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Black Dance Matter, Paolo Mosca: niente è come sembra
Ricordate Jeffrey Epstein, il potenziale ricattatore più famoso del mondo tramite le sue festicciole per vip sull’isola delle baby-schiave? Be’, non si è affatto suicidato, dopo l’arresto. L’hanno ucciso in cella o è stata solo una messinscena? Dunque il tizio non è mai morto? E’ detenuto da qualche parte e ora sta vuotando il sacco? Lo si potrebbe dedurre da tanti segni. Per esempio, la follia collettiva pre-elettorale chiamata Black Lives Matters: sarebbe meglio ribattezzarla “Black Dance Matters”, se è vero che negli Usa ormai in preda al delirio di massa questa “danza” a colpi di scontri con la polizia sta tirando la volata al Raccapricciante Joe (Biden) contro l’ologramma mediatico del male (Trump L’oeil). In tutto questo, ci si domanda dove sia finita Killary (Clinton), e cosa c’entri la dama più nera d’America con la guerra civile a rovescio scatenata dalle bande che agitano Martello e Falce (riedizione capovolta di “falce e martello”), in un mondo ultra-distopico in cui tutto è rovesciato, a gambe all’aria, cominciando dalla verità. Un incubo, in cui affiora l’esorbitante leggenda dei giustizieri di Q-Anon, e dove chi sogna di poter sfogliare finalmente il Diario della Luce potrebbe considerare L’Opzione di Sansone, la rivolta.“Up patriots to arms”, cantava Battiato nel 1980, profetizzando il peggio dopo aver avvistato pericolose crepe nel nostro modo di vivere e sentire. Oggi, a distanza di quattro decenni, l’apocalisse finalmente è arrivata tra noi: ormai ci siamo, la pazzia è esplosa e ci sta invadendo come un virus dall’origine tuttora oscura. A denunciarlo – sempre in musica – è un altro italiano, Paolo Mosca: milanese, classe 1974. Autore televisivo, scrittore e regista. “Rockit” ricorda le sue «brevi ma intense avventure con Castadiva», una band “indie” che fece parlare di sé vent’anni fa. «Un disco pubblicato con Venus (ormai introvabile), un album inedito di cui girò solo un singolo, date live, ospitate tra radio e Tv, i videoclip girati con Elisabetta Sgarbi e poi, all’improvviso, la scomparsa dai radar». Nel 2018, Paolo Mosca è tornato: l’ha fatto con il “moniker” Second Elliptic Eye, per firmare il disco “Non amarmi senza dirmelo”, interfaccia musical-teatrale del romanzo “La mantide religiosa”, pubblicato da Eclissi nel 2015. Ed è sempre con la sigla Second Elliptic Eye che oggi Mosca presenta su Spotify le dieci tracce di “Black Dance Matters”, dove – intercalando l’inquietante tappeto sonoro elettronico – a parlare in modo inequivocabile è la micidiale sequenza dei titoli dei brani.Avviso ai naviganti: siamo entrati in acque pericolosamente inaudite, dove «black is the color and none is the number», come cantava il profetico Dylan di “A Hard Rain’s a-gonna Fall”. Che c’azzecca, il Vate di Duluth premiato col Nobel? Sempre lui, Paolo Mosca, ha fornito su YouTube una splendida traduzione del monumentale “Murder Must Foul”, l’epico brano-denuncia in cui Dylan, a fine marzo, ha sparato “worldwide”, sul web, la sua versione dei fatti: il dramma nel quale siamo sprofondati nel 2020 risalirebbe a un tumore esploso mezzo secolo prima, nell’agguato di Dallas in cui un certo Deep State assassinò John Kennedy. «La stessa élite massonica contro-iniziatica ha poi organizzato il golpe in Cile per insediare il neoliberismo al potere, quindi ha progettato una globalizzazione-canaglia di cui alla Cina è stato affidato il ruolo di locomotiva». Potente suggestione: trionfi economici, ma senza democrazia. «Di mezzo c’è stata la drammatica accelerazione imposta dal terrorismo “islamico”, altra creazione delle stesse menti raffinatissime che oggi sovragestiscono l’emergenza planetaria chiamata Covid».Ad affermarlo non è un complottista, ma il massone progressista Gioele Magaldi, autore nel 2014 del bestseller “Massoni” che svela il ruolo occulto, nel potere mondiale, di una quarantina di superlogge sovranazionali quasi onnipotenti. «La stessa uscita di Dylan, a sua volta massone progressista come il figlio di Bob Kennedy intervenuto a Berlino, testimonia la guerra in corso: l’ala democratica sta combattendo contro la fazione dominante, oligarchica, che cerca di imporci il “terrorismo sanitario” e, negli Usa, utilizza sigle come Antifa per liberarsi di Trump, presidente eletto nel 2016 in modo inaspettato, e dunque tuttora temutissimo perché non sottoposto al controllo di quell’élite». Il ponte tra Gioele Magaldi e Paolo Mosca si chiama Movimento Roosevelt, entità meta-partitica fondata cinque anni fa per tentare di svegliare la politica dormiente. Un libero cantiere di idee, al quale Mosca ha dato un contributo determinante. Se però indossa i panni del creativo puro, utilizzando l’etichetta Second Elliptic Eye, si prende giustamente una bella dose di licenze poetiche. «Il disco – racconta – l’ho creato con mia figlia Diana: il titolo “Diario della luce” è stata una sua idea, è l’unico titolo in italiano e chiude il disco guardando oltre».Il suo non è un sermone politico: è il passo (danzante, appunto) di chi decide di surfare sulla musica, e soprattutto sulle parole, per parlare dal profondo, per immagini e visioni, animando un teatro di specchi in cui riflettere l’orrore postmoderno dei nostri giorni tramortiti dai Dpcm, dai replicanti orwelliani dei telegiornali e, certo, dai lampi della guerra politica (non solo incruenta, purtroppo) che sta incendiando gli Stati Uniti. “Black Dance”, spiega lo stesso Paolo, è il secondo progetto “pop” di Second Elliptic Eye. «Il primo disco, “Non amarmi senza dirmelo”, era sfacciatamente cantautorale. Qui si vira verso un genere dance-punk». L’idea, aggiunge, è quella di «fotografare il presente attraverso la musica». Il che, oggi, significa innanzitutto «rappresentare la danza nera che ci avvolge tra pandemie reali o presunte, mass media che dicono tutto e tutto il contrario, fake news vere e notizie accreditate come vere pur essendo fintissime». Nemmeno della scienza, aggiunge Paolo, ci si può più fidare: «L’esattezza che la dovrebbe contraddistinguere è travolta dai divulgatori scientifici che fanno la gara a spararla grossa».Quanto alla sequenza musicale di “Black Dance Matter”, va premesso che l’ascolto è ipnotico. «I brani sono dieci, e vogliono rappresentare 10 nodi che stanno disegnando il prossimo futuro», spiega l’autore: «Chi li ascolta per bene noterà dei riferimenti chiari a quello che sta accadendo». Alcuni esempi: «Nel brano “Trump (l’oeil)” giochiamo con il “trompe l’oeil”, cioè con l’effetto che inganna l’occhio». Non a caso: «Trump è un maestro nell’apparire ciò che non è, e qui lo vogliamo omaggiare. La musica infatti si rincorre melodicamente, cambiando di continuo sequenza come per non farsi afferrare». Da The Donald al suo avversario, il “raccapriccante” Biden: «In “Creepy Joe” a un certo punto si sente qualcuno annusare, vizio noto del candidato alla presidenza». Il titolo di un altro brano, “Hammer and Sickle”, evoca le sanguinose rivolte inscenate da Antifa, sotto bandiere in cui compaiono falce e martello. «Qui il ritmo ricorda una polka, ma con influenze country», sottolinea Paolo Mosca. Traduzione: «Il futuro degli Stati Uniti è comunista, o, ancor meglio, cinese?».«A leggere quanto emerge dalle mail ritrovate di Hunter Biden sembra proprio che ci sia questa possibilità», aggiunge l’autore, riferendosi alle prove che stanno emergendo, sui finanziamenti occulti che la famiglia Biden avrebbe incamerato da influenti sponsor cinesi. Certo salta agli occhi un altro dettaglio: il carattere marcatamente squadristico – più nero che rosso – che emerge dall’estetica di Antifa, che anche emotivamente capovolge qualsiasi riferimento alla tradizione antifascista, cioè essenzialmente democratica. Archiviate le imprese dei devastatori anti-Trump e le malefatte della famiglia Biden, Paolo Mosca rispolvera l’epica biblica: ecco “The Samson Option”, che si apre con suoni apocalittici, visto che «Sansone moriva distruggendo il tempio con tutti i filistei». Poi però il tono cambia: «La musica diventa ballabile e vagamente mediorientale». Messaggio: «Quanto sono disposti a portarci a fondo e quanto saranno in grado di indorarci pillole e vaccini?». Per ora, Paolo si ferma qui: «Il resto lascio che lo scoprano da soli gli ascoltatori, se no che gusto c’è?».Paolo Mosca ha esordito come autore televisivo alla fine degli anni ‘90. Ha collaborato con Rai e Mediaset, Mtv e Sky. Ha scritto per “L’isola dei famosi”, “Domenica Live”, “X Factor”, “Fuori dal coro”. Insieme alla sorella di Vittorio Sgarbi, Elisabetta, ha realizzato un bel po’ di film d’arte: tanti i protagonisti, da Hanif Kureishi a Morgan, da Manlio Sgalambro a Nicola Arigliano. Nel 2009, Bompiani gli ha pubblicato il suo primo saggio dedicato all’universo televisivo (”Reality. Dal Grande fratello all’Isola dei famosi”), seguito qualche anno dopo dal romanzo “La mantide religiosa”. Il suo blog, “Mosquicide”, è uno straordinario punto di osservazione: monitora il mondo in cui oggi la fiction assorbe le inquietudini del mondo reale. Un lavoro riassunto in modo magistrale nel volume “Passeggeri oscuri”, uscito due anni fa con un messaggio importante: le nuove serie Tv, oggi distribuite sul web, possiedono le chiavi del futuro (le rivelazioni anticipatrici un tempo affidate alla fantascienza dei kolossal che riempivano i cinema). Come dire: i “veggenti” non sono scomparsi, tutt’altro. Si sono semplicemente adattati al nuovo mezzo, per lanciare i loro avvertimenti. Il tema è sempre lo stesso: quello che sta per succederci, e perché.“Black Dance Matters” è solo l’ultima sfida di Paolo Mosca, originalissimo battitore libero capace di interagire perfettamente anche con il mainstream. Questione di cultura, passione, sensibilità e intelligenza intuitiva, adatta a maneggiare benissimo anche l’universo dei codici cifrati. Tra i suoi “maestri” c’è sicuramente anche il simbologo Gianfranco Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” svela i retroscena (non certo islamici) degli attentati targati Isis in Europa. Quanto è breve il passo che separa i jihadisti eterodiretti dai miliziani della “danza nera” che ha devastato l’America, nei giorni del Covid? Saranno le prossime ore, cioè le ultime battute della campagna elettorale per le presidenziali americane, a svelarci qualcosa di decisivo sulla sovragestione in atto, grazie a cui niente è come sembra e nessuno è quello che dice di essere? «I prossimi 15 giorni saranno decisivi: non solo per il futuro degli Stati Uniti, ma per il futuro di tutto il pianeta», ammette Paolo Mosca. «Credo che mai le elezioni americane abbiano avuto questa portata storica. Ad ogni modo, comunque vada – chiosa, con un sorriso – la luce splenderà sempre».Ricordate Jeffrey Epstein, il potenziale ricattatore più famoso del mondo tramite le sue festicciole per vip sull’isola delle baby-schiave? Be’, non si è affatto suicidato, dopo l’arresto. L’hanno ucciso in cella o è stata solo una messinscena? Dunque il tizio non è mai morto? E’ detenuto da qualche parte e ora sta vuotando il sacco? Lo si potrebbe dedurre da tanti segni. Per esempio, la follia collettiva pre-elettorale chiamata Black Lives Matter: sarebbe meglio ribattezzarla “Black Dance Matter”, se è vero che negli Usa ormai in preda al delirio di massa questa “danza” a colpi di scontri con la polizia sta tirando la volata al Raccapricciante Joe (Biden) contro l’ologramma mediatico del male (Trump L’oeil). In tutto questo, ci si domanda dove sia finita Killary (Clinton), e cosa c’entri la dama più nera d’America con la guerra civile a rovescio scatenata dalle bande che agitano Martello e Falce (riedizione capovolta di “falce e martello”), in un mondo ultra-distopico in cui tutto è rovesciato, a gambe all’aria, cominciando dalla verità. Un incubo, in cui affiora l’esorbitante leggenda dei giustizieri di Q-Anon, e dove chi sogna di poter sfogliare finalmente il Diario della Luce potrebbe considerare L’Opzione di Sansone, la rivolta.
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Ma nemmeno il Premio Nobel svelerà l’enigma Bob Dylan
«Se la misura della grandezza è quella di allietare il cuore di ogni essere umano sulla faccia della terra, allora era veramente il più grande. In ogni modo è stato il più coraggioso, il più gentile e il più eccellente degli uomini». Così Bob Dylan in memoria di Muhammad Alì, scomparso il 3 giugno 2016. Sincronicità: nel giorno della dipartita di Dario Fo, l’accademia di Svezia concede il Premio Nobel per la letteratura – sospiratissimo, soprattutto da parte di migliaia di fan e supporter – all’immenso artista di Duluth, il cui capolavoro forse consiste nell’essere sopravvissuto a se stesso dopo oltre mezzo secolo di dischi e concerti, perfettamente intatto nell’ispirazione creativa di cantante, musicista, compositore e performer. Un’autorevolezza culturale, quella di Dylan, che ne ha fatto un involontario maestro, riconosciuto da generazioni di cantanti, artisti e intellettuali di ogni parte del mondo. Un maestro singolare, laconico, riluttante. Enigmatico come il simbolo che lo accompagna da anni, sul palco: un occhio in fiamme, sormontato da una corona.Se il “flaming delta” simboleggia la presenza immanente della divinità («percepisco ovunque la presenza di Dio», ha detto in una recente intervista), nell’affascinante logo che accompagna il “neverending tour” si può riconoscere “l’occhio di Horus”, o “occhio dell’iniziato”, quello dell’uomo che ha accesso al cammino verso la “verità profonda”. In più, l’occhio di Dylan – sul drappo calato come un sipario alle spalle della band, in chiusura di concerto – ha un’iride particolarissima, in forma di spirale (in codice esoterico, può significare: verità raggiungibile). E la corona che sovrasta l’occhio richiama direttamente la scienza alchemica, ritenuta la “regina” di ogni conoscenza. Traduzione ipotetica: attraverso l’alchimia interiore – trasformare in “oro” il proprio piombo terreno – è possibile arrivare a «vedere Dio ogni giorno, in ogni cosa», specie a 75 anni, con davanti un calendario di appuntamenti concertistici da schiantare un ventenne. «Morirò su un palco, un giorno, da qualche parte nel mondo», ebbe a dire Dylan qualche anno fa, cercando di spiegare il suo tour infinito, fondato sulla strepitosa reintepretazione, ogni volta rivoluzionaria, di leggendari successi resi irriconoscibili dai nuovi arrangiamenti, ogni volta diversi, regalati in esclusiva al pubblico presente.Rarissime le esternazioni pubbliche, dall’ex ragazzo del Minnesota, nipote di ebrei ucraini e lituani, protagonista di una traiettoria culturale ricchissima: la venerazione per il menestrello Woody Guhrie, “Blowin’ in the wind” e la protesta degli anni ‘60, le battaglie civili come quella per far uscire di prigione il pugile nero Rubin “Hurricane” Carter, o la campagna “Farm Aid” per il sostegno degli agricoltori americani colpiti dalla crisi. Fino all’incredibile disco natalizio del 2009, “Christmas in the Heart”, coi proventi interamente devoluti a “Feeding America”, associazione caritativa che fornisce pasti caldi ai senzatetto. Forse, tra i giudici del Nobel ha pesato soprattutto il Dylan politico, quello di “Masters of war” contro i signori della guerra, tema riproposto in modo magistrale attraverso canzoni più recenti, come “Ring them bells”, del 1989. “I pity the poor immigrant”, cantava un Dylan giovanissimo, soffermandosi su “The lonesome death of Hattie Carroll”, schiava nera uccisa a bastonate dal suo “padrone”, ricco proprietario terriero. Dall’ultimo Dylan, pensieroso fino alla cupezza, sono scaturite gemme di autentica poesia come il disco “Tempest”, ispirato al poeta Henry Timrod, uscito nel 2009 – già allora, sul palco, a fine serata compariva il misterioso simbolo dell’occhio “incoronato”.«Capirete fra trent’anni quello che ho scritto», si sbilanciò nel 1967 quando uscì “John Wesley Harding”, il disco contenente una traccia come “All along the Watchtower”, poi resa immortale dall’interpretazione di Jimi Hendrix a Woodstock. Tutto il lavoro – in apparenza country-western – svelava la profonda intimità dell’artista con una dimensione metafisica presente tra i risvolti del quotidiano, attraverso fotogrammi che illuminano verità senza tempo, percezioni astoriche e immateriali, in un mondo di evocazioni e citazioni bibliche, tra il fantasma di Sant’Agostino e l’arrivo di oscuri messaggeri. “Ci dev’essere il modo di uscire di qui, disse il buffone al ladro”: come i personaggi di “All along the Watchtower”, anche Dylan crede alla possibilità di un riscatto, un Piano-B, mentre si interroga sull’umanità senza mai smettere di denunciarne gli orrori – la vigorosa rock-ballad “Union Sundown” (da “Infildels”, con Mark Knopfler alla chitarra) è un grido, profetico, contro la catastrofe della globalizzazione: porta la data del 1983. «Ha vinto Dinsey, quindi abbiamo perso tutti», sentenziò. Ma non smise di girare il mondo, e – anzi – aggiunse sul palco quel misterioso stendardo-pirata, come monito ammiccante: io so, vedo, capisco. L’occhio in fiamme, la corona. E ora anche il Nobel Prize for Literature.«Se la misura della grandezza è quella di allietare il cuore di ogni essere umano sulla faccia della terra, allora era veramente il più grande. In ogni modo è stato il più coraggioso, il più gentile e il più eccellente degli uomini». Così Bob Dylan in memoria di Muhammad Alì, scomparso il 3 giugno 2016. Sincronicità: nel giorno della dipartita di Dario Fo, l’accademia di Svezia concede il Premio Nobel per la letteratura – sospiratissimo, soprattutto da parte di migliaia di fan e supporter – all’immenso artista di Duluth, il cui capolavoro forse consiste nell’essere sopravvissuto a se stesso dopo oltre mezzo secolo di dischi e concerti, perfettamente intatto nell’ispirazione creativa di cantante, musicista, compositore e performer. Un’autorevolezza culturale, quella di Dylan, che ne ha fatto un involontario maestro, riconosciuto da generazioni di cantanti, artisti e intellettuali di ogni parte del mondo. Un maestro singolare, laconico, riluttante. Enigmatico come il simbolo che lo accompagna da anni, sul palco: un occhio in fiamme, sormontato da una corona.
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Krugman: ieri le armi di Saddam, oggi la fobia del debito
Dieci anni fa l’America invase l’Iraq: in qualche modo la nostra classe politica decise che dovevamo rispondere a un attacco terroristico con la guerra a un regime che, per quanto spregevole, non aveva nulla a che fare con l’attacco. Alcune voci avvertirono che stavamo facendo un terribile errore – che i motivi per fare la guerra erano deboli e forse fraudolenti, e che era molto probabile che l’impresa, lungi dal darci la facile vittoria promessa, avrebbe probabilmente portato a costi e lutti molto pesanti. E questi avvertimenti si sono rivelati, ovviamente, fondati. Si è scoperto che non c’era alcuna arma di distruzione di massa; è ovvio, a posteriori, che l’amministrazione Bush ha deliberatamente ingannato, e portato in guerra, la nazione. E la guerra – che è costata migliaia di morti americani e decine di migliaia di vite irachene, e ha imposto costi finanziari di gran lunga superiori a quelli previsti dai suoi sostenitori – ha lasciato l’America più debole, non più forte, e ha finito per creare un regime iracheno più vicino a Teheran che a Washington.
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Folle e irridente, l’incredibile Dylan natalizio
Ci crediate o meno, “Christmas in the heart”, l’annunciato disco natalizio di Bob Dylan (e già la notizia aveva creato un certo stupore) è proprio un disco di Natale, a tutti gli effetti. Inizia con un sentore di slitte e campanellini e un annuncio inequivocabile: “Here comes Santa Claus”. E succede davvero: un Dylan quasi disneyano, con coretti anni cinquanta e chitarrine country. Se non ci fosse la sua voce potrebbe essere un disco di Ray Conniff o di un gruppo di avvinazzati cowboy da balera.