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Franceschetti: delitti rituali, se i killer agiscono come automi
«Ora è finita», dice il cannibale Jeffrey Dahmer ai suoi giudici. Si è arreso, il Mostro di Milwaukee, dopo aver ucciso, squartato e divorato 17 vittime. «Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato: non ho voluto mai la libertà, e oggi non chiedo attenuanti». Il serial killer dichiara ufficialmente di aspettarsi la pena capitale: sarebbe un sollievo, per lui. Confessa tutti i suoi delitti, ma precisa: «Non ho mai odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio, o entrambe le cose. So quanto male ho causato, ma ora mi sento in pace: grazie a Dio, non potrò più fare del male». Si è convertito, Dahmer: «Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati». E’ il 1992 quando viene condannato all’ergastolo. Due anni dopo, però, viene ucciso da un detenuto affetto da schizofrenia, il cui nome (Christopher Scarver) contiene, curiosamente, il riferimento a Cristo. Solo un caso? Chi lo sa. Certo è che, nei delitti anomali – cioè non scatenati da moventi ordinari (denaro, passione, vendetta) – ci si imbatte spesso in una mole impressionante di «coincidenze eccezionali». Lo sostiene Paolo Franceschetti, già avvocato delle Bestie di Satana e poi indagatore di casi intricatissimi come quello del Mostro di Firenze: una inquietante sequenza di omicidi rituali. Domanda: com’è possibile che si verifichino tutte quelle maledette coincidenze? Ed è credibile che una forza sconosciuta guidi la mano dei killer?Franceschetti, buddista praticante e autore del saggio “Alla ricerca di Dio”, suggestiva indagine trasversale sulla spiritualità, esplorata “dalle religioni ai maestri contemporanei”, propende per una spiegazione occultistica: quella cioè di chi crede davvero che la ritualità della cosiddetta magia possa produrre effetti concreti, pericolosamente tangibili e persino letali. A colpirlo, è l’ineffabile ricorrere di troppe concatenazioni altamente simboliche e altrimenti inspiegabili, a suo parere: come se “l’invisibile” fosse una specie di lavagna, sulla quale poter imprimere precisi desideri. Dal canto suo, Franceschetti vanta anni di coraggiose ricerche condotte con rigore, partendo dalle carte giudiziarie. «Nei delitti delle Bestie di Satana – scrive, sul blog “Petali di Loto” – alcuni dei nomi dei ragazzi coinvolti sono, appunto, nomi di bestie: Volpe, Leoni, Zampollo (zampa di pollo)». La figura simbolica di Satana, nella tradizione cristiana, è sconfitta dell’arcangelo Michele: «E guarda caso, i due personaggi che in tutta la vicenda risultano la chiave per scoprire i delitti si chiamano Michele». Il primo è Michele Tollis, il padre di uno dei ragazzi assassinati, il cui cognome richiama la preghiera “qui tollis peccata mundi”. L’altro invece è un carabiniere, Michelangelo Segreto, all’epoca comandante della stazione di Somma Lombardo. «Michelangelo: qui non abbiamo solo Michele, ma anche l’angelo».La Bestia dell’Apocalisse, sottolinea Franceschetti, in alcune raffigurazioni ha le zampe di pollo e la testa di leone: i “registi” dell’operazione Bestie di Satana, che ha coinvolto giovani sbandati (e spesso innocenti, sostiene il loro ex legale) era dunque una terribile, sanguinosa allegoria vivente, messa in scena per “rappresentare” l’Apocalisse di Giovanni? Franceschetti si concentra sulle coincidenze: Volpe sparò a Mariangela Pezzotta, colpendola alla gola. Come si chiama il luogo in cui avvenne il delitto? Golasecca. La vicenda delle Bestie di Satana, almeno per la versione ufficiale diffusa dalla stampa, finì il giorno che Volpe e Ballarin, dopo aver ucciso Mariangela, si schiantarono con l’auto presso la diga di Panperduto, dove poco dopo furono fermati. Traduzione simbologica: proprio a Panperduto, le Bestie di Satana “si perdono”. E il dio pagano Pan, aggiunge Franceschetti, nella tradizione cattolica era «una delle rappresentazioni di Satana», secondo la Chiesa medievale ancora impegnata a debellare il tenace paganesimo che resisteva nelle campagne. Qualcuno si è preso gioco di quei ragazzi, allestendo (a loro insaputa) una trama spaventosa?Da Varese a Firenze, cambiano gli attori ma resta invariato l’affollamento di coincidenze anomale. Nei delitti del Mostro, le zone del delitto – se segnate su una mappa – disegnano un cerchio (magico) attorno a Firenze, rileva Franceschetti. Il capoluogo toscano «è per eccellenza la città di Dante, il poeta che mise per iscritto nella “Divina Commedia” il sapere templare e rosacrociano». In vari scritti, inclusi due saggi, Franceschetti attribuisce l’operazione “Mostro di Firenze” alla cosiddetta Rosa Rossa, potente setta formata da individui coltissimi e socialmente altolocati, passati dall’iniziale esoterismo alla degenerazione dell’occultismo più sanguinario, sulle orme del “mago nero” Aleister Crowley, teorico dei sacrifici umani a scopo propiziatorio. Il primo a mettere gli inquirenti sulla pista esoterica dei delitti rituali fu il criminologo Francesco Bruno, all’epoca consulente del Sisde. Più tardi, l’indicazione dei servizi segreti fu recepita dal super-poliziotto Michele Giuttari, commissario messo a capo dell’unità investigativa speciale istituita a Firenze per venire finalmente a capo del giallo.Giuttari però fu fermato a un passo dalla risoluzione del caso: la pista “magica” l’ha narrata anni dopo, in romanzi divenuti bestseller, in cui l’eminenza grigia dell’organizzazione – nella fiction – risulta essere nientemeno che un prestigioso magistrato, il procuratore di Firenze. Titoli evocativi: “La loggia degli innocenti”, “Scarabeo”, “Le rose nere di Firenze”. Pedofilia, massoneria deviata, occultismo (e quel fiore, la rosa) all’ombra del potere. Lo stesso Franceschetti non ha esitato a puntare il dito contro l’allora capo della Procura fiorentina Piero Luigi Vigna, poi promosso procuratore nazionale antimafia. La moglie di Vigna, ha scritto Franceschetti, morì travolta da un’auto-pirata dopo aver denunciato il marito allo stesso Giuttari: era scossa dalla strana morte della moglie del farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, deceduta in una struttura psichiatrica dopo aver dichiarato «Vigna spara, mio marito taglia». Giuttari si arrese quando scoprì che era stato violato l’archivio d’indagine sul Mostro: conteneva le impronte digitali su lettere anonime inviate anni prima agli inquirenti – buste contenenti anche resti umani, appartenenti alle vittime.Grazie a quel misterioso furto nel quartier generale della polizia non fu possibile incrociare le impronte sulle buste con quelle del medico perugino Francesco Narducci, dichiarato “annegato” nel Lago Trasimeno e citato in varie deposizioni dai “compagni di merende”, Pacciani e soci. A Perugia il pm Giuseppe Mignini fece riesumare il cadavere e scoprì che non era Narducci, il morto ripescato nel lago: prima del funerale c’era stata una clamorosa sostituzione della salma, perché la tomba riportò alla luce il vero Narducci – non annegato, ma vistosamente strangolato, sull’isoletta del Trasimeno che aveva raggiunto il 3 ottobre 1985, imbarcandosi in stato di forte agitazione, come se temesse l’appuntamento che lo attendeva. Giuttari ha ormai lasciato la polizia, dopo una sfolgorante carriera di detective antimafia, e ora affida ai romanzi la possibile verità sul Mostro di Firenze. Dal canto suo, Franceschetti insiste sui dettagli cifrati, simbologici: un codice fuori della portata di personaggi come Pacciani, Vanni e Lotti. «Il primo delitto del Mostro è quello di Pasquale Gentilcore, e la “Vita Nova” di Dante si apre con il verso “a ciascun’alma presa e gentil core”. Più in generale la trama dei delitti richiama dal punto di vista simbolico la “Divina Commedia” e il quadro del Botticelli “La Primavera”, la cui allegoria sembra “contenere” tutti gli omicidi del Mostro.Franceschetti cita persino il delitto Moro: la vicenda si apre in via Fani (Mario Fani, fondatore del circolo di Santa Rosa) e si chiude in via Caetani al numero 9 (cioè esattamente davanti al conservatorio di Santa Caterina della Rosa) dove viene parcheggiata la Renault rossa in cui c’era il cadavere del presidente della Dc. Per inciso: Michelangelo Caetani era uno stimato dantista, e – volendo stare al “gioco” dei simboli – le iniziali del binomio “Renault rossa” sono le stesse dell’invisibile Rosa Rossa. «Di recente – racconta sempre Franceschetti su “Petali di Loto” – mi ha abbastanza colpito il delitto avvenuto nella mia città», Viterbo (patrona: Santa Rosa), «il giorno in cui io aveva un’udienza per la vicenda del Mostro di Firenze», a causa della querela presentata contro Franceschetti dal giornalista Mario Spezi. I fatti: duplice omicidio il 13 dicembre 2017, giorno di Santa Lucia, proprio in strada Santa Lucia. Al numero 26 (due volte 13, «ovverosia due volte il numero della morte», per certo esoterismo numerologico) vengono ritrovati uccisi due coniugi, e la donna si chiama Rosa Rita Franceschini.In altre parole, ragiona Franceschetti, «il giorno in cui, a Viterbo, si celebra un processo che riguarda quello che io ho additato come uno dei principali esponenti della Rosa Rossa (organizzazione che ha la Rosa, e Santa Rita, tra i suoi simboli principali, con cui firma i suoi delitti), viene uccisa una donna che ha, nel nome di battesimo, i simboli dell’organizzazione, e il cui cognome ha una certa assonanza con il mio». Difficile, per un simbologo, non notare la coincidenza. Quella volta furono addirittura i giornali a parlare di omicidio rituale, perché la coppia uccisa era disposta in un modo particolare sul letto, e il loro figlio (accusato del delitto) aveva appena finito di leggere il romanzo “Il grande Dio Pan” di Arthur Machen, che descrive una scena simile a quella del delitto commesso a Viterbo. «Potrei andare avanti per ore», aggiunge Franceschetti, che al tema del delitto rituale ha dedicato centinaia di pagine. La domanda che si pone oggi è un’altra. Ovvero: come si creano, queste coincidenze così straordinarie?Se si esclude il caso, Franceschetti non crede che un copione così complicato possa essere progettato a tavolino: scegliere i nomi delle vittime e stabilire in che data e a che ora ucciderle «richiederebbe anni di lavoro e sarebbe ad alto rischio di fallimento, a causa delle troppe variabili». Senza contare che «se dietro tutto questo ci fosse un’intelligenza umana, prima o poi – in qualche processo, in qualche atto parlamentare o in qualche libro – qualcuno ne darebbe testimonianza». Invece, solo per fare un esempio, nel delitto Moro «non risulta da nessuna parte che qualcuno abbia ordinato di acquistare proprio una Renault rossa, per poi andarla a depositare proprio al numero 9». Ed è qui che Franceschetti, per darsi una spiegazione, parla della magia. Non si limita a dire che gli assassini compiono rituali magici – cosa peraltro plausibile e confermabile. Franceschetti va oltre: per tentare di risolvere il rompicapo, ritiene che la stessa magia sia, esattamente, la spiegazione mancante. Il presupposto, indimostrabile, sta nel credere che la pratica magica “funzioni” davvero, sul piano materiale. Tradotto: compio un rito, e il rito scatena “forze occulte” così potenti da influire nella realtà, compresa quella di un omicidio, provvedendo anche al corredo “perfetto” delle coincidenze simboliche.Lo stesso Franceschetti ha più volte rivelato che la magia – sempre ridicolizzata dai media – sia in realtà praticata dalle alte sfere del potere, insospettabilmente dedite all’occultismo e alla divinazione. Sempre secondo Franceschetti, alcuni delitti rituali vengono commessi con il concorso di una certa “magia”, che deve per forza “funzionare”. O meglio: «Mentre l’assassino o gli assassini agiscono sul piano materiale, un altro gruppo, o dei singoli, agiscono sul piano magico ed esoterico». Sempre sul terreno dell’indimostrabile, Franceschetti aggiunge che la cosiddetta “azione magica” potrebbe scatenare «l’azione di entità che si affiancano agli esseri umani per raggiungere il fine dell’operazione». Come se i killer agissero in una sorta di trance? «Alcune di queste entità prendono il possesso delle persone coinvolte, agendo al posto loro». Stati mentali alterati? «Un prete cattolico definirebbe queste persone “indemoniate”, mentre in gergo esoterico si dicono “parassitate”: si tratta infatti di veri e propri “parassiti psichici” che prendono il controllo, a lungo o per pochi attimi, di singole persone o addirittura di gruppi».Automatico il riferimento a pratiche messe a punto da servizi segreti militari – i programmi Monarch e Mk Ultra – per manipolare individui, trasformandoli in strumenti inconsapevoli. Franceschetti preferisce parlare del ruolo (intermedio) che sarebbe svolto da quelle che chiama “entità”. Secondo lui prendono vari nomi, a seconda delle tradizioni di riferimento: eggregore, “elementali”. «Corrado Malanga li chiamava “alieni”, e chiamava “addotti” coloro che erano sotto il controllo di queste entità. I preti li chiamano demoni e chiamano indemoniate le persone soggette a questi fenomeni. La psichiatria li chiama spesso schizofrenici» (succede quando il paziente “sente le voci”: la diagnosi parla di psicosi). «Tutte le tradizioni magiche, di tutte le culture, e da sempre, si occupano di queste “entità” e del loro rapporto con gli esseri umani», osserva Franceschetti. Non è delirio paranoico, assicura: il fenomeno esiste. Ma di cosa si tratta, esattamente? Franceschetti propende per la sua tesi “spiritualistica”, ovvero: si tratterebbe di «entità non umane», anche se poi è il killer – una volta “riavutosi”, ad ammettere: «Non so perché l’ho fatto, so solo che dovevo farlo».Lo stesso Dahmer, pentito, implorò i giudici: «Datemi il massimo della pena». Il cosiddetto Mostro di Foligno, Luigi Chiatti, ha chiesto scusa ai familiari delle sue vittime. Lo statunitense Jonh Wayne Gacy, soprannominato Killer Clown, che stuprò e assassinò decine di bambini, dichiarò al processo che a uccidere non era stato lui, ma il suo “doppio”. Altro dettaglio molto interessante, segnala Franceschetti, è che alcuni serial killer hanno raccontato agli inquirenti di esser stati avvicinati da persone eleganti e facoltose che si erano dichiarate “interessate alla loro attività”. «Sono molti i casi di persone che hanno ucciso e fatto vere e proprie stragi: erano persone normali, fino a un attimo prima; e poi, in pochi secondi, si sono trasformate in mostri». La causa? Franceschetti parla di “energia dell’eggregora” che scatenerebbe la furia omicida, dopo il presunto rito magico. Tornando invece al livello investigativo del ragionamento, troppe volte gli inquirenti hanno sottovalutato la matrice occultistica e rituale di un delitto, pur in presenza di segni simbolici estremamente evidenti. Jung le chiama “coincidenze significative”. Per Einstein, sono «Dio che passeggia in incognito». E il credente, si sa, ritiene che tutto venga dalla “divinità”, i cui piani sono ovviamente imperscrutabili – come il buio in cui naufragano troppe indagini.«Ora è finita», dice il cannibale Jeffrey Dahmer ai suoi giudici. Si è arreso, il Mostro di Milwaukee, dopo aver ucciso, squartato e divorato 17 vittime. «Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato: non ho voluto mai la libertà, e oggi non chiedo attenuanti». Il serial killer dichiara ufficialmente di aspettarsi la pena capitale: sarebbe un sollievo, per lui. Confessa tutti i suoi delitti, ma precisa: «Non ho mai odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio, o entrambe le cose. So quanto male ho causato, ma ora mi sento in pace: grazie a Dio, non potrò più fare del male». Si è convertito, Dahmer: «Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati». E’ il 1992 quando viene condannato all’ergastolo. Due anni dopo, però, viene ucciso da un detenuto affetto da schizofrenia, il cui nome (Christopher Scarver) contiene, curiosamente, il riferimento a Cristo. Solo un caso? Chi lo sa. Certo è che, nei delitti anomali – cioè non scatenati da moventi ordinari (denaro, passione, vendetta) – ci si imbatte spesso in una mole impressionante di «coincidenze eccezionali». Lo sostiene Paolo Franceschetti, già avvocato delle Bestie di Satana e poi indagatore di casi intricatissimi come quello del Mostro di Firenze: una inquietante sequenza di omicidi rituali. Domanda: com’è possibile che si verifichino tutte quelle maledette coincidenze? Ed è credibile che una forza sconosciuta guidi la mano dei killer?
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Nessun Dio, nella Bibbia: come smontare l’immane raggiro
Vedete questa parete alle mie spalle? E’ bianca, per tutti? Se nella Bibbia c’è scritto che questa parete è rossa, io dico: “Nella Bibbia c’è scritto che questa parete è rossa”. Il che non vuol dire che io sostengo che quella parete sia rossa; dico solo: nella Bibbia c’è scritto che è rossa. Poi, tutti assieme, possiamo determinare che l’autore biblico ha preso un colossale abbaglio? Benissimo, diciamo pure che l’autore biblico ha preso un colossale abbaglio. Quindi, ciò che io vi dico non è “la verità”: è solo ciò che c’è scritto. Se io traduco “Pinocchio” per conto degli eschimesi, magari, quando avrò finito, ci sarà qualche saggio eschimese che si alza e dice: ma tu vuoi convincerci del fatto che i bambini si fanno partendo dal legno? No: io vi dico soltanto che, in quel libro, c’è scritto che quel bambino è stato fatto partendo da un pezzo di legno. Poi, tutti assieme, stabiliamo che quella è una favola? Benissimo. Quindi, io provo a raccontarvi che cosa c’è scritto nella Bibbia; se poi tutti assieme vogliamo pensare che la Bibbia racconti favole, benissimo: la Bibbia racconta favole. E’ chiaro il concetto? Quindi io non vi parlo di Dio, perché l’Antico Testamento non parla di Dio. Non parla del Dio spirituale: non c’è proprio (quella è una elaborazione teologica successiva). Non parlo di mondi spirituali, perché nell’Antico Testamento non ci sono.
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Akakor, Amazzonia: l’impero segreto dei Figli delle Stelle
Nel 13.000 avanti Cristo, «brillanti navi dorate» raggiunsero le foreste lussureggianti del Sudamerica. Ne scesero «maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu». Avevano anche «sei dita alle mani e ai piedi», proprio come i Nephilim (giganti) di cui parla la Bibbia, il cui ultimo discendente, Golia, secondo il racconto biblico fu abbattuto dal mitico Davide. I personaggi comparsi in Amazzonia «dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni». Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: «Pietre “magiche” per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo». Fiabe? Chissà. In ogni caso, si tratta di storie pericolose: spesso sono costate la vita ai ricercatori che tentarono di approfondirle, capirle, svelarle (compreso un vescovo cattolico, monsignor Giocondo Grotti). E’ un vero e proprio cimitero – sconosciuto ai più – quello dei “cercatori” dell’altro Eldorado, l’ipotetica civiltà dei Figli delle Stelle che, in Amazzonia, avrebbero fondato imponenti città-Stato (sotterrannee) tra piramidi sepolte nella giungla, rivelando all’umanità la sua vera origine. Prima vittima di questa leggendaria scoperta: un giornalista tedesco, Karl Brugger, stabilitosi nel dopoguerra a Manaus.La sua avventura inizia nel 1972, nell’ex capitale del caucciù alla confluenza tra l’Amazonas e il Rio Negro. Dopo tante esplorazioni tra gli indios, Brugger fa l’incontro che gli cambierà la vita: entra in contatto con Tatunca Nara, che si considera l’ultimo capo degli Ugha Mongulala, misteriosa Tribù degli Alleati Eletti. Da lui proviene un racconto straordinario, tratto direttamente dai “libri sacri” che costituiscono la cronistoria di un regno scomparso, Akakor. La “Cronaca di Akakor” racconta Dino Vitagliano sul blog “Acam”, ripreso da “La Crepa nel Muro”, si compone di vari testi: “Il Libro del Giaguaro”, “Il Libro dell’Aquila”, “Il Libro della Formica” e “Il Libro del Serpente d’Acqua”. C’è scritto che gli Alleati Eletti, provenienti dal cielo, «con infinito amore donarono agli indios il lume della civiltà e gettarono le basi di un impero vastissimo». Il reame comprendeva «Akakor, l’imprendibile fortezza di pietra nella vallata sui monti al confine tra Perù e Brasile», ma anche «Akanis in Messico e Akahim in Venezuela», senza contare «le grandiose città di Humbaya e Patite in Bolivia, Cadira, Emin sul Grande Fiume e maestosi luoghi sacri: Salazare, Tiahuanaco e Manoa sull’altopiano a sud». L’antropologo Samir Osmanagich, scopritore delle Piramidi di Visoko in Bosnia datate 28.000 anni, avverte: l’Amazzonia e l’America Centrale ospitano migliaia di antichissime piramidi, sepolte dalla vegetazione: costruite da chi?La disposizione delle piramidi, incluse quelle egizie – aggiunge Osmanagich – riproduce sempre il sistema stellare di qualche precisa costellazione. E’ il caso delle 13 “città invisibili” di Akakor, costruite nel sottosuolo per sfuggire alla vista degli intrusi: «La loro pianta riproduce fedelmente Schwerta, la dimora cosmica degli Antichi Padri». Secondo il racconto della “Cronaca di Akakor”, di sapore mitologico, «una luce innaturale» illumina le città dall’interno, mentre un ingegnoso complesso di canalizzazioni assicura l’afflusso di aria e acqua anche in profondità. Nella narrazione poi compaiono numeri precisi, per raccontare l’improvvisa scomparsa dei “padri celesti”: «Il potente dominio, che contava sotto di sé 362 milioni di individui, durò 3.000 anni». Poi, nell’Ora Zero – identificata nel 10.481 avanti Cristo – gli Antichi Padri «ripresero la via del cielo», sia pure «con la promessa di ritornare». Un viavai astronautico, che ricorda quello che Mauro Biglino ricava direttamente dalla rilettura letterale, in ebraico, dell’Antico Testamento (solitamente tradotto con un’infedeltà clamorosa, capace di trasformare in “gloria” l’inesplicabile “Khavod” con cui, si legge, l’Eohim chiamato Yahvè era solito volare, come su un’astronave capace di varcare le “porte del cielo” che conducono “le olàm”, nello spazio sconosciuto).La partenza dei Figli delle Stelle dall’Amazzonia, prosegue la sintesi offerta da Vitagliano, fu decisamente traumatica: «La Terra parve piangere la loro scomparsa e, 13 anni dopo, un’immane catastrofe si abbattè sul pianeta e sconvolse il suo aspetto, seminando ovunque morte e desolazione». Sapevano, gli “dei” precipitosamente partiti, che cosa sarebbe successo al nostro pianeta? Al che, gli uomini «persero la fede» in quelli che avevano cominciato a considerare “dèi”. La società umana degenerò, e gli individui presero a commettere «azioni crudeli», pessima abitudine protrattasi «nei millenni a venire». Ma non è tutto: «Seguì un seconda catastrofe: una stella gigantesca dalla coda rossa impattò la Terra, provocando un immane diluvio», altro “topos” narrativo citato in tutte le letterature antiche. Secondo le parole di quelli che, nel frattempo, erano diventati sacerdoti, «quando la disperazione avesse raggiunto il culmine, i Primi Maestri sarebbero tornati». Circa 6.000 anni dopo, infatti – nel 3.166 avanti Cristo – ricomparvero le “navi d’oro”. Un nuovo ciclo di regalità “illuminata”: «Lhasa, il Sublime, regnò ad Akakor». E attenzione: «Suo fratello Samon volò sul Nilo per fondare un secondo impero». In più, il nuovo potere egizio «approdava regolarmente in terra sudamericana», sempre «a bordo di immense navi».A che punto era, nel resto del mondo, la civiltà umana attorno al 3000 avanti Cristo? A Creta stava per nascere la cultura minoica, sulla sponda orientale del Mediterraneo sorgeva il villaggio da cui sarebbe nata Troia, mentre sul Nilo regnava la primissima dinastia di faraoni. Più avanzata la civiltà dei Sumeri in Mesopotamia, con importanti città come Ur e Uruk, mentre in Siria si stagliavano le mura di Aleppo. Grandi movimenti da oriente verso occidente: la Cina già molto sviluppata, i contatti con l’Iran, i primi stanziamenti indoeuropei in Ucraina e l’agricoltura che si affaccia sul Baltico, mentre in Inghilterra sorgono le prime tracce di Stonehenge. Legami con l’Amazzonia? Reperti di varia natura scoperti dagli archeologi confermano la presenza egiziana in Sudamerica, come la Roccia delle Scritture che l’antropologo statunitense George Hunt Williamson rinvenne sulle Ande nel 1957, istoriata da geroglifici simili a quelli egizi, venerata dai nativi e collegata alla discesa di antenati spaziali che dimoravano nel “Gran Paititi”. Fili non proprio invisibili, che collegano continenti lontani, fino al mitico impero delle Amazzoni.«Il principe di Akakor – prosegue la “Cronaca” del regno amazzonico – governò con saggezza riorganizzando l’impero distrutto ed eresse nuove città come Manu, Samoa e Kin in Bolivia, e Machu Picchu in Perù. Trecento anni rimase sulla Terra, finchè un giorno si diresse sulla Montagna della Luna, sopra le Ande, e disparve nel cielo in un fuoco». Partenza che riecheggia quella di Quetzalcoatl, misterioso personaggio messicano poi venerato come “divinità”. Millenni di guerre contro le tribù nemiche – aggiunge Vitagliano – videro Akakor cadere e risorgere più volte, stringendo anche alleanze con «stirpi straniere giunte da lontano». Attenzione: le tradizioni degli Ugha Mongulala parlano di «popolazioni bianche, come i Goti che visitarono le loro terre». Nientemeno: sarebbero gli antenati degli stessi Goti che, con Alarico, avrebbero tentato di ripristinare la perduta “regalità iniziatica” resuscitando quel che restava dell’Impero Romano.Ancora una volta, sottolineano i blog “Acam” e “La Crepa nel Muro”, questa citazione si rivela una notevole conferma delle antiche cronache medievali, nelle quali «navi vichinghe partite all’esplorazione di mondi lontani, dopo un naufragio, approdarono sulle coste del Sudamerica». Nella Sierra di Yvytyruzu, in Paraguay, l’archeologo franco-argentino Jacques de Mahieu negli anni ‘70 scoprì un masso istoriato di caratteri runici e disegni dei Drakkar, le navi nordiche, con anche un uomo barbuto protetto da un’armatura. «Le attuali popolazioni di quei territori possiedono la pelle bianca, un torace sviluppato e la barba». Ma un evento ancor più strano, «preconizzato nelle antiche scritture degli Antenati Divini», è l’arrivo ad Akakor di 2.000 soldati tedeschi: militari del Terzo Reich, che aiutarono gli indios ad armarsi contro i “barbari bianchi” (ma senza successo, perché la Germania stava ormai perdendo la Seconda Guerra Mondiale). «I nativi ricordano lo stemma cucito sulla giacche delle truppe, identico ai covoni di grano in foggia di svastica, che rotolavano dalle colline durante cerimonie sacre nel solstizio d’estate».Lo stesso Hitler era ossessionato a tal punto dalle tradizioni esoteriche da abbracciare le idee della società segreta Thule, che prendeva il nome di un vasto territorio esteso dal Mar del Gobi al Polo Nord, abitato dalla “civiltà degli Iperborei”, considerata custode di antiche conoscenze perdute. L’esistenza di una “razza antichissima” che viveva in cavità sotterranee in Amazzonia stimolò la sua curiosità, spingendo il capo del nazismo a inviare numerose spedizioni in tutto il globo per accertare la veridicità dei suoi studi occulti. In questo caso il contingente tedesco “atteso” dagli indios salpò da Marsiglia, a bordo di un sommergibile, per una missione segretissima: tentare di prendere contatto con la mitica Tribù degli Alleati Eletti, quella che – decenni dopo – Karl Brugger avrebbe intercettato, incontrando Tatunca Nara (cioè la fonte principale della leggendaria “Cronaca di Akakor”). Sempre secondo Dino Vitagliano, non fu casuale la scelta, da parte dei nazisti, di partire dal porto mediterraneo: «Un resoconto di viaggio del navigatore greco Pitea di Massalia, nel IV sec a.C., il “De Oceano”, narra la partenza da Massalia, l’antica Marsiglia, per giungere alla mitica Thule ubicata nei ghiacci remoti nel lontano Nord. Molto probabilmente la città francese custodisce segreti esoterici noti ai nazisti da lungo tempo».Sempre secondo la “Cronaca”, il Tempio del Sole di Akakor, vigilato da guardie armate, custodisce mappe segrete, vergate dagli Antichi Padri: mostrano il cosmo com’era millenni prima, con altre Lune, un’isola perduta ad Ovest e una terra in mezzo all’Oceano, «inghiottite dai flutti nel corso di un’epica battaglia stellare», combattuta tra due progenie di “dèi”, le cui conseguenze «investirono persino i pianeti Marte e Venere». A un certo punto, in questa favolosa cosmogonia, compare l’umanità: «I Signori del Cielo portarono l’uomo da un pianeta all’altro, fino a giungere sulla Terra». Già l’austriaco Hanns Hoerbiger, teorico nazista, aveva postulato l’esistenza di varie Lune nelle ère perdute della Terra. Poi c’è un’allusione diretta ai Vimana, le “astronavi” dei Deva (i paleo-astronauti indiani di cui si parla nei Veda, poi trasformati in “divinità” con la nascita dell’Induismo): le mappe di Akakor, citate da Brugger, si ricollegano alla carta astronomica del 4.000 avanti Cristo, appartenuta al compianto ricercatore britannico David Davenport sulle rotte dei Vimana verso il nostro pianeta, provenienti da sistemi stellari lontanissimi. Amazzonia, India, Palestina: è come se venisse raccontata sempre la stessa storia, sia pure in lingue diverse. Qualcuno sarebbe giunto sulla Terra dallo spazio profondo, dando origine all’uomo.Nella foresta pluviale amazzonica, questa “conoscenza” sarebbe stata preservata secondo precise modalità: «Fedeli ai desideri dei Primi Maestri, i sacerdoti raccolsero tutto il sapere e la storia della Tribù Eletta in libri custoditi in una sala scolpita nella roccia all’interno delle dimore sotterranee. Nello stesso luogo gli enigmatici disegni dei Padri Divini sono incisi in verde e azzurro su di un materiale sconosciuto. Disegni che né l’acqua né il fuoco riescono a distruggere». Sempre nel Tempio del Sole, «nei sotterranei giacciono anche armi simili a quelle dei tedeschi appartenute agli “dèi”, l’astronave di Lhasa, un cilindro di metallo ignoto che volava senz’ali, e un veicolo anfibio che attraversava le montagne». Tatunca Nara raccontò a Karl Brugger di aver visto con i suoi occhi «una sala rischiarata da una luminosità azzurrina che mostrava in animazione sospesa quattro persone, tra cui una donna, con sei dita alle mani e ai piedi, entro contenitori di cristallo pieni di liquido». Fervida fantasia fantascientifica – decisamente fuori luogo, in un indio amazzonico degli anni ‘70 – o testimonianza semplicemente sconcertante, così come l’intera storia del regno sotterraneo di Akakor fondato dai Padri Celesti?Il ricercatore italiano Antonio Filangieri verificò le credenziali di Karl Brugger tramite il fratello, Benno, incontrato a Monaco. Benno Brugger rivelò a Filangieri che, dopo l’improvvisa morte di Karl, «colpito in circostanze misteriose da una pallottola nel 1984», il consolato tedesco aveva perquisito l’appartamento di Karl a Rio de Janeiro, confiscando tutta la documentazione relativa alla spedizione di Akakor. «In seguito, le casse con gli incartamenti furono oggetto di diversi tentativi di furto». Di punto in bianco, il console tedesco di Rio venne trasferito in Costa d’Avorio, con i documenti al seguito. Parte del materiale, infine, scomparve non appena giunse in Germania, dov’era arrivato su richiesta di Benno Brugger. Ma non tutto era perduto: «Quando Tatunca Nara avviò delle trattative con alti ufficiali bianchi per fermare lo sterminio indiscriminato degli indios, che prosegue tuttora indisturbato da parte delle autorità, ebbe modo di affidare alcuni scritti degli “dèi” a un vescovo cattolico». Si tratta di monsignor Giocondo Grotti. Dopo aver spedito i documenti in Vaticano, il prelato morì in uno strano incidente aereo, il 28 settembre 1971, durante il decollo dalla pista amazzonica di Sena Madureira, nello Stato dell’Acre, alla frontiera brasiliana con il Perù. Disgustato dai “barbari” bianchi, Tatunca Nara si dichiara orgoglioso delle sue origini: «Noi siamo uomini liberi, del Sole e della Luce. Non vogliamo gravare il nostro cuore del peso della loro fede errata e bugiarda».Con pazienza, conclude Vitagliano, il vecchio Tatunca Nara attende il ritorno degli “dèi”. O forse le “divinità”, tuttora nascoste negli impenetrabili recessi di Akakor, «attendono con pazienza che gli uomini tornino a loro stessi». In ogni caso, aggiunge il ricercatore su “Acam”, il Terzo Reich non fu il solo a interessarsi al mitico regno amazzonico. L’antica civiltà scomparsa, le cui colossali rovine sarebbero sepolte sotto le foreste del Sudamerica, è stato il sogno di numerosi avventurieri nel corso delle varie epoche. Già nel 1530 l’ufficiale di Pizarro, Francisco Orellana, favoleggiava di un reame pieno d’oro tra il Rio delle Amazzoni e il fiume Orinoco. La Chiesa ne sa qualcosa: «I gesuiti sono in possesso di antichi scritti di viaggio relativi a un’antica popolazione che dimora in una città maestosa nella giungla brasiliana». Un gruppo di sette uomini, guidato dal geografo americano Hamilton Rice, nel 1925 si spinse nella Sierra Parima, tra Venezuela e Brasile, alla scoperta di Ma-Noa, la capitale del leggendario El Dorado. Curiosamente, annota Vitagliano, il nome ricorda Manu, una delle 13 città costruite da Lhasa, detto il Sublime, che avrebbe regnato su Akakor 3.000 anni prima di Cristo.La documentazione più importante riguardo l’esistenza di scomparse civilizzazioni antecedenti a quelle conosciute – aggiunge sempre Vitagliano – proviene del colonnello britannico Percy Harrison Fawcett, cartografo della National Geographic Society. «In Sudamerica si dedicò alla consultazione del Manoscritto dei Bandeirantes, della prima metà del 1700», ora custodito al Museo dell’Indio a Rio de Janeiro. Il testo descrive l’esplorazione delle foreste amazzoniche da parte di un gruppo di venti uomini, e la loro clamorosa scoperta: una metropoli di pietra, ormai deserta, protetta da mura ciclopiche. Organizzata una spedizione del 1925 in Mato Grosso, Fawcett «si inoltrò con il figlio Jack lungo il Rio Araguaia, entrando in contatto con varie tribù di indios che conservavano nelle loro tradizioni il ricordo di una provenienza stellare». Proprio quando sembrava aver raggiunto «le vestigia di remote città illuminate da luci fredde», il cartografo inglese «scomparve misteriosamente, in estate, nell’alto Rio Xingu». Nel 1946 è la volta del connazionale Leonard Clark, che in un resoconto di viaggio (“I fiumi scendevano a Oriente”, edito nel 2000 da Tea), narra il ritrovamento di sei delle sette città dell’El Dorado nelle Ande Peruviane.Undici anni dopo, stimolato dai racconti del colonnello Fawcett, Antonio Filangieri ricalcò lo stesso itinerario e constatatò che molti luoghi collimavano. «Partì per un secondo viaggio, in modo da verificarne le scoperte archeologiche e raccogliere informazioni sulla sua scomparsa». Viaggio da cui però dovette desistere, come egli stesso riferisce, «per drammatici eventi sopraggiunti». Poco dopo, nel 1975, l’archeologo brasiliano Roldao Pires Brandao individuò una montagna tra il Brasile e il Venezuela, il Pico De La Neblina, attorno a cui – quattro anni dopo – scoprì tre piramidi di 150 metri, accanto a un complesso urbano nascosto dalla foresta. Ma la ricerca non è finita, aggiunge Vitagliano: ai giorni nostri, il ricercatore Marco Zagni si è assunto il compito di svelare l’esistenza di scomparse civiltà pre-incaiche. Zagni ha organizzato una spedizione in Perù, nelle zone di Pantiacolla, del fiume Pini Pini e di Pusharo, basandosi sulle testimonianze di una spedizione francese smarritasi nel 1979: in quella regione esisterebbero «indios di due metri», che vivono in mezzo a «strane formazioni piramidali, fotografate dal satellite LandSat», in un’area attraversata da una fitta rete di cavità sotterraneee, chiamate Soccabones. Ultime tracce del mitico Akakor?Anche gli archeologi, conclude Vitagliano, ormai sono propensi a riconoscere che – tra il 6.000 e il 4.000 avanti Cristo – sia fiorita una civiltà amazzonica, quella dei Mogulalas, formata da numerose città-Stato. Un dominio estremamente vasto, che si estendeva dal Venezuela alle Ande Peruviane. «Una conferma esoterica giunge anche dal libro di Leo e Viola Goldman, “I Misteri del Tempio” (Edizioni Synthesis, 1998)», che descrive «il cammino iniziatico di una donna nella città nascosta di Ibez, all’interno della montagna sacra del Roncador in Mato Grosso». Una montagna popolata da Maestri Divini che, «scampati alla distruzione di Atlantide con i Vimana», cioè le loro potenti astronavi, crearono le civiltà degli Inca, dei Maya e degli Atzechi. Una storia affascinante, ma costellata da troppe strane morti: non porta fortuna, a quanto pare, inoltrarsi in Amazzonia alla ricerca degli Splendenti, i Padri Celesti come Lhasa il Sublime. Chi erano, dunque, gli esseri “superiori” che, secondo Tatunca Nara (e il suo interlocutore tedesco, Karl Brugger, ucciso misteriosamente) avrebbero addirittura “importato” la vita sul pianeta Terra, trasportandola sin qui da pianeti sconosciuti, fino a dare origine alla stessa presenza dell’uomo?Nel 13.000 avanti Cristo, «brillanti navi dorate» raggiunsero le foreste lussureggianti del Sudamerica. Ne scesero «maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu». Avevano anche «sei dita alle mani e ai piedi», proprio come i Nephilim (giganti) di cui parla la Bibbia, il cui ultimo discendente, Golia, secondo il racconto biblico fu abbattuto dal mitico Davide. I personaggi comparsi in Amazzonia «dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni». Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: «Pietre “magiche” per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo». Fiabe? Chissà. In ogni caso, si tratta di storie pericolose: spesso sono costate la vita ai ricercatori che tentarono di approfondirle, capirle, svelarle (compreso un vescovo cattolico, monsignor Giocondo Grotti). E’ un vero e proprio cimitero – sconosciuto ai più – quello dei “cercatori” dell’altro Eldorado, l’ipotetica civiltà dei Figli delle Stelle che, in Amazzonia, avrebbero fondato imponenti città-Stato (sotterrannee) tra piramidi sepolte nella giungla, rivelando all’umanità la sua vera origine. Prima vittima di questa leggendaria scoperta: un giornalista tedesco, Karl Brugger, stabilitosi nel dopoguerra a Manaus.
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L’enigma Biglino e la rimozione cosciente della vera storia
«Oggi come non mai stiamo vivendo nella caverna platonica, dove gli uomini scambiano per reali le immagini che scorrono loro davanti». Oggi come non mai, infatti – scrive José Saramago – confondiamo la realtà con le ombre. Un blogger originale come Carlo Bertani invita i lettori a osservare il geroglifico scoperto in Egitto nel tempio di Abydos, XIX dinastia (dalle parti del 1300 avanti Cristo). «Che ve ne pare? Ci vedete qualcosa che assomiglia ad un elicottero, una nave (o sommergibile), un oggetto volante?». Invece, segnala Bertani, gli archeologi spiegano il fatto con «ripetute corrosioni, dovute allo scorrere del tempo». Certo, resta valido il paradosso della scimmia che scrive al computer: «Se lasciata picchiare sui tasti per un tempo uguale ad infinito, la scimmia – inesorabilmente – premendo i tasti casualmente, scriverà la Divina Commedia». E’ così che, secondo l’archeologia ufficiale, ad Abydos, «cancellando e riscrivendo» sarebbero saltati fuori l’elicottero, la nave e l’aereo? Tutti nella stessa tavoletta o porzione di muro? Non sarebbe più onesto affermare: non sappiamo cosa vollero dirci, gli egizi, con quel disegno? Bertani la chiama: rimozione cosciente. Ovvero: la scienza di oggi «s’ammanta con la stola della Nuova Religione Mondiale», che le impedisce di ammettere di non avere spiegazioni. Specie di fronte all’enigma dei testi antichi: come la sconcertante Bibbia, proposta – alla lettera – da Mauro Biglino.Di fronte alle esternazioni dell’esegeta torinese, scrive Bertani sul suo blog, si potrebbe liquidare il tutto come un fenomeno editoriale alla Dan Brown, specie se Biglino ponesse al centro dell’attenzione la sua persona. E invece il biblista italiano «non si pone come un “faro” di sapienza, e neppure instaura una sorta di “dissidio” con la Santa Sede, anche se – a dire il vero – Oltretevere non devono aver gradito l’idea che, proprio dalla Bibbia, Biglino abbia sottratto un elemento di una certa importanza, cioè Dio». L’autore, che ha alle spalle 19 traduzioni bibliche per le Edizioni San Paolo, sostiene proprio questa tesi: la Bibbia è un resoconto di “qualcosa” che avvenne fra il Caucaso e il Mediterraneo in epoche lontane, con la Mesopotamia come epicentro: il “qualcosa”, però, secondo Biglino, non ha nulla a che vedere con la creazione del mondo e nemmeno con la figura del Dio rappresentato dalla teologia monoteista. La storia, secondo Biglino, è un’altra: il termine “Elohim”, plurale, rappresenta esseri come Yahvè, «in possesso di una tecnologia superiore, i quali hanno instillato le basi della conoscenza scientifica (agricoltura, costruzioni) nei popoli che vivevano in quelle aree». Di più: «Essendo fatti “a nostra somiglianza”, questi esseri più evoluti si sono incrociati con la nostra razza», magari mediante l’ingegneria genetica, «inserendosi così come “catalizzatori” nell’evoluzione umana».D’altro canto, avverte Bertani, non dimentichiamo che gli antichi usavano translitterare la storia antica nel mito: il pantheon era popolato di dei che stavano sempre “in alto”, che potevano assumere le sembianze più strane fino ad accoppiarsi con gli umani, generando semidei. «Ne hanno avuta, di fantasia: ma era solo fantasia?». Bertani riconosce che l’esegesi di Biglino è «chiara e convincente», anche se a poterla controllare sono soltanto i traduttori dall’ebraico antico, dall’aramaico e dalle altre lingue mesopotamiche del tempo. E’ pur vero, per contro, che la filologia non ha mai contestato in modo sostanziale Biglino, che oltretutto circoscrive saggiamente la sua azione attorno al Codice Masoretico di Leningrado, cioè il “master” della Bibbia attuale, riscritta e vocalizzata solo nel medioevo, all’epoca di Carlomagno. Biglino poi «non asserisce che questi “dei” fossero extraterrestri, oppure appartenenti a precedenti civiltà terrestri: si limita a sottolineare le incongruenze che ci sono nella Bibbia, “sfiorando” anche il Mahabharata e l’Epopea di Gilgamesh, dove ci sono numerosi passi un poco inquietanti». In ogni caso, sottolinea Bertani: perché non assumere queste indicazioni come possibili indizi, molto seri, sulla vera storia dell’evoluzione umana così improvvisamente accelerata?Oggi, continua Bertani, il sapere scientifico è senz’altro più conosciuto e dibattuto rispetto alle lingue antiche: bastano certe scoperte archeologiche a suscitare sgomento. Ipotetico punto di partenza, per rileggere la preistoria, il 74.000 avanto Cristo, data in cui esplose il supervulcano di Toba, a Sumatra. Niente a che vedere col Vesuvio o l’Etna: «L’esplosione di Toba immise nell’atmosfera 3.000 chilometri cubici di materiale e la radiazione solare scomparve: la Terra (all’epoca, si era in piena glaciazione di Wurm) precipitò in un “inverno vulcanico” che durò alcuni anni». E dato che la popolazione terrestre era allora concentrata fra i due tropici, cioè nel raggio d’azione del supervulcano, fu duramente colpita. «I paleobiologi hanno stimato – dalla varianza del Dna umano – che si partì, in quel senso, quasi dagli inizi. Alcune teorie ipotizzano una “forbice” di sopravvissuti fra i 600 ed i 3.000, ma sono cifre ipotizzate e ricavate, come dicevamo, solo dalla scarsa varianza del Dna. I soli reperti archeologici non ci forniscono informazioni esaustive al riguardo». Finalmente, verso il 10.000 avanti Cristo, termina la glaciazione di Wurm: «Altro periodo di sconvolgimenti, il mare si alza di decine di metri in pochi secoli, fiumi immensi si generano dallo scioglimento dei ghiacci. Però, l’uomo può finalmente affacciarsi alla “finestra” del mondo. Sono, appena, 12.000 anni or sono. Qui, in qualche modo, s’innesta la trattazione di Biglino».Il testo biblico è datato fra il primo e il secondo millennio prima di Cristo, ma racconta vicende più antiche (tuttora, non c’è unità di vedute fra gli studiosi). «Passano 7.500 anni – un’inezia, se riferita ai tempi dell’evoluzione – e, intorno al 2.560 il faraone Khufu (Cheope) decide di farsi una bella tomba di famiglia, e fa costruire la nota piramide». In realtà la datazione è incerta: c’è chi calcola che le piramidi di Giza abbiano ben 20.000 anni. In ogni caso, «ancora oggi non si sa come la costruirono, nonostante mille teorie sullo spostamento dei massi». Craig Smith, un ingegnere statunitense che fece parte di una squadra incaricata di determinare i tempi e le modalità seguite per la costruzione della piramide di Cheope, confessò: «Le logistiche di costruzione di Giza sono impressionanti, se si pensa che gli antichi egizi non avevano a disposizione pulegge, ruote e accessori di ferro». Le dimensioni delle piramidi sono estremamente accurate, aggiunse Smiths, sottolineando che il sito «è stato livellato con un errore di meno di un centimetro su una base di oltre cinque ettari: è paragonabile all’accuratezza dei moderni metodi edilizi e al livellamento al laser». In altre parole: «E’ sbalorditivo: con i loro “attrezzi rudimentali”, i costruttori di piramidi dell’antico Egitto furono accurati quasi quanto lo siamo noi con la tecnologia del XX secolo».Si aggiunga che, nei siti di estrazione dei massi, non è stato rilevato nessun utensile di rame, il metallo più duro conosciuto all’epoca. «Inoltre – osserva Bertani – i massi delle piramidi avevano un peso compreso fra le 2,5 e le 80 tonnellate: li trasportavano su barche di papiro? Auguri». Come credere alla storia degli schiavi che trascinando 80 tonnellate su un piano inclinato inumidito con l’acqua? E tutto questo, aggiunge Bertani, l’avrebbe fatto un popolo che non conosceva la ruota, applicata all’edilizia? E questo è niente, se uno fa un salto al museo di Baghdad: vi scopre infatti «una rudimentale batteria». Non certo al fluoruro di litio, ma al ferro-rame: «Non conoscevano ancora lo zinco, figuriamoci il litio». Eppure, il vaso custodito nella capitale irachena «contiene proprio i due metalli, separati da uno strato di catrame». L’elettrolita? «Un acido qualunque, succo di limone oppure aceto, vino». In pratica, «è un’edizione arcaica della nota pila di Volta, che utilizzò il rame e lo zinco». Chi la costruì, e perché? «Nessuno lo sa». Una cella elettrolitica così fatta, spiega Bertani, poteva fornire una tensione di 0,4 volt. Ma magari, collegandole in serie, quelle celle potevano raggiungere tensioni più elevate. Di che epoca è, l’aggeggio? Pare risalga a due secoli prima di Cristo. «Ovviamente gli archeologi “ufficiali” si sono sperticati nel dire che “forse” era “solo” uno strumento per stendere, per via elettrolitica, un sottile strato d’oro su altri metalli». Troppo impegnativo, ammettere che i costruttori «conoscevano le tecniche galvaniche, che includono – en passant – una conoscenza approfondita dell’elettrologia, e della chimica».La galvanotecnica è complessa: si usano per lo più i sali cianidrici dei metalli che si vogliono usare per ricoprire. I proto-scienziati mesopotanici mettevano l’oro a bagno in un impasto con le mandorle amare? «Era un mondo che conosceva la tecnologia? O forse la ricordava? O l’aveva vista, o ricevuta, in dono da qualcuno?». Già, ma quale mondo? Le conoscenze, a quell’epoca, non erano omogenee, sottolinea Bertani: basti pensare che, quando i romani conquistarono la pianura padana e le valli circostanti (II-I secolo a.C.), in val Camonica incontrarono popolazioni che ancora si dedicavano alle pitture e sculture rupestri, come nel Mesolitico. «Una differenza abissale: le pitture rupestri incontrarono un mondo che già aveva creato strade, ponti, acquedotti… che già possedeva un corpus giuridico, che si governava grazie al Senato e… stava per sperimentare la guerra civile!». Mentre i romani si dedicavano alla conquista del mondo allora conosciuto, in un’isola del Mediterraneo – Cicerone dice la Sicilia, altri Rodi, ma non ha importanza: erano tutti greci – qualcuno costruiva ed esportava sofisticati orologi astronomici, come non ne sarebbero più stati costruiti per almeno 1.500 anni».Una di queste macchine, racconta Bertani, è stata ritrovata su una nave greca naufragata presso l’isola di Anticitera, vicino a Creta, nel 1900. Sulle prime non fecero caso al ritrovamento, incrostato dai sedimenti organici marini: poi però qualcuno “drizzò le antenne”. «Si cominciò a capire che era un meccanismo complesso, ma solo pochi anni or sono, grazie ad una sofisticata tecnica di scansioni ai raggi X ad alta risoluzione, i ricercatori sono riusciti a ricostruirla». Si tratta di un sofisticato orologio astronomico, azionato a manovella, che misura il moto del Sole, della Luna e dei cinque pianeti all’epoca conosciuti, ma non solo: fornisce le fasi lunari, le eclissi e persino le date delle Olimpiadi. Più che le conoscenze astronomiche dei greci, spiega Bertani, a sorprendere è la finezza realizzativa: decine di minuscoli ingranaggi di rame non possono esser stati fabbricati senza l’impiego di macchinari di precisione. Quell’orologio astronomico, non a caso, è considerato «la prima “espressione” di una macchina di calcolo automatico, precedente di 18 secoli a quelle di Pascal e di Liebnitz: dunque, il “capostipite” dei computer». L’Europa medievale conobbe diversi orologi astronomici, ma nessuno di dimensioni così ridotte.Sempre loro, i greci, «compaiono cose straordinarie, realizzazioni poco credibili considerando la tecnologia dell’epoca». Così, dopo la leggendaria “cavalcata” di Alessandro Magno in Oriente, alla sua morte tutto il bacino orientale del Mediterraneo è dominato dai suoi luogotenenti. Tolomeo Sotere “eredita” l’Egitto, dove regna come Tolomeo I. E’ il fondatore della famosa biblioteca di Alessandria, «che non era solo un ammasso di libri, bensì un centro del sapere in tutti i campi, tecnologia compresa: una sorta di campus universitario ante litteram». Nel 300 avanti Cristo, sempte ad Alessandria, Tolomeo decide di costruire un faro. «La navigazione degli egizi era poca cosa: le uniche notizie certe sono che si recavano nella terra dei fenici (odierno Libano) per importare legname, soprattutto per costruire navi: una navigazione costiera». Ma dall’avvento dei greci, probabilmente, le rotte cambiarono: e così, continua Bertani, quello di Tolomeo non era un faro qualsiasi, ma una torre alta 134 metri (dimensione accertata solo nel 2006, dopo anni di studi e comparazioni). Altro aspetto sbalorditivo: il Faro di Alessandria, nato fra il 300 ed il 280 avanti Cristo, durò fino al 1303 o 1323, quando si verificarono due tremendi terremoti. «Restò in servizio per 16 secoli! 1.600 anni!». Sedici lunghissimi secoli, «nei quali sfidò le intemperie, i venti, le tempeste e i terremoti».L’immagine di quel faro, ricorda Bertani, fu coniata sui sesterzi di Traiano. E la sua luce era visibile a 48 chilometri dalla costa, cioè dalla massima distanza che la curvatura dell’orizzonte terrestre permetteva. Lo afferma Giuseppe Flavio, storico e matematico romano d’origine giudaica. Probabilmente, quel maxi-faro «consentiva di tenere la rotta verso il mare aperto, verso Creta (distante 300 miglia nautiche) e la Grecia». Ma allora, osserva Bertani, «dobbiamo ipotizzare che i greci possedessero degli strumenti di navigazione assai avanzati, non la sola conoscenza del firmamento: la bussola era già nota ai cinesi… di più, non è possibile ipotizzare». Collegamenti e suggestioni? Niente di così assurdo, sostiene lo stesso Biglino, che ricorda che il nome di una delle dodici tribù ebraiche – Dan – è associato a una flotta. L’Iliade chiama “danai” i greci, e un’antica narrazione li associa all’Egitto, da cui si sarebbero poi allontanati – via mare, appunto – proprio verso Creta, dove una statuetta sembra rievocare quella curiosa concatenazione: Medio Oriente, Egitto, Egeo.Bertani si sofferma intanto sull’imponenza del Faro di Alessandria, di oltre duemila anni più “anziano” del modernissimo grattacielo Seagram, appena più alto (156 metri) ma costruito solo nel 1958 a New York. Il confronto «rende bene l’idea delle cubature e delle altezze del Faro di Alessandria». Qualcuno sostiene che, nella realizzazione, furono usate anche strutture in ferro, «ma non v’è certezza: i resti del faro sono ancora lì, sott’acqua». Resistette per 16 secoli, senza avere neppure la base d’appoggio di una piramide. «Alto come un moderno grattacielo: costruito con pietre squadrate e malta?». Fu una realtà che moltissimi romani videro con i propri occhi, fa notare Bartani, ma nessuno pensò di replicarlo sulle coste italiane. «Eppure, i romani furono grandi costruttori di strade, acquedotti, ponti, terme, templi». Ma non costruirono mai, per le basi della flotta (Miseno, Ostia) fari che potessero lontanamente ricordare il mastodonte alessandrino. Perché? La verità, conclude Bertani, è che sono tanti i quesiti ai quali non sappiamo rispondere. E se la scienza sembra reticente, o in imbarazzo, è perché ha rappresentato se stessa come fonte di risposte, smettendo di accogliere vere domande, sul nostro passato.«Si tratta di capire se la scienza, oggi, è in grado di capire qualcosa di più sulle nostre origini, qualcosa che – nel lungo periodo – potrebbe anche mutare il nostro modo di pensare, l’approccio stesso all’esistenza o alla coscienza del nostro essere», riflette Bertani. «In realtà, ciò che va per la maggiore è la “rimozione cosciente” di ciò che non ci aggrada, c’infastidisce, di qualcosa che cozza violentemente contro il nostro “laissez faire”, le nostre piccole sicurezze». Accade in ogni campo. Una banca collassa? Rimozione del problema: si crea una “bad company”, e il sistema è salvo. Dalla finanza alle auto: «Le emissioni dei diesel sono fuori dal range previsto? Si fabbrica una bella centralina elettronica che “non veda” le imperfezioni: è storia dei giorni nostri». Il cambiamento climatico? Si oscilla tra catastrofismo e fake news. Risultato: sempre lo stesso. Rimozione. Conseguenza: nessuno risolve il problema. «Cercare di capire, con la propria testa? Non serve: è troppo faticoso e poco redditizio: quel che conta è ottenere appoggi, seguito, oppure demonizzare l’avversario, ridurlo ad un minus habens per la sua vita privata, per le mille pecche che – cercando bene – si trovano nella vita di chiunque». Neppure l’archeologia, aggiunge Bertani, è scevra da questa mistificazione: «Ciò che non si riesce a spiegare è dovuto ad eventi “casuali”, a “fake news”, ad imbrogli».La scienza? E’ diventata la nuova religione. «Per questo, ha preferito la “turris eburnea” alla verifica precisa dei fatti, allo studio coerente degli eventi, allo sperimentalismo come fonte di prove». Non è solo una questione di denaro, di convenienze e di carriere: «Quando sono a congresso, i grandi scienziati ritengo che si sentano come un consesso di semidei, assisi appena un po’ sotto la vetta del monte Olimpo», scrive Bertani. Da qui in poi, ecco «la discesa ai mille “cedimenti” al dio denaro et similia: appunto, ad una vita da semidei, come il rango loro compete». E Biglino, dunque, che smentisce che la Bibbia descriva la creazione “divina” del mondo? «Io non so se un certo verbo, scritto in lingua ebraica antica, possa essere più correttamente tradotto come “fare” – ossia creare da qualcosa, come fa un artista – oppure che sia da intendere come “creare” e basta, dal nulla», specifica Bertani, che egeseta e filologo non è. Però, aggiunge, «questa persona» (Biglino) «si fa sentire sempre con misura, e con un aplomb più torinese che britannico». Morale: «A mio avviso meriterebbe più fiducia e ascolto, se questo fosse un posto dove la gente viene ascoltata per quel che dice o scrive, e non per schieramenti o amicizie». In fin dei conti, chiosa Bertani, trattando con sufficienza le voci come quella di Biglino «perdiamo di vista una cosuccia da nulla: la verità».«Oggi come non mai stiamo vivendo nella caverna platonica, dove gli uomini scambiano per reali le immagini che scorrono loro davanti». Oggi come non mai, infatti – scrive José Saramago – confondiamo la realtà con le ombre. Un blogger originale come Carlo Bertani invita i lettori a osservare il geroglifico scoperto in Egitto nel tempio di Abydos, XIX dinastia (dalle parti del 1300 avanti Cristo). «Che ve ne pare? Ci vedete qualcosa che assomiglia ad un elicottero, una nave (o sommergibile), un oggetto volante?». Invece, segnala Bertani, gli archeologi spiegano il fatto con «ripetute corrosioni, dovute allo scorrere del tempo». Certo, resta valido il paradosso della scimmia che scrive al computer: «Se lasciata picchiare sui tasti per un tempo uguale ad infinito, la scimmia – inesorabilmente – premendo i tasti casualmente, scriverà la Divina Commedia». E’ così che, secondo l’archeologia ufficiale, ad Abydos, «cancellando e riscrivendo» sarebbero saltati fuori l’elicottero, la nave e l’aereo? Tutti nella stessa tavoletta o porzione di muro? Non sarebbe più onesto affermare: non sappiamo cosa vollero dirci, gli egizi, con quel disegno? Bertani la chiama: rimozione cosciente. Ovvero: la scienza di oggi «s’ammanta con la stola della Nuova Religione Mondiale», che le impedisce di ammettere di non avere spiegazioni. Specie di fronte all’enigma dei testi antichi: come la sconcertante Bibbia, proposta – alla lettera – da Mauro Biglino.
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L’inganno della Croce: storia di una religione “inventata”
Si legge questo libro (“L’inganno della Croce”, di Laura Fezia) e ci si chiede: come non concordare? O, quanto meno, come non cominciare a dubitare seriamente? I contenuti sono accurati, frutto di una ricerca che rispetta le regole di quella scienza che si definisce storiografia: tecnica di composizione di opere storiche, fondata sull’interpretazione critica e sulla rielaborazione scientifico-letteraria dei fatti. Questo libro affronta e narra una serie di vicende che della storia hanno fatto scempio; una successione di atti, decisioni, affermazioni, imposizioni che nulla hanno avuto – e hanno – a che vedere con il desiderio di verità così pomposamente proclamato. L’autrice inizia a ripercorrere qui – e promette di proseguire – la nascita e l’affermazione di una istituzione che si perpetua con lo scopo precipuo di nutrire se stessa, il suo potere, la sua ricchezza, fondandoli in modo pretestuoso su basi che di storico hanno poco o nulla. La falsità creata e posta come base per la creazione di quello che appare come il più duraturo ed efficace sistema di potere mai elaborato e imposto: santaromanachiesa, come la definisce Laura Fezia.Bene fa l’autrice a ricordare che il cardinale Paul Marcinkus, braccio destro di Giovanni Paolo II, per rispondere a una domanda sulla sua disinvolta gestione, affermò candidamente: «La Chiesa non si può mandare avanti con le Avemarie!». Evviva la sincerità! Ma noi ci chiediamo: la Chiesa non dovrebbe essere la prima ad affidarsi in via esclusiva alla Provvidenza. A quella stessa provvidenza che viene spesso ricordata ai poveri e ai sofferenti per far sì che vivano nella speranza di un paradiso in cui trascorreranno la loro eternità con quel dio che la Chiesa stessa ha inventato? Perché i poveri e i sofferenti devono supplire con le Avemarie mentre la Chiesa provvede molto più opportunamente ed efficacemente a sostentare se stessa con la ricchezza? L’autrice evidenzia chiaramente che qualcosa non torna: «Questa non è che una delle contraddizioni talmente evidenti che dovrebbero saltare all’occhio di chiunque, ma i cattolici praticanti e convinti, indottrinati da un’abile, martellante propaganda subliminale, oggi come un tempo preferiscono fingere di non vedere e non sapere, ostinandosi a identificare fede e Chiesa».Il dominio sulle coscienze nasce da invenzioni che in una sorta di fabula vengono congegnate e concatenate le une alle altre, appunto come anelli di una catena che imprigiona inesorabilmente chi non vuole, o spesso non può, pensare e agire in conformità a quella autonomia che la nostra struttura intellettuale (presunto dono del presunto dio) consente o consentirebbe, qualora la si volesse esercitare. Le falsità sono tante e Laura Fezia le riporta, evidenzia e sottolinea, con quella determinazione ed efficace capacità di penetrazione analitica che le riconosciamo da sempre. Ci ricorda ad esempio che «di certo, gli evangelisti che ci presenta l’agiografia non sono mai esistiti. L’esigenza di attribuire gli scritti del Nuovo Testamento ad autori precisi, nacque dopo la metà del II secolo, per conferire loro maggiore attendibilità: si andarono allora a pescare dei nomi tra quelli presenti nelle lettere di Paolo e nei Vangeli, si fabbricarono dei falsi, affermando, per esempio, che il Matteo e il Giovanni che erano stati testimoni oculari della vita e della morte di Gesù ne avevano poi compilato personalmente la storia».Tra le tante altre “bufale” – un temine che l’autrice usa nella sua sincera ed efficacissima schiettezza – contenute nei vangeli e che l’autrice esamina con grande capacità di indagine, c’è la prima, fondamento di tutte: «La Fabula Christi che fu inventata scientemente, da quella parte del popolo ebraico che, staccandosi dall’ossessione messianica, ormai chiaramente fallimentare fin dai tempi di Yahweh e Mosè, decise di cambiare registro e sperimentare un altro sistema per liberarsi dalla schiavitù». Una situazione che nasce da lontano, dalla straordinaria “invenzione” del concetto di peccato originale che consentì alla Chiesa di «governare indisturbata le coscienze delle sue pecorelle, sempre più prigioniere di un recinto eretto in maniera tanto astuta da renderle grate al pastore e inconsapevoli della loro schiavitù». Una disamina storica attenta, precisa, documentata ed efficace proprio perché non cede alla facile tentazione del sensazionalismo ma intende portare all’attenzione del lettore una situazione di fatto, evidente e per ciò stesso straordinariamente liberatoria. Questo libro infatti non è esclusivamente destrutturante, non ha lo scopo precipuo di abbattere, se non nella misura in cui questo è necessario, nella certezza che il nuovo può nascere solo dove le catene del vecchio vengono annullate.Dichiara esplicitamente Laura Fezia: «Lo scopo del mio lavoro non è quello di distruggere la fede, che rispetto almeno fino a quando non pretende di condizionare le mie libere scelte, ma di spezzare il perverso binomio che la lega indissolubilmente a un’istituzione che ne ha fatto una velenosa pozione con la quale intorpidire le coscienze». Chi rimane legato all’idea di un dio che è stato palesemente inventato si preclude la possibilità di accedere alla ipotetica e agognata conoscenza del “vero”. Con questa convinzione, con questo fine assolutamente positivo e liberatorio va letto – direi anche studiato e poi in seguito magari periodicamente consultato – questo libro, che è scritto per chi vuole avere elementi per riflettere in modo autonomo, nella convinzione che, in assenza e nella difficoltà di conseguire la verità assoluta, la riconquista della verità storica rende liberi almeno dalle palesi falsità su cui si basa la stessa struttura socio-culturale in cui vive l’Occidente.(Mauro Biglino, “L’inganno della Croce”, dal blog di Biglino del 24 settembre 2018. Il libro: Laura Fezia, “L’inganno della Croce. Come la Chiesa cattolica ha inventato se stessa attraverso menzogne, artifizi e falsi documenti”, UnoEditori – Libri Eretici, 262 pagine, euro 14,90).Si legge questo libro (“L’inganno della Croce”, di Laura Fezia) e ci si chiede: come non concordare? O, quanto meno, come non cominciare a dubitare seriamente? I contenuti sono accurati, frutto di una ricerca che rispetta le regole di quella scienza che si definisce storiografia: tecnica di composizione di opere storiche, fondata sull’interpretazione critica e sulla rielaborazione scientifico-letteraria dei fatti. Questo libro affronta e narra una serie di vicende che della storia hanno fatto scempio; una successione di atti, decisioni, affermazioni, imposizioni che nulla hanno avuto – e hanno – a che vedere con il desiderio di verità così pomposamente proclamato. L’autrice inizia a ripercorrere qui – e promette di proseguire – la nascita e l’affermazione di una istituzione che si perpetua con lo scopo precipuo di nutrire se stessa, il suo potere, la sua ricchezza, fondandoli in modo pretestuoso su basi che di storico hanno poco o nulla. La falsità creata e posta come base per la creazione di quello che appare come il più duraturo ed efficace sistema di potere mai elaborato e imposto: santaromanachiesa, come la definisce Laura Fezia.
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Laghi della morte: il Camerun “spiega” le Piaghe d’Egitto
«Ma io indurirò il cuore del faraone e moltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nel paese d’Egitto», fa dire a Yahvè il libro biblico dell’Esodo. «Il faraone non vi ascolterà e io porrò la mano contro l’Egitto con grandi castighi e farò così uscire dal paese d’Egitto le mie schiere, il mio popolo Israel». Allora, aggiunge l’Elohim con cui è in contatto Mosè, «gli egiziani sapranno che io sono il signore quando stenderò la mano contro l’Egitto e farò uscire di mezzo a loro gli israeliti». Detto fatto. Seguono, nell’ordine: la “tramutazione dell’acqua in sangue”, l’invasione di rane dai corsi d’acqua, la comparsa di nubi di zanzare e mosche. Eventi catastrofici per l’agricoltura, cui segue una disastrosa morìa del bestiame, mentre gravi ulcerazioni piagano il corpo di animali ed esseri umani. Il cielo è spaventosamente minaccioso, per via della “pioggia di fuoco e ghiaccio”, mentre il terreno viene invaso da un’altra specie infestante – le locuste – e la Terra precipita nelle tenebre. Infine, la tragedia: la morte dei primogeniti maschi. Fantasie apocalittiche? Linguaggio simbolico “da contestualizzare”, come spesso sostiene chi dice che la Bibbia – qua e là – vada interpretata in chiave allegorica? Non è detto. Ben tre laghi africani, infatti, danno vita a fenomeni pressoché identici a quelli descritti nell’Esodo.
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L’oro dei Sumeri: Sudafrica, una metropoli di 200.000 anni
Heine aveva un vantaggio unico: essersi reso conto del numero e della portata di quelle strane fondazioni di pietra. Il loro significato non era mai stato colto? «Quando Johan per primo mi ha fatto conoscere le antiche rovine di pietra dell’Africa Australe, non avevo idea delle incredibili scoperte che ne sarebbero seguite, in breve tempo», racconta Tellinger. «Le fotografie, i manufatti e le prove che abbiamo accumulato puntano senza dubbio ad una civiltà perduta e sconosciuta, visto che precede tutte le altre – non di poche centinaia d’anni, o di qualche migliaio d’anni… ma di molte migliaia d’anni». Queste scoperte, continua Tellinger, «sono così impressionanti che non saranno facilmente digerite dall’opinione ufficiale, dagli storici e dagli archeologi, come abbiamo già sperimentato». Secondo il ricercatore, «è necessario un completo mutamento di paradigmi, nel nostro modo di vedere la nostra storia umana». Autore, scienziato ed esploratore sudafricano, protagonista di campagne d’opinione contro le banche, Tellinger ha fondato un suo partito politico, Ubuntu, che sostiene la fornitura gratuita delle risorse a tutta la società. Ha presentato la sua scoperta, ribattezzata “Calendario di Adamo”, come un sito di straordinaria importanza archeologica, essendo al centro di una rete di cerchi di pietre presenti in tutta l’Africa meridionale, che presumibilmente «ha incanalato l’energia, in tempi antichi».L’area è importantissima, per un aspetto che colpisce subito: l’oro. «Le migliaia di antiche miniere d’oro, scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto e scavato per l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni», dice Tellinger. «E se questa è in realtà la culla del genere umano, forse stiamo osservando le attività della più antica civiltà sulla Terra». Se si compie una “ricognizione aerea” con Google Earth (secondo le coordinate fornite da Dan Eden) il risultato è stupefacente. Prima domanda: l’oro ha giocato un certo ruolo sulla densità di popolazione che un tempo viveva qui? Il sito si trova a circa 150 miglia da un ottimo porto, il cui commercio marittimo potrebbe avere contribuito a sostenere una popolazione così importante. Ma stiamo parlando di quasi 200.000 anni fa. Tanta attenzione per le miniere d’oro – di cui non ci risulta cha nostra civiltà conoscesse, in tempi così remoti, le tecniche estrattive – ricorda alcuni racconti dei Sumeri: narrano che gli Anunnaki (i signori della Terra, l’equivalente degli Elohim biblici) inizialmente fossero costretti a lavorare duramente. Ed è noto che proprio l’oro, in astronautica, è apprezzato per le sue proprietà isolanti: proteggerebbe anche dalle radiazioni nucleari. I lavoratori Anunnaki, narrano i Sumeri, a un certo punto si ribellarono al lavoro schiavistico. Da lì nacque l’idea di “fabbricare” geneticamente una specie intelligente, quella degli “Adamu”, che lavorasse nelle miniere al posto degli “dei”.Le singole rovine scoperte in Sudafrica sono in gran parte costituite da cerchi di pietre, per lo più sepolti sotto la sabbia e visibili soltanto dal satellite o dall’aereo. Alcuni, scrive Eden, sono riaffiorati di recente, quando il cambiamento climatico ha soffiato via la sabbia, rivelando le mura e le fondamenta. «Anche se mi vedo come una persona di mente aperta – dice Tellinger – devo ammettere che mi ci è voluto oltre un anno, per digerire la scoperta e per capire che abbiamo realmente a che fare con le strutture più antiche mai costruite dall’uomo sulla Terra». Tanto stupore deriva da un pregiudizio: «Ci hanno insegnato che nulla di significativo è mai venuto dal Sud Africa: ci è stato sempre detto che le civiltà più potenti sono apparse in Sumeria, in Egitto e in altri luoghi». Quanto all’Africa, la storia ufficiale sostiene che, fino all’insediamento del popolo Bantu, proveniente da nord a partire dal 1300 (medioevo europeo), questa parte del mondo era piena soltanto di cacciatori-raccoglitori, e che i cosiddetti Boscimani non hanno fornito alcun contributo importante alla tecnologia o alla civiltà. Quando i primi esploratori incontrarono queste rovine sudafricane, scrive Eden, davano per scontato che fossero recinti per il bestiame realizzati da tribù nomadi come quelle dei Bantu, si spostarono verso sud e si stabilirono in quei terrtitori intorno al XIII secolo dopo Cristo.«Non si conoscevano le testimonianze storiche di nessuna civiltà precedente, più antica, in grado di costituire una comunità così densamente popolata». Tuttavia, aggiunge Eden, ben pochi sforzi sono stati fatti per indagare il gigantesco sito ora emerso: la collocazione storica delle rovine non era ancora nota. «Negli ultimi 20 anni, persone come Cyril Hromnik, Richard Wade, Johan Heine e una manciata d’altri hanno scoperto che queste strutture in pietra non sono ciò che sembrano essere. In realtà questi sono ora ritenuti i resti di antichi templi e osservatori astronomici di antiche civiltà perdute, che risalgono a molte migliaia di anni fa». Le immense rovine circolari sono distribuite su una vasta area. Possono solo essere veramente apprezzate soltanto dal cielo, dall’aereo o attraverso immagini satellitari. «Molte di loro sono quasi completamente erose o sono state coperte dai movimenti del suolo fatti per l’agricoltura lungo il tempo. Alcune sono sopravvissute abbastanza bene da rivelare le loro grandi dimensioni, con alcuni muri originali in piedi, sino a quasi 2 metri d’altezza e oltre un metro di larghezza». Guardando la “metropoli” intera, diventa evidente che si trattava d’una comunità ben progettata, sviluppata da una civiltà evoluta. E poi, appunto, l’oro: il numero di antiche miniere suggerisce la ragione per cui la comunità si trovasse proprio in quella regione.E’ possibile rilevare anche l’esistenza di tracciati “stradali”, lunghi anche 100 miglia, che collegavano la comunità e l’agricoltura a terrazzamenti molto simili a quelli trovati negli insediamenti Inca in Perù. Ma, si domanda Eden, tutto questo come potrebbe esser stato realizzato dagli esseri umani 200.000 anni fa? «Trovare i resti di una grande comunità, con ben 200.000 persone che vivevano e lavoravano insieme, è stata una scoperta importante in sé. Ma la datazione del sito ha costituito un problema. La patina pesante sulle pareti di roccia – scrive Eden, citando il lavoro degli archeologi – suggeriva che le strutture dovessero essere molto vecchie, ma la scienza della datazione tramite la patina è solo in fase di sviluppo ed è ancora controversa». La datazione col carbonio 14, che rileva sostanze organiche come il legno bruciato, è alterata dalla possibilità che i reperti «possano aver subito incendi recenti dell’erba circostante, che sono comuni nella zona». La svolta è arrivata inaspettatamente, come spiega lo stesso Tellinger: è l’astronomia a rivelare la datazione del complesso, che riproduce una configurazione stellare visibile dalla Terra soltanto 200.000 anni fa.Johan Heine, racconta Tellinger, scoprì il “Calendario Adam” nel 2003, quasi per caso. Andava a cercare uno dei suoi piloti che si era schiantato con l’aereo sul bordo dell’altopiano. Accanto al luogo dello schianto, Johan notò un gruppo molto strano di grosse pietre, sporgenti dal terreno. Mentre portava in salvo il pilota ferito, Johan si rese conto che i monoliti erano allineati ai punti cardinali della Terra – nord, sud, est e ovest. «C’erano almeno tre monoliti allineati verso il sorgere del sole, ma sul lato ovest dei monoliti allineati c’era un misterioso buco nella terra – mancava qualcosa». Dopo mesi di misurazioni, Johan concluse che le rocce erano perfettamente allineate con il sorgere e il tramonto del sole: solstizi ed equinozi. E il misterioso buco nel terreno? Un giorno, l’esperto locale di piste a cavallo, Christo, spiegò a Johan che c’era una pietra dalla strana forma, che era stata rimossa dal luogo qualche tempo prima, e collocata vicino all’ingresso della riserva naturale. Dopo una lunga ricerca, Johan trovò la pietra (antropomorfica, di forma umanoide). «Era intatta e con orgoglio recava una targa, attaccata ad essa. Era stata utilizzata dalla Fondazione Blue Swallow per commemorare l’apertura della riserva Blue Swallow nel 1994. L’ironia è che era stata rimossa dal sito antico più importante trovato fino ad oggi, e misteriosamente era ritornata alla riserva».I primi calcoli dell’età del Calendario di Adamo sono stati effettuati in base al sorgere di Orione, costellazione conosciuta per le sue tre stelle luminose che formano la “cintura” del mitico cacciatore della Beozia. La Terra oscilla sul suo asse, e quindi le stelle e le costellazioni cambiano il loro angolo di presentazione nel cielo notturno, in base alla congiuntura. Questa rotazione, denominata “precessione degli equinozi”, completa il suo ciclo ogni 26.000 anni, all’incirca. «Se possiamo stabilire quando le tre stelle della Cintura di Orione erano posizionate in orizzontale contro l’orizzonte, possiamo stimare il momento in cui le tre pietre del Calendario erano in linea con queste stelle visibili». Il primo calcolo approssimativo fu di almeno 25.000 anni. Ma le nuove misurazioni, più precise, tendevano ad aumentare l’età del ritrovamento. Il calcolo successivo è stato compiuto da un esperto archeo-astronomo, «che vuole rimanere anonimo per paura», temendo di essete deriso dalla comunità accademica. Il suo calcolo, spuega Eden, si è basato sul sorgere di Orione e ha suggerito un’età di almeno 75.000 anni. Ma il conteggio più recente e più preciso, eseguito soltanto nel giugno del 2009, suggerisce un’età di almeno 160.000 anni, sulla base del sorgere apparente di Orione all’orizzonte – ma anche dell’erosione delle pietre costituite da un particolare minerale, la dolerite, trovare sul sito. Alcuni frammenti dei “marcatori” di pietra sono stati sbriciolati dall’erosione naturale: ricomposti, rivelano l’assenza di circa 3 centimetri di roccia (tanto basta, per calcolare – mediante sottrazione – la loro presunta età originaria).Chi ha edificato la metropoli? E perché? Sembrerebbe che gli esseri umani abbiano sempre apprezzato l’oro. È anche menzionato nella Bibbia, che descrive i fiumi del Gan, il “paradiso terrestre” situato nella regione geografica di Eden, tra la Mesopotamia e il Mar Caspio: «Il nome del primo [fiume] è Pishon; scorre intorno a tutto il paese di Havilah, dove c’è l’oro», si legge in Genesi 2:11. Il Sudafrica è conosciuto come il più grande paese produttore di oro al mondo. L’epicentro estrattivo è il Witwatersrand, cioè la stessa regione dove l’antica metropoli si trova. Nelle vicinanze di Johannesburg c’è poi un luogo chiamato “Egoli”, che significa “la città d’oro”. Sembra molto probabile, quindi, che l’antica metropoli sorgesse a causa della sua vicinanza con l’offerta d’oro più grande del pianeta. Ma perché gli antichi lavoravano così alacremente nelle miniere d’oro? Il prezioso metallo non si può mangiare, è troppo tenero da utilizzare per la produzione di utensili e non ha alcuna utilità pratica, se non per ricavarne ornamenti, anche se la sua qualità estetica non è superiore a quella di altri metalli pregiati, come il rame o l’argento. Perché mai l’oro divenne così prezioso, dunque? Perché proprio l’oro diventò così importante per i primi Homo Sapiens?Per cercare la risposta, scrive Dan Eden, dobbiamo esaminare il periodo preistorico in questione: com’erano, gli esseri umani, 160.000 anni fa? Come fece, il Sapiens, a distinguersi dai suoi antenati ominidi assai meno evoluti, come l’Homo Habilis e l’Homo Erectus? Gli scienziati, scrive Eden, non hanno ancora capito perché apparve, improvvisamente, quel nuovo tipo umano. Non sanno in che modo quel cambiamento avvenne. Attualmente, infatti, siamo soltanto in grado di rintracciare i nostri geni risalendo fino ad un’unica donna, che paleontologi e genetisti chiamano Eva Mitocondriale. Quell’Eva primigenia, denominata “mt-Mrca”, è definita come il nostro antenato “matrilineare” più recente. Tramandato da madre a figlio, tutto il Dna mitocondriale (“mt-Dna”) in ogni persona vivente è derivato da quell’individuo di sesso femminile. L’Eva Mitocondriale è la controparte femminile di “Adamo Y-cromosomico”, l’antenato comune “patrilineare” più recente. Gli studiosi ritengono che la Eva Mitocondriale sia vissuta tra 150.000 a 250.000 anni fa, probabilmente in Africa Orientale, attorno alla Tanzania. Si ipotizza che vivesse in una popolazione di 4-5.000 esemplari, tutte femmine, in grado di produrre prole in un dato momento.«Se altre femmine avevano prole con cambiamenti evolutivi del loro Dna, non abbiamo alcuna registrazione della loro sopravvivenza», scrive Eden. «Sembra che siamo tutti discendenti di questa femmina umana». Lei, Eva Mitocondriale, sarebbe stata «pressoché contemporanea degli esseri umani i cui fossili sono stati rinvenuti in Etiopia, nei pressi del fiume Omo e di Hertho». Si pensa che l’Eva Mitocondriale sia vissuta «molto prima dell’emigrazione dall’Africa, che potrebbe essersi verificata tra 60.000 e 95.000 anni fa». La regione africana dove si può trovare il massimo livello di diversità mitocondriale, aggiunge Eden, è la stessa in cui gli antropologi ipotizzano che la divisione più antica della popolazione umana abbia iniziato a verificarsi. E l’antica metropoli sudafricana si trova proprio in quest’ultima regione, «che corrisponde anche al periodo stimato in cui le mutazioni genetiche improvvisamente accaddero», per dare origine al Sapiens. Coincidenze? La stessa storia dei Sumeri descrive l’antica metropoli e i suoi abitanti. «Sarò onesto con voi», premette Eden: «Questa parte successiva della storia è difficile da scrivere. È così sconvolgente che la persona media non ci vuole credere. Se siete come me, vi consiglio di fare la ricerca voi stessi, e di prendervi del tempo per permettere ai fatti di stabilirsi nella vostra mente».Riassume Eden: ci hanno spesso fatto credere che la nostra storia conosciuta cominci con gli egizi, le piramidi e i faraoni, le cui dinastie più antiche risalgono a poco più che 5.000 anni fa, precisamente nel 3.200 avanti Cristo. Ma la civiltà mesopotamica dei Sumeri, considerata la prima a costruire città, risale ad almeno mille anni prima. «Abbiamo tradotto molte delle loro tavolette, scritte in caratteri cuneiformi e in scritture precedenti, in modo da sapere parecchio sulla loro storia e sulle loro leggende». Viene da lì il primo sigillo che raffigura la narrazione del “Grande Diluvio”, che annienta l’umanità. Molte leggende sumere, riconosce Eden, sembrano aver ispirato la stessa Genesi, assai più recente. Come la Genesi, la narrazione sumerica contenuta nell’Atrahasis racconta la comparsa degli esseri umani moderni, originati «non da un “Dio d’amore”, ma da esseri provenienti da un altro pianeta, che avevano bisogno di “lavoratori schiavi”, per aiutarli a lavorare nelle miniere d’oro». Quel metallo, sempre secondo i Sumeri, era indispensabile per le «spedizioni extra-planetarie» di quei misteriosi signori, gli Anunnaki. La versione a noi nota dell’Atrahasis, aggiunge Eden, proviene da una stesura babilonese più recente, che risale al 1.700 avanti Cristo. La storia inizia presentando gli “dèi”, esseri provenienti da un pianeta chiamato Nibiru, che scavano fossati e miniere per l’oro, come fossero una squadra minatori. L’Homo Sapiens non esistevano ancora, la Terra era abitata soltanto da ominidi primitivi.Sempre secondo la narrazione babilonese ispirata all’originario racconto dei Sumeri, c’erano due gruppi distinti di “divinità”: i lavoratori e la classe dirigente, i comandanti. Gli “dèi lavoratori”, fabbricanti di infrastrutture e impianti minerari, dopo migliaia d’anni si ribellarono, data l’eccessiva mole di lavoro. «Gli dèi dovevano scavare i canali», scrive l’Atrahasis. «Dovevano tenere puliti i canali, le arterie vitali della terra». Addirittura, «gli dèi scavarono il letto del fiume Tigri, e poi hanno fatto quello dell’Eufrate». Dopo 3.600 anni di questo lavoro, gli “dèi” finalmente cominciarono a lamentarsi. Decisero di scendere in sciopero, bruciando i loro strumenti e circondando la “dimora” del dio principale, Enlil (il suo “tempio”). Il ministro di Enlil, Nusku, scosse Enlil dal letto e l’avvisò che la folla inferocita stava là fuori. Enlil ne rimase spaventato. Il suo volto è descritto «olivastro come una tamerice». Il ministrò Nusku consigliò Enlil di chiamare gli altri grandi “dèi”, soprattutto Anu (“dio” del cielo) ed Enki (il “dio” intelligente delle acque dolci). Anu consigliò ad Enlil di scoprire chi fosse il capo della ribellione. Spedirono Nusku in avanscoperta per chiedere alla folla delle “divinità” chi fosse il loro leader. E la folla rispose: «Ciascuno di noi dèi vi ha dichiarato guerra!».Constatato che il lavoro degli “dèi” di classe inferiore «era troppo difficile», i capi decisero di sacrificare uno dei ribelli per il bene di tutti: avrebbero preso un solo “dio”, l’avrebbero ucciso e ne avrebbero ricavato il genere umano, mescolando la carne e il sangue del “dio” con l’argilla. Scrive sempre l’Atrahasis nella versione babilonese: «Belit-ili, la dea del grembo materno, è presente». Il nome ricorda – in modo impressionante – quello di Lilith, mitica femmina e “madre primigenia” un tempo presente nella stessa Bibbia, e poi rimossa. «Lasciate che la dea del grembo materno crei la sua prole – aggiunge l’Atrahasis – e lasciate che l’uomo sopporti il carico degli dei!». Dopo che Enki li istruì sui rituali di purificazione per il primo, settimo e quindicesimo giorno d’ogni mese, gli “dèi” uccisero Geshtu-e, «un dio che aveva l’intelligenza» (il suo nome significa “orecchio” o “saggezza”) e, di fatto, “fabbricarono” l’attuale l’umanità impastando il suo sangue con della creta. Dopo che la “dea della nascita” ebbe mescolato l’argilla, tutti gli “dèi” si raccolsero intorno e, letteralmente, sputarono sul nascituro. Poi Enki e la “dea dell’utero” presero l’argilla e la portarono nella “stanza del destino”, dove si riunirono tutte le “dee del grembo materno”. Continua l’Atrahasis: «Egli [Enki] calpestò l’argilla in presenza di lei; lei continuava a recitare un incantesimo, perché Enki, soggiornando in sua presenza, l’aveva obbligata a recitarlo. Quando ebbe finito il suo incantesimo, estrasse quattordici pezzi d’argilla e mise sette pezzi a destra, sette a sinistra. Tra di essi depose un mattone di fango».La “creazione dell’uomo”, scrive Dan Eden, sembra dunque descritta come una specie di clonazione, che ricorda l’odierna fecondazione in vitro. «Il risultato fu un ibrido, o “umano evoluto”, con maggiore intelligenza, che potesse svolgere le funzioni fisiche degli “dèi lavoratori” e anche prendersi cura delle esigenze di tutti gli “dèi”». In altri testi, poi, ci viene detto che la “spedizione” nella regione mineraria fu originata dalla necessità di estrarre grandi quantità di oro, destinate ad essere spedite “fuori del pianeta”. Quella comunità stanziatasi in Sud Africa aveva un nome proprio: era chiamata Abzu. Visto che questi “eventi” sembrano coincidere con le date della Eva Mitocondriale, vale a dire dal 150.000 al 250.000 avanti Cristo, alcuni ricercatori – conclude Eden – sospettano che i “miti dell’origine” della tradizione sumera possano essere basati su precisi avvenimenti storici. Consonanze, analogie: «Secondo gli stessi testi, una volta conclusa la spedizione mineraria, fu deciso che la popolazione umana dovrebbe essere lasciata perire in un diluvio che era stato previsto dal astronomi degli “dèi”. A quanto pare, il passaggio ciclico del pianeta natale degli “dèi”, Nibiru, stava per portarlo abbastanza vicino all’orbita della Terra», e la gravità dell’evento astronomico «avrebbe provocato una risalita (marea) degli oceani», fino a inondare completamente la Terra, mettendo fine alla specie – ibrida – dell’Homo Sapiens, “fabbricato” con sangue “divino”, sputi e creta.Sempre secondo la narrazione mesopotamica, uno degli “dèi” sumeri aveva simpatia per un essere umano particolare, Zuisudra, e lo avvertì del pericolo imminente: gli consigliò di costruire una imbarcazione capace di cavalcare l’onda del diluvio. Questo, osserva Eden, divenne poi la base narrativa per la successiva storia del Noè biblico. Il cataclisma del diluvio fu un fatto veramente accaduto? «L’unica altra spiegazione è immaginare che le leggende sumere, che parlano della vita su altri pianeti e della clonazione umana, fossero straordinarie creazioni di fantascienza. Questo sarebbe di per sé sorprendente». Oggi però abbiamo la prova che la “mitica” città mineraria, Abzu, è reale. Sarebbe stata popolata dai Sapiens “fabbricati” dagli “dei” per rimpiazzarli nelle miniere d’oro. Dall’alto, scrutandola sorvolando il Sudafrica, appare come una megalopoli di dimensioni impressionanti. E secondo la datazione ricostruita dall’équipe archeologica di Tellinger, quella gigantesca “colonia” «esisteva nella stessa epoca dell’improvvisa evoluzione degli ominidi a Homo Sapiens». E’ sufficiente, quello che è stato scoperto? E’ abbastanza, conclude Eden, per darci da pensare un bel po’, su come e quando sia davvero comparso, l’uomo, sulla faccia della Terra.Sono sempre stati lì. Qualcuno li aveva già notati prima, ma nessuno riusciva a ricordare chi li avesse fatti, e perché? Fino a poco tempo fa, nessuno sapeva nemmeno quanti fossero. Ora sono dappertutto, a migliaia, a centinaia di migliaia. «E la storia che raccontano è la storia più importante dell’umanità, ma c’è chi potrebbe non essere pronto ad ascoltarla», scrive Dan Eden, presentando «qualcosa di straordinario» che è stato scoperto in una zona del Sudafrica, a circa 280 chilometri dalla costa, ad ovest del porto di Maputo (capitale del Mozambico). «Sono i resti d’una grande metropoli che misurava, secondo stime prudenti, circa 5.000 chilometri quadrati. Faceva parte di una comunità ancora più ampia, di circa 35.000 chilometri quadrati, che sembra essere stata costruita – siete pronti? – dal 160.000 al 200.000 avanti Cristo». Il perimetro della megalopoli, scrive Eden in un post ripreso da “La Crepa nel Muro”, si lo può intravedere attraverso Google Earth. La regione è remota, ma i “cerchi” presenti sul terreno non erano sfuggiti, in passato, agli agricoltori indigeni. «Nessuno però s’era mai preso la briga di informarsi su chi potrebbe averli fatti o quale età potessero avere». La situazione è cambiata quando se n’è occupato il ricercatore Michael Tellinger, in collaborazione con Johan Heine, un vigile del fuoco locale, nonché pilota, che – dal suo aereo – aveva osservato quelle rovine per anni, sorvolando la regione.
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Il Fenicio: quelli non erano Dei, i sacerdoti ci hanno mentito
L’inganno di cui siamo vittime non è una cosa moderna. Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ha scritto la sua “Praeparatio Evangelica”. Lui riprende gli studi di Filone di Biblos, il quale a sua volta aveva ripreso gli studi di un certo Sanchuniathon, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Siamo più o meno all’epoca della Guerra di Troia, cioè nel periodo in cui Israele, uscito dall’Egitto, stava conquistando la cosiddetta Terra Promessa, “promessa” da “Dio”. Ovvero: Dio l’onnisciente, l’onnipotente, promette la terra alla sua famiglia (non al popolo, perché non l’ha promessa agli ebrei: l’ha promessa alla famiglia di Giacobbe-Israele, che era una delle centinana di famiglie di ebrei). Sono passati 4.000 anni, dal momento della promessa, e se vogliono quella terra se la devono conquistare e mantenere con i carri armati, i missili, i muri, il filo spinato, le trincee. Quattromila anni: “promessa” di “Dio”. Che cavolo di dio è? Ma chi può pensare, anche solo per un attimo, che quella sia una promessa di Dio? Soltanto una ideologia che è basata sulla falsità. Attenzione: questo non vuol dire “antisemitismo”, vuol dire “anti-sionismo”, che sono due cose diverse (sono moltissimi gli ebrei anti-sionisti).Ma torniamo a Eusebio di Cesarea. Allora, Filone di Biblo, a cavallo tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, riprende gli studi questo Sanchuniathon, e sentite che cosa dice: «Nel corso dell’opera, Sanchunathon riconosce che le “divinità” non sono degli dèi celesti, bensì dei semplici mortali, maschi e femmine; non di costumi talmente incorrotti da dover essere accolti per la loro virtù o imitati per la loro saggezza, ma ricolmi di malvagità e di perversioni di ogni genere». Questa è una bella descrizione dello Yahvè biblico, per esempio. Ma poi, dice Eusebio di Cesarea: dopo avere fatto queste osservazioni, egli (Sanchuniathon) critica aspramente «gli scrittori vissuti nelle epoche successive a quando quei fatti avvenivano», per il fatto che – ascoltate bene – «in modo falso e arbitrario hanno interpretato in maniera allegorica, e fondandosi su spiegazioni e teorie fisiche, e perciò snaturandoli, i racconti riguardanti gli dèi». E aggiunge: «Ma i più recenti scrittori che si sono occupati di storia sacra hanno ripudiato i fatti avvenuti in principio. E dopo aver inventato allegorie e miti, che combinarono in modo tale da ricondurli a fenomeni cosmici, istituirono dei misteri e li avvolsero in una oscurità così densa che non era possibile vedere facilmente i fatti realmente avvenuti».Cioè, Filone di Biblo, tra primo e secondo secolo dopo Cristo, diceva che nel 1200 avanti Cristo c’era già chi aveva denunciato l’inganno, perpetrato dalle classi sacerdotali: che hanno preso dei racconti reali e li hanno trasformati in allegorie e miti – che è quello che ancora oggi continuano a volerci far credere. E ci sono appunto quelli che, ancora oggi, a sostegno di questo, ci raccontano: “No, ma questi sono miti, queste sono allegorie”. E non è mica finita: Filone scrive che Sanchunathon, «imbattutosi in certi libri» (che sono quelli, è scritto prima, di Toth), che erano stati fino ad allora «nascosti nei penetrali del tempio di Amon», si dedicò loro studio «per comprendere tutte quelle cose che non a tutti era dato conoscere». Alla fine, Sanchunathon «riuscì a realizzare il suo progetto e tolse di mezzo i miti e le allegorie in cui erano stati avvolti i tempi primitivi». In seguito, aggiunge Filone, «i sacerdoti che vissero dopo di lui vollero nascondere nuovamente la verità e ritornare al mito». Ed è quello che si sta facendo da millenni, continuamente. Quando c’è qualcuno che dice: “Guardate che forse quei racconti lì sono delle cronache vere, c’è sempre chi interviene e fa in modo di coprirli, trasformandoli in allegorie e miti, perché le cronache vere non si devono conoscere. Ci sono sempre quelli che continuano a “coprire”, perché non si conosca la reale concretezza di ciò che veniva detto all’inizio.In seguito – aggiunge sempre Eusebio, citando Filone – i sacerdoti che vissero dopo Sanchuniathon «vollero nascondere nuovamente la verità e ritornare al mito: da allora ebbero origine i Misteri, che ancora non erano stati introdotti» (e qui sta parlando dei culti misterici greci, eccetera). Poi aggiunge: «Traendo spunto da queste narrazioni, Esiodo e gli altri poeti composero le loro teogonie, gigantomachie e titanomachie, eccetera; portando in giro in ogni luogo queste narrazioni, riuscirono a soffocare la verità». Sembra che parli di noi: «I nostri orecchi, abituati fin dall’infanzia alle loro invenzioni e martellati ormai da tanti secoli da queste fantasie, custodiscono quasi come un deposito la materia favolosa trasmessa da queste favole, che essi hanno appreso così come ho già detto all’inizio». Ancora: «Rafforzate dal tempo, queste invenzioni fantastiche sono diventate un patrimonio di cui assai difficilmente ci si può disfare, tanto che la verità sembra una fantasticheria, mentre i racconti contraffatti sembrano avere tutti i caratteri della verità».Non è stupendo? E’ quello che viviamo noi, tutti i santi giorni. E’ stato scritto nel III secolo dopo Cristo sulla base di un testo del I-II secolo dopo Cristo, che a sua volta riprende un testo del 1200 avanti Cristo. Sembra scritto per noi: le fantasticherie hanno preso il posto della verità. E quando c’è qualcuno che vuole farla emergere, la verità, bisogna “segarlo”: la verità non deve essere conosciuta, perché la verità è quella che farebbe cadere i sistemi di potere. Perché la verità è molto semplice: ed è talmente semplice da essere immensamente più affascinante delle favole che ci hanno ricamato sopra. Uno studioso contemporaneo, il filologo Giovanni Semerano – molto importante ma scomodo, e quindi un po’ ostracizzato – citando sempre Eusebio di Cesarea, dice: «Abbiamo notizia dell’albero genealogico degli dèi. Primo fra tutti sarebbe stato Elyòn», che è quello citato nella Bibbia, «da cui sarebbe nato Baal Shemìn. Da Baal nasce El, che nel secondo millennio sarebbe divenuto il capo del Pantheon fenicio. Ai suoi figli, tra i quali Yahvè, El affida la cura di un popolo». E’ esattamente ciò che ci racconta la Bibbia, nel Deuteronomio. Cioè: ce lo raccontano tutti. Non dobbiamo far altro che fare finta che sia vero, ben sapendo che gli autori biblici non avevano certo tempo da perdere: perché avrebbero dovuto inventare fiabe? E se facciamo finta che sia vero, capiamo tutto. Ma è proprio questo che non deve avvenire.(Mauro Biglino, estratto della conferenza tenuta a Reggio Emilia il 30 giugno 2018, ripresa su YouTube. Già traduttore della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino ha reso popolare la traduzione letterale dell’Antico Testamento firmando saggi divulagativi di grande successo, pubblicati da UnoEditori e da Mondadori, nei quali presenta Yahvè e i suoi “colleghi” Elohim non come dèi, ma come misteriosi e potenti dominatori, improvvisamente giunti sulla Terra. Biglino rivela che nella Bibbia – presa alla lettera, nell’ebraico antico rimaneggiato dai Masoreti fino all’epoca di Carlomagno – non esiste traccia di alcun dio: non c’è metafisica né spiritualità. Non esistono neppure i concetti di creazione, eternità, onnipotenza. Gli “dèi” della Bibbia – tanti, corporei e non certo immortali – sarebbero la fotocopia dei futuri “theòi” greci, degli “dèi” romani e di tutte le “divinità” delle civiltà precedenti, a partire da quella sumera. Singolare la denuncia formulata, in questo senso, dall’antico sacerdote fenicio Sanchunathon già nel 1200 avanti Cristo, poi ripresa dallo storico greco Filone Erennio di Biblos e quindi da un autorevole “padre della Chiesa” come, appunto, Eusebio di Cesarea).L’inganno di cui siamo vittime non è una cosa moderna. Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ha scritto la sua “Praeparatio Evangelica”. Lui riprende gli studi di Filone di Biblos, il quale a sua volta aveva ripreso gli studi di un certo Sanchuniathon, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Siamo più o meno all’epoca della Guerra di Troia, cioè nel periodo in cui Israele, uscito dall’Egitto, stava conquistando la cosiddetta Terra Promessa, “promessa” da “Dio”. Ovvero: Dio l’onnisciente, l’onnipotente, promette la terra alla sua famiglia (non al popolo, perché non l’ha promessa agli ebrei: l’ha promessa alla famiglia di Giacobbe-Israele, che era una delle centinana di famiglie di ebrei). Sono passati 4.000 anni, dal momento della promessa, e se vogliono quella terra se la devono conquistare e mantenere con i carri armati, i missili, i muri, il filo spinato, le trincee. Quattromila anni: “promessa” di “Dio”. Che cavolo di dio è? Ma chi può pensare, anche solo per un attimo, che quella sia una promessa di Dio? Soltanto una ideologia che è basata sulla falsità. Attenzione: questo non vuol dire “antisemitismo”, vuol dire “anti-sionismo”, che sono due cose diverse (sono moltissimi gli ebrei anti-sionisti).
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Chi hanno fatto santo, al posto del vero Francesco d’Assisi?
Secondo il filologo Igor Sibaldi, il “patrono d’Italia” non si chiamava neppure Francesco, ma Giovanni: era di origine provenzale, e dall’appellativo “il francese” nacque poi il nome canonico del futuro “poverello di Assisi”. Nel saggio “San Francesco, le verità nascoste” (Melchisedek) Gian Marco Bragadin denuncia «l’ipocrita ricostruzione che lo ha trasformato nel più fedele e mansueto servitore della Chiesa, nel medioevo e oltre, fino ai giorni d’oggi». Un falso storico: «Moltissimi documenti, scritti, memorie su Francesco (e probabilmente anche su Chiara) sono stati dati alle fiamme per non propagare un ritratto non idoneo a farne un obbediente santo della Chiesa cattolica». E non a caso, rivela la storica medievale Chiara Mercuri, autrice di “Francesco d’Assisi, la storia negata” (Laterza), per la biografia ufficiale di Francesco, ovviamente postuma, fu incaricato Bonaventura da Bagnoregio: un frate erudito, ma che non aveva mai conosciuto Francesco. Venne così effettuata una vera e propria opera di demolizione, spiega Paolo Franceschetti, autore di un saggio (“Alla ricerca di Dio”) che traccia ponti spirituali tra le diverse religioni. Specialità di cui era un campione proprio Francesco d’Assisi: vicino ai Catari, ai Templari e ai Sufi. Al punto da raggiunge il Sultano, in Egitto, nel settembre del 1219.
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Proclamato: vi svelo il senso delle rivelazioni di Gustavo Rol
Gustavo Rol disse di aver scoperto una “tremenda legge” legata all’associazione tra il colore verde, il numero cinque e il calore. La parte più appariscente del “sapere del verde” è questa. Tutto il mondo che superficialmente definiamo esoterico non è altro che un’interpretazione raffinata delle leggi della natura, e non è niente di magico. Il “verde” rappresenta uno dei momenti della natura: l’essenza del suo ritorno. Quindi il “verde” è la modalità cromatica attraverso cui il divino ritorna, e dimostra di non morire. Dunque, per il mondo iniziatico, la primavera è il momento in cui si consuma questo evento, che è ciclico. Lì abbiamo un problema: a noi, sembra che questo evento non ci sia. Pensiamo di avere solo un inizio e poi una fine. Osserviamo l’ovvio, nella natura, senza nemmeno immaginare che, probabilmente, noi dovremmo essere una parte evolutiva della natura, meglio concretizzata di altre, e che verosimilmente anche noi abbiamo la possibilità di “avere il verde”. Quando siamo qui, il “verde” lo si intende come la percezione, l’essenza dell’energia vitale dentro di noi. Il “verde” lo si intende anche come modalità, attraverso la quale – sempre la natura – una volta “arrivata”, una volta “ritornata”, poi si esprime. E si esprime poi con il bianco, e quindi con il rosso: prima cioè con i fiori, che poi maturano e diventano frutti.Non è un caso che quel tricolore sia anche la bandiera italiana, che è stata voluta da un massone austriaco durante la dominazione asburgica del Lombardo-Veneto. Fondò a Milano un ordine massonico, all’interno del quale si decise che quella sarebbe stata la nostra bandiera. Il nostro tricolore è la quintessenza del sapere esoterico. E’ la nostra mancata interpretazione, di quella bandiera, a renderci così inetti, in Italia. Siamo un popolo da tenere dormiente, sempre. Perché, quando riesce a svegliarsi da solo per alcuni attimi, o viene svegliato, “sono cavoli”, in tutto il mondo. Questo lo sanno tutti, meno che noi. Questi tre colori – rosso, bianco e verde – sono i più importanti, nel mondo iniziatico. Gustavo Rol capisce cos’è questa cosa e si rende conto del potere del “verde”, che è il potere dell’immortalità. Restiamo però nei binari: non vorrei che pensassimo che noi stessi “torniamo” – non è così, non si ritorna: io, almeno, con questa mia faccia qui, non ritorno! C’è invece la possibilità che, a tornare, siano le note che noi suoniamo meglio. Ovvero: se queste note che noi suoniamo bene, in questa realtà, sono diventate un talento, e se questo talento – qui, noi in vita – ci ha permesso di esprimerci, allora questa cosa la natura (Dio) la recepisce, ed è facile che “ritorni”.Nel caso specifico di Rol, lui al “verde” accosta l’intervallo di quinta e il “calore”. Il “calore” è un’altra modalità, piuttosto simbolica, con cui definire un altro atto energetico reale. Nel mondo cattolico, il momento in cui il Cristo se ne va è uno dei momenti più importanti, perché – con lo Spirito Santo e i suoi “doni” – inonda i suoi aspostoli e trasferisce loro questa grandissima capacità di capire, sentire e sapere tutto. Quello è il “calore”. Poi Rol cita un altro passaggio, che è l’intervallo di quinta: nel mondo musicale, va dal do al sol (do-re-mi-fa-sol), e corrisponde a un altro momento spirituale. Quelli che Rol cita sono proprio tre momenti spirituali, che possiamo trasformare in colori. Lui cita il verde, poi cita il calore (che è il rosso, cioè lo Spirito Santo), e poi cita un intervallo (rimane solo un colore: il bianco). Trasformando queste informazioni in quei tre colori, forse riusciamo a muoverci meglio, in ciò che Rol ha detto. Quei tre colori possono essere trasposti in quella che è stata l’esperienza una persona, che sa che le virtù possono permetterle di essere una cosa diversa, ed essendo diversa di ottenere – qui – una realtà diversa. Il fine ultimo dell’interpretazione di se stessi, attraverso altre situazioni emozionali, permette a noi – quando abbiamo capacità di volere e di desiderare – di portare qui realtà che non esistono: ognuno può farsi la sua realtà.La realtà interpretativa, che Rol conosce, viene espressa anche quando è in mano, ad esempio, a Ildegarda di Bingen: quando le chiedono come faccia a “parlare con Dio”, fino a trasformare queste sue “chiacchierate” in visioni, lei spiega, ai legati pontifici: «Io vivo col verde, perché è l’essenza della mia vita e della creazione, essendo l’energia che crea, e questo si chiama “amore”: poi parlo con Dio, e lo faccio con un colore, che è il bianco (e quando “parlo col bianco” lo faccio in un luogo dove non c’è altezza, né lunghezza, né profondità, e quando finisco di parlare mi sento giovane)». Quindi lei dice che, con il “bianco”, già non è più qui. Poi dice che, «parlando con Dio», inizia a «capire cos’è il verde». Lo fa in un momento ben preciso della sua vita, quando ha una determinata età, ed è il momento in cui avviene la Pentecoste: viene inondata da questo “calore” particolare, che le conferisce i “doni pentecostali” – che sono 7. Gustavo Rol questa cosa la capisce, la sa. E la persegue per tutta la vita. Una volta capitala, si rende conto della potenza che ha in mano: si rende conto che l’interpretazione di queste “virtù” (o caratteristiche emozionali) conferisce a noi la grandissima possibilità di creare, oltre che di muoverci diversamente nello spazio.In fondo, Rol non fa niente di strano; semplicemente, si rende conto, anche lui, di un qualcosa che tutti i mondi religiosi amministrano, sapientemente, da millenni. Noi, adesso, non facciamo altro che scoprire l’acqua calda, credetemi. Il problema è che, nel frattempo, abbiamo dato talmente tanta importanza alla razionalità (cosa giustissima, peraltro), da dimenticare però tutti quei passaggi che fanno parte del mondo iniziatico – che non è che ti rigurgiti volentieri; eppure, mai come adesso, nella storia dell’umanità, c’è stata la possibilità di parlarne. Uno dei motivi per cui non se ne parla ancora come si dovrebbe è dovuto semplicemente al fatto che noi siamo distratti. Siamo molto distratti da una marea di informazioni, riconducibili anche a una tutta una serie di strategie conoscitive. Ma vi posso scrivere (col sangue: adesso) che non c’è stato nulla – né ci sarà nulla, in futuro – che non venga estrapolato da questo sapere, per poi essere “venduto” con un altro nome: sappiatelo. C’è solo questo. E con questo, tu puoi imparare tutto. Non c’è nulla che resti fuori da questo sapere: la Pnl, le “costellazioni familiari”, tutto. Sono tutte interpretazioni di una particella di questo sapere. E Rol lo sapeva benissimo.(Michele Proclamato, dichiarazioni rilasciate a Michele Stedile nella diretta in web-streaming su Skype “Domande e risposte” del 14 marzo 2018, pubblicata su YouTube. Studioso ed esperto di simbologia, Proclamato ha pubblicato studi spesso illuminanti, come i libri su Arcimboldo e Newton, Cartesio e Giordano Bruno, l’architettura “sottile” partendo da Vitruvio e la mistica medievale Ildegarda di Bingen).Gustavo Rol disse di aver scoperto una “tremenda legge” legata all’associazione tra il colore verde, il numero cinque e il calore. La parte più appariscente del “sapere del verde” è questa. Tutto il mondo che superficialmente definiamo esoterico non è altro che un’interpretazione raffinata delle leggi della natura, e non è niente di magico. Il “verde” rappresenta uno dei momenti della natura: l’essenza del suo ritorno. Quindi il “verde” è la modalità cromatica attraverso cui il divino ritorna, e dimostra di non morire. Dunque, per il mondo iniziatico, la primavera è il momento in cui si consuma questo evento, che è ciclico. Lì abbiamo un problema: a noi, sembra che questo evento non ci sia. Pensiamo di avere solo un inizio e poi una fine. Osserviamo l’ovvio, nella natura, senza nemmeno immaginare che, probabilmente, noi dovremmo essere una parte evolutiva della natura, meglio concretizzata di altre, e che verosimilmente anche noi abbiamo la possibilità di “avere il verde”. Quando siamo qui, il “verde” lo si intende come la percezione, l’essenza dell’energia vitale dentro di noi. Il “verde” lo si intende anche come modalità, attraverso la quale – sempre la natura – una volta “arrivata”, una volta “ritornata”, poi si esprime. E si esprime poi con il bianco, e quindi con il rosso: prima cioè con i fiori, che poi maturano e diventano frutti.
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Per chi suona la campana: ricordatevi di restare sottomessi
Vi invito a rileggere il significato del battesimo, soprattutto alla luce degli ultimi studi sulle proprietà dell’acqua di assumere forme differenti. Quello è veramente uno studio bellissimo, inaugurato da Masaru Emoto. Hanno visto come cambia, l’acqua, quando la si fa cristallizzare in condizioni ambientali particolari. Ora si sono fatti passi avanti. S’è visto che la molecola dell’acqua mantiene la sua struttura (chimicamente è sempre acqua) ma le molecole, sottoposte a sollecitazioni differenti, si aggregano e formano delle strutture differenti, con proprietà differenti e con capacità di avere memoria differente. Questo è un fatto che metterà in crisi tutto il fronte medico e anche quello farmacologico, perché viviamo ancora in un sistema dove ci si curia con il protocollo sanitario ospedaliero. Io penso proprio a questo, all’epigenetica, cioè alla capacità dei nostri geni di mutare, sulla base di sollecitazioni esterne, emotive. Ci penso anche a proposito del battesimo cristiano: ritengo il battesimo un momento nel quale vengono attivate delle memorie. Questo è indiscutibile – e non ho mai visto un bambino ridere, al suo battesimo. Ma questo ragionamento l’ho applicato soprattutto sul suono delle campane, che è uno degli aspetti più intriganti che si possono incontrare, quando si studiano le strumentazioni clericali: tutto fa pensare, infatti, che il suono delle campane possa indurre precise alterazioni, in noi.Perché suonavano le campane? Per avvisare che stava inziando la messa: non c’erano ancora gli orologi. Oggi, per sapere dove si trova la chiesa e quando comincia la messa ci basta consultare lo smartphone da 50 euro che abbiamo tutti in tasca: è uno strumento di prigionia, per questo costa così poco. Una volta, le campane servivano anche per gli scongiuri: per allontanare la grandine, per invocare la pioggia e interrompere la siccità (oggi invece basta premere il tasto di un Boeing per irrorare il cielo di alluminio e provocare pioggia o neve, caldo o freddo). Eppure le antiche campane suonano ancora: perché? Sapete, il suono delle campane – la possibilità di suonarle – viene ratificato ogni anno, a livello istituzionale: il clero cattolico è appositamente autorizzato dalla legge, a usare le campane delle chiese. Provate voi a prendete un tamburo: salire sul tetto di casa vostra e mettetevi a suonarlo ogni ora, e vedrete se non vi faranno smettere. Il suono delle campane, invece, è contrastabile legalmente solo nella misura in cui arreca disturbo, con un’emissione di decibel superiore a quella consentita, al punto da essere riconosciuto come fonte di inquinamento acustico. Viceversa, quel suono è inarrestabile. Perché allora le suonano ancora, le campane? La Chiesa non fa mai niente, a caso. C’è sotto qualcosa, no?Io ho fatto un’analisi partendo dall’epigenetica, la scienza che studia come i nostri geni possono cambiare, in tempi rapidissimi, in base alle condizioni ambientali che incontriamo. Cioè: quello che viviamo fa reagire i nostri geni in maniera differente, e trasmette queste informazioni ai nostri figli (che però non hanno vissuto la nostra esperienza). Hanno fatto uno studio su delle cavie, veramente interessante. Hanno preso delle cavie e le hanno messe in un contenitore, per un determinato periodo di tempo. All’accendersi di una luce azzurra, le cavie venivano molestate. Trasferite in un altro contenitore, appena riaccesa la luce azzurra le cavie diventavano nervose: sapevano che sarebbero arrivate le molestie. “Apprendimento diretto”, si chiama in etologia. Poi però hanno fatto riprodurre queste cavie, quindi hanno preso i loro piccoli e li hanno messi in un’altra stanza, in un altro contenitore: i figli non avevano mai visto la luce blu, ma appena si accendeva diventavano inquieti: reagivano cioè come i loro genitori, che invece le molestie le avevano sperimentate e subite, associate alla luce azzurra. I ricercatori hanno quindi visto che l’esperienza negativa dei genitori è finita geneticamente nella prole.Altro capitolo: i sopravvissuti della Shoah. Immaginate come si poteva vivere in un campo di concentramento, con quei livelli di stress estremi. A un certo punto sopravvivevano solo i fortunati che non venivano selezionati per lo sterminio. Quelli che riuscivano a resistere, spesso, erano anche i soggetti che avevano abbassavato la loro soglia di reazione all’atroce stimolo ricevuto da quell’ambiente spaventoso, altrimenti sarebbero morti d’infarto. Una ricerca universitaria americana ha scoperto che i figli dei reduci della Shoah hanno una propensione molto alta ad ammalarsi: il loro sistema immunitario scatta in ritardo, esattamente come scattava in ritardo la reattività dei loro genitori, che avevano rallentato i loro campanelli d’allarme, perché altrimenti scoppiava il loro sistema vitale. I figli hanno dunque ereditato l’atteggiamento dei genitori: ma i figli non ci sono mai stati, nei campi di sterminio. Un fenomeno analogo lo si è osservato sulle scimmie: un esperimento dimostra che possono “imparare”, anche loro, da esperienze che non hanno mai vissuto direttamente, sulla loro pelle.Ci sono 4 scimmie, in una stanza. A un certo punto viene fatta calare una banana dal soffitto. La prima scimmia si avventa sulla banana e, appena la afferra, si apre il pavimento sottostante: tutte le scimmie precipitano, insieme, in una vasca d’acqua gelida. Così, la seconda volta che calano la banana, nessuna scimmia si azzarda più a prenderla. Al che, tolgono una delle 4 scimmie iniziali e ne introducono una nuova. Appena compare la banana, la nuova scimmia si protende per afferrarla, ma le altre tre – che sanno cosa vuol dire (acqua fredda) – bloccano la nuova arrivata: guai ad avvicinarsi, a quella banana. Lei quindi non la tocca, ma senza sapere perché: però capisce che non deve prenderla. L’esperimento va avanti sostituendo gli animali. Tolgono un’altra scimmia, delle prime quattro iniziali, e ne mettono un’altra nuova – quindi: ci sono due scimme “vecchie”, una terza che già sa che non deve prendere la banana, più la scimmia nuova, la quarta. Non appena la banana ricompare, proprio quest’ultima scimmia cerca di afferrarla, ma viene prontamente fermata: non solo dalle prime due scimmie, che ricordano il bagno nell’acqua gelida, ma anche dalla terza scimmia, che nell’acqua non c’è finita mai. Alla fine, sostituiscono tutte le scimmie. Omai ci sono soltanto scimmie nuove: ma nessuna di loro osa più avvicinarsi alla banana che viene calata.Nel VI secolo dopo Cristo viene introdotta dal Papa la suonata delle campane. Il suono delle campane viene introdotto agli albori di un periodo che segnerà un inasprimento generale delle condizioni di vita: di lì a poco, il potere temporale della Chiesa diverrà assoluto. Le campane suoneranno tutte le volte che qualcuno sarà processato e condannato, tutte le volte che un eretico verrà sottoposto all’Auto da Fè, alla gogna. Succederà ogni volta che la persona torturata verrà messa su un carro e trascinata per la città, coperta di sacchi e abiti penitenziali. Tutti potranno udire il suono delle campane. Hai preso la banana? Finisci nell’acqua fredda. Hai rifiutato la Chiesa? Bruci sul rogo, al suono delle campane. Le campane suonavano sempre, ogni volta che si affacciava sul pubblico un Papa, o un vescovo, presentandosi all’altare per dettare le sue condizioni. Da 1200 anni a questa parte, la campana ha suonato ininterrottamente. Trasmettendoci un messaggio ben preciso: stai attento, perché a comandare sono “loro”. Quindi obbedisci, perché chi non l’ha fatto è finito male.Il suono della campana crea uno stato psicofisico che è l’antitesi dell’eros. Nel nostro contesto culturale, quel suono va a predisporci a temere qualcosa che incombe. E questo ci fa stare più buoni: in altre parole, sottomessi. La Chiesa romana riceve ogni anno 6 miliardi di euro dallo Stato italiano? Be’, pazienza. “Sbattezzarsi”? Ma no, si pensa – lasciamo perdere. E le campane, intanto, continuano a suonare. Eppure, il suono della campana è uno strumento raffinatissimo. Hai voglia a protestare, a dire “signori, guardate che avete stancato, con queste campane”: non smetteranno mai. Oltre un millennio di efficacissima tecnologia, per un formidabile controllo sociale. Lo confesso: mi piacerebbe se, prima o poi, si facesse un vero e proprio studio clinico, di carattere epigenetico, per verificare il tipo di alterazioni ormonali che si viene a creare, su un intero popolo, mediante il suono delle campana. Sarebbe interessante comparare il risultato con quello delle regioni del mondo dove non esistono campane che suonano. Credo che avremmo risultati veramente sorprendenti.(Michele Giovagnoli, dichiarazioni rilasciate nel febbraio 2018 alla conferenza “La messa è finita”, ripresa su YouTube. Naturalista, alchimista e scrittore, autore di libri come “Alchimia selvatica” e “Impara a parlare con gli alberi”, Giovagnoli ha pubblicato anche il saggio “La messa è finita”, ovvero “Come liberarsi del più subdolo dei parassiti – gli acutissimi strumenti di dominio in dotazione al clero”, UnoEditori, 175 pagine, euro 12,90).Vi invito a rileggere il significato del battesimo, soprattutto alla luce degli ultimi studi sulle proprietà dell’acqua di assumere forme differenti. Quello è veramente uno studio bellissimo, inaugurato da Masaru Emoto. Hanno visto come cambia, l’acqua, quando la si fa cristallizzare in condizioni ambientali particolari. Ora si sono fatti passi avanti. S’è visto che la molecola dell’acqua mantiene la sua struttura (chimicamente è sempre acqua) ma le molecole, sottoposte a sollecitazioni differenti, si aggregano e formano delle strutture differenti, con proprietà differenti e con capacità di avere memoria differente. Questo è un fatto che metterà in crisi tutto il fronte medico e anche quello farmacologico, perché viviamo ancora in un sistema dove ci si curia con il protocollo sanitario ospedaliero. Io penso proprio a questo, all’epigenetica, cioè alla capacità dei nostri geni di mutare, sulla base di sollecitazioni esterne, emotive. Ci penso anche a proposito del battesimo cristiano: ritengo il battesimo un momento nel quale vengono attivate delle memorie. Questo è indiscutibile – e non ho mai visto un bambino ridere, al suo battesimo. Ma questo ragionamento l’ho applicato soprattutto sul suono delle campane, che è uno degli aspetti più intriganti che si possono incontrare, quando si studiano le strumentazioni clericali: tutto fa pensare, infatti, che il suono delle campane possa indurre precise alterazioni, in noi.
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Inferno negli Usa: migliaia di bambini abusati da 300 preti
C’è una notizia esplosiva che sta rimbalzando su tutti i media mondiali, ma che da noi rischia di essere messa in secondo piano dal giusto clamore del crollo del ponte di Genova: riguarda i ripetuti e sistematici casi di pedofilia nella Chiesa cattolica statunitense della Pennsylvania, a metà strada tra Washington e New York. Lo scorso 14 agosto, scrive Riccardo Pizziriani su “Luogo Comune”, la Corte Suprema della Pennsylvania ha pubblicato infatti un corposo report di 1.300 pagine che descrive in dettaglio gli abusi sessuali nel clero cattolico locale, accusando oltre 300 sacerdoti. Il gran giurì della Pennsylvania, riunitosi nel 2016, ha intervistato decine di testimoni e esaminato più di 500.000 pagine di documenti provenienti da ogni diocesi dello Stato eccetto Philadelphia e Altoona-Johnstown, già indagate in precedenza. Risultato: orrore, raccapriccio. Una smisurata quantità di abusi, violenze, vessazioni. Questa storica inchiesta, scrive Pizziriani, ha rilevato che più di 1.000 bambini sono stati abusati dai membri di sei diocesi, in Pennsylvania, negli ultimi 70 anni. Dopo 18 mesi di indagini, gli investigatori denunciano «sistematici occultamenti, da parte della Chiesa».«Oltre mille bambini erano vittime identificabili, dagli archivi della Chiesa», afferma il gran giurì nel suo esplosivo rapporto: «Crediamo che il numero reale di bambini i cui “record” sono stati persi o che avevano paura di farsi avanti sia nell’ordine delle migliaia». Il documento afferma che il clero ha abusato bambini, bambine e anche degli adolescenti. «Tutti questi casi – si legge nel rapporto – sono stati messi da parte dai leader della Chiesa, che hanno preferito proteggere soprattutto i colpevoli e la loro istituzione». A causa dei presunti tentativi di copertura da parte degli alti funzionari ecclesiastici, aggiunge Pizziriani, la maggior parte dei casi sono troppo vecchi per essere portati a processo. Nonostante ciò, gli investigatori avvertono: potrebbero esserci ulteriori incriminazioni, mentre l’inchiesta continua. Il report parla di centinaia di preti: alcuni nomi rimangono oscurati, nel timore che la loro identificazione pubblica possa violare i loro diritti costituzionali. Ma il procuratore generale Josh Shapiro ha dichiarato che il suo ufficio sta lavorando per rimuovere questa autocensura che, di fatto, protegge gli autori dei reati.«I funzionari della Chiesa descrivevano abitualmente e deliberatamente questi abusi come “giocare a cavalluccio”, “fare wrestling”, o come “condotta inappropriata”. Non erano affatto quelle cose: erano abusi sessuali su minori, compreso lo stupro», sottolinea Shapiro. Molte vittime hanno affermato di esser state drogate o comunque manipolate. Alcuni hanno ricordato di essere stati picchiati da membri della famiglia che non credevano alle loro storie. Shapiro afferma infatti che «in Pennsylvania la fede è stata trasformata in arma per tenere le vittime in silenzio». Racconta la rete “Abc News”: «Ai bambini è stato insegnato che questo abuso non era solo normale, ma anche era sacro». Stiamo parlando di bambini violentati da sacerdoti, per decenni: gli abusi «vanno dalla masturbazione allo stupro anale, orale e vaginale». Un ragazzo fu persino costretto a farsi confessare allo stesso prete che lo abusava sessualmente. Un altro sacerdote «ha molestato cinque sorelle per un periodo superiore a 10 anni e, in un accordo con la loro famiglia, la diocesi ha richiesto un accordo di riservatezza». Ancora: un gruppo di preti di Pittsburgh, scrive sempre Pizziriani citando il “Telegraph”, è accusato di aver ordinato a un chierichetto di spogliarsi nudo e di posare crocifisso come Gesù sulla croce, mentre gli facevano foto. Gli scatti «sono poi circolati negli ambienti della Chiesa, dove la pornografia infantile veniva condivisa».Sempre nel report si legge che un prete «ha stuprato una bambina di sette anni, mentre la piccola era in ospedale per farsi rimuovere le tonsille». Un altro bambino è stato drogato con sostenze presenti in un succo d’arancia, prima di essere violentato. Un altro, di appena nove anni, «è stato costretto a praticare sesso orale, e poi il prete ha usato l’acqua santa per “purificare” la sua bocca». E’ praticamente infinita, la galleria degli orrori che emerge dall’indagine condotta in Pennsylvania: «Un gruppo di pedofili ha frustato i ragazzini, permettendo ad altri uomini di violentarli a pagamento. Un altro prete, che cercava di convicere gli studenti delle scuole medie a praticargli del sesso orale, insegnava loro di come Maria doveva leccare Gesù per pulirlo dopo che era nato». Poi ci sono o sacerdoti che hanno avuto figli: «Usavano croci d’oro per marcare chi di loro era stato maltrattato». Una ragazza «è stata violentata da un certo numero di sacerdoti, che in seguito le hanno detto che questo era il modo in cui Dio mostrava l’amore». Racconta il “Daily Mail” che un prete di Scranton «ha aggredito sessualmente una ragazza minorenne, l’ha messa incinta e poi le ha organizzato l’aborto».Diverse presunte vittime sono state attirate con alcol o pornografia, aggiunge Pizziriani: in seguito si sono rifugiate nell’abuso di sostanze. Qualcuno è crollato, preferendo suicidarsi. «Una di queste vittime include Joey, un bambino di 7 anni che è stato più volte violentato da padre Edward Graff ad Allentown». Graff, un uomo fisicamente imponente, «ha usato tanta forza per sottomettere il ragazzo che ha danneggiato gravemente la spina dorsale della vittima», secondo il procuratore Shapiro. «I medici hanno dovuto somministrargli pesanti antidolorifici, ma il ragazzo ne è divenato dipendente e alla fine è morto di overdose». Prima di soccombere, la vittima ha scritto alla diocesi di Allentown dicendo che Graff l’aveva più che violentato: «Ha ucciso il mio potenziale e, così facendo, ha ucciso l’uomo che avrei dovuto diventare», ha ammesso il giovane, secondo quanto riportato da “Nbc Philadelphia”. La permanenza di Graff alla diocesi di Allentown è durata 35 anni. E ora, conferma il “Daily Mail”, quel sacerdote è accusato di aver violentato decine di ragazzi.«Sorprendentemente, la leadership della Chiesa ha tenuto traccia degli abusi e della copertura: questi documenti, dagli “archivi segreti” propri delle diocesi, hanno costituito la spina dorsale di questa indagine», afferma Shapiro. Pagine che affondano in storie di abominio, come quella del reverendo David A. Soderlund, accusato di avere avuto rapporti sessuali con almeno tre giovani ragazzi all’inizio degli anni ‘80. «La diocesi di Allentown, di cui era sacerdote, conosceva le accuse, ma non le riferì alle autorità», scrive Pizziriani: il piccolo era un chierichetto di 7° grado (aveva 12 anni), e padre Soderlund aveva un caravan negli Appalachi Trail Sites, a Shartlesville. «Ce l’ha portato lì quasi ogni settimana, per un periodo di circa 5 anni, a fare sesso», ha riferito alle autorità ecclesiastiche nel 1997 una delle presunte vittime di Soderlund: «Ha detto che non partecipava di sua scelta, ma padre David aveva minacciato di ferirlo o ucciderlo. Ha anche scattato delle foto alla vittima impegnata in atti sessuali e ha minacciato di usarle per metterla in imbarazzo», si legge sempre sul “Daily Mail”.Il rapporto d’indagine critica apertamente anche l’arcivescovo di Washington Dc, cardinale Donald Wuerl, già a capo della diocesi di Pittsburgh, per il suo ruolo nel nascondere gli abusi. Prima della pubblicazione del rapporto, l’alto prelato si era difeso giurando di aver «agito con diligenza, con preoccupazione per i sopravvissuti e per prevenire futuri atti di abuso». La “Bbc” rivela che, il mese scorso, il cardinale Theodore McCarrick, ex arcivescovo di Washington e leader cattolico di alto profilo, si è dimesso tra le accuse di aver abusato sessualmente di bambini e adulti per decenni. Secondo Shapiro, l’inchiesta ha confermato «un sistematico insabbiamento, da parte di alti funzionari ecclesiastici in Pennsylvania e in Vaticano». Il “New York Post” scrive che, secondo Shapiro, lo schema era «abuso, negazione e insabbiamento». Conferma l’agenzia “Ansa”, citando sempre Shapiro: «I preti hanno violentato ragazzini e ragazzine. E i loro superiori non solo non fecero niente, ma hanno nascosto tutto».I sacerdoti che avevano molestato i bambini? «Venivano abitualmente trasferiti di parrocchia in parrocchia» e rimanevano tranquillamente attivi per 40 anni. «Il gruppo di investigatori – aggiunge Pizziriani – ha concluso che una successione di vescovi cattolici e altri dirigenti diocesani ha cercato di proteggere la Chiesa da cattiva pubblicità e responsabilità finanziaria. Non hanno denunciato il clero accusato alla polizia, hanno usato accordi di riservatezza per mettere a tacere le vittime e inviato i sacerdoti colpevoli di abusi alle cosiddette “strutture di trattamento”, che “riciclavano” i preti». Così, conferma il “New York Times”, «hanno permesso a centinaia di molestatori riconosciuti di tornare ad operare liberamente». Un parroco è addirittura andato a lavorare a DisneyWorld «utilizzando una accorata lettera di raccomandazione da parte della Chiesa, dopo che costui era stato costretto a lasciare la tonaca dietro le accuse di aver abusato di bambini». Congiura del silenzio, anche oltre la Chiesa: polizia e pubblici ministeri – accusa il “New York Times” – a volte non indagavano sulle accuse, per deferenza verso i religiosi. Oppure ignoravano le denunce, considerandole di competenza di altri uffici. E la strage degli innocenti, nel frattempo, proseguiva.C’è una notizia esplosiva che sta rimbalzando su tutti i media mondiali, ma che da noi rischia di essere messa in secondo piano dal giusto clamore del crollo del ponte di Genova: riguarda i ripetuti e sistematici casi di pedofilia nella Chiesa cattolica statunitense della Pennsylvania, a metà strada tra Washington e New York. Lo scorso 14 agosto, scrive Riccardo Pizziriani su “Luogo Comune”, la Corte Suprema della Pennsylvania ha pubblicato infatti un corposo report di 1.300 pagine che descrive in dettaglio gli abusi sessuali nel clero cattolico locale, accusando oltre 300 sacerdoti. Il gran giurì della Pennsylvania, riunitosi nel 2016, ha intervistato decine di testimoni e esaminato più di 500.000 pagine di documenti provenienti da ogni diocesi dello Stato eccetto Philadelphia e Altoona-Johnstown, già indagate in precedenza. Risultato: orrore, raccapriccio. Una smisurata quantità di abusi, violenze, vessazioni. Questa storica inchiesta, scrive Pizziriani, ha rilevato che più di 1.000 bambini sono stati abusati dai membri di sei diocesi, in Pennsylvania, negli ultimi 70 anni. Dopo 18 mesi di indagini, gli investigatori denunciano «sistematici occultamenti, da parte della Chiesa».