Archivio del Tag ‘curriculum’
-
L’Italia è senza pilota, ai comandi ora ci sono i passeggeri
La vittoria della Lega di Salvini è la sconfitta del politicamente corretto e della casta politica e istituzionale, mediatica e intellettuale che lo propina, rigettato come gergo asfissiante del potere. La vittoria di Salvini è il superamento dell’antifascismo e del suo uso infame, come dimostra il caso di Macerata, dove la Lega è il primo partito nonostante la campagna per accusare il “fascioleghista” Salvini d’essere il mandante morale di un nuovo presunto terrorismo nero. Lo scempio del corpo di una ragazza da parte di un gruppo di migranti era passato in secondo piano rispetto alla reazione isolata di un esagitato, ed era stata imbastita un’indegna e fuorviante sceneggiata antifascista. Il voto a Salvini è la risposta a quella gazzarra e a quella speculazione assurda, fuori dal tempo. La vittoria di Salvini si spiega pure con la percezione d’invasione e d’insicurezza che c’è nel paese. C’è poi la sfiducia verso l’Europa, il disagio verso l’euro e la dominazione finanziaria e la rivendicazione della sovranità politica, popolare e nazionale. La vittoria di Salvini è la traduzione italiana del populismo nordeuropeo, ma anche americano e perfino russo. E qui le ragioni del successo leghista sconfinano nelle ragioni del trionfo grillino.C’è un fattore su tutti che rende vicini il successo della Lega al trionfo dei 5 Stelle. È il rigetto della classe dominante. L’Italia non ha più una classe dirigente, bocciata a furor di popolo. Gli italiani hanno respinto i partiti e i leader, hanno punito coloro che hanno governato finora, dalla sinistra al centro fino a Berlusconi. Hanno votato uno stato d’animo prima ancora che un movimento e hanno votato se stessi prima che i grillini o i salvini. Un voto selfie, un voto allo specchio, seppure infranto, in cui si riflette l’italiano senza guide e senza modelli. Gli elettori hanno respinto le mediazioni e i filtri, hanno votato contro il sistema, contro l’establishment, contro l’Europa. Un voto contro. Anche Grillo non c’entra più, è un simbolo araldico, non più un leader politico. Non è vero che l’Italia si sia divisa in due: a nord come a sud ha votato in maggioranza ai populisti, con la differenza che a nord il populismo è leghista, a centro-sud è 5 Stelle. Declina la sinistra, prima ancora che il renzismo; il fatto che sparisca in tutta Europa, se non in Occidente, dimostra che Renzi è solo il nome locale di una crisi mondiale. Si salva dall’ecatombe la destra meloniana, pur restando nel piccolo cabotaggio di forza laterale.La pericolosa utopia grillina è che un popolo si possa autogovernare, tramite loro. E che l’ignoranza, l’assenza di storia, esperienza e curriculum, siano indici di purezza. Da questo punto di vista i leghisti hanno saputo dare anche alcune prove di buon governo, almeno a livello locale. Il successo grillino si spiega con una protesta più radicale ma più superficiale. Il pericolo migranti agitato dai leghisti viene sostituito dai grillini dal tema disoccupati e dalla loro puerile soluzione. A 50 anni dal ’68, il grillismo appare come una rivoluzione semi-sessantottina: potere ai giovani e al collettivo che ora si chiama rete; opposizione al sistema, ignoranza in cattedra, reddito di cittadinanza come ieri il voto politico; via i privilegi, morte ai potentati. Non ha avuto più presa Berlusconi, apparso come bollito, allineato all’eurocrazia, aperto agli inciuci col renzismo ed esagerato nelle promesse, comprese quelle che già non mantenne quando ebbe numeri, forza e tempo per realizzarle.Se dovessi tradurre in un’immagine l’impressione generale della situazione dopo il voto, è quella di un aereo da cui è stato buttato fuori il pilota e il personale di bordo, ritenuti inetti e corrotti, e la guida dell’aereo e la gestione della cabina sia affidata direttamente a un gruppo di passeggeri. Di Maio è il passeggero-tipo, come Di Battista e gli altri grillini. Anche Salvini è percepito meno come un leader e più come la voce del nostro scontento. Uno di noi. L’Italia ha perso il capo, riparte dalla coda. Il primo problema sarà vedere se al potere destituente che hanno mostrato i grillini e i leghisti, sapranno ora affiancare un potere costituente. E se il loro percorso si intreccerà, resterà distinto o si perderà nell’indistinto. Non s’intravedono ancora i ponti e i mediatori, i registi e i richelieu per tentare l’ardua intesa. Nell’attesa i leghisti si tengono ancora leali alla coalizione di centro-destra.Dietro ambedue c’è la grande incognita del populismo, risposta sacrosanta al predominio incapace e corrotto delle oligarchie, sempre più lontane dal popolo; ma il populismo vale come punto di partenza, come rivolta e presa di coscienza. Se pretende d’essere un punto d’arrivo saranno dolori e rischieranno di far rimpiangere la detestata casta. Ci vorrebbe una nuova aristocrazia, dotata di un forte senso dello Stato e della comunità. Che non s’intravede. Intanto si parte coi valzer e le quadriglie, cercando l’ardua quadratura del cerchio tra l’integralismo dei puri e le alleanze ibride e necessarie per governare. Entriamo in un mese pazzo e imprevedibile. Auguri, Italia. (Ps: l’onore delle armi a un gran ministro dell’interno, Marco Minniti, battuto a Pesaro da tal Cecconi, un furbetto dei finti rimborsi, eletto a furor di popolo tra i grillini. Onore e lui e disonore al popolo sovrano).(Marcello Veneziani, “Grilloleghisti immaginari”, da “Il Tempo” del 6 marzo 2018, articolo ripreso dal blog di Veneziani).La vittoria della Lega di Salvini è la sconfitta del politicamente corretto e della casta politica e istituzionale, mediatica e intellettuale che lo propina, rigettato come gergo asfissiante del potere. La vittoria di Salvini è il superamento dell’antifascismo e del suo uso infame, come dimostra il caso di Macerata, dove la Lega è il primo partito nonostante la campagna per accusare il “fascioleghista” Salvini d’essere il mandante morale di un nuovo presunto terrorismo nero. Lo scempio del corpo di una ragazza da parte di un gruppo di migranti era passato in secondo piano rispetto alla reazione isolata di un esagitato, ed era stata imbastita un’indegna e fuorviante sceneggiata antifascista. Il voto a Salvini è la risposta a quella gazzarra e a quella speculazione assurda, fuori dal tempo. La vittoria di Salvini si spiega pure con la percezione d’invasione e d’insicurezza che c’è nel paese. C’è poi la sfiducia verso l’Europa, il disagio verso l’euro e la dominazione finanziaria e la rivendicazione della sovranità politica, popolare e nazionale. La vittoria di Salvini è la traduzione italiana del populismo nordeuropeo, ma anche americano e perfino russo. E qui le ragioni del successo leghista sconfinano nelle ragioni del trionfo grillino.
-
Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero
Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?«Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.«Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?
-
Se vincerebbe Di Maio, saresse un Hanno Formidabbile…
Se vincerebbe alle elezioni Giggi Di Maio, come dicesse lui medesimo in persona personalmente, saresse una bella svolta per l’Italia prima che per il congiuntivo. Ci facesse uscire dall’euro il lunedì subito dopo il voto, per farci rientrare ogni fine settimana, perché si chiama week-end e dunque sabato e domenica non si può uscire dall’Europa. La stessa cosa facesse per i migranti, li cacciasse d’estate perché fa caldo e sudano troppo e li prendasse d’inverno perché non sanno addove svernare, la gente esce di meno e non si accorge di loro. Poi Di Maio togliesse lavoro ai ricchi per darlo ai poveri, e così via, a vicenza, ogni semestre di sei mesi luna. E daresse l’incientivo a tutti, cani e porci, per smettere di lavorare e diventare tutti cittadini a tempo pieno, col reddito di cittadinanza. Basta titoli di studio, dicesse, non servono a niente, vedi io; siamo tutti semplicemente modestamente grillemente cittadini. Come disse Robe & Spierre, quando prese la Pastiglia, a Barigi. Per essere buoni cittadini bisognasse dedicassi giornemente, dalla mattina alla sera, a fare i cittadini. Senza distrarsi col lavoro e facezie simili.Di Maio poi si distinguesse da Renzusconi e non aboliresse il canone Rai ma la Rai stessa medesima, salvando invece il canone. La Rai è inutile, il canone serve, eccome che serve. Al posto della tivù vedete la piattaforma, i blog, la rete di casaleggio. Se riceverebbe l’incarico di formattare il governo direttamente dalle mani di Muffarella, seduto sul Quiorinale, Giggino si facesse subito da subito il biglietto da visita di Premier, con la traduzione simultanea nella riga sotto: Presidende del Consiglio, cioè Capo che comanda tutto (così per farsi capire da tutti). Ué guagliù, so’ capataz, dicesse lui appena che giunto nella Città Natale; stamatina offre io, cafè per tutti ma ristretto, perché niende sprechi. Qui si fa li Tagli o si muore, come disse Dazeglio Ciampi incontrando a Teano Corso Vittorio Emanuele. Poi convocasse il popolo sovrano interamente allo Stadio San Paolo di Napoli, dove lui abbi coperto l’ultimo incarico pubblico prima di sacrificassi alla politica, quando fubbe addirittura steward, uè stewuard, mica raccattapalle o usciere. Di prestiggio.Là, a telecamere riunite, Vespa, Fazio e Annunziata congiundamente, facesse un discorso trilingue al prezzo di una, all’Italia tutta, dalle Alpi all’Appendino, da Venezia al Venezuela (che è la sua provincia). Dichiarasse poi guerra agli sprechi e ai ladri e bombardasse le città corotte, cioè tutte, meno Craco che non ha abitanti. E facesse la più grande rivoluzione nella Capitale: se Roma è una monnezza, soppressiamola e mettiamo in galera i suoi fondatori, Romolo e Remo Cerroni. E al suo posto fondabbimo Raggiopolis, la città da’ Raggi, adaggiata non più su sette colli ma su cinque stelle più due filanti. E fermiamo il Tevere, basta, è uno spreco tutta quell’acqua che score tutto il giorno. Il Papa che andasse a vivere a Santiago o a Santafè, perché qui non ci sono santi; noi non vogliamo più pagare la bolletta della luce eterna, capito? Basta a pagare noi, che saressimo Lo Stato, l’abbonamento a sky e a internet del Vaticano e della preteria; fattiteli tu, Papamobile, hai la Curia che si curia di queste cose. Oltre a Roma, Giggino sopprimesse pure la Regione campana col suo Presidende De Luca che lo accusa ingiustemente d’ignorantità. Per lui suonasse la Campania a morto.Di Maio poi eliminasse i vitalizzi e le pensioni d’oro sopra i seicento euri al mese, e daresse solo i mortalizi per le vedove dei pensionati morti di fame dopo il taglio delle pensioni. Per i ministri, poi, prendesse gente pescata dalla rete a strascico, ovvero a mentula canis (fatevi tradurre, Di Maio facette il classico, ma scegliette il gusto country). L’importante è che sieno sei uomini, sei donne, due trans, due neri e un canguro (perché i grillini sono aperti alle novità, alle bestie e agli stranieri). Gente sana che non ha mai avuto un curriculum, senza peccato originale, senza fedina penale, senza licenza elementare, senza vaccini, con certificato che non si sono mai sporcati con nessun lavoro, sfaccendati dalla nascita e rimasti puri e disabili fino alla nomina di ministri. Sorteggiati sulla ruota di Rousseau, nel Grilla e Vinci della Sala Bingo 5Stelle. Poi, per sparagnare, usassimo piatti e bicchieri di carta, sempre. E per non inquinare lavassimo e usassimo sempre gli stessi piatti e bicchieri di carta. Così decidette lui medesimamente, o’ Presidende, detto Premier. Se vincerebbe Di Maio tutti a casa i politici di professione, anzi a casa tutte le professioni, anche senza politica. Si salvassimo solo i più migliori, come la Fedeli, perché studiò con Di Maio all’Accademia della Crusca e parlasse la stessa alingua. Se vincerebbe Di Maio saresse un Hanno Formidabile.(Marcello Veneziani, “Se vincerebbe Di Maio” dal “Tempo” del 19 gennaio 2018, ripreso dal blog di Veneziani).Se vincerebbe alle elezioni Giggi Di Maio, come dicesse lui medesimo in persona personalmente, saresse una bella svolta per l’Italia prima che per il congiuntivo. Ci facesse uscire dall’euro il lunedì subito dopo il voto, per farci rientrare ogni fine settimana, perché si chiama week-end e dunque sabato e domenica non si può uscire dall’Europa. La stessa cosa facesse per i migranti, li cacciasse d’estate perché fa caldo e sudano troppo e li prendasse d’inverno perché non sanno addove svernare, la gente esce di meno e non si accorge di loro. Poi Di Maio togliesse lavoro ai ricchi per darlo ai poveri, e così via, a vicenza, ogni semestre di sei mesi luna. E daresse l’incientivo a tutti, cani e porci, per smettere di lavorare e diventare tutti cittadini a tempo pieno, col reddito di cittadinanza. Basta titoli di studio, dicesse, non servono a niente, vedi io; siamo tutti semplicemente modestamente grillemente cittadini. Come disse Robe & Spierre, quando prese la Pastiglia, a Barigi. Per essere buoni cittadini bisognasse dedicassi giornemente, dalla mattina alla sera, a fare i cittadini. Senza distrarsi col lavoro e facezie simili.
-
Scienza express: tutto pubblicabile, su riviste a pagamento
Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.La mail invitava il medico a inviare un articolo per contribuire alla pubblicazione di un nuovo numero. McCool, il quale ha fondato un sito dedicato a coloro che desiderano ricevere un aiuto per la costruzione di un articolo scientifico da pubblicare in inglese, ha da subito sentito puzza di imbroglio, l’invito gli è sembrato inopportuno non essendo un esperto di urologia o nefrologia, e ha deciso di verificare la qualità del giornale provando a proporre un articolo totalmente inventato. Essendo un grande fan della serie “Seinfeld”, l’autore ha preso spunto da un vecchio episodio della serie per inventarsi il caso di studio: durante una puntata il protagonista si trova costretto da varie disavventure a dover urinare all’interno di un parcheggio pubblico; sorpreso dalla guardia si inventa una malattia rarissima che lo costringe a dover urinare forzatamente ogniqualvolta ne abbia necessità, pena un possibile avvelenamento da “uromisite” e una morte atroce. L’articolo contenente la descrizione di questo caso a dir poco peculiare è stato condito con varie citazioni inventate e da una serie di nomi sempre ripresi dalla medesima sitcom.L’articolo è stato dunque inviato alla rivista affinché potesse essere sottoposto al processo di peer-review: il processo di revisione del contenuto dell’articolo da parte di esperti del settore. Si tratta di una pratica fondamentale all’interno della comunità scientifica, perché questo passaggio dovrebbe essere il momento del controllo imparziale della plausibilità, della ripetibilità e dell’utilità conoscitiva dello studio. Per essere pubblicato l’articolo deve essere accettato dalla totalità o dalla maggior parte dei revisori. In questo caso, con non troppa sorpresa dell’autore, l’articolo è stato accettato in tempi brevissimi, sono bastati tre giorni: i recensori hanno indicando solamente qualche correzione da aggiungere nell’abstract e altre sottigliezze di poco conto. L’articolo sarebbe stato dunque pubblicato, ma a una condizione: che venissero pagati 799 dollari più tasse. Ed ecco svelato l’imbroglio. Quello che interessa ai fantomatici editori della rivista sono i soldi che possono sottrarre a ricercatori alla disperata ricerca di pubblicazioni.Per chi è del settore questo genere di riviste ha un nome: “predatory journals”. Si tratta di “riviste” fittizie, che si propongono come open access, nella maggior parte dei casi senza una vera redazione, senza un comitato scientifico reale. Si presentano spesso come nuove risorse emergenti alla ricerca di giovani talenti da mettere in luce e offrono opportunità di pubblicazione a coloro che bramano espandere il proprio curriculum. Le loro strategie sono stereotipate: solitamente si riceve una mail dove si viene invitati a scrivere un articolo per un nuovo numero (in altri casi si chiede di diventare membri dell’editorial board), viene presentato un sito dedicato apparentemente regolare dove si troveranno nomi di sconosciuti o di persone che inconsapevolmente fanno parte della redazione, ma per chiunque abbia tempo per approfondire la qualità di questi siti essi risulteranno irrimediabilmente vuoti. Il loro fine è riuscire a farsi pagare per la pubblicazione dell’articolo, che si può star sicuri non verrà rifiutato dai revisori. Coloro che decidono di pagare possono veder scomparire la rivista non appena effettuato il bonifico, oppure rimangono delusi dal veder pubblicato il proprio articolo su un qualche sito vuoto, delegittimato e screditato.McCool ha voluto prendersi gioco in maniera esemplare di uno di questi approfittatori per riportare ancora una volta l’attenzione su un fenomeno in aumento. Sono state contate circa 10.000 riviste del genere sulle quali sono stati pubblicati nel 2015 circa mezzo milione di articoli. Nell’epoca del “publish or perish”, o si pubblicano tanti articoli oppure si muore affogati nel mare della competizione spietata. Essendo i ricercatori valutati soprattutto per il peso e la quantità delle loro pubblicazioni, trovare una rivista dove pubblicare è una necessità vitale. Le possibilità di fare carriera o di ricevere sostanziosi finanziamenti ruotano tutte attorno alle proprie pubblicazioni. Per molti scendere a compromessi con riviste dall’impact factor nullo o dalla dubbia reputazione è una via di fuga disperata. Si è così innescato questo circolo vizioso che spinge i ricercatori a trovare qualsivoglia piattaforme sulle quali pubblicare i propri articoli, dall’altra parte molti furbi hanno trovato un modo semplice per fare danari. Recentemente ha suscitato altrettanta ilarità una denuncia simile a quella di McCool: la rivista “International Journal of Comprehensive Research in Biological Sciences” ha pubblicato senza troppe remore un articolo scritto da un bambino di sette anni incentrato su quanto fossero “cool” i pipistrelli.Navigando sul web si possono trovare altri simpatici esperimenti del medesimo tipo e come ultimo esempio non si può non menzionare l’articolo “Get me off your fucking mailing list”, il cui titolo e il lungo contenuto coincidono pedissequamente e in modo ossessivo. Questo memorabile sunto di scienza è stato accettato da una rivista ed è divenuto tanto famoso da meritarsi una pagina su Wikipedia. Tutti questi esempi mettono in luce l’intreccio dannoso di certe caratteristiche del mondo della ricerca scientifica che si sono ormai consolidate. Le modalità di pubblicazione in seguito al pagamento di una sorta di tassa sono divenute una pratica sempre più frequente con il crescere delle riviste open access. È oggi difficile discriminare quando si debba o meno pagare la giusta cifra, e più in generale quanto sia etica questa forma di pagamento. Purtroppo le denunce non hanno fino ad oggi sortito un reale effetto positivo, gli sciacalli continuano a proliferare e i ricercatori ad essere turlupinati. Sul web esistono però programmi e liste in grado di rintracciare e scovare i predatory journals, utili a non far cadere in trappola i più sprovveduti. L’intreccio di interessi economici ed esigenze di carriera genera ancora una volta effetti perversi nel mondo della ricerca scientifica, anche se talvolta questi effetti riescono a regalarci qualche risata.(Olmo Viola, “Tutto è pubblicabile, purché si paghi?”, da “Micromega” del 22 agosto 2017).Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.
-
La rivoluzione di Paracelso, genio eretico della medicina
Uno dei ‘medici’ del Rinascimento con cui nessuno poté competere per fama e seguaci fu Paracelso: un nome che, per almeno un secolo, ebbe una forza esplosiva. I suoi discepoli furono numerosissimi, e per loro Paracelso fu il profeta di una nuova era. Paracelso mise in discussione la medicina accademica del tempo, tentando di rompere il monopolio della casta sociale che la professava. Dal Potere fu considerato un eretico ignorante, un ciarlatano, propugnatore di idee rivoluzionarie che minacciavano l’intera scienza medica e le sue onorevoli istituzioni. Paracelso sferrò un attacco frontale tanto contro la medicina ufficiale galenica, quanto contro le facoltà mediche delle università. E lo scontro fu assoluto, ideologico, sociale e anche religioso. Paracelso in realtà si chiamava Philip Theophrastus Bombast von Honenheim; era nato a Einsielde, vicino a Zurigo, nel 1493 o 1494. Il padre, membro illegittimo di una nobile famiglia sveva, era il medico locale. A nove anni, trasferitosi a Villach, in Austria, con tutta la famiglia, Paracelso iniziò a lavorare come apprendista nelle miniere d’argento di Hutenberg che appartenevano ai potentissimi banchieri Fugger di Augusta. In seguito, cresciuto, viaggiò molto studiando e praticando medicina in Italia, Olanda, Prussia, Polonia, Scandinavia e anche nel Levante.Nel 1526 fu imprigionato a Salisburgo per le sue aperte simpatie per la rivolta dei contadini, fuggì e riparò a Basilea dove riuscì a curare con successo dai suoi disturbi lo stampatore Johann Froben, editore di Erasmo, del quale diventò medico. Grazie a questa cerchia speciale di amicizie, Paracelso fu nominato Staadtphysicus, col titolo di professore di medicina e il diritto di tener lezione all’università. Ma all’udire le sue lezioni le autorità della facoltà di medicina inorridirono: Paracelso si rifiutava di rifarsi, nelle sue lezioni, alle autorità consolidate di Ippocrate, Galeno, Avicenna, annunciando che invece avrebbe basato le sue lezioni sulla propria esperienza, formatasi anche sulle malattie dei minatori e sulle ferite di guerra che egli aveva curato come chirurgo militare alle dipendenze della Repubblica di Venezia nel 1522. Le facoltà mediche del tempo prevedevano per il medico un curriculum di studi approvato e provvisto degli speciali dottorati. Il medico del tempo interpretava la scienza, che era filosofia medica, e il chirurgo o il farmacista erano considerati di grado inferiore, tanto che a loro non era richiesta formazione universitaria e conoscenza del latino.Chirurghi e farmacisti dovevano solamente eseguire gli ordini dei medici usciti dalle facoltà universitarie. Paracelso aveva ottenuto una laurea a Ferrara, per cui conosceva bene il curriculum di studi richiesto al medico dalle autorità. Tuttavia il suo insegnamento fu una sfida contro la gerarchia e il curriculum richiesto dalle istituzioni accademiche. Paracelso dissertava di medicina in volgare, nel suo dialetto svizzero tedesco. E il giorno di San Giovanni del 1527 buttò nel tradizionale falò di mezza estate il Canon di Avicenna, un testo sacro della facoltà di medicina. Purtroppo, subito dopo questo eclatante gesto, il suo protettore, l’editore Froben, morì. E un canonico della cattedrale, suo paziente, mise in discussione una sua parcella. Ad un tratto Paracelso si trovò contro Stato e Chiesa e dovette fuggire, ritornando ad una vita di vagabondaggio per il nord Europa. Nel suo vagabondaggio a volte fu accolto come un eroe, altre volte fu ridotto alla mendicità. Viveva comunque alla grande e beveva molto. Indossava abiti costosi e portava al suo fianco, sempre, una spada. Dormiva poco e trascorreva intere giornate alla sua fornace. Sfidava i contadini nel bere e vinceva, poi – apparentemente lucido – dettava le sue opere filosofiche. Morì a Strasburgo nel 1541 a quarantasette anni.Pochissime sue opere furono pubblicate durante la sua vita. Tra queste, un’opera sulla sifilide o “mal francese”, che contestava la cura ufficiale a base di legno guaiaco e mercurio liquido, fu proibita dal consiglio cittadino di Norimberga su ‘consiglio’ degli stessi Fugger, che all’epoca detenevano il lucroso monopolio del guaiaco. Paracelso scrisse molte opere e pare le avesse consegnate ai suoi discepoli viaggiando per l’Europa, per cui vennero alla luce solo dopo la sua morte. E su queste opere postume sorse il movimento paracelsiano. Certo il periodo più produttivo di Paracelso fu quello di Basilea. E in questa città il medico rivoluzionario lasciò le sue opere nelle mani di un giovane di nome Johannes Herbst, che autorizzò a diventare suo editore. Herbst fece carriera a Basilea e divenne il sommo stampatore degli studiosi della Riforma, ma non stampò mai i manoscritti di Paracelso, che così giacquero inediti fino a che Adam von Bodestein, un medico entrato a far parte della facoltà di medicina di Basilea nel 1538, figlio di un riformatore protestante e anche noto con il nome di Carlostadio, non li scoprì.Carlostadio, medico seguace della medicina galenica, medico personale dell’elettore palatino capo della famiglia Wittelsbach, colpito nel 1556 dalla febbre terzana che lo rese infermo per circa un anno, disperato, accettò di farsi curare da un medico paracelsiano, e nel giro di un mese si ritrovò guarito. Divenne così seguace di Paracelso e fu il primo a insegnarne la dottrina a Basilea. Fu ammonito dalle autorità universitarie e alla fine nel 1564 fu espulso dalla facoltà di medicina per aver pubblicato libri eretici e scandalosi, e per essere un seguace del falso insegnamento di Paracelso. Pur espulso, restò a Basilea e si batté con coraggio, pubblicando più di quaranta opere del suo maestro, divulgandone gli insegnamenti. Opere paracelsiane uscirono a dozzine nell’ultimo quarto del XVI secolo, apocrife. E alla fine del secolo, idee paracelsiane furono ascritte a immaginari alchimisti del XV secolo, rafforzando il credito di Paracelso collocandolo nel quadro di una rispettabile tradizione medievale.Inizialmente le opere di Paracelso ebbero larga diffusione soprattutto nel mondo di lingua tedesca. Dopo la sua morte alcune furono tradotte in latino. Certo l’uso della lingua tedesca da parte sua aveva avuto una precisa motivazione: rompere con la tradizione ufficiale e crearne una nuova, infrangendo il monopolio della medicina universitaria e istituzionale. Paracelso chiamò a raccolta gli artigiani della professione medica, i chirurghi e i farmacisti: un atto di sfida alle istituzioni pari a quello di Lutero e di altri riformatori protestanti in campo religioso. Paracelso è spesso stato descritto come il Lutero della medicina; e in effetti, protestantesimo e paracelsismo acquisirono nel tempo interessi comuni. A livello metafisico la medicina di Paracelso si rifaceva al platonismo ermetico del Rinascimento, e dunque la sua dottrina era essenzialmente antiaristotelica, a differenza di quella della medicina istituzionale. Paracelso riteneva Aristotele un pagano che aveva distorto e impregnato di materialismo la vera filosofia, che secondo la sua visione era neoplatonica ed ermetica.La sua teoria si fondava sulla cosmologia neoplatonica elaborata da Marsilio Ficino del macrocosmo e del microsomo. Il corpo e l’anima dell’uomo rispecchierebbero in miniatura il corpo e l’anima del mondo, e tra di loro esisterebbero corrispondenze e simpatie che il “magus” può comprendere e controllare. Sulla base delle sue esperienze di lavoro nelle miniere e nelle fornaci dei Fugger, e dallo studio degli alchimisti medievali, Paracelso teorizzò un macrocosmo chimicamente controllato, quasi un gigantesco crogiuolo, creato tramite un’operazione chimica, che aveva separato il puro dall’impuro. Per cui il microcosmo umano era a sua volta un sistema chimico che poteva essere alterato, corretto e curato mediante un trattamento chimico. Secondo Paracelso le malattie non erano uno squilibrio degli umori, come prevedeva la medicina galenica ufficiale, ma parassiti vivi impiantati nel corpo umano. I tre principi fondamentali della medicina paracelsiana erano lo zolfo, il mercurio e il sale. I veleni diventano elementi curativi a piccole dosi, e la ricerca assoluta era quella di un solvente universale.La medicina di Paracelso aveva anche un carattere profetico, messianico e rivoluzionario. Se l’inizio del mondo era stato un inizio chimico, anche la sua fine, la fine del mondo, poteva essere chimica. La profezia del ritorno di Elia prima dell’avvento del terribile giorno del Signore, e l’avvento dell’Anticristo, ripresa dal monaco calabrese Gioacchino da Fiore nel XII secolo e collocata all’inizio della terza e ultima età del mondo, fu ripresa da Paracelso e modificata. Paracelso affermò che Elia sarebbe apparso cinquantotto anni dopo la sua morte, e sarebbe apparso come ‘Elia l’artista’ cioè, nel linguaggio degli adepti, l’Alchimista. E come tale, Elia avrebbe rivelato tutti i segreti della chimica, mostrando come il ferro potesse essere trasformato in oro. Da qui poi sarebbe seguita un’ultima trasformazione del mondo: non una battaglia di Armageddon ma una separazione chimica, come era stato all’inizio del mondo.A livello pratico, a dispetto della teoria, la medicina paracelsiana ottenne buoni risultati usando farmaci chimici o minerali. Alla luce dei criteri medici moderni, il trattamento delle ferite dei medici paralcelsiani fu estremamente intelligente. Essi attribuirono grande importanza alle acque e ai bagni minerali, impiegando dosaggi medicinali moderati e semplici. Idearono narcotici e oppiacei per alleviare il dolore; il più famoso analgesico di Paracelso fu il laudanum (termine da lui inventato), usato fino all’Ottocento. Paracelso scoprì anche come preparare e usare l’etere. I medici paracelsiani in realtà ebbero un gran successo per la semplice ragione che i loro pazienti guarivano, o avevano l’impressione di guarire. I medici ortodossi rispondevano compilando liste e statistiche di quanti pazienti erano stati uccisi dai medici paracelsiani – dall’antimonio, ad esempio. Tuttavia dovettero alla fine ammettere gli effetti positivi pratici di laudano e, appunto, antimonio.La medicina paracelsiana fu teosofia neoplatonica, profezia messianica e medicina chimica, e la storia del movimento paracelsiano è la storia complicata e difficile della convivenza di questi tre aspetti. La medicina paracelsiana non poteva prescindere dalla teosofia e dalla profezia, per cui alla fine divenne una visione radicale che minacciava di sovvertire l’ideologia e le istituzioni canoniche del mondo medico, e non solo di quello. La dottrina di Paracelso scardinava il potere delle corporazioni mediche ufficiali, minacciando antichi diritti e privilegi acquisiti. Il paracelsismo, come il protestantesimo, fu una filosofia di rivolta contro l’ordine costituito. Paracelso fu avidamente studiato dal più grande dei maghi elisabettiani, John Dee. Con il Concilio di Trento, la Chiesa cattolica romana divenne meno tollerante verso il neoplatonismo, ribadendo l’ortodossia aristotelica e considerando il neoplatonismo una pericolosa filosofia irenica, mirante a riunire la cristianità sulla base di una erronea religione ‘naturale’. La Chiesa romana divenne il naturale alleato delle corporazioni mediche, proteggendone il monopolio. Per cui il movimento paracelsiano fu spinto gioco forza ad allearsi col protestantesimo.(Lara Pavanetto, “Paracelso: lo scontro rivoluzionario, filosofico e religioso con la medicina accademica, dal quale nacquero la medicina, la chimica e le scienze moderne. La storia è viva”, dal blog della Pavanetto del 9 luglio 2017).Uno dei ‘medici’ del Rinascimento con cui nessuno poté competere per fama e seguaci fu Paracelso: un nome che, per almeno un secolo, ebbe una forza esplosiva. I suoi discepoli furono numerosissimi, e per loro Paracelso fu il profeta di una nuova era. Paracelso mise in discussione la medicina accademica del tempo, tentando di rompere il monopolio della casta sociale che la professava. Dal Potere fu considerato un eretico ignorante, un ciarlatano, propugnatore di idee rivoluzionarie che minacciavano l’intera scienza medica e le sue onorevoli istituzioni. Paracelso sferrò un attacco frontale tanto contro la medicina ufficiale galenica, quanto contro le facoltà mediche delle università. E lo scontro fu assoluto, ideologico, sociale e anche religioso. Paracelso in realtà si chiamava Philip Theophrastus Bombast von Honenheim; era nato a Einsielde, vicino a Zurigo, nel 1493 o 1494. Il padre, membro illegittimo di una nobile famiglia sveva, era il medico locale. A nove anni, trasferitosi a Villach, in Austria, con tutta la famiglia, Paracelso iniziò a lavorare come apprendista nelle miniere d’argento di Hutenberg che appartenevano ai potentissimi banchieri Fugger di Augusta. In seguito, cresciuto, viaggiò molto studiando e praticando medicina in Italia, Olanda, Prussia, Polonia, Scandinavia e anche nel Levante.
-
Cremaschi: il precariato è schiavismo, un inferno mafioso
A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.Può sembrare una piccola cosa dover cedere la propria patente al capo, di fronte alla quantità di vergognosi ricatti che subiscono i lavoratori e ancora di più le lavoratrici, a cui si può impunemente dire: o accetti o quella è la porta, dietro la quale c’è la fila di chi aspetta il tuo posto. Tuttavia sono le piccole sopraffazioni che a volte ci danno il segno e la portata di quelle più grandi, è la violenza della precarietà che colpisce i diritti e la stessa dignità delle sue vittime e assorbe il rapporto di lavoro in un ambiente di mafia. Immaginiamo poi quando la precarietà dura all’infinito, quando con i trucchi permessi dalla stessa legge si è precari a tempo indeterminato, cioè ogni anno si deve subire l’esame di lavoro per continuare ad essere sfruttati e vessati. E non solo nel lavoro privato, ma anche in quello pubblico. Pochi giorni fa la Usb ha indetto lo sciopero dei precari pubblici e una manifestazione a Roma sotto il ministero, manifestazione ben riuscita nonostante gli ostacoli posti dalla polizia. Qui ho saputo da un lavoratore disperato che, nella pubblica amministrazione, ci sono persone precarie da più di venti anni, per una retribuzione mensile oggi giunta a ben 580 euro lordi.Il tribunale di Nola, in Campania, funziona grazie a questi precari più che ventennali, che mandano avanti tutte le attività di cancelleria. Come posso guardare crescere i miei figli negandogli una marea di cose, e subire anche l’umiliazione per cui ogni anno devo avere la conferma del contratto, altrimenti sono a casa? Che vita è questa? Così quel lavoratore ha concluso il suo racconto mentre la rabbia tratteneva le lacrime. Il governo ha appena suonato la fanfara per qualche decimale di disoccupazione in meno e Gentiloni ha esaltato le riforme del mercato del lavoro che avrebbero permesso questo clamoroso risultato. Per questo, dopo aver abolito i voucher per evitare il referendum, stanno pensando di sostituirli con il contratto a chiamata, quello per cui si deve essere sempre a disposizione gratuita dell’azienda, in attesa di essere convocati per poche e sottopagate ore di lavoro. La precarietà del lavoro marcia a tappe forzate verso lo schiavismo e le leggi che da trent’anni l’hanno autorizzata, incentivata, diffusa, hanno la stessa portata sociale e morale di quelle che nell’800 disciplinavano l’Asiento.Il mercato degli schiavi organizzato e pubblico che nelle Americhe veniva considerato un passo avanti rispetto a quello clandestino. Non si dice forse da trenta anni che le leggi sulla precarietà servono a far emergere il lavoro nero? Questo del resto sostengono tutte le istituzioni della Unione Europea, per le quali la merce lavoro non deve essere sottoposta a vincoli e controlli che ne impediscano la libera concorrenza. Se c’è disoccupazione è perché il lavoro costa troppo, bisogna che la concorrenza tra le persone ne abbassi il prezzo fino a che le imprese non trovino conveniente assumere. È la filosofia liberista della riduzione del costo del lavoro che dagli anni 80 ha ispirato tutte le leggi e tutti gli interventi sul mercato del lavoro delle istituzione europee e dei governi italiani. Negli anni ‘70 il contratto di assunzione era tempo indeterminato con l’articolo 18, salvo eccezioni che erano davvero tali. Il collocamento allora era pubblico e numerico, cioè le imprese dovevano assumere seguendo le liste pubbliche di chi cercava occupazione, non servivano curricula o partite di calcetto. E la pubblica amministrazione non era sottoposta ai vincoli massacranti del Fiscal Compact e ai conseguenti tagli al personale stabile, sostituito dall’appalto e dal lavoro precario.Poi, nel nome del mercato, della modernità, dell’Europa, questo sistema semplice, giusto e anche efficiente è stato metodicamente smantellato da tutti i governi senza distinzioni, con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. Ora il collocamento è un affare delle agenzie interinali, una volta vietate come caporalato, i rapporti di lavoro precari sono una quarantina e lo stesso contratto a tempo indeterminato è una finta, visto che grazie al Jobs Act i nuovi assunti possono essere licenziati in qualsiasi momento. E se un sindaco regolarizza i dipendenti del suo comune rischia di finire sotto processo. Ora si può essere assunti in Romania con paghe del posto e lavorare nel Trentino eludendo i contratti, grazie alla Unione Europea e alle sentenze della sua Corte di Giustizia nel nome della libertà di mercato. E le leggi securitarie, anti migranti e anti poveri, come la Bossi Fini e il decreto Minniti, sono una tecnologica riedizione delle misure contro il vagabondaggio degli albori del capitalismo, che avevano la funzione di imporre il lavoro forzato e semi-gratuito in fabbrica.È dilagato il precariato, ma contrariamente alle giustificazioni ufficiali la disoccupazione è esplosa e il lavoro nero continua a espandersi. I devastatori del diritto però non hanno fallito, perché alla fine hanno realizzato esattamente ciò che volevano, riportare le lavoratrici e i lavoratori nella condizione di soggezione degli schiavi. Il sistema di lavoro fondato sulla precarietà è prima di tutto una organizzazione violenta e criminale dello sfruttamento e della schiavizzazione delle persone. Non è più tempo di combatterlo solo nel nome delle convenienze economiche, ma in quello della libertà e dei diritti fondamentali della persona. E l’Unione Europea, i suoi governi e le loro regole di mercato vadano all’inferno.(Giorgio Cremaschi, “Oggi lo schiavismo si chiama precarietà”, da “Micromega” del 4 aprile 2017).A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.
-
La meglio gioventù è questa, che scava tra le macerie
Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.Che la terra abbia tremato o si sia sciolta come il pianto dei disperati, la gioventù d’Italia ha risposto all’appello. Una corsa, vera, che fotografa i tempi. Non c’è colore, né distinzione. Un minimo comune multiplo, una linea di continuità, non esclusivamente tappe di un unico dolore. Tra drammi incredibili che piegano i rami carichi di una quercia stanca in mezzo al Mediterraneo. Tra drammi che sono, però, un segnale che incarna una speranza da non sottovalutare, rappresentano un esempio. Se il divenire storico vuole etichettare i propri eventi per ricordare dove li aveva messi, allora forse, ci siamo. Forse sarà questo che identificherà la “Generazione Duemila”, quella dei millenials – ufficialmente buona a nulla, lobotomizzata su un divano, costretta a pensarla alla stessa maniera, a frequentare vernissage o a fraternizzare con le Ong, a dimenticare davanti alla Playstation, annichilita e vecchia tuffarsi in un tormentone per avere un’overdose di vitalità, costretta a morire intirizzita ancora prima dei vent’anni – che come un milite ignoto, esiste senza un nome, un cognome, un volto. Allora sarà questo agire spontaneo e ripetuto che potrebbe offrirle un appellativo, fornendole una carta d’identità agli occhi della storia, come prima d’essa, ogni blocco generazionale.Tragedie in cui i giovani italiani c’erano, al pieno della loro gioventù, delle loro braccia forti e di un cuore pulsante. Come nel lontano 1966, con l’Inghilterra, per la prima ed unica volta, campione del mondo e Firenze sotto strati d’acqua e miseria, si rivedono i fanti della dignità. Volontari. Ragazzi e ragazze, figli della normalità, con i jeans sporchi ed i calli alle mani, come i loro padri. Con la divisa gialla e blu, con quella rossa. Una cordata che va oltre il senso bigotto e populista di solidarietà, un esercito armato di pala e piccone che supera le mode ed accorre, si scrolla da dosso la muffa da annichilimento ed accorre, lascia a casa fidanzata e genitori, curriculum, portfolio, disoccupazione ed accorre. Nessuna santificazione in un estasi di Gloria, piuttosto un segnale di vita: i giovani d’Italia ci sono. Spicca un ritorno all’origine che ossigena le anime e rinvigorisce la coscienza nazionale. Si torna a vedere esempi puliti tra i pezzi di case venuti giù come un apocalisse di stelle cadenti. Come per L’Aquila, l’Emilia Romagna, Genova, Amatrice e per tante altre ferite, c’erano i volontari della Protezione Civile, della Croce Rossa Italiana, con le proprie divise, le chiamate a casa per rassicurare ed i panini a pranzo e cena tra una tenda da montare e brandelli di muro da buttar via.Dunque occorre necessariamente riflettere. Proprio come i coetanei classe ’66, divisi tra rivoluzioni culturali, pantaloni a zampa e capigliature alla Paul McCartney, anche i nostri, noti alle cronache per essere figli mai liberi della crisi di un’epoca, dei valori, dell’etica e del buon senso, lavoratori a prestazione gratuita, senza speranza, senz’arte né parte, tormentoni o stereotipi, bendati verso il futuro, stanno raggiungendo la redenzione agli occhi della storia? Forse l’emblema della Generazione Duemila potrà essere proprio il cuore grande, che va oltre ogni cosa, oltre il nichilismo, la velocità siderale, la plastica, il denaro, l’ingozzamento dei nostri tempi? Forse l’appellativo di questa generazione sarà “volontaria”. Potremmo pensare di ricordare, prima di sprofondare nell’oblio da Tablet sul divano, la generazione degli anni ’10 come i ragazzi del soccorso, la “Generazione Duemila”, quella dei volontari. E per pietà, non copriate ciò che vuole andare oltre con nessuna passerella elettorale, con nessuna passeggiata mediatica.(Emanuele Ricucci, “La meglio gioventù sta tra le macerie – la Generazione Duemila, quella dei volontari”, dal blog “Contraerea” su “Il Giornale” del 26 agosto 2016).Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.
-
Nino Galloni sindaco di Roma: troppo bello per essere vero?
«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?La “pazza idea” di candidare a Roma l’insigne economista progressista, già alto funzionario governativo – protagonista di una battaglia sotterranea per salvare l’Italia dal disastro del Trattato di Maastricht – proviene dal movimento fondato da Gioele Magaldi, massone e autore del dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che denuncia i misfatti di alcune Ur-Lodges, fra le 36 superlogge segrete ai vertici del potere mondiale, negli ultimi decenni alle prese con la svolta oligarchica che ha imposto la grande crisi alle masse, arricchendo l’élite. Fulcro della grande restaurazione planetaria, il taglio neoliberista dello Stato a vantaggio dei signori del “mercato”: meno spesa pubblica, azzeramento del debito, tassazione alle stelle, crollo del Pil e disoccupazione. Tutto ciò imposto, in Europa, attraverso la scure dell’euro, che Galloni considera un’arma (economica) di distruzione di massa. Tanto era temuto, Galloni, che – ai tempi dell’ultima stagione governativa di Andreotti – spinse il cancelliere Kohl a muoversi, personalmente, perché fosse rimosso. Una battaglia, la sua, per la difesa della sovranità italiana, nella certezza che le modalità di imposizione della moneta unica avrebbero devastato l’economia nazionale, declassandola e deindustrializzandola.Era un piano preciso, ha spiegato Galloni a Claudio Messora, sul blog “Byoblu”: l’euro fu imposto dalla Francia per indebolire la Germania, di cui temeva la riunificazione; in cambio, Berlino pretese (e ottenne) il ridimensionamento del suo concorrente industriale più pericoloso: noi. Questo è il personaggio su cui “Filippo”, “Ste” e “Gnam Gnam” si saranno ormai documentati. Allievo del maggiore economista europeo del dopoguerra, il professor Federico Caffè, e quindi “compagno di banco” di Bruno Amoroso, eminente economista impegnato in Danimarca, e di un certo Mario Draghi, che si laureò con una testi sulla insostenibilità della moneta unica, molto prima di salire sul Britannia per la grande svendita dell’Italia. Riuscirà il Movimento 5 Stelle a prendere in considerazione l’offerta? Galloni collabora col Movimento Roosevelt, che vuole riscrivere le linee-guida della politica (e quindi dell’economia) per aiutare l’Italia a uscire dal disastro. Fine della sudditanza rispetto all’élite finanziaria che manovra Bruxelles? «Ma noi non siamo contro l’euro», dichiarò Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio, giusto alla vigilia delle ultime elezioni europee, segnate dalla squillante affermazione, in tutta Europa, di partiti e movimenti decisi a mettere fine alla catastrofe economica innescata proprio dalla moneta unica, quella che lo stesso Draghi, studente modello, giudicava una follia.«Nino Galloni sindaco di Roma? Magari!», sogna ad occhi aperti Andrea Signini su “Signoraggio.it”, definendo Galloni «grande giurista, nome di punta degli anni Ottanta e Novanta, il cosiddetto “oscuro funzionario” il quale, di contro, tutto è tranne che oscuro, dal curriculum di pregio e dalla profonda conoscenza delle dinamiche dell’economia, della finanza e anche della politica, di cui non ha mai fatto parte se non a richiesta, come professionista interrogato per risolvere i problemi che la politica stessa ha sempre causato». Già ricercatore all’università di Berkeley, tra il 1980 e il 1987 Galloni collaborò strettamente col suo maestro Federico Caffè, economista post-keynesiano, all’università di Roma. In seguito, Galloni ha insegnato economia alla Luiss di Roma, alla Sapienza, alla Cattolica di Milano, negli atenei di Modena e di Napoli. E’ stato direttore generale al ministero del lavoro, ha diretto l’osservatorio sul mercato del lavoro e l’occupazione giovanile, ha lavorato all’Inpdap e all’Ocse, è tra i sindaci dell’Inps e dell’Inail. Ha anche fondato il Centro Studi Monetari, un’associazione per lo studio dei mercati finanziari e delle forme di moneta emettibili senza creare debito pubblico.Galloni punta al ritorno della sovranità finanziaria nazionale e alla netta separazione tra banche d’affari, speculative, e credito pulito al servizio dell’economia reale, com’era prima dell’abolizione del Glass-Steagall Act ad opera di Bill Clinton, che diede la stura definitiva alla roulette finanziaria mondiale, decisa a “pescare” anche nella finanza pubblica. Il dramma risale al 1981, ricorda ancora Galloni, quando Ciampi e Andreatta staccarono il Tesoro da Bankitalia, che fino ad allora era il “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo il paese ad attingere denaro attraverso l’emissione di titoli di Stato. Interessi salatissimi: «Così, di colpo, il debito pubblico italiano raddoppiò». Galloni? «E’ l’uomo giusto al punto giusto», scrive Signini. «Apprezzato da destra a sinistra, dal popolo cosiddetto moderato e quello di nicchia; ma soprattutto ammirato da chi accorre alle sue conferenze; conferenze che tiene in tutta Italia senza mai farsi pagare, ricordiamolo. Nino è così: sobrio nelle scelte, sobrio nel vivere, anche nel vestire. Non giuda Jeep o Ferrari, no. Lo puoi trovare nei consessi internazionali di finanza ed economia e poi il giorno appresso seduto al bar con gli appartenenti di ogni forza politica, di qualsiasi colore e schieramento o a parlare amabilmente con chi lo riconosce e gli chiede consigli e suggerimenti».«Questo è Nino», conclude Signini: Galloni è «l’altro allievo di Federico Caffè, del tutto diverso da Mario Draghi». Con tutta probabilità, «grazie proprio al bagaglio culturale e professionale che ha sviluppato sin dai tempi in cui, dopo essere ritornato dagli Usa per venire ad insegnare nelle università italiane», Nino Galloni «non può che essere colui sul quale scaricare la responsabilità di rifondare Roma», devastata dalle amministrazioni Alemanno e Marino. «Tentare di pescare l’ennesimo nome dal cilindro lercio della politica, sappiatelo, è inutile, oltre che nocivo», assicura Signini: «C’è rimasto solo Galloni». Che ne pensano “Ste”, “Gnam Gnam” e tutti gli altri? E soprattuttto: come la vedono Grillo e Casaleggio? E’ ovvio che una candidatura come quella di Galloni nella capitale rappresenterebbe una rivoluzione copernicana, dopo decenni di politica nazionale affidata a mezze figure prone ai diktat dei “padroni” stranieri, i veri burattinai della “casta” impresentabile contro cui si è scagliato il grillismo prima maniera. La sola candidatura di Galloni, col suo inevitabile contributo culturale, contribuirebbe a scardinare una lunga stagione di menzogne. Mission impossible?«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?