrivati in Friuli dal Don, dal Kuban, dall’Astrakahn, dalla Siberia, dal Caucaso e da tutte le altre terre cosacche. In rotta, insieme all’armata hitleriana, nel maggio del ‘45. «Oltre Timau, quando la salita verso il Plöckenpass comincia a stringersi e a fare tornanti sempre più stretti, i cadaveri dei cavalli, e pure di qualche cammello, punteggiavano la scarpata». Sul lago di Wörth, in Austria, speravano di ricevere un ordine che avrebbe potuto dar loro un nuovo incarico a guerra finita. «Ma innanzitutto dovevano sopravvivere agli agguati dei partigiani e comunque dovevano incontrarsi prima dell’arrivo degli inglesi, sempre che questi ultimi avessero preceduto gli jugoslavi in Carinzia».
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Odifreddi: è stata questa sinistra a tradire i lavoratori
Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.Naturalmente, questa concezione antiumanistica del lavoro ha radici lontane, anche nel passato prossimo. Risale da un lato alle controrivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher, e dall’altro ai tradimenti delle sinistre di Blair e di Craxi. Ma oggi è stata portata a compimento, nel nostro paese, da un’insolita coalizione, che ha visto unite la destra intransigente di Berlusconi e Monti, con la sinistra inesistente di Napolitano e Renzi. Un presidente della Repubblica che ha da sempre lavorato, all’interno del Partito Comunista, come cavallo di Troia del capitale e del mercato, ha guidato dall’alto del Quirinale l’opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Quando Berlusconi non ha più potuto agire in prima persona in questo compito, Napolitano gli si è sostituito imponendo governi al limite della costituzionalità e della democrazia, da Monti a Renzi.E oggi i giovani parvenu della politica, forti soltanto della debolezza del paese e privi di qualunque mandato elettorale, stanno completando l’opera di picconamento dei loro predecessori. Il programma è soltanto “far presto”, cambiare tutto prima che l’elettorato possa esprimersi, magari scegliendo partiti e candidati che possano contrastare i voleri e le pretese della santissima Trinità costituita appunto dall’Europa, i mercati e le banche. Con un autoritarismo mascherato da efficientismo, il governo Renzi fa il possibile per varare, il più presto possibile, riforme raffazzonate e unilaterali, con un metodo da repubblica delle Banane: “Ci confrontiamo per qualche giorno, ma poi decidiamo noi”. Per questo il primo maggio ormai non è più una festa, ma un giorno di lutto. Forse è ormai troppo tardi, ma le prossime elezioni europee sono l’ultima spiaggia: se non serviranno a rimandare a casa i traditori dei lavoratori che siedono in Quirinale e a palazzo Chigi, sarà un lutto che durerà a lungo, segnato dalle lacrime richieste dai nemici e imposte dai sedicenti amici.(Piergiorgio Odifreddi, “Un Primo Maggio di lutto”, da “Repubblica” del 1° maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.