Archivio del Tag ‘cultura’
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Italia senza onore, derubata dai ladri e distrutta dagli onesti
Avviso a tutti i manettari, grillini, sinistri e travagliati: l’onestà non è l’unica virtù del politico, né la principale. I danni compiuti dai cretini e dagli incompetenti al potere solitamente sono più devastanti; senza dire che un cretino al potere lascia rubare chi gli è accanto o è sotto di lui. Benedetto Croce in “Etica e politica” criticò il moralismo sostenendo che la vera onestà in politica sia la capacità: «L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma in tutte le loro invettive e utopie è quello di una sorta d’areopago, composto d’onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del Paese». Un disastro, per il filosofo liberale e conservatore. E non aveva conosciuto i grillini. Croce cita l’esempio inverso di Mirabeau che «prendeva soldi dalla corte, ma servendosi dal denaro pei suoi bisogni particolari, si serviva della corte e insieme dell’assemblea nazionale per cercar di attuare in Francia la sua idea di monarchia costituzionale». Don Benedetto forse esagerava, per una volta, in realismo, preferendo i corrotti capaci agli incapaci onesti, ma non aveva tutti i torti.Del resto, la storia della Prima Repubblica non ci ha risparmiato nemmeno la terza via, sintesi delle due opzioni: i ladri incapaci. Diciamo allora che un politico va giudicato per la sua capacità, per la sua utilità al paese, oltre che per la sua onestà. Ma non solo: l’onestà non esaurisce la moralità di un politico. Ci sono da considerare anche altre due qualità etiche: la sua lealtà nei confronti dei cittadini, delle istituzioni e della nazione e la sua fedeltà al mandato che ha ricevuto e ai suoi elettori. Chi ha tradito il suo mandato, i suoi elettori, la sua nazione, le sue istituzioni può considerarsi migliore di chi ha rubato? Insomma, l’onestà da sola non basta: è un prerequisito e funziona se si sposa alla capacità e alla responsabilità. Infine, scusate se insisto ma sono convinto che ci sia una virtù che precede e sovrasta l’onestà, la lealtà e la fedeltà: è l’onore. Parola mancante nel lessico contemporaneo.(Marcello Veneziani, “Un paese derubato dai ladri e distrutto dagli ‘onesti’”, dal blog di Veneziani del 1° febbraio 2020. Provieniente da studi filosofici, Veneziani ha fondato e diretto riviste, lavorando a quotidiani, settimanali e alla Rai. Tra i suoi saggi di filosofia politica spiccano “La rivoluzione conservatrice in Italia”, “Processo all’Occidente”, “Comunitari o liberal”, “Di Padre in figlio”, “Elogio della Tradizione”, “La cultura della destra” e “La sconfitta delle idee”, editi da Laterza, nonché “Lettera agli italiani” (Marsilio) e “I vinti”, “Rovesciare il 68″, “Dio, Patria e Famiglia” e “Dopo il declino” (Mondadori). È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come “Vita natural durante” dedicato a Plotino e “La sposa invisibile”, e ancora con Mondadori “Il segreto del viandante” e “Amor fati”, “Vivere non basta”, “Anima e corpo” e “Ritorno a sud”. Ha pubblicato di recente “Tramonti” (Giubilei Regnani) e per Marsilio “Alla luce del Mito”, “Imperdonabili” e “Nostalgia degli dei”).Avviso a tutti i manettari, grillini, sinistri e travagliati: l’onestà non è l’unica virtù del politico, né la principale. I danni compiuti dai cretini e dagli incompetenti al potere solitamente sono più devastanti; senza dire che un cretino al potere lascia rubare chi gli è accanto o è sotto di lui. Benedetto Croce in “Etica e politica” criticò il moralismo sostenendo che la vera onestà in politica sia la capacità: «L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma in tutte le loro invettive e utopie è quello di una sorta d’areopago, composto d’onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del Paese». Un disastro, per il filosofo liberale e conservatore. E non aveva conosciuto i grillini. Croce cita l’esempio inverso di Mirabeau che «prendeva soldi dalla corte, ma servendosi dal denaro pei suoi bisogni particolari, si serviva della corte e insieme dell’assemblea nazionale per cercar di attuare in Francia la sua idea di monarchia costituzionale». Don Benedetto forse esagerava, per una volta, in realismo, preferendo i corrotti capaci agli incapaci onesti, ma non aveva tutti i torti.
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L’Iran: perché noi sciiti detestiamo l’Occidente, che ci odia
L’uccisione con un drone del maggiore generale Qāsem Soleymānī da parte degli Stati Uniti, insieme ad un fiume di cruciali ramificazioni geopolitiche, porta ancora una volta al centro dell’attenzione una verità abbastanza scomoda: l’incapacità congenita delle cosiddette élite statunitensi anche solo di tentare di comprendere lo Sciismo, e la sua costante demonizzazione, avvilente non solo per gli Sciiti ma anche per i governi guidati dagli Sciiti. Washington aveva iniziato la Lunga Guerra ancor prima che il concetto fosse reso popolare dal Pentagono nel 2001, subito dopo l’11 settembre: è la Lunga Guerra contro l’Iran. Era iniziata nel 1953, con il colpo di Stato contro il governo democraticamente eletto di Mosaddegh, sostituito dalla dittatura dello Shah. L’intero processo aveva raggiunto l’apice più di 40 anni, fa quando la Rivoluzione Islamica aveva messo fine ai bei vecchi tempi della Guerra Fredda, epoca in cui lo Scià ricopriva il ruolo di “gendarme privilegiato del Golfo (Persico)” americano. Comunque, tutto questo va ben oltre la geopolitica. Non c’è assolutamente alcun modo, per chiunque, di riuscire a cogliere le complessità e il favore popolare dello Sciismo senza prima una seria ricerca accademica, integrata da visite a siti sacri selezionati in tutto il sud-ovest asiatico: Najaf, Karbala, Mashhad, Qom e il santuario di Sayyida Zeinab vicino a Damasco.Personalmente, ho percorso questa strada della conoscenza fin dalla fine degli anni ’90 e sono ancora solo uno umile studente. Nello spirito di un primo approccio, per iniziare un dibattito informato Est-Ovest su un importante problema culturale, in Occidente totalmente accantonato o affogato in uno tsunami di propaganda, ho chiesto a tre validissimi studiosi quali fossero le loro prime impressioni. Questi sono: il professor Mohammad Marandi, dell’Università di Teheran, esperto di orientalismo; Arash Najaf-Zadeh, che scrive sotto lo pseudonimo di Blake Archer Williams ed è esperto di teologia sciita, e la coltissima principessa Vittoria Alliata, siciliana, tra le migliori islamiste italiane e autrice, tra le altre cose, di libri come l’incantevole “Harem”, che descrive in dettaglio i suoi viaggi in terra araba. Due settimane fa sono stato ospite della principessa Vittoria a Villa Valguarnera in Sicilia. C’eravamo immersi in una lunga ed avvincente discussione geopolitica, in cui uno dei temi chiave era stato lo scontro Usa-Iran, solo poche ore prima che un attacco di droni all’aeroporto di Baghdad uccidesse i due principali combattenti sciiti nella vera guerra al terrorismo dell’Isis/Daesh e di al-Qaeda/al-Nusra: il maggiore generale iraniano Qāsem Soleymānī e l’iracheno Hashd al-Shaabi, il braccio destro di Abu Mahdi al-Muhandis.Il professor Marandi fornisce una spiegazione sintetica: «L’odio irrazionale americano nei confronti dello Sciismo deriva dalla sua forte propensione a resistere all’ingiustizia: la storia di Karbala e Imam Hussein e lo sforzo sciita nel proteggere e difendere gli oppressi e lottare contro l’oppressore. Questo è qualcosa che gli Stati Uniti e le potenze egemoniche occidentali non riescono assolutamente a tollerare». Blake Archer Williams mi ha inviato una risposta che ho pubblicato come pezzo originale. Questo passaggio, che sviluppa il concetto di sacralità, sottolinea chiaramente l’abisso che separa il concetto sciita di martirio dal relativismo culturale occidentale: «Non c’è niente di più glorioso, per un musulmano, che raggiungere il martirio mentre combatte nel nome di Dio. Il generale Qāsem Soleymānī ha combattuto per molti anni con l’obiettivo di risvegliare il popolo iracheno e indurlo a riprendere nelle proprie mani il timone del destino del paese. Il voto del Parlamento iracheno ha dimostrato che il suo obiettivo è stato raggiunto. Il suo corpo ci è stato portato via, ma il suo spirito è stato amplificato mille volte e il suo martirio ha fatto sì che i frammenti della sua luce benedetta arrivassero ai cuori e alle menti di ogni uomo, donna e bambino mussulmano, immunizzandoli dal mortifero cancro dei relativisti culturali del diabolico Novus Ordo Seclorum».Un punto da chiarire: Novus Ordo Seclorum, o Saeculorum, significa “nuovo ordine dei secoli” e deriva da un famoso poema di Virgilio che, nel medioevo, era considerato dai cristiani la profezia della venuta di Cristo. Su questo punto, Williams ha risposto che «mentre questo significato etimologico della frase è vero e rimane valido, la frase era stata usata da George Bush figlio per caratterizzare la cabala globalista del Nuovo Ordine Mondiale, ed è questo il senso che è attualmente predominante». La principessa Vittoria preferirebbe centrare il dibattito sull’indiscutibile atteggiamento americano nei confronti del Wahhabismo: «Non credo che tutto ciò abbia a che fare con l’odiare o l’ignorare lo Sciismo. Dopotutto, l’Aga Khan è molto ben integrato nella sicurezza degli Stati Uniti, una sorta di Dalai Lama del mondo islamico. Credo che l’influenza satanica derivi dal Wahhabismo e dai reali sauditi, che, per tutti i Sunniti del mondo, sono molto più eretici degli Sciiti, ma che, per i governanti statunitensi, sono l’unico contatto con l’Islam. I sauditi hanno dapprima finanziato la maggior parte degli omicidi e delle guerre della Fratellanza Islamica, poi le altre forme di Salafismo, tutte incentrate su una base wahhabita».Quindi, continua la principessa Vittoria, «non proverei tanto a spiegare lo Sciismo, quanto il Wahhabismo e le sue devastanti conseguenze: ha dato origine a tutte le forme di estremismo, al revisionismo, all’ateismo, alla distruzione dei santuari e dei leader Sufi in tutto il mondo islamico. E ovviamente, il Wahhabismo è molto vicino al Sionismo. Ci sono anche ricercatori che hanno prodotto documenti secondo cui Casa Saud sarebbe una tribù Dunmeh di ebrei convertiti e scacciati da Medina dal Profeta, dopo che avevano tentato di ucciderlo, nonostante avessero firmato un trattato di pace». La principessa Vittoria sottolinea anche il fatto che «la Rivoluzione Iraniana e i gruppi sciiti in Medio Oriente sono oggi l’unica forza di successo in grado di resistere agli Stati Uniti, e questo li fa odiare più degli altri. Ma solo dopo che tutti gli altri avversari sunniti sono stati eliminati, uccisi, terrorizzati (basti pensare all’Algeria, ma ci sono dozzine di altri esempi) o corrotti. Questa ovviamente non è solo la mia opinione, ma quella della maggior parte degli islamologi di oggi».Essendo al corrente delle ampie conoscenze di Williams sulla teologia sciita e della sua padronanza della filosofia occidentale, l’ho spinto, letteralmente, a “cercare la giugulare”. E mi ha risposto: «La domanda sul perché i politici americani non siano in grado di comprendere l’Islam sciita (o l’Islam in generale) è semplice: lo sfrenato capitalismo neoliberista ingenera l’oligarchia, e gli oligarchi ‘selezionano’ i candidati che rappresentano i loro interessi prima ancora che vengano ‘eletti’ dalle masse ignoranti. Eccezioni populiste come Trump, di tanto in tanto, filtrano tra le maglie della rete (o non ci riescono, come nel caso di Ross Perot, che si era ritirato sotto coercizione), ma anche Trump è stato poi messo sotto controllo dagli oligarchi attraverso minacce di impeachment, ecc. Quindi, il ruolo dei politici nelle democrazie non sembra essere quello di cercare di capirci qualcosa, ma, semplicemente, quello di portare a termine l’agenda delle élite che li controllano». “L’attacco alla giugulare” di Williams è un saggio lungo e complesso che mi piacerebbe pubblicare per intero solo quando il nostro dibattito si sarà approfondito, insieme a possibili confutazioni.Per riassumerlo, Williams delinea e discute le due principali tendenze della filosofia occidentale: i dogmatici contrapposti agli scettici. Spiega come «la santa trinità del mondo antico fosse, in effetti, la seconda ondata dei dogmatici che cercavano di salvare le città-Stato della Grecia e, più in generale, il mondo greco dalla decadenza dei sofisti», approfondisce il concetto di “terza ondata di scetticismo” che era iniziata con il Rinascimento e aveva raggiunto il culmine nel 17° secolo con Montaigne e Cartesio, e poi traccia connessioni «con l’Islam sciita e l’incapacità dell’Occidente di comprenderlo». E questo lo porta al “nocciolo della questione”: «Una terza opzione e un terzo flusso intellettuale su e al di sopra dei dogmatici e degli scettici: questa è la posizione degli studiosi di religione sciiti tradizionali (non quelli di indirizzo filosofico)». Ora confrontatelo con l’ultimo sforzo degli scettici, «come ammette lo stesso Cartesio quando parla del ’demone’ che gli era apparso in sogno e che lo aveva indotto a scrivere il “Discorso sul metodo” (1637) e “Meditazioni sulla prima filosofia” (1641).L’Occidente si sta ancora riprendendo dal colpo, e sembra che abbia deciso di mettere da parte i trampoli della ragione e dei sensi (che Kant aveva cercato invano di conciliare, rendendo le cose mille volte peggiori, più contorte e circonvolute) e voglia sguazzare in quella forma auto-congratulativa di irrazionalismo nota come postmodernismo, che dovrebbe essere giustamente chiamato ultra-modernismo o iper-modernismo, dal momento che non è meno radicato nella ‘svolta soggettiva’ cartesiana e nella ‘rivoluzione copernicana’ kantiana di quanto non lo fossero i primi moderni e i moderni veri e propri». Per riassumere un accostamento piuttosto complesso, «tutto ciò significa che le due civiltà hanno due visioni completamente diverse di quello che dovrebbe essere l’ordine mondiale. L’Iran crede che l’ordine del mondo dovrebbe essere quello che è sempre stato e che attualmente è nella realtà, che ci piaccia o no o che crediamo, o meno, nella realtà (come alcuni in Occidente non fanno). E l’Occidente secolarizzato crede in un nuovo ordine mondiale (contrapposto ad un ordine mondiale o divino). E quindi non è tanto uno scontro di civiltà quanto uno scontro di sacro contro profano, con gli elementi profani di entrambe le civiltà schierati contro le forze sacre di entrambe le civiltà. È lo scontro del sacro ordine di giustizia con l’ordine profano dello sfruttamento dell’uomo da parte dei suoi simili; [è lo scontro] della profanazione della giustizia di Dio per il beneficio (a breve termine o di questo mondo) dei ribelli rispetto alla giustizia di Dio».Williams fornisce un esempio concreto per illustrare questi concetti astratti: «Il problema è che anche se tutti sanno che lo sfruttamento del Terzo Mondo nel 19° e nel 20° secolo da parte delle potenze occidentali era stato ingiusto e immorale, questo stesso sfruttamento continua ancora oggi. Il persistere di questa vergognosa ingiustizia è la ragione principale delle differenze esistenti tra Iran e Stati Uniti, che continueranno inevitabilmente finché gli Stati Uniti insisteranno nelle loro politiche di sfruttamento e fintanto che continueranno a proteggere i loro governi di occupazione, che riescono a sopravvivere contro la schiacciante volontà dei loro cittadini solo grazie alla ingombrante presenza delle forze statunitensi che li sostengono affinché possano continuare a servire gli interessi americani piuttosto che quelli delle loro popolazioni. È una guerra spirituale per il trionfo della giustizia e dell’autonomia nel Terzo Mondo. L’Occidente può continuare ad apparire bello ai propri occhi perché controlla tutta la messa in scena (del discorso mondiale), ma la sua immagine reale è evidente a tutti, anche se l’Occidente continua a vedersi come il Dorian Gray del romanzo di Oscar Wilde: una persona giovane e bella i cui peccati si riflettevano solo nel suo ritratto. Così, il ritratto riflette la realtà che il Terzo Mondo vede ogni giorno, mentre il Dorian Gray occidentale si vede come viene rappresentato dalla Cnn, dalla Bbc e dal “New York Times”».«L’imperialismo dell’Occidente in Asia occidentale è di solito simboleggiato dalla guerra di Napoleone Bonaparte contro gli Ottomani in Egitto e in Siria (1798-1801). Sin dall’inizio del 19° secolo, l’Occidente ha succhiato la vena giugulare del corpo politico musulmano come un vero vampiro, mai sazio di sangue musulmano, che si rifiuta di lasciare il corpo. Dal 1979, l’Iran, che ha sempre avuto il ruolo di leader intellettuale del mondo islamico, si è ribellato per porre fine a questo oltraggio contro la legge e la volontà di Dio e contro ogni decenza. Si tratta quindi del processo di revisione di una visione falsa e distorta della realtà per ritornare a ciò che la realtà è e dovrebbe effettivamente essere: un ordine giusto. Ma questa revisione è ostacolata sia dal fatto che i vampiri controllano la rappresentazione della realtà, sia dall’inettitudine degli intellettuali musulmani e dalla loro incapacità di comprendere anche solo i rudimenti della storia del pensiero occidentale, nel suo periodo antico, medievale e moderno».C’è una possibilità di distruggere tutta questa messa in scena? Forse: «Quello che deve succedere è il passaggio dell’autocoscienza mondiale dal paradigma in cui le persone credono che un pazzo come Pompeo e un buffone come Trump rappresentino l’essenza della normalità, ad un paradigma in cui le persone vedano Pompeo e Trump solo come un paio di gangster che fanno tutto ciò che vogliono, non importa quanto disgustoso e depravato, in completa e totale impunità. E questo è un processo di revisione ed un processo di risveglio verso un nuovo e più alto stato di coscienza politica. È un processo di rigetto del paradigma dominante e di unione all’Asse della Resistenza, il cui leader militare era il generale martire Qāsem Soleymānī. Non da ultimo, [questo processo] comporta il rifiuto dell’assurdo concetto di verità relativa (ed anche della relatività del tempo e dello spazio, scusaci Einstein), l’abbandono dell’assurda e nichilista filosofia dell’umanesimo, e il risveglio alla realtà dell’esistenza di un Creatore e del suo ruolo di comando. Ma, ovviamente, questo è troppo per la mentalità moderna, così illuminata da sapere tutto». Eccoci qua. E questo è solo l’inizio. Commenti pro e contro sono i benvenuti. Date una voce a tutte le anime bene informate: il dibattito è aperto.(Pepe Escobar, “Le radici della demonizzazione dell’Islam sciita da parte dell’America”, da “Unz.com” del 17 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).L’uccisione con un drone del maggiore generale Qāsem Soleymānī da parte degli Stati Uniti, insieme ad un fiume di cruciali ramificazioni geopolitiche, porta ancora una volta al centro dell’attenzione una verità abbastanza scomoda: l’incapacità congenita delle cosiddette élite statunitensi anche solo di tentare di comprendere lo Sciismo, e la sua costante demonizzazione, avvilente non solo per gli Sciiti ma anche per i governi guidati dagli Sciiti. Washington aveva iniziato la Lunga Guerra ancor prima che il concetto fosse reso popolare dal Pentagono nel 2001, subito dopo l’11 settembre: è la Lunga Guerra contro l’Iran. Era iniziata nel 1953, con il colpo di Stato contro il governo democraticamente eletto di Mosaddegh, sostituito dalla dittatura dello Shah. L’intero processo aveva raggiunto l’apice più di 40 anni, fa quando la Rivoluzione Islamica aveva messo fine ai bei vecchi tempi della Guerra Fredda, epoca in cui lo Scià ricopriva il ruolo di “gendarme privilegiato del Golfo (Persico)” americano. Comunque, tutto questo va ben oltre la geopolitica. Non c’è assolutamente alcun modo, per chiunque, di riuscire a cogliere le complessità e il favore popolare dello Sciismo senza prima una seria ricerca accademica, integrata da visite a siti sacri selezionati in tutto il sud-ovest asiatico: Najaf, Karbala, Mashhad, Qom e il santuario di Sayyida Zeinab vicino a Damasco.
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Bias cognitivi: i social radicalizzano le nostre idee poltiche
Nell’era dell’iperinformazione, avviata con lo sviluppo della rete e amplificata dall’utilizzo dei social media, abbiamo accesso a una quantità di notizie pressoché sconfinata. Come reagisce il nostro cervello a questo flusso continuo di stimoli? Per dare una risposta a un quesito così complesso ci viene in aiuto una nuova, o meglio giovane, branca della scienza economica, l’economia comportamentale, che integra la teoria economica con le conoscenze della ricerca psicologica. Personaggio centrale nello sviluppo di tale disciplina è lo psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002. Le sue ricerche sperimentali hanno rivelato come il nostro cervello utilizzi delle scorciatoie mentali semplificatrici, le cosiddette euristiche, frutto del processo di adattamento della specie. In pratica mette in atto procedimenti mentali intuitivi e veloci, quasi istintivi, che lo portano a valutare e a prendere decisioni secondo schemi che non richiedono uno sforzo cognitivo per l’individuo. Le manifestazioni di queste euristiche sono gli errori sistematici che tendiamo a commettere utilizzando costrutti fondati al di fuori del giudizio critico, i cosiddetti bias cognitivi. Si tratta per lo scienziato americano di «preconcetti che ricorrono in maniera prevedibile in particolari circostanze», come se un’entità fuori dal nostro controllo scegliesse automaticamente al nostro posto.Quali sono i bias cognitivi? Sono numerosi, ma esaminiamo qui i più rilevanti, che adottiamo quando siamo sommersi da una marea di informazioni tra le quali districarsi, come avviene nel caso dei social network. A giocare un ruolo da protagonista è senz’altro il bias di conferma, ossia la tendenza a ricercare e prediligere le informazioni che confermano le nostre credenze iniziali. Esperimenti psicologici hanno dimostrato come gli individui raccolgano o ricordino le informazioni in modo selettivo e interpretino prove ambigue a sostegno della loro posizione preesistente. L’azione di tale bias provoca un eccesso di fiducia nelle opinioni personali e impedisce persino di mutare posizione di fronte a prove contrarie evidenti. Alla base di questo automatismo mentale c’è sia l’attitudine a credere che si realizzi qualcosa in cui speriamo (wishful thinking) sia la limitata capacità umana di rielaborare le informazioni. Inoltre, per il singolo individuo è certamente meno oneroso convalidare le proprie idee iniziali piuttosto che impegnarsi in una faticosa analisi comparativa e scientifica che ne testi la validità.A rafforzare questo comportamento concorre un altro bias, quello dello status quo, una distorsione valutativa legata alla resistenza al cambiamento, per cui si tende a non prendere decisioni che possano alterare lo stato attuale, anche se potrebbero essere conveniente. Ogni cambiamento è percepito come una perdita. A influenzare le nostre opinioni c’è poi il bias di ancoraggio, che porta a legarsi a un’informazione iniziale con cui si è venuti a contatto, considerata come “ancora”, per formulare giudizi successivi durante il processo decisionale. I contenuti affini a essa tendono a essere assimilati, mentre quelli che si discostano solitamente vengono allontanati. Effetti analoghi al bias di conferma sono indotti dal bias di gruppo, che induce a sopravvalutare le capacità e il valore del proprio gruppo, qualunque natura esso abbia (sociale, culturale, ecc.) e a sminuire e discriminare qualsiasi gruppo estraneo. Questo errore cognitivo genera l’attitudine, molto frequente negli ambienti culturali e accademici, a favorire persone appartenenti al proprio gruppo e a escludere persone esterne, evitando così il confronto e rafforzando le proprie credenze.L’azione congiunta di tali bias ha una portata esplosiva all’interno del microcosmo dei social, divenuto proiezione del mondo reale. La mole infinita di contenuti veicolati non solo non aumenta il livello di conoscenza dell’utente, ma al contrario porta a rafforzare le proprie idee iniziali e a identificarsi con un gruppo virtuale che le rappresenta. Anziché approfondire e analizzare in modo comparativo argomentazioni diverse dalle proprie, si tenderà a ignorarle e perfino a denigrarle. Si viene così a creare il fenomeno delle “camere d’eco”, ossia delle campane di vetro in cui i preconcetti personali sono amplificati dalla comunicazione e dalla ripetizione degli stessi messaggi all’interno di un sistema chiuso. Dentro una camera d’eco gli utenti possono trovare informazioni che convalidano le loro opinioni preesistenti e attivare il bias di conferma. Questo fenomeno rafforza le credenze e le radicalizza, senza nulla aggiungere all’informazione e alla conoscenza. Il risultato è l’oltranzismo ideologico al quale assistiamo e partecipiamo, in cui il dibattito e il confronto politico sono stati sostituiti dalla tifoseria e della violenza verbale. Non vi è alcuno spazio per elaborare un pensiero critico e svincolato dai bias, vince la legge tribale.(Ilaria Bifarini, “Perché i social radicalizzano le nostre idee politiche”, dal blog della Bifarini del 9 gennaio 2020).Nell’era dell’iperinformazione, avviata con lo sviluppo della rete e amplificata dall’utilizzo dei social media, abbiamo accesso a una quantità di notizie pressoché sconfinata. Come reagisce il nostro cervello a questo flusso continuo di stimoli? Per dare una risposta a un quesito così complesso ci viene in aiuto una nuova, o meglio giovane, branca della scienza economica, l’economia comportamentale, che integra la teoria economica con le conoscenze della ricerca psicologica. Personaggio centrale nello sviluppo di tale disciplina è lo psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002. Le sue ricerche sperimentali hanno rivelato come il nostro cervello utilizzi delle scorciatoie mentali semplificatrici, le cosiddette euristiche, frutto del processo di adattamento della specie. In pratica mette in atto procedimenti mentali intuitivi e veloci, quasi istintivi, che lo portano a valutare e a prendere decisioni secondo schemi che non richiedono uno sforzo cognitivo per l’individuo. Le manifestazioni di queste euristiche sono gli errori sistematici che tendiamo a commettere utilizzando costrutti fondati al di fuori del giudizio critico, i cosiddetti bias cognitivi. Si tratta per lo scienziato americano di «preconcetti che ricorrono in maniera prevedibile in particolari circostanze», come se un’entità fuori dal nostro controllo scegliesse automaticamente al nostro posto.
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Sand: l’invenzione sionista del ‘popolo ebraico’, mai esistito
Fin dalla prima infanzia i bambini israeliani vengono a «sapere» che il popolo a cui appartengono esiste dal momento in cui gli fu data la Torah sul Sinai. Quei bambini sono convinti di essere discendenti diretti delle genti che, uscite dall’Egitto, si stanziarono, dopo averla conquistata, nella «terra di Israele», promessa, come tutti «sanno», da Dio per fondarvi lo splendido regno di Davide e Salomone, poi separatosi a formare quelli di Giuda e d’Israele. Crescendo quei bambini apprenderanno che questo popolo, dopo il glorioso periodo monarchico, ha conosciuto l’esilio per ben due volte: una con la distruzione del Primo Tempio nel sesto secolo a.C.; la seconda dopo quella del Secondo Tempio nel 70 d.C. Impareranno poi che il loro popolo, il più antico di tutti, ha errato in esilio per circa duemila anni, nel corso dei quali non si è mai lasciato integrare né assimilare. Che ha raggiunto lo Yemen, il Marocco, la Spagna, la Germania, la Polonia, angoli remoti della Russia riuscendo sempre a mantenere stretti legami di sangue con le comunità più lontane, preservando di conseguenza la propria unicità. In realtà è molto improbabile che le cose siano andate davvero così.Anzi, Shlomo Sand, storico ebreo, docente all’Università di Tel Aviv, in un libro, L’invenzione del popolo ebraico, sostiene che si tratta, appunto, di una «invenzione». Questa storia non sta in piedi, afferma Sand: così come ad esempio non c’è continuità tra gli antichi elleni e i greci di oggi, non c’è una linea diretta che colleghi gli ebrei di duemila anni fa a quelli attuali. Per di più questo racconto non è andato formandosi spontaneamente; «Sono stati invece abili manipolatori del passato che dalla seconda metà del XIX secolo, strato dopo strato, hanno elevato questo cumulo di ricordi servendosi soprattutto di frammenti di memoria religiosa ebraica e cristiana, da cui la loro fervida immaginazione ha ricostruito un’ininterrotta genealogia del popolo ebraico». La Dichiarazione di Indipendenza di Israele afferma che il popolo ebraico proviene dalla Terra di Israele e che fu esiliato dalla sua patria. Ad ogni scolaro israeliano si insegna che ciò accadde durante il dominio romano, nell’anno 70 d.C. La nazione rimase fedele alla sua terra, alla quale iniziò a tornare dopo 2 millenni di esilio.Tutto sbagliato, dice lo storico Shlomo Sand, in uno dei libri più affascinanti e stimolanti pubblicati in Israele da molto tempo a questa parte. Non c’è mai stato un popolo ebraico, solo una religione ebraica, e l’esilio non è mai avvenuto – per cui non si è trattato di un ritorno. Sand rigetta la maggior parte dei racconti biblici riguardanti la formazione di una identità nazionale, incluso il racconto dell’esodo dall’Egitto e, in modo molto convincente, i racconti degli orrori della conquista da parte di Giosuè. È tutta invenzione e mito che è servita come scusa per la fondazione dello Stato di Israele, egli assicura. Secondo Sand, i romani, che di solito non esiliavano intere nazioni, permisero alla maggior parte degli ebrei di restare nel paese. Il numero degli esiliati ammontava al massimo a qualche decina di migliaia. Quando il paese fu conquistato dagli arabi, molti ebrei si convertirono all’Islam e si assimilarono con i conquistatori. Ne consegue che i progenitori degli arabi palestinesi erano ebrei…Sand non ha inventato questa tesi; 30 anni prima della Dichiarazione di Indipendenza, essa fu sostenuta da David Ben-Gurion, Yitzhak Ben-Zvi ed altri. Se la maggioranza degli ebrei non fu esiliata, come è successo allora che tanti di loro si insediarono in quasi ogni paese della terra? Sand afferma che essi emigrarono di propria volontà o, se erano tra gli esiliati di Babilonia, rimasero colà per loro scelta. Nel Libro di Ester, per esempio, è scritto: “Molti appartenenti ai popoli del paese si fecero Giudei, perché il timore dei Giudei era piombato su di loro” (Ester 8, 17). Sand cita molti precedenti studi, alcuni dei quali scritti in Israele ma tenuti fuori dal dibattito pubblico dominante. Egli descrive anche, e a lungo, il regno ebraico di Himyar nella penisola arabica meridionale e gli ebrei berberi del Nord Africa. La comunità degli ebrei di Spagna derivava da arabi convertiti al giudaismo che giunsero con le forze che tolsero la Spagna ai cristiani, e da individui di origine europea che si erano convertiti anch’essi al giudaismo.I primi ebrei di Ashkenaz (Germania) non provenivano dalla Terra di Israele e non giunsero in Europa orientale dalla Germania, ma erano ebrei che si erano convertiti nel regno dei Kazari nel Caucaso. Sand spiega l’origine della cultura Yiddish: non si tratta di un’importazione ebraica dalla Germania, ma del risultato dell’incontro tra i discendenti dei Kazari e i tedeschi che si muovevano verso oriente, alcuni dei quali in veste di mercanti. Scopriamo così che elementi di vari popoli e razze, dai capelli biondi o scuri, di pelle scura o gialla, divennero ebrei in gran numero. Secondo Sand, i sionisti per la necessità che hanno di inventarsi una etnicità comune e una continuità storica, hanno prodotto una lunga serie di invenzioni e finzioni, ricorrendo anche a tesi razziste. Alcune di queste furono elaborate espressamente dalle menti di coloro che promossero il movimento sionista, mentre altre furono presentate come i risultati di studi genetici svolti in Israele.Il professor Sand insegna all’Università di Tel Aviv. Il suo libro, ‘When and How Was the Jewish People Invented’ (Quando e come fu inventato il popolo ebraico), pubblicato in ebraico dalla casa editrice Resling, vuole promuovere l’idea di un Israele come “Stato di tutti i suoi cittadini” – ebrei, arabi ed altri – in contrasto con l’attuale dichiarata identità di stato “ebraico e democratico”. Il racconto di avvenimenti personali, una prolungata discussione teoretica e abbondanti battute sarcastiche non rendono scorrevole il libro, ma i capitoli storici sono ben scritti e riportano numerosi fatti e idee perspicaci che molti israeliani resteranno sorpresi di leggere per la prima volta. «Volevo scrivere un libro che avesse solidità storica ma conclusioni politiche, perché sono uno storico, e in quante tale sono tenuto a cercare la verità, ma rimango comunque un cittadino israeliano, vittima di una politica identitaria statale del tutto catastrofica», dice Shlomo Sand.Attenzione: è importante ricordare che il sionismo non è l’ebraismo. La fede ebraica (da rispettare al pari qualsiasi altra fede) e il sionismo sono due filosofie molto diverse. Confonderli è un terribile errore che può avere risultati disastrosi. Il movimento sionista ha creato lo Stato di Israele. Questo è il prodotto di un’idea che ha meno di cento anni. Il suo scopo fondamentale era ed è quello di cambiare l’essenza del popolo ebraico da entità religiosa a movimento politico. Dalla nascita del sionismo i capi spirituali del popolo ebraico si sono opposti strenuamente ad esso. Inoltre: la confusione seguita a trascinarsi sui giornali tramite pericolosi giochi semantici: lo Stato ebraico… i soldati ebrei… le milizie ebraiche. Non solo lo Stato d’Israele usurpa l’antico nome biblico di una storia, di una tradizione e di una fede che è anche patrimonio di cristiani e mussulmani, c’è di peggio: il sionismo ha finito per equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, usando all’occorrenza la Shoah come randello sul tavolo della politica internazionale. Il sionismo non è l’ebraismo.(”Una invenzione chiamata ‘il popolo ebraico’”, da “La Crepa nel Muro” del 22 gennaio 2020. Il post cita Shlomo Sand attraverso “Storiainrete” e “Tlaxcala”, mentre la distinzione tra ebraismo e sionismo è tratta da “Naturei Karta”, movimento ebraico anti-sionista).Fin dalla prima infanzia i bambini israeliani vengono a «sapere» che il popolo a cui appartengono esiste dal momento in cui gli fu data la Torah sul Sinai. Quei bambini sono convinti di essere discendenti diretti delle genti che, uscite dall’Egitto, si stanziarono, dopo averla conquistata, nella «terra di Israele», promessa, come tutti «sanno», da Dio per fondarvi lo splendido regno di Davide e Salomone, poi separatosi a formare quelli di Giuda e d’Israele. Crescendo quei bambini apprenderanno che questo popolo, dopo il glorioso periodo monarchico, ha conosciuto l’esilio per ben due volte: una con la distruzione del Primo Tempio nel sesto secolo a.C.; la seconda dopo quella del Secondo Tempio nel 70 d.C. Impareranno poi che il loro popolo, il più antico di tutti, ha errato in esilio per circa duemila anni, nel corso dei quali non si è mai lasciato integrare né assimilare. Che ha raggiunto lo Yemen, il Marocco, la Spagna, la Germania, la Polonia, angoli remoti della Russia riuscendo sempre a mantenere stretti legami di sangue con le comunità più lontane, preservando di conseguenza la propria unicità. In realtà è molto improbabile che le cose siano andate davvero così.
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Koenig: vergogna, Soleimani invitato a Baghdad da Trump
Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.I giornalisti del sistema mainstream media sono troppo codardi per temere di rischiare il lavoro o di perdere l’accesso alla sala stampa della Casa Bianca. Tuttavia, questo è esattamente ciò che il primo ministro iracheno, Adil Abdul-Mahdi, ha detto, incredulo per l’accaduto: «Trump prima mi chiede di mediare con l’Iran, e poi uccide il mio invitato». Abdul-Mahdi ha sicuramente più credibilità di Trump o di uno dei suoi compari, dello stesso Pompeo che, non molto tempo fa, disse a “Rt”: «Quando ero il direttore della Cia, mentivamo, tradivamo, rubavamo. Abbiamo avuto interi corsi di formazione. Ti ricorda la gloria dell’esperimento americano». Il generale Soleimani è stato prelevato all’aeroporto di Baghdad da Abu Mahdi al-Muhandis, comandante militare iracheno e leader delle forze di mobilitazione popolare. Sono partiti con un Suv, quando i missili-drone statunitensi li hanno colpiti e polverizzati, insieme ad altri 10 militari di alto rango di entrambi i paesi. Soleimani aveva l’immunità diplomatica – e gli Stati Uniti lo sapevano. Ma nessuna regola, nessuna legge e nessuno standard etico è rispettato da Washington. Un comportamento molto simile a quello dei barbari.Il generale Soleimani, che era molto più che un generale, era anche un grande diplomatico, fu richiesto dal primo ministro Abdul-Mahdi per conto di Trump di venire a Bagdad per far parte di un processo di mediazione che Trump aveva chiesto a Mahdi di guidare, per allentare le tensioni tra Iran e Arabia Saudita, nonché tra Stati Uniti e Iran. Era uno stratagemma vile e codardo per assassinare Qassem Soleimani. Quanto in profondità puoi affondare? Non ci sono parole per descrivere un crimine così orribile. Pompeo, rotto a ogni menzogna, ha trovato immediatamente una formula di copertura: Soleimani era un terrorista e un pericolo per la sicurezza nazionale Usa. Attenzione, caro lettore: nessun iraniano, né il generale Soleimani né nessun altro, ha mai minacciato gli Stati Uniti, né con le parole, né con le armi. Invece, il capo-barbaro ha avuto l’audacia di minacciare l’Iran di colpire 52 siti del suo patrimonio culturale, nel caso in cui l’Iran avesse osato vendicarsi. Come ulteriore atto immediato contro la legge, Trump ha vietato al ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, di andare alle Nazioni Unite a New York per rivolgersi al Consiglio di Sicurezza, semplicemente rifiutando il visto d’ingresso negli Stati Uniti.Ciò è contrario alla Carta delle Nazioni Unite firmata dagli Stati Uniti nel 1947, in base alla quale ai rappresentanti stranieri deve essere sempre consentito l’accesso al territorio delle Nazioni Unite a New York (lo stesso vale per le Nazioni Unite a Ginevra). E dov’è il signor António Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, quando ne hai bisogno? Che cosa ha da dire? Nulla, un grande nulla. Non ha nemmeno condannato l’omicidio del generale Soleimani. Ecco cos’è diventato l’Onu: un corpo senza denti e senza valore, pronto a eseguire le disposizioni dell’Impero Barbarico. Che triste eredità. Quand’è che la maggioranza degli Stati membri chiederanno l’espulsione degli Stati Uniti dall’Onu? Ci sono 120 Stati non allineati che si trovano dietro paesi che sono molestati, oppressi e sanzionati dagli Stati Uniti, come Venezuela, Cuba, Iran, Afghanistan, Siria, Corea del Nord. Perché non alzarsi all’unisono e fare dell’Onu – senza più il tiranno barbarico – ciò che la sua carta dice di essere?(Peter Koenig, estratto dal post “L’Occidente è gestito da barbari”, pubblicato su “Global Research” il 13 gennaio 2020. Economista e analista geopolitico, specialista in ecologia e risorse idriche, Koenig ha lavorato per oltre 30 anni con la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità in tutto il mondo).Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.
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Della Luna: addio politica, video e web ci hanno disabilitati
In principio era la fiducia: la fiducia nel progresso, nella giustizia, nella democrazia, nella società liberale aperta, nel benessere garantito, nella crescita illimitata. «Col benessere venne la società huxleyana, del piacere, del divertimento, del consumismo, della droga popolare, dei diritti inflazionati, del rilassamento, in cui si assopirono la coscienza di classe, la vigilanza razionale, la partecipazione attiva, perché si evitava tutto ciò che non diverte e che responsabilizza, rendendo così superfluo il controllo dell’informazione». Avanti così, fino a quando le masse non persero la loro rilevanza economica, quindi il loro potere di contrattazione: Marco Della Luna lo spiega nel suo “Oligarchia per popoli superflui”, rieditato nel 2018 da Aurora Boreale. Le minoranze «leggenti e pensanti», secondo Della Luna, persero anche «la capacità psichica di essere un soggetto politico pro-attivo». Allora, il “sogno huxleyano” basato «sulle gratificazioni rimbecillenti che creano consenso sociale» ha iniziato a offuscarsi e trasformarsi in incubo orwelliano, «basato sulla paura e sulla rabbia che fanno accettare tutto». La trasformazione «è iniziata con le grandi angosce lanciate dai media su terrorismo globale, disastri finanziari, crolli economici, sovraindebitamenti e crisi climatiche, esaurimento delle risorse, precarietà irreversibile».Questa crisi, prosegue Della Luna sul suo blog, è passata per le grandi privatizzazioni, le cessioni di sovranità statale e l’imposizione del pensiero unico, fino ad arrivare alla società tecno-controllata e tecno-macellata (cominciando con la Grecia) da un’oligarchia globale che sta dietro a primedonne come Angela Merkel e Ursula von der Leyen, Christine Lagarde e Hillary Clinton, senza trascurare Emmanuel Macron. «Un’oligarchia che mostra esattamente i tratti psicologici e comportamentali dei signori della villa nel film “Salò, o le centoventi giornate di Sodoma”, ultima opera di Pier Paolo Pasolini». In quell’affresco spaventoso, l’autore «non descriveva le gesta trascorse di alcuni perversi gerarchi fascisti», ma di fatto «ci preavvertiva del tipo di sistema politico a cui eravamo portati e in cui adesso siamo arrivati». Studi sociologici e psicologici hanno messo a fuoco il progressivo scadimento delle facoltà psichiche prodotto dalla “fase huxleyana” anche sulla minoranza leggente-pensante, «ossia su quel 3 o 4% della società che si informa e riflette sul ‘mondo’ studiando e discutendo la saggistica, anziché recepire passivamente quel che passano i mass media», cioè su quell’aliquota del corpo sociale che genera i mutamenti culturali.Ben prima del dilagare dello smartphone, Marshall McLuhan osservava “il mezzo è il messaggio”: oggi, ormai, il mezzo riforma anche la psiche, sostiene Della Luna. Con l’avvento della televisione (e poi dei video su web, scapito della lettura) si punta sulle emozioni per catturare l’attenzione, «ricorrendo al sensazionalismo, alla rapida successione, all’estrema semplificazione, ai dibattiti superficiali e contumeliosi», Si evita come la peste qualsiasi possibilità di approfondimento: la complessità è nemica dell’audience. E i risultati sono catastrofici: «Rispetto all’era della lettura, il ricevere passivamente lasciando guidare la propria attenzione ha atrofizzato la capacità di attenzione selettiva, volontaria, autoimposta», scrive Della Luna. «E lo spettacolarismo emotigeno ha avvezzato a non usare e non sviluppare la riflessione, il ragionamento, il dubbio critico, la verificazione, la contestualizzazione, il confronto». La stimolazione neurofisiologica del monitor «porta nei fanciulli a un indebolimento delle facoltà cognitive e mnemoniche». E se la televisione commerciale ha massimizzato la superficialità, i media cartacei l’hanno rincorsa. Risultato: il video impigrisce il cervello e atrofizza la capacità di analisi.A un livello superiore, osserva Della Luna, si indebolisce la facoltà – esclusiva dell’uomo – di discorrere di se stesso, del proprio pensiero, del proprio dire e rappresentare. «Buona parte della minoranza leggente e pensante è finita sotto questi effetti della televisione, assimilando il modo distorto, impoverito e frammentato di percepire il mondo, a cui essa educa; e in tal modo ha perso buona parte del suo potenziale critico-creativo dei modelli socio-culturali. E’ stata politicamente neutralizzata attraverso i suoi canali emotivi». E’ stata una rivoluzione antropologica, in sostanza, che «ha cambiato il sistema, ha destrutturato l’opinione pubblica e i comportamenti politici». Dalla dissoluzione della sintassi del pensiero siamo arricati a dissolvere «la sintassi della socialità», dopo decenni di sovraesposizione totalizzante al dominio del video. Tutto questo, sempre secondo Della Luna, ormai «rende semplicemente impossibile l’esistenza di un’opinione pubblica informata e ragionante, quindi di una partecipazione o anche una consapevolezza dal basso rispetto alle “policies” del potere».Contrariamente alle ottimistiche previsioni di qualcuno, «Internet non ha affatto prevenuto la disinformazione e il degrado cognitivo di massa». E quindi «non ha avuto un effetto ‘democratizzante’». Tutt’altro: «Fornisce potentissimi strumenti di disinformazione, manipolazione e profilazione, oltre a compromettere ulteriormente le funzioni psichiche», tanto che si configura in sindrome patologica. Lo psichiatra Manfred Spitzer (Garzanti, 2013) la chiama “Demenza digitale”. In conclusione: per Della Luna non siamo solo di fronte alla fine della politica pubblica, ma proprio «alla fine della possibilità a priori della politica pubblica». Da un lato, il super-potere effettivo, che opera in condizioni di assoluto isolamento tecnocratico, «non lascia più uno spazio decisionale effettivo a una politica pubblica, a porte aperte». Dall’altro, purtroppo, è venuto meno un soggetto pubblico a cui rivolgersi, per cambiare la governance. L’opinione pubblica è stata sostituita da un’audience anonima, intrattenuta da quella che sembra «una compagnia di teatranti della politica, sostanzialmente uomini di spettacolo», personaggi «seguiti per le loro capacità comunicative, concentrati sui sondaggi e sull’immagine, privi di reale competenza». Di fatto, «soggetti a rapida obsolescenza».In principio era la fiducia: la fiducia nel progresso, nella giustizia, nella democrazia, nella società liberale aperta, nel benessere garantito, nella crescita illimitata. «Col benessere venne la società huxleyana, del piacere, del divertimento, del consumismo, della droga popolare, dei diritti inflazionati, del rilassamento, in cui si assopirono la coscienza di classe, la vigilanza razionale, la partecipazione attiva, perché si evitava tutto ciò che non diverte e che responsabilizza, rendendo così superfluo il controllo dell’informazione». Avanti così, fino a quando le masse non persero la loro rilevanza economica, quindi il loro potere di contrattazione: Marco Della Luna lo spiega nel suo “Oligarchia per popoli superflui”, rieditato nel 2018 da Aurora Boreale. Le minoranze «leggenti e pensanti», secondo Della Luna, persero anche «la capacità psichica di essere un soggetto politico pro-attivo». Allora, il “sogno huxleyano” basato «sulle gratificazioni rimbecillenti che creano consenso sociale» ha iniziato a offuscarsi e trasformarsi in incubo orwelliano, «basato sulla paura e sulla rabbia che fanno accettare tutto». La trasformazione «è iniziata con le grandi angosce lanciate dai media su terrorismo globale, disastri finanziari, crolli economici, sovraindebitamenti e crisi climatiche, esaurimento delle risorse, precarietà irreversibile».
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Antisionismo e antisemitismo, per Salvini tutto fa brodo
Visto che in Europa sopravvive la vergogna strisciante dell’antisemitismo, la follia criminale che attribuisce responsabilità politiche agli ebrei in quanto tali, Matteo Salvini coglie la palla al balzo per confondere l’antisemitismo con le critiche agli eccessi del sionismo, l’ideologia che consente a una potenza nucleare (lo Stato di Israele) di perseguitare con ogni mezzo i palestinesi, destabilizzando il Medio Oriente da mezzo secolo. Il leader della Lega, scrive Amedeo La Mattina su “La Stampa”, «ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori». In quell’occasione, l’ex ministro dell’interno «aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump». Salvini lo ha ripetuto il 16 gennaio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, alla presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati, in un convegno sulle “nuove forme dell’antisemitismo”. La “Stampa” segnala «un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca», da parte del leghista. Barra dritta su alcuni concetti, ripetuti come un mantra: «L’antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico», dichiara Salvini. «Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c’è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa».Attenti alle parole: è noto che nessuno, sano di mente, dice o pensa che “gli ebrei” siano “i nazisti di oggi”. Semmai, l’accusa investe il governo israeliano, da decenni dominato dalla destra. E’ stato Netanyahu a compiere spaventosi abusi verso i palestinesi, come i bombardamenti su Gaza costati 1.400 morti tra la popolazione civile (e la coraggiosa protesta dei Refuseniks, i militari israeliani che esercitano l’obiezione di coscienza rifiutandosi di partecipare ad azioni che rischiano di provocare vittime tra i civili). Le cronache di questi anni sono gremite di proteste: a quelle degli arabi e degli occidentali si aggiungono quelle degli stessi ebrei, scandalizzati per la brutalità della violenza israeliana. L’olandese Henk Zanoli (che salvò ebrei dalle persecuzioni naziste) ha chiesto che il suo nome venisse rimosso dal sacrario dei Giusti di Israele, dove si commemorano gli eroi che misero in salvo innocenti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il giovanissimo soldato Udi Segal ha preferito andare in carcere, pur di non partecipare alle operazioni militari di repressione contro la popolazione di Gaza. «Ho letto i libri di Ilan Pappe», ha spiegato Segal, alludendo al maggiore storico israeliano contemporaneo, ora costretto a insegnare lontano da Israele dopo aver ricordato che la “pulizia etnica” contro gli arabi in Palestina fu avviata ben prima dell’avvento di Hitler.A descrivere la radice violenta di una certa declinazione del sionismo – sostiene Paolo Barnard – bastano i diari di David Ben Gurion: se il sionismo originario era il sogno di Theodor Herzl (una patria ebraica in Palestina, capace di convivere con gli altri popoli della regione), Ben Gurion lo interpretò in modo anche brutale, non esistando a raccomandare di sterminare donne e bambini nei villaggi palestinesi. Solo più tardi l’immane catastrofe della Shoah spinse il mondo a concedere agli ebrei il loro Stato (accompagnato però dalla nascita di quello parallelo per i palestinesi: uno Stato mai nato, quest’ultimo, in seguito alle guerre che costrinsero il neonato Israele a difendersi dai paesi arabi, che non accettarono la costituzione dello Stato israeliano). La pace separata dell’Egitto con Tel Aviv costò la vita al presidente egiziano Anwar Sadat, assassinato da fondamentalisti islamici, mentre l’unico vero accordo strategico tra israeliani e palestinesi, a metà degli anni ‘90, fu sabotato dall’omicidio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista ultra-sionista. Da allora il conflitto non ha fatto che marcire, impugnato come eterno alibi per giustificare la reciproca ostilità arabo-israeliana, costringendo i palestinesi a pagare un prezzo smisurato. Bombe al fosforo bianco su Gaza, dopo che la Striscia è finita sotto il controllo degli islamisti di Hamas, e incentivo (senza più freni) alla politica degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati in Cisgiordania.Recenti gli ultimi due atti, fortemente simbolici: Gerusalemme promossa come futura “capitale israeliana” con la benedizione di Trump, e la trasformazione costituzionale di Israele in “Stato ebraico”, a danno della popolazione non ebrea. Protesta un grande artista come Moni Ovadia, promotore in Occidente della cultura ebraica: «La propaganda più sleale continua ad accusare di antisemitismo chi, come me, si batte semplicemente contro la politica violenta e razzista del governo israeliano». Uno dei leader occidentali del movimento che contesta gli abusi del sionismo contemporaneo è l’inglese Roger Waters: il frontman dei Pink Floyd accusa apertamente Israele di “apartheid” ai danni dei palestinesi, e invita a boicottare i prodotti israeliani. Durissimi con Tel Aviv anche musicisti come Brian Eno e il jazzista ebreo Gilad Atzmon, secondo cui non sono in alcun modo giustificabili le vessazioni quotidiane e le violenze a cui il governo di Israele sottopone l’inerme popolazione palestinese. Con Israele non si scherza: durante l’Operazione Piombo Fuso, i devastanti bombardamenti su Gaza a cavallo tra 2008 e 2009, i Refuseniks furono costretti a ricorrere ad annunci a pagamento, sul quotidiano “Haaretz”, per informare i cittadini della loro protesta: non c’era posto per la voce dei militari dissidenti nella decantata democrazia di Israele, per decenni unico paese a non proporre nelle scuole “Se questo è un uomo” data la posizione di Primo Levi, estremamente critico rispetto al sionismo.Tutt’altra storia è invece quella delle cronache europee che, specie in paesi come la Francia, ripropongono l’abominio dell’antisemitismo, un sentimento che infetterebbe ancora alcuni strati dell’opinione pubblica. Nel convegno romano di Palazzo Giustiniani, a denunciarlo è Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Pubblic Affairs: la lordura antisemita riemerge «nel cuore dell’Occidente», e questo «fa capire che combattere l’antisemitismo significa combattere in difesa della nostra civilizzazione». Oltre al neonazismo fanatico, Gold accusa anche una certa sinistra, che nel difendere i palestinesi tollera l’estremismo islamista, che nega ancora a Israele il diritto di esistere. Ma è proprio lo Stato di Israele, ha precisato l’ambasciatore in Italia Eydar Dror, «la polizza assicurativa di tutti gli ebrei del mondo: grazie a esso – dice Dropr – possono andare a testa alta in tutto il mondo, e in caso di necessità tornare a casa». Per l’ambasciatore, l’antisemitismo è una cartina di tornasole: «Indica il declino della società e ne prevede il crollo». È in questa chiave, sottolinea la “Stampa”, che la presidente Casellati ha parlato della necessità di preservare «una società forte della propria identità, che ripudia l’intolleranza e il razzismo».Temi tornati di attualità, secondo la Casellati, anche a causa di una globalizzazione esasperata che tende a sacrificare le nostre tradizioni e radici culturali. «Ma sono temi che chiamano in ballo Salvini e un pezzo del suo elettorato che viene dalla destra anche estrema», scrive Amedeo La Mattina sulla “Stampa”. «Il leader leghista rifiuta accostamenti con CasaPound e Forza Nuova», e nega di alimentare intolleranza e razzismo. «Accuse assurde», precisa, aggiungendo che il contrasto all’immigrazione e la difesa dei confini non c’entrano nulla con l’intolleranza, il razzismo, la Shoah. Salvini si è detto dispiaciuto che «qualcuno non sia venuto» al convegno. Chiaro il rifermento alla senatrice a vita Liliana Segre, che non ha accettato di partecipare. «Lei ha tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha scandito l’ex ministro. La “capitana” viene dunque presa a simbolo di quella sinistra “antisionista e antisemita” che inquieterebbe gli israeliani. Ma ad essere messa alla prova – scrive ancora La Mattina – sarà la sinistra di casa nostra: «Salvini chiede che presto il Parlamento voti sul documento dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance) che identifica l’antisemitismo oggi».Da Salvini, non una parola sugli abusi di Israele verso i palestinesi. Al contrario: per il leader della Lega, il vero problema è rappresentato da «una Ue che nega le radici giudaico-cristiane ed etichetta i prodotti israeliani, una Onu che nel 2018 dedica alla condanna di Israele 18 risoluzioni e neanche una a Iran e Turchia». Salvini fa l’ultra-israeliano, schierandosi con il blocco di potere che fa capo a Netanyahu, ignorando le posizioni critiche che emergono dalla stessa società israeliana. Quanto a Gerusalemme capitale, nell’antichissima “città santa” (per ebrei, arabi e cristiani) gli abitanti ultra-ortodossi del quartiere Mea Shearim condannano il sionismo, sostenendo che nemmeno la Bibbia autorizza in alcun modo l’esistenza di uno Stato ebraico. Ma si tratta di argomenti non abbordabili per il capo della Lega, abituato a tagliare tutto a fette grosse. Dopo aver suscitato imbarazzo anche tra i cattolici per l’ostentazione del crocifisso nei comizi politici, è stato l’unico politico europeo (insieme all’inglese Johnson) ad esultare pubblicamente per l’omicidio terroristico del generale Soleimani, eroe nazionale dell’Iran ed emblema di un paese di cui l’Italia resta, a quanto a pare, il primo partner economico. Assediato dalle indagini (tra cui quella sulla missione russa di Savoini), il leghista che ambisce a guidare l’Italia chiede aiuto all’asse Usa-Israele e confonde volutamente l’antisionismo con l’antisemitismo, dopo aver insultato 80 milioni di iraniani.Visto che in Europa sopravvive la vergogna strisciante dell’antisemitismo, la follia criminale che attribuisce responsabilità politiche agli ebrei in quanto tali, Matteo Salvini coglie la palla al balzo per confondere l’antisemitismo con le critiche agli eccessi del sionismo, l’ideologia che consente a una potenza nucleare (lo Stato di Israele) di perseguitare con ogni mezzo i palestinesi, destabilizzando il Medio Oriente da mezzo secolo. Il leader della Lega, scrive Amedeo La Mattina su “La Stampa“, «ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori». In quell’occasione, l’ex ministro dell’interno «aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump». Salvini lo ha ripetuto il 16 gennaio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, alla presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati, in un convegno sulle “nuove forme dell’antisemitismo”. La “Stampa” segnala «un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca», da parte del leghista. Barra dritta su alcuni concetti, ripetuti come un mantra: «L’antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico», dichiara Salvini. «Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c’è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa».
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Master Roosevelt: per conoscere i segreti del grande potere
Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.Il corso è destinato a italiani disposti a ricevere una formazione speciale, che li metta nelle condizioni di vedersela alla pari con i grandi player dell’attualità. Storia della conoscenza, storia del potere e delle civiltà umane. E poi: economia post-keynesiana e rooseveltiana, finanza etica e conti pubblici, geopolitica. Comunicazione: marketing e pubblicità, giornalismo, media e televisione. Ma anche “scienza, polis e potere”, filosofia politica, ecologia, salute, arte e letteratura, cinema, musica e “affabulazione collettiva”. Sono alcune delle materie del “Master Roosevelt in Scienze della Polis”, al via a fine gennaio: 12 weekend intensivi, tra Roma e Milano, con anche il supporto video per chi non potrà partecipare a tutte le lezioni. «Solo il nostro master – assicurano i promotori – offre insegnamenti teorico-pratici che coprono tutto lo “scibile” contemporaneo». Informazioni preziose per affrontare il buongoverno della cosa pubblica, consapevoli dei propri diritti e doveri, oltre che della propria sovranità di cittadini. «Inoltre – aggiungono gli organizzatori – questo master soddisfa esigenze di conoscenza inter-disciplinare (di natura sia “materiale” che “spirituale”) che nessun’altra alta scuola di formazione può garantire».Basta dare un’occhiata alle docenze proposte. Per esempio: storia, teoria e pratica dei servizi segreti e dell’intelligence pubblica e privata. Oppure: esoterismo, iniziazioni e massoneria. Ancora: introduzione alla Kabbalah. E poi simbologia, ideologie e sistemi di pensiero. Un lavoro in profondità: si parlerà di archetipi psicologici e comportamenti politico-sociali, svelando «i segreti delle energie sottili e delle arti marziali e venusiane». Premessa: è il potere stesso – per chi non l’avesse ancora capito – a padroneggiare queste materie. E il Master Roosevelt è dunque la prima opportunità, offerta a tutti, di esplorare quel mondo elusivo, precluso ai più. Ad affermarlo è lo stesso Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha tolto il velo all’aspetto più segreto dell’establishment: «A muovere anche i massimi oligarchi è una sorta di “aristocrazia dello spirito”, che li induce a ritenersi gli unici depositari dei destini del mondo». Non la pensa così l’autore di “Massoni”, già inziato alla superloggia progressista “Thomas Paine” e ora leader del Grande Oriente Democratico. La sua tesi: «La vera massoneria è costituzionalmente progressista. Storicamente, è stata proprio la “libera muratoria” a produrre le forme della modernità, lo Stato di diritto, la relativa libertà del cittadino non più suddito e la facoltà di auto-governarsi mediante elezioni democratiche, una volta conquistato il suffragio universale».Pietra miliare: la Rivoluzione Francese, con la caduta dell’Ancien Régime. Da allora, lotte e rivolte in tutto il mondo, fino al Risorgimento italiano. Quindi i decenni gloriosi del boom, nell’ultimo dopoguerra: «Era massone Franklin Delano Roosevelt, che volle il Piano Marshall dopo aver sconfitto il nazismo. Era “libera muratrice” sua moglie Eleanor, madrina dei diritti umani. Era massone Keynes, lo stratega del benessere diffuso in Occidente. Ed erano massoni John Rawls e William Beveridge, gli inventori del welfare (concepito per eliminare il gap tra ricchi e poveri)». Nel suo saggio – un vero e proprio bestseller italiano – Magaldi scrive che la leadership culturale e politica delle superlogge progressiste fu sabotata con la violenza alla fine degli anni Sessanta, negli Usa, con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King: i rooseveltiani li avevano scelti, come presidente e vice, per cambiare faccia al mondo. Non è andata così: nel 1973 (proprio l’11 settembre) la superloggia “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller organizzò il golpe in Cile introducendo il neoliberismo con i carri armati. Due anni dopo, la Trilaterale avrebbe spiegato, con il manifesto “La crisi della democrazia”, che era iniziata la grande retromarcia storica: meno diritti, meno pace e meno benessere per tutti. Sulla base di cosa? Di un piano egemonico: la riconquista del pianeta, da parte di un’élite massonica che i sodali di Magaldi definiscono “controiniziata”, avendo rinnegato l’impegno massonico per il progresso democratico dell’umanità.Nel 2011, in televisione, lo stesso Magaldi si espose in prima persona per segnalare la militanza – nella supermassoneria reazionaria – di primattori come Mario Monti, il presidente Napolitano e lo stesso Draghi. Sei mesi dopo l’uscita del suo dirompente saggio (silenziato dai grandi media), Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt, un soggetto meta-partitico che si propone di “risvegliare” la politica italiana in modo trasversale, appellandosi a tutti i partiti per il ripristino della democrazia sostanziale nella governance, dominata da un’Ue non democratica. Nel 2019, viste le incertezze deludenti del governo gialloverde, Magaldi (insieme all’economista Nino Galloni, vicepresidente “rooseveltiano”) ha anche aperto il cantiere del “Partito che serve all’Italia”, work in progress politico-programmatico: fine dell’austerity, istruzioni per l’uso. E ora, con il master, si passa direttamente all’attività formativa. Nel corso di un anno, il programma affronta materie vaste e complesse: istituzioni democratiche e meccanismi elettorali, amministrativi e parlamentari, approfondendo anche le leggi ordinarie e quelle costituzionali. E poi relazioni istituzionali pubbliche e private, euro-atlantismo e Nato, area mediterranea e strategie militari globali, storia contemporanea e dinamiche planetarie.Tra le docenze non mancano “polis e disabilità”, rigenerazione urbana e architettura, organizzazione del lavoro, “percezione di sé e osservazione dell’ambiente”. Un impegno a 360 gradi: modelli democratici ed elettorali a confronto. Una bussola precisa: mente, coscienza ed etica, tra politica e società. In altre parole: si tratta di formare super-cittadini, capaci di misurarsi senza timidezza con qualsiasi interlocutore, per arrivare – domani – a irrobustire finalmente una classe politica diversa, più preparata, in grado di tutelare l’Italia nel solo modo che Magaldi e i suoi ritengono possibile, e cioè recuperando la sovranità democratica di concerto con il resto d’Europa e del mondo. Da qualche tempo, lo stesso Magaldi segnala indizi di un possibile cambiamento in corso: «L’élite massonica neoaristiocratica che ha messo in piedi quest’Europa post-democratica sta per cedere, di fronte al disastro socio-economico che ha prodotto: lo dimostrano anche le esternazioni pubbliche e private di un supermassone come Mario Draghi, tra i massimi architetti dell’austerity, che ora si dichiara pronto a tornare sui suoi passi, recuperando la lezione di Keynes e quella personalmente ricevuta dal grande economista italiano Federico Caffè».Durissimo nel denunciare le peggiori malefatte del potere e i suoi aspetti più occulti, Magaldi ha fiducia nel futuro: crede sinceramente che la democrazia sociale sperimentata in Europa nel dopoguerra possa riprendere il suo corso. Ma per sbriciolare il potere degli oligarchi, dice, occorre una nuova generazione di italiani, all’altezza della sfida. Occorre anche gettare nella spazzatura l’ipocrisia che, nel nostro paese, impedisce di riconoscere il ruolo della massoneria, menzionando le logge solo per demonizzarle. E se sono massoni molti dei protagonisti negativi dell’attuale establishment, è meglio acquisire quelle stesse competenze, anche senza entrare in massoneria. Pure questa, in fondo, è tra le missioni del Master Roosevelt: fare in modo che nessuno detenga il monopolio della conoscenza. Avverte Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sui misfatti neo-feudali del neoliberismo: ai “mostri” del vero potere, menti raffinatissime e preparatissime, non puoi opporre un branco di politicanti spesso mediocri e ignoranti come quelli italiani. Prima ancora che il servilismo, è la loro incompetenza a trasformarli fatalmente in docili maggiordomi, meri esecutori di decisioni prese altrove.Se siamo ridotti così, con governi-fantasma che prendono ordini da Bruxelles, da una Commissione Europea che è solo la cinghia di trasmissione del volere di potentati privati, secondo Magaldi dipende dagli snodi cruciali della storia recente. Per esempio l’eliminazione del massone progressista Olof Palme, campione del welfare svedese, alla vigilia delle trattative che avrebbero portato al Trattato di Maastricht. Da quel “frame” sciagurato non siamo ancora usciti: ci hanno fatto credere che il debito pubblico sia una colpa, e che lo Stato sia come una famiglia che, se s’indebita, poi deve ripagare tutto (e con gli interessi). Solo nel 2018, sulla base di questi presupposti – a essere sovrani sono i mercati finanziari, non i cittadini – Mattarella impedì a Paolo Savona l’accesso al ministero dell’economia. In quell’occasione, Magaldi chiese le dimissioni del presidente della Repubblica, che definì «un servizievole paramassone». Rispetto all’epoca del governo Monti, l’informazione alternativa ha fatto passi da gigante, grazie al web. E’ cresciuta una forte minoranza, finalmente informata. Fioriscono iniziative, convegni, gruppi. Ma manca ancora un progamma organico per mettere a fuoco il problema in modo esauriente, forgiando autentici esperti. Ed è esattamente a questo che punta il Master Roosevelt, prima scuola italiana che nasce per insegnare a sfidare, domani, questo potere che tiene prigioniero il paese.(L’avvio del Master Roosevelt in Scienze della Polis è previsto per sabato 25 gennaio 2020, ore 9, presso l’Istituto Sant’Orsola di via Livorno 50/a, Roma).Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.
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Noi terroristi e i diritti altrui: l’Impero ha assorbito l’America
Quindi, il 2020 è iniziato in modo entusiasmante. Siamo appena a metà gennaio e abbiamo già superato la Terza Guerra Mondiale, che si è rivelata leggermente meno apocalittica del previsto. Le squadre della scientifica stanno ancora setacciando le ceneri, ma i rapporti preliminari suggeriscono che l’Impero Capitalista Globale è emerso dalla carneficina in gran parte intatto. La guerra era, ovviamente, iniziata in Medio Oriente quando Donald Trump (un “agente russo”) aveva ordinato l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad, presumibilmente dopo essere stato autorizzato da Putin, cosa che, viste le relazioni tra Iran e Russia, non ha ha davvero molto senso. Ma lasciamo perdere. Secondo il governo degli Stati Uniti e i media corporativi, Soleimani era un “terrorista,” che aveva lavorato con Assad (un altro “terrorista”) per distruggere l’Isis (anch’essi “terroristi”), ed elementi di Al-Qaeda (che erano soliti essere “terroristi”) e che aveva il sostegno dei russi (che sono una specie di “terroristi”) per compiere tutta una serie di altri, non specificati ma presumibilmente imminenti, atti “terroristici.”Apparentemente, Soleimani era volato a Baghdad con un volo commerciale “terroristico” segreto, per recarsi ad una sorta di incontro diplomatico “terroristico” altrettanto segreto, dove avrebbe dovuto discutere di de-escalation con i sauditi (che sicuramente non sono “terroristi”), quando l’esercito americano lo aveva preventivamente ucciso con un drone Mq-9b Reaper della General Atomics Aeronautical Systems. L’Iran, (ufficialmente un paese “terrorista” fin dal gennaio 1979, quando gli iraniani avevano rovesciato il brutale fantoccio dell’Occidente che la Cia e l’Mi6 avevano installato come loro “Shah” nel 1953, che aveva defenestrato il primo ministro iraniano, reo di aver nazionalizzato la compagnia petrolifera anglo-persiana, in seguito conosciuta come British Petroleum), aveva reagito all’omicidio preventivo del loro generale “terrorista” proprio come un paese di “terroristi”. L’ayatollah Khamenei (avete indovinato, un “terrorista”) aveva lanciato una serie di minacce “terroristiche” contro i 50.000 uomini del personale militare degli Stati Uniti che, più o meno, circondano completamente il suo paese, con basi in tutto il Medio Oriente.Milioni di iraniani (attualmente “terroristi,” ad eccezione dei membri del Mek), che, secondo i funzionari statunitensi odiavano Soleimani, erano scesi nelle strade di Teheran e di altre città per piangere la sua morte, bruciare bandiere americane e gridare “morte all’America” e altri slogan “terroristici”. L’Impero era andato a Defcon 1. L’82a Divisione Aviotrasporta era stata messa in allerta. Il Dipartimento di Stato aveva consigliato agli americani in vacanza in Iraq di andarsene da lì, #worldwar3 aveva iniziato a fare tendenza su Twitter. I paesi amanti della libertà di tutta la regione stavano per essere annientati. L’Arabia Saudita aveva posticipato la sua già programmata edizione del fine settimana di decapitazioni pubbliche. Israele aveva attivato le sue inesistenti armi nucleari. I kuwaitiani avevano messo guardie armate davanti alle loro incubatrici. Qatar, Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e gli altri fedeli avamposti dell’Impero avevano fatto quello che di solito si fa quando si è di fronte all’Armageddon nucleare.Negli Stati Uniti, era un’isteria collettiva. I media corporativi avevano iniziato a pompare storie su Soleimani con «le mani che grondavano sangue», «il terrorista numero uno al mondo», reo di aver ucciso centinaia di soldati americani che, nel 2003, dopo aver preventivamente invaso e distrutto l’Iraq, stavano preventivamente massacrando e torturando gli iracheni per impedire loro di attaccare l’America con le loro inesistenti armi di distruzione di massa. Gli americani (la maggior parte dei quali non aveva mai nemmeno sentito parlare di Soleimani fino a quando il loro governo non lo aveva ucciso, e che non sarebbe in grado trovare l’Iran su una carta geografica) si erano buttati su Twitter per chiedere l’immediato bombardamento dell’Iran direttamente dallo spazio. Il sindaco Bill de Blasio aveva ordinato a una divisione di forze “anti-terrorismo” pesantemente armate di vigilare su New York City, fucili imbracciati, per impedire agli iraniani di attraversare a nuoto l’Atlantico (insieme al loro delfini assassini comunisti), toccare terra ad East Hampton Beach, prendere la metropolitana fino in città e commettere atrocità “terroristiche” devastanti, che sarebbero poi state commemorate per l’eternità su portachiavi, magliette e tazze da caffè extralarge.Trump, da buon agente russo, aveva tenuto i nervi saldi e non si era fatto scoprire, eseguendo il suo numero di “completo deficiente” come solo un esperto agente russo è in grado di fare. Mentre l’Iran era ancora in lutto, aveva iniziato a farfugliare in pubblico sul cadavere smembrato di Soleimani, sul bombardamento di siti culturali iraniani e a schernire grossolanamente l’Iran come un ubriaco da strada emotivamente alterato. La sua strategia era chiaramente quella di convincere gli iraniani (e il resto del mondo) di essere un pericoloso imbecille che avrebbe ucciso i funzionari di qualsiasi governo straniero che Mike Pompeo gli avesse indicato, e che poi avrebbe incenerito i loro musei e le loro moschee e, presumibilmente, anche tutto il resto del loro “cessoso” paese, se solo avessero pensato a ritorsioni. Ciononostante, gli iraniani avevano reagito. In una sadica esibizione di “spietato terrorismo”, avevano lanciato una tempesta di missili balistici “terroristici” contro due basi militari statunitensi in Iraq, non uccidendo nessuno e non ferendo nessuno, ma riducendo in cenere alcuni edifici vuoti, un elicottero e un paio di tende.Prima, però, al fine di massimizzare il “terrore”, avevano chiamato i funzionari dell’ambasciata svizzera a Teheran e avevano chiesto loro di avvertire i militari statunitensi che, a breve, avrebbero lanciato alcuni missili contro le loro basi. Come riportato dal sito web di “Moon of Alabama”: «L’ambasciata svizzera a Teheran, che rappresenta gli Stati Uniti, era stata avvertita almeno un’ora prima dell’attacco. Intorno alle 0:00 Utc, la Federal Aviation Administration degli Stati Uniti aveva emesso un avviso agli aviatori (Notam) che proibiva i voli civili statunitensi su Iraq, Iran, Golfo Persico e Golfo di Oman». Sulla scia del devastante contrattacco degli iraniani e delle non-vittime di massa risultanti, chiunque in possesso di una connessione ad Internet o ai canali televisi era sceso nel proprio bunker anti-terrorismo e aveva trattenuto il respiro, in previsione dell’inferno nucleare che Trump avrebbe sicuramente scatenato. Confesso di aver seguito anch’io il suo discorso, uno degli spettacoli pubblici più inquietanti a cui abbia mai assistito.Trump era uscito a passo di carica dalle porte del Grand Foyer della Casa Bianca, drammaticamente retroilluminato, “abbronzato” di fresco, accigliato come un lottatore di wrestling, e aveva annunciato che, finché sarebbe stato presidente, «all’Iran non sarà mai permesso di avere armi nucleari», come se uno qualsiasi degli eventi della settimana precedente avesse avuto a che fare con le armi atomiche (di cui gli iraniani non hanno bisogno e che non vogliono, tranne che in qualche delirio dei Neoconservatori, a meno che non intendano suicidarsi come nazione nuclearizzando Israele). Non ce l’avevo fatta ad ascoltare tutto il suo discorso, proferito in uno staccato affannato e robotico (forse perché Putin, o Mike Pompeo, glielo dettavano, parola per parola, nel suo auricolare), ma era stato chiaro fin dall’inizio che si era evitato lo scontro nucleare completo, faccia a faccia, con l’Asse della Resistenza, o l’Asse del Terrore, o l’Asse del Male o l’asse di qualunque cosa. Ma, seriamente, isteria di massa a parte, nonostante qualunque atrocità debba ancora arrivare, la Terza Guerra Mondiale non scoppierà. Perché, vi chiederete?Ok, ve lo dico, ma non vi piacerà. La Terza Guerra Mondiale non ci sarà perché la Terza Guerra Mondiale è già avvenuta … e l’Impero Capitalista Globale ha vinto. Date un’occhiata alle mappe della Nato (con tutte le varie basi). Guardate la mappa dello Smithsonian delle località in cui i militari statunitensi “combattono il terrorismo”. E ci sono molte altre mappe che potete cercare con Google. Quello che vedrete è l’Impero Capitalista Globale. Non l’Impero Americano, l’Impero Capitalista Globale. Se questo suona come una distinzione senza importanza, be’, in un certo senso lo è (e in un certo senso, no). Quello che voglio dire è che non è l’America (cioè l’America come Stato-nazione, in cui la maggior parte degli americani crede ancora di vivere) che sta occupando militarmente gran parte del pianeta, facendosi beffe del diritto internazionale, bombardando, invadendo altri paesi e assassinando capi di Stato e militari in totale impunità. O meglio, certo, è l’America: ma l’America non è l’America.L’America è una simulazione. È la maschera che l’Impero Capitalista Globale indossa per nascondere il fatto che non esiste l’America, che esiste solo l’Impero Capitalista Globale. L’intero concetto di Terza Guerra Mondiale, di potenti Stati-nazione che conquistano altri potenti-Stati-nazione, è pura nostalgia. L’”America” non vuole conquistare l’Iran. L’Impero vuole ristrutturare l’Iran e poi assorbire l’Iran nell’Impero. Se ne sbatte della democrazia, del fatto che alle donne iraniane sia permesso o meno indossare la minigonna o degli altri “diritti umani”. Se così non fosse, ristrutturerebbe l’Arabia Saudita e applicherebbe la “massima pressione” su Israele. Allo stesso modo, l’idea che “l’America” in Medio Oriente abbia commesso una serie di sfortunati “errori strategici” è una conveniente illusione. Certo, la sua politica estera non ha senso dal punto di vista di uno Stato-nazione, ma è perfettamente logica dal punto di vista dell’Impero.Mentre “l’America” sembra agitarsi senza senso, come un toro in un negozio di porcellane, l’Impero sa esattamente cosa sta facendo e ha continuato a farlo fin dalla fine della Guerra Fredda, aprendo mercati precedentemente inaccessibili, eliminando le resistenze interne, ristrutturando in modo aggressivo tutti quei i territori che non volevano accettare le regole del capitalismo globale. So che è gratificante sventolare la bandiera (o bruciarla, a seconda della vostra propensione politica) ogni volta che le cose si infiammano militarmente; ma ad un certo punto, noi (americani, inglesi, occidentali) dovremo affrontare il fatto che viviamo in un impero globale, che persegue attivamente i suoi interessi globali, e non in Stati nazionali sovrani che fanno gli interessi degli Stati nazionali. (Il fatto che lo Stato-nazione sia defunto è il motivo per cui stiamo assistendo ad una rinascita del “nazionalismo”. Non è un ritorno agli anni Trenta. E’ l’agonia dello Stato-nazione, del nazionalismo e della sovranità nazionale… la supernova di una stella morente). La Terza Guerra Mondiale è stata una battaglia ideologica, tra due sistemi egemonici in competizione. È finita. Questo è un mondo capitalista globale.Come afferma Jensen nel film “Network”: «Sei un vecchio che pensa in termini di nazioni e di popoli. Non ci sono nazioni. Non ci sono popoli. Non ci sono russi. Non ci sono arabi. Non ci sono Terzi Mondi. Non c’è Occidente. Esiste un solo sistema olistico di sistemi: un vasto, immane, intrecciato, interconnesso, multivariato, multinazionale dominio dei dollari. Petro-dollari, elettro-dollari, multi-dollari, reichsmark, yen, rubli, sterline e shekel. È il sistema internazionale delle valute che determina la totalità della vita su questo pianeta. Questo è l’ordine naturale delle cose, oggi». Quel sistema di sistemi, quel dominio multivariato e multinazionale di dollari, ci tiene tutti per le palle, gente. Tutti quanti. E non sarà soddisfatto fino a quando il mondo non si sarà trasformato in un inutile e privatizzato grande mercato neo-feudale. Quindi dovremmo dimenticarci della Terza Guerra Mondiale ed iniziare a concentrarci sulla Quarta Guerra Mondiale. Sapete di quale guerra sto parlando, vero? Quella dell’Impero Capitalista Globale contro i “terroristi.”#(C.J. Hopkins, “La Terza Guerra Mondiale”, da “Unz.com” del 13 gennaio 2020, post tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Quindi, il 2020 è iniziato in modo entusiasmante. Siamo appena a metà gennaio e abbiamo già superato la Terza Guerra Mondiale, che si è rivelata leggermente meno apocalittica del previsto. Le squadre della scientifica stanno ancora setacciando le ceneri, ma i rapporti preliminari suggeriscono che l’Impero Capitalista Globale è emerso dalla carneficina in gran parte intatto. La guerra era, ovviamente, iniziata in Medio Oriente quando Donald Trump (un “agente russo”) aveva ordinato l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad, presumibilmente dopo essere stato autorizzato da Putin, cosa che, viste le relazioni tra Iran e Russia, non ha ha davvero molto senso. Ma lasciamo perdere. Secondo il governo degli Stati Uniti e i media corporativi, Soleimani era un “terrorista,” che aveva lavorato con Assad (un altro “terrorista”) per distruggere l’Isis (anch’essi “terroristi”), ed elementi di Al-Qaeda (che erano soliti essere “terroristi”) e che aveva il sostegno dei russi (che sono una specie di “terroristi”) per compiere tutta una serie di altri, non specificati ma presumibilmente imminenti, atti “terroristici”.
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Magaldi: Iran, Cia e Mossad. Ma in palio c’è la democrazia
Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.«Un’élite occulta e reazionaria si era impossessata delle istituzioni statunitensi, progettando direttamente l’attentato delle Torri Gemelle». Il piano: «Fingere di “esportare la democrazia” in Medio Oriente, usando il terrorismo “false flag” (fabbricato in casa) per promuovere guerre devastanti come quelle che hanno prostrato l’Iraq, col risultato di distruggere il prestigio degli Usa nella regione». Parola di Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha svelato nomi e cognomi del club del terrore chiamato “Hathor Pentalpha”, inventore delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Stragismo atlantico clandestino, cinicamente progettato con l’affiliazione nella “Hathor” di supermassoni occulti come Osama Bin Laden (Al-Qaeda) e poi Abu Bakr Al-Bahdadi, sedicente “califfo” dell’Isis. La “Hathor” fu creata da Bush senior poco dopo l’insediamento a Teheran del regime degli ayatollah: era comodissimo, il turbante di Khomeini, per prepararsi a inoculare nei media occidentali il veleno del famoso “scontro di civiltà”. La tesi: l’Islam è un nemico, non può coesistere col sistema socio-economico occidentale. Bufale, e tanta ipocrisia: «Gli Usa – sottolinea Magaldi – convivono tuttora benissimo con le monarchie petrolifere del Golfo come l’Arabia Saudita, il cui autoritarismo teocratico è forse persino peggiore di quello dell’Iran khomeinista».Il grande alibi, per tutti, è sempre stato Israele: ovvero l’ostilità islamica verso lo Stato ebraico, accusato di aver schiacciato i palestinesi. L’uomo che stava per metter fine a mezzo secolo di massacri – Yitzhak Rabin, Premio Nobel per la Pace – venne assassinato nel 1995 da un fanatico israeliano ultra-sionista. Tolto di mezzo il massone progressista Rabin (e il miraggio dello Stato palestinese) si sono scatenati i “neocon” statunitensi, con il loro piano di egemonia e business fondato sulla “guerra infinita”, alimentata dagli “inside job” del terrorismo condotto sotto falsa bandiera, da manovalanza jihadista pilotata da servizi segreti occidentali. Attorno alle macerie dell’Iraq e della tormentatissima Striscia di Gaza sono quindi gradualmente riaffiorate le potenze regionali, accanto a Israele: l’Arabia Saudita, la Turchia e, naturalmente, l’Iran. Quest’ultimo, di recente, ha ampliato enormemente la sua sfera d’influenza: dallo Yemen al Libano, da Gaza alla Siria fino al vicino Iraq. Uomo-chiave della Mezzaluna Sciita, il grande stratega Qasem Soleimani, considerato una sorta di eroe nazionale per aver fermato i tagliagole dell’Isis tenendoli lontani dalle frontiere iraniane, indirettamente minacciate dagli impresari occulti dello Stato Islamico.Proprio la riconosciuta funzione patriottica di Soleimani – oltre alle sconcertanti modalità della sua morte, un atto terroristico apertamente rivendicato dagli Usa – spiega la folla oceanica ai funerali, milioni di persone (e addirittura una quarantina di morti, nella calca, in una manifestazione di dolore collettivo, intensamente popolare, esibito per giorni di fronte al mondo). Un militare integerrimo, Soleimani, che aveva rifiutato la politica per restare tra i suoi soldati, la temutissima brigata Al-Quds, specializzata in operazioni coperte, oltre i confini. L’eroe di Teheran era da tempo nel mirino del Mossad, che ne temeva le mosse d’intesa con Hamas a Gaza e con Hezbollah in Libano. In Iraq, era stato determinante (accanto alle forze coordinate da Trump) nello sconfiggere il Califfato. Idem in Siria: con i russi, l’esercito di Assad e i miliziani sciiti libanesi, Soleimani aveva contribuito in modo decisivo a ripulire il paese dai terroristi inizialmente armati, addestrati e protetti dall’Occidente. Perché sia stato ucciso il 3 gennaio 2020 (e in quel modo, in un paese terzo, con un missile sparato da un drone) resta un mistero.Le fonti mainstream occidentali lo accusano di aver orchestrato, nei giorni precedenti, l’assalto all’ambasciata statunitense di Baghdad. Il governo iracheno smentisce: al contrario, afferma, Soleimani era stato chiamato dall’Iraq per una delicata missione diplomatica. Doveva innanzitutto calmare le acque tra le milizie sciite (alcune ostili al predominio iraniano) e, soprattutto, consegnare un messaggio strategico destinato all’Arabia Saudita, cui Teheran proponeva una de-escalation nella regione. Chi ha ucciso Soleimani, dunque, intendeva tagliare le gambe a una possibile intesa di pace tra la nazione leader degli sciiti e quella dei sunniti? Altre vere spiegazioni, del resto, non giungono da nessun’altra parte: la propaganda mediatica statunitense s’è limitata, in modo imbarazzante, a definire “un terrorista” l’uomo-chiave dell’intelligence militare dell’Iran. Giulietto Chiesa ricorda i propositi omicidi di Yossi Cohen, il capo del Mossad, e cita il senatore repubblicano Lindsay Graham, che ha minacciato Trump: se ritira le truppe Usa dal Medio Oriente, può scordarsi l’appoggio di metà del partito al Senato, quando si dovrà decidere sull’impeachment. Il solito network filo-sionista, che il cospirazionismo chiama impropriamente lobby ebraica?Gianfranco Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt fondato da Magaldi, fa un’altra ipotesi: sempre sotto la minaccia dell’impeachment (e quindi dell’appoggio condizionato per le imminenti elezioni presidenziali) sarebbe stata proprio la famigerata “Hathor Pentalpha”, annidata nel Deep State americano, a indurre Trump a colpire Soleimani per “rimediare” alla recente, sbandierata uccisione di Al-Baghdadi, esponente della “Hathor”. Una ricostruzione che però non convince Magaldi: «Il network massonico-progressista internazionale, a cui io stesso appartengo – dice – contribuì a far eleggere Trump proprio per tenere lontana la “Hathor” dalle stanze del potere». E inoltre – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – i supermassoni della “Hathor” «continuano a vedere Trump come il fumo negli occhi: impensabile un accordo tra loro e la Casa Bianca». Ma allora, perché Soleimani è stato ucciso proprio ora? Secondo Magaldi, l’episodio fa parte della spietata logica simmetrica della guerra permanente, che è aberrante ma tragicamente coerente: se hai a lungo sfidato la superpotenza egemone (e i suoi terroristi) anche utilizzando milizie pronte a usare il medesimo terrorismo, non puoi non sapere che un giorno potresti cadere sul campo a tua volta, come qualsiasi altro combattente.Soleimani però non era un combattente qualsiasi, era il massimo responsabile della politica dell’Iran sul terreno mediorientale. Di più: era il grande protagonista della riconquista sciita dei territori disastrati dall’imperialismo Usa, tra le macerie della regione petrolifera perennemente funestata dalla piaga dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese, spesso usato come alibi da entrambe le parti per perseguire politiche di potenza. «Non è un mistero – dice Magaldi – che i “falchi” israeliani si siano accordati, in passato, anche con i “falchi” iraniani: si finge di combattersi all’infinito, e lo spettro del nemico esterno – vero o presunto – è comodissimo per rafforzare il potere interno». Magaldi invita a esaminare quale fosse il principale referente di Soleimani: l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran e capo dell’ala più reazionaria del regime. Gli stessi Pasdaran, di cui la Quds Force di Soleimani è la punta di lancia, rappresentano una bella fetta del potere, anche economico, della teocrazia sciita. Un bersaglio perfetto, il valoroso generale, per chi avesse voluto colpire la radice più intransigente dei “padroni” di Teheran: un capitolo di quella che Federico Rampini chiama “la seconda guerra fredda”, che oggi vede Trump fronteggiare bruscamente la Cina e i suoi alleati. Nel mirino c’è quindi l’Iran, snodo nevralgico del Golfo Persico lungo la nuova Via della Seta. Un paese da quarant’anni ostile agli Usa, e ora alleato con Pechino e Mosca.«Non mi sorprende l’estrema prudenza con cui Cina e Russia hanno reagito all’uccisione di Soleimani», ribadisce Magaldi, il primo a scommettere – a caldo – sul fatto che l’omicidio (benché così eccellente) non avrebbe provocato l’Armageddon bellico paventato da più parti. Violazione del diritto internazionale? Certo: «Sono episodi brutali, ai quali non vorremmo mai assistere, ma – ripeto – in qualche modo simmetrici, e dettati da una spietata logica squisitamente geopolitica». Al punto che oggi Magaldi arriva a sostenere che Trump, vista l’assenza di ritorsioni clamorose da parte dell’Iran (eccetto il bombardamento missilistico solo dimostrativo, su alcune basi statunitensi in Iraq) sia da considerarsi un obiettivo tecnicamente raggiunto, senza troppi danni: «Se volevano liberarsi di Soleimani, ci sono riusciti: e questo è un fatto». Meglio quindi non lasciarsi condizionare dall’emotività, insiste Magaldi: l’indignazione non aiuta a capire cosa si muove veramente, là fuori, oltre il teatro anche sanguinoso delle apparenze. Sempre secondo Magaldi, poi, l’espansionismo sciita – orchestrato dal regime teocratico di Teheran – oltre Atlantico è considerato come speculare, in qualche modo (almeno, nel richiamo esplicito alla legge coranica, interpretata nel modo più drastico) al terrorismo dell’Isis: stessa visione politica violenta, figlia di un’analoga interpretazione fanatica del medesimo credo religioso?Le differenze sono vistose: in Iran non sono all’opera tagliagole. I macellai dell’Isis, messi in campo dall’Occidente, hanno invece terrorizzato per anni interi Stati mediorientali. Per contro, a Teheran resiste un regime che ignora i diritti civili e pratica una brutale censura, mortifica le donne, nega ogni libertà di espressione, reprime il dissenso, tortura e fa sparire i detenuti scomodi. In altre parole una sorta di dittatura, che trae la sua forza proprio dal durissimo assedio al quale è stata ininterrottamente sottoposta a partire dalla comparsa del turbante di Khomeini. Embargo, sanzioni, minacce militari dirette e indirette. Timidi i tentativi di tregua, come lo storico accordo promosso da Obama sul nucleare, ora stracciato da Trump anche col sangue di Soleimani. Se lo spettacolo non è esattamente edificante, Magaldi si sforza di guardare oltre: la vera sfida, ripete, oppone democrazia e oligarchia, progressisti e reazionari. «Un errore imperdonabile, da parte dell’élite globalista, è stato quello di aver concesso alla Cina di entrare, senza nemmeno uno straccio di democrazia formale, nel grande gioco del commercio planetario, permettendole così di diventare una grande potenza». Sbaglia, sostiene Magaldi, chi si limita a puntare il dito contro l’imperialismo americano: la lobby (massonica) che ha costruito questa globalizzazione senza diritti, mettendo in ginocchio anche il lavoro in Occidente con la tragedia delle delocalizzazioni, era composta da oligarchi di svariati paesi, incluso il gigante cinese. E questa cupola è ancora largamente al comando, mettendo in campo soggetti solo formalmente democratici (come l’Ue) e protagonisti geopolitici che non tentano neppure di fingersi ispirati dalla democrazia.La dialettica tra esponenti progressisti e reazionari, aggiunge Magaldi, «attraversa tutti i gangli del vero potere, persino le più importanti strutture di intelligence come la Cia e il Mossad, dove storicamente coesistono anime antitetiche tra loro». Tutto questo avverrebbe molto in alto, a nostra insaputa, e spesso al di sopra dei governi stessi, ridotti a pedine. Anche per questo, forse, è morto il conservatore Qasem Soleimani, leale soldato dell’Iran degli ayatollah? Secondo il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss, teorico dello strutturalismo, tutto è relativo: nessuno può arrogarsi il diritto di decretare quale sia il sistema politico migliore. Quando scriveva le sue opere, però, la globalizzazione non si era ancora manifestata in tutta la sua potenza: il cosiddetto terzo mondo lottava per liberarsi dai suoi parassitari colonizzatori. All’epoca, da Teheran, non partivano Boeing ucraini carichi di studenti iraniani diretti in Canada. Tragedia nella tragedia, l’abbattimento del volo civile nei cieli della capitale iraniana. «Intendiamoci: non è certo una specialità dell’Iran», precisa Magaldi: «Ne sappiamo qualcosa in Italia, con il caso di Ustica». Amato da Godard e Scorsese, il cinema di Kiarostami ha mostrato al mondo un Iran meraviglioso, fatto di umanità e silenzi. Ricordarsi che esiste anche quello, forse, può aiutare a uscire dal buio sanguinoso di un’attualità nutrita di propaganda, ignoranza e rombanti menzogne quotidiane.Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.
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Giampaolo Pansa, l’ultimo gigante del giornalismo italiano
Giampaolo Pansa, ovvero: quando il giornalismo in Italia esisteva ancora, sfidava il potere, cercava risposte e incideva sulla cultura del paese. Pesava persino sulla storia politica, registrandone l’attività sismica profonda: come quando il venerato capo dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, scelse proprio lui, Pansa, per annunciare al mondo (cioè agli Usa e all’Urss) che si sarebbe sentito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che all’ombra dei carri armati del Patto di Varsavia che avevano invaso l’Ungheria e soffocato la Primavera di Praga. Memorabile, l’intervista concessa al “Corriere della Sera” l’11 giugno 1976: «Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», gli disse Berlinguer, aggiungendo: «Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Pansa l’avrebbe ribattezzato Re Enrico, chiamando Elefante Rosso il suo partito, contrapposto all’eterna Balena Bianca andreottiana. Un “bestiario” memorabile, il suo, ogni settimana aggiornato su “L’Espresso”. «Sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico – ricorda Simonetta Fiori, su “Repubblica” – con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito». In occasione di quello craxiano del ‘91 a Bari, Pansa ribattezzò il veemente Giuliano Ferrara “Cicciopotamo, il socialista islamico”.E’ difficile immaginare il giornalismo italiano senza Giampaolo Pansa, scrive “Repubblica”: è stato protagonista di oltre mezzo secolo di carta stampata. Scomparso a Roma il 12 gennaio all’età di 84 anni, era nato nel 1935 a Casale Monferrato e aveva esordito a 26 anni alla “Stampa”, frequentando poi le redazioni delle testate più autorevoli, «lasciando ovunque una traccia della sua forte personalità: impetuosa, travolgente, anche generosa». La sua firma è legata ai capitoli più importanti della storia italiana, a cominciare dal disastro del Vajont. Sul “Giorno” di Italo Pietra si dedicò a fotografare le trasformazioni dell’Italia del boom, con le contraddizioni del passaggio all’età industriale. Tornato alla “Stampa”, nel 1969 fu incaricato da Alberto Ronchey di scrivere della strage di piazza Fontana. Pochi anni più tardi, al “Corriere”, firmò con Gaetano Scardocchia l’inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockeed. Nel 1977 l’approdo a “Repubblica” e l’inizio del suo lungo sodalizio con Eugenio Scalfari, ferocemente anticraxiano. Pietra miliare nell’attività saggistica di Pansa, il bestseller “Carte false” con cui, nel 1986, inquadrò profeticamente i maggiori vizi del giornalismo italiano “dimezzato”, al servizio del potere politico ed economico.In anni più recenti, la sua attività di storico lo ha posto al centro di furiose polemiche con volumi come “Il sangue dei vinti”, che smaschera i retroscena meno eroici della Resistenza: «Storie di stupri e di torture, di cadaveri irrisi e violati, di fucilazioni di massa e crimini gratuiti». Dopo tante pagine scritte «sulla Resistenza e sulle atrocità commesse dai “repubblichini”», disse Pansa a “Repubblica”, «mi è sembrato giusto vedere l’altra faccia della medaglia, ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale». Alla passione storiografica, Pansa affiancava la felicità di una scrittura narrativa di rara limpidezza. Sul fascismo, Pansa non ha mai cambiato idea: ha definito la Resistenza partigiana la sua «patria morale». Lo ha ricordato ad Aldo Cazzullo, che l’ha intervistato per il “Corriere” nel 2018. La Resistenza come patria morale? «Lo dico ancora. Ma non la Resistenza di chi voleva una dittatura agli ordini di Mosca». L’accusa: «La storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo». Ancora: «Gli storici professionali ci hanno mentito. Settantatré anni dopo, è necessario essere schietti: molte pagine del racconto che viene ritenuto veritiero in realtà non lo è».Le guerre civili furono due, ricordava Pansa: «Oltre a quella contro i nazifascisti, ci fu la guerra condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro». In pratica: «Gli altri partiti non esistevano, a cominciare dai moderati. Stavano nei Comitati di Liberazione, ma non contavano nulla. Invece i comandanti partigiani non comunisti contavano, e spesso molto. Ma quando iniziavano a opporsi alla supremazia del Pci contavano sempre di meno». L’ottantenne Pansa probabilmente non scorse appieno – neppure voltandosi indietro – la grande manipolazione attorno a Mani Pulite che gambizzò l’Italia spazzando via l’intera classe politica italiana proprio alla vigilia della infelice stagione neo-europea, fatale per il nostro paese. Tendeva a liquidare sotto il peso delle loro colpe i campioni della Prima Repubblica, formidabilmente raccontati soprattutto nei loro difetti, fino a farne caricature magistrali (divertenti, e divertite). La penna acuminata di Pansa, tuttavia, restava lontana mille miglia dallo squadrismo post-giornalistico di oggi, che evita di farsi domande e si limita a colpire gli obiettivi indicati, di volta in volta, dai padroni del mainstream.Formatosi nella sinistra culturale italiana, era giunto a fustigare in modo impietoso sia la sinistra “baronale” dell’ex Pci, sbiadita nell’ossequio al neoliberismo, sia il populismo grillo-leghista, di cui Pansa temeva la possibile deriva fascistoide e xenofoba. Dell’antica classe politica che aveva contribuito a “picconare”, probabilmente Pansa rimpiangeva lo stile. E dopo aver fatto infuriare l’Anpi e la propaganda resistenziale egemonizzata dai post-comunisti, Pansa ricordava con immenso rispetto – anche di recente, sul “Corriere” – la sua storica intervista con il capo del Pci. «Durante tutte le tre ore del nostro colloquio, Berlinguer era rimasto teso come una corda di violino», scriveva, il 2 novembre 2019. «Prima di iniziare invece mi aveva accolto come un parente che incontra un lontano cugino. Mi aveva chiesto di mio padre, di mia madre, dei loro sacrifici per farmi studiare e, infine, della mia laurea all’università di Torino con una tesi dedicata alla guerra partigiana tra Genova e il Po. Mi aveva ascoltato con un’affettuosa attenzione». Alla fine, Berlinguer gli disse: «L’Italia ha bisogno di giovani come lei. Non perda entusiasmo per la cultura, continui a studiare e alla fine avrà reso un servizio al suo paese, la nostra povera Italia».Giampaolo Pansa, ovvero: quando il giornalismo in Italia esisteva ancora, sfidava il potere, cercava risposte e incideva sulla cultura del paese. Pesava persino sulla storia politica, registrandone l’attività sismica profonda: come quando il venerato capo dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, scelse proprio lui, Pansa, per annunciare al mondo (cioè agli Usa e all’Urss) che si sarebbe sentito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che all’ombra dei carri armati del Patto di Varsavia che avevano invaso l’Ungheria e soffocato la Primavera di Praga. Memorabile, l’intervista concessa al “Corriere della Sera” l’11 giugno 1976: «Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», gli disse Berlinguer, aggiungendo: «Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Pansa l’avrebbe ribattezzato Re Enrico, chiamando Elefante Rosso il suo partito, contrapposto all’eterna Balena Bianca andreottiana. Un “bestiario” memorabile, il suo, ogni settimana aggiornato su “L’Espresso”. «Sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico – ricorda Simonetta Fiori, su “Repubblica” – con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito». In occasione di quello craxiano del ‘91 a Bari, Pansa ribattezzò il veemente e debordante Giuliano Ferrara “Cicciopotamo, il socialista islamico”.
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Perché ci odiano: i primi terroristi siamo noi, da sempre
C’è una ragione all’odio che ha innescato i terribili attacchi terroristici da parte di cellule impazzite del mondo arabo? Oppure sono solo frutto di ‘fanatismo’? Nel 1986 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sentenziò che gli Stati Uniti sono colpevoli di terrorismo, cioè di uso illegale della forza ai danni del Nicaragua. Come scrissi in “Il terrorismo dell’1%”, un paragrafo di un mio libro, “99%”, la sentenza si ebbe perché il presidente Reagan, a partire dal 1981, attraverso il finanziamento e l’addestramento delle cosiddette squadre della morte denominate Contras voleva rovesciare il governo sandinista. Il Nicaragua fu oggetto di veri e propri atti di terrorismo; fu costantemente attaccato nelle sue strutture vitali, furono uccisi funzionari, attaccati depositi di petrolio, si voleva mettere in ginocchio un paese solo perché accusato di essere guidato da un governo filo-comunista. Occorrerebbe domandarsi cosa sarebbe successo se fosse stato il Nicaragua ad attaccare così gli Stati Uniti. In che modo avrebbe risposto Reagan? L’amministrazione sandinista si limitò a denunciare gli Usa alla Corte dell’Aia e il tribunale mondiale riconobbe le colpe americane.Tra il 1991 e il 2000, secondo il prestigioso “The Lancet”, le sanzioni imposte dall’Onu all’Iraq hanno causato la morte di 567.000 bambini al di sotto dei cinque anni. Una cifra forse sovrastimata; tuttavia Madeleine Albright, l’allora ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite e poi segretario di Stato americano, alla domanda se ne fosse valsa la pena che 500.000 bambini iracheni fossero lasciati morire, rispose: «Penso che questa sia una scelta molto dura, ma il prezzo, pensiamo che il prezzo ne valga la pena». Come si è domandato Paolo Barnard nel suo libro “Perché ci odiano?”, che cosa avremmo provato noi italiani se un ambasciatore arabo avesse dichiarato pubblicamente che la strage dei nostri bambini era un prezzo che il mondo mussulmano considerava accettabile infliggerci? Saddam Hussein, nonostante l’embargo, decise di non cedere e fare patti che avrebbero reso i pozzi petroliferi iracheni controllati dalle multinazionali straniere. Quindi, come era accaduto a Panama con Omar Torrijos e in Ecuador con Jamie Roldos, presidenti che, come è stato ben spiegato da John Perkins in “Confessioni di un sicario dell’economia”, si erano rifiutati di far colonizzare il proprio paese e per questo entrambi furono assassinati; anche con Saddam furono usate le maniere forti.Secondo uno studio della Brown University in Afghanistan i civili uccisi sono stati 12.000, 35.000 in Pakistan. L’ultima guerra in Iraq ha causato l’uccisione di almeno 125.000 civili, due milioni di rifugiati e lasciato il territorio in una condizione di anomia dove gli attentati sono pane quotidiano. Una divisione tra bande che giova agli Usa che controlla i pozzi petroliferi, vero fine della guerra. Dick Cheney, vice presidente Usa, era a capo della Halliburton, un’azienda che tratta con il petrolio. Cheney fu uno dei più agguerriti sostenitori della guerra in Iraq ‘giustificata’ con lo spauracchio delle armi di distruzione di massa mai trovate. I talebani, Saddam, Gheddafi e lo stesso Bin Laden: uomini prima sostenuti e poi eliminati allorquando si sono ribellati sono stati tacciati di terrorismo e per questo sostituiti. Le pubblicazioni editoriali negli ultimi anni sono state numerose; sento di consigliare, oltre quella sopra citata, anche i testi di Noam Chomsky, studioso di cui ho già scritto, e di Massimo Fini. La lettura critica, alternativa a quella mainstream, deve spingere il lettore a farsi delle domande.La prima è: che differenza c’è tra le vittime civili causate dagli aerei B-52 che dall’altezza di 9.000 metri sganciano ordigni che in Medio Oriente disintegrano interi quartieri e gli attentati di matrice mussulmana in Occidente? Inoltre, senza porre giustificazioni, ma siamo sicuri che non ci sia un’attinenza tra gli attacchi all’Occidente con le torture, le umiliazioni subite dal mondo islamico ad Abu Ghraib, per non parlare del genocidio palestinese che l’estate scorsa ha causato l’uccisione di almeno 1.550 civili palestinesi? «Sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi ma eliminando le ragioni che li rendono tali». Queste sono le parole di Tiziano Terzani, autore di “Lettere contro la guerra”. Unica certezza è che il terrorismo genera nuove forme di terrorismo, e queste nuove forme di terrorismo ne generano a loro volta delle altre, fino a creare tanti anelli di una catena che lega l’umanità alla stupida legge del taglione.(Gianluca Ferrara, “‘Perché ci odiano?’ di Paolo Barnard: le ‘ragioni’ culturali dei terroristi”, dal “Fatto Quotidiano” del 4 aprile 2015; all’epoca, Ferrara era già senatore dei 5 Stelle, carica che riveste tuttora. Il bestseller segnalato, “Perché ci odiano”, scritto da Barnard nel 2006 per Rizzoli-Bur, è basato su prove, testimonianze e documenti, al di là delle menzogne ufficiali del mainstream media. In anni di ricerche e viaggi, l’autore «ha utilizzato fonti “non sospette”, cioè quelle ufficiali americane, inglesi e israeliane, che dimostrano come il terrorismo sia stata l’arma principale di questi paesi per imporre un loro ordine mondiale, da decenni: da quando gli israeliani si resero protagonisti di una vera pulizia etnica contro i palestinesi, e gli americani (con gli inglesi) sostennero le controrivoluzioni in Indonesia, in Guatemala, in America Latina. Con l’aggiunta dei russi in Cecenia: una lunga lista di esempi riguardo i quali non si può restare indifferenti»).C’è una ragione all’odio che ha innescato i terribili attacchi terroristici da parte di cellule impazzite del mondo arabo? Oppure sono solo frutto di ‘fanatismo’? Nel 1986 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sentenziò che gli Stati Uniti sono colpevoli di terrorismo, cioè di uso illegale della forza ai danni del Nicaragua. Come scrissi in “Il terrorismo dell’1%”, un paragrafo di un mio libro, “99%”, la sentenza si ebbe perché il presidente Reagan, a partire dal 1981, attraverso il finanziamento e l’addestramento delle cosiddette squadre della morte denominate Contras voleva rovesciare il governo sandinista. Il Nicaragua fu oggetto di veri e propri atti di terrorismo; fu costantemente attaccato nelle sue strutture vitali, furono uccisi funzionari, attaccati depositi di petrolio, si voleva mettere in ginocchio un paese solo perché accusato di essere guidato da un governo filo-comunista. Occorrerebbe domandarsi cosa sarebbe successo se fosse stato il Nicaragua ad attaccare così gli Stati Uniti. In che modo avrebbe risposto Reagan? L’amministrazione sandinista si limitò a denunciare gli Usa alla Corte dell’Aia e il tribunale mondiale riconobbe le colpe americane.