Archivio del Tag ‘Ddr’
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Putin resiste al regime globalista che ha liquidato Trump
Chi ci guadagna, nel trascinare verso terreni ignoti una crisi come quella ucraina? Posso dire chi ci perde: innanzitutto il popolo ucraino, sacrificato per coprire gli interessi di una élite che ha come unico obiettivo quello di accerchiare Putin, buttarlo fuori dai giochi ed escluderlo, come player, dal processo in corso, cioè il malaugurato Nuovo Ordine Mondiale. Questo è il disegno: sfruttare l’Ucraina come casus belli per assediare Putin e costringerlo a una fuoriuscita dalla scena politica internazionale, per poi probabilmente sostituirlo con qualcuno che possa adeguarsi all’Agenda 2030 e quindi alla realizzazione di un New World Order al di sopra degli interessi nazionali, al di sopra dei popoli e delle loro tradizioni e identità. E’ una specie di élite dominante, non eletta da nessuno, che si arroga il potere di regolare le sorti del mondo. C’è qualcuno che evidentemente non cede, rifiutandosi di accettare questo. E allora, così come hanno eliminato Trump dalla scena politica con i brogli del 2020, oggi stanno cercando di portare Putin a una situazione di esasperazione.Spaccano in due l’Ucraina e alimentano lo scontro con la vecchia logica del “divide et impera”. Chi ci guadagna è l’élite globalista, anche se forse sta tirando un po’ troppo la corda. Credo che la Cina, probabilmente, avrà un ruolo fondamentale nella mediazione di questa crisi, che purtroppo in questi giorni sta volgendo al peggio. Riusciranno a rovesciare Putin? Così come il Deep State ha cercato di tessere la sua ragnatela negli Stati Uniti e in Europa, c’è sicuramente un Deep State anche in Russia, che è collegato agli stessi centri di potere ai quali appartengono gli altri Deep State, quello americano e quello europeo: la matrice è la medesima. Chiaramente, il tentativo – attraverso le sanzioni – di portare la Russia in una condizione di crisi economica profonda, e quindi il tentativo di portare il popolo russo – attraverso il bisogno e la paura – a cacciare il proprio leader in virtù della fame, è una strategia subdola che, purtroppo, nella storia è stata sempre utilizzata, dalla matrice globalista che, nel corso dei decenni, è arrivata a imporre il suo progetto di Nuovo Ordine Mondiale, che include l’annientamento delle identità e delle culture nazionali, soprattutto quella cristiana.Se oggi il mondo conosce le dinamiche del Deep State è perché, in quattro anni, Donald Trump ha svolto un lavoro certosino nel cercare di illustrare, all’umanità intera, che cosa fosse questo Stato Profondo, questo “potere nel potere” fatto di gente mai eletta da nessuno, se non all’interno di una specie di “cabala planetaria” di autoproclamatisi potenti, in grado di regolare la vita delle nazioni al di là della volontà popolare. Una delle organizzazioni all’origine della crisi tra Ucraina e Russia è il World Economic Forum di Davos, di cui il signor Zelensky è membro. Proprio a Davos, Trump disse che il futuro appartiene ai patrioti, non all’élite globalista: questo, evidentemente, causò panico e terrore tra le fila dei potenti, che fino ad allora erano abbastanza occulti. Agivano attraverso svariate organizzazioni, ma i loro nomi e cognomi (le facce, i volti) erano ancora sconosciuti, ai più. Trump li ha esposti alla luce del sole, o oggi tutti noi sappiamo chi sono gli Schwab, i Rothschild, i Rockefeller, i Gates, i Biden, i Clinton.Questa specie di Spectre, che domina su tutto e tutti, oggi si sta muovendo quasi a carte scoperte: Zelensky, il Beppe Grillo ucraino, è stato “costruito” dall’oligarca ashkenazita Igor Kolomiosky, produttore della serie Tv che ha reso popolare l’attore, ora presidente ucraino. Un po’ la stessa dinamica che, in Italia, ha portato al potere il Movimento 5 Stelle. Oggi, quindi, vediamo all’opera un personaggio che sta guidando un paese, sacrificando il proprio popolo, per i piani oscuri di qualcun altro: e questo è piuttosto triste. Io credo che l’Ucraina abbia il diritto di essere una nazione indipendente, così come credo che le due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, nel Donbass, abbiano parimenti il diritto (visto che c’è stato un referendum, anche lì) di avere la loro autonomia, sia pure all’interno dell’Ucraina. Intervistato dal “Tempo”, lo stesso generale Paolo Inzerilli (già a capo del Sismi e di Gladio, struttura nata proprio per contrastare l’Urss) conferma che stiamo rischiando grosso, anche come Italia, in nome di interessi che vanno ben oltre gli apparenti scopi di questa guerra, cioè ben oltre l’indipendenza dell’Ucraina.Putin ha semplicemente richiesto a Kiev un disarmo e la garanzia che l’Ucraina non entri nella Nato. Anch’io penso sia opportuno che l’Ucraina diventi una nazione neutrale, uno Stato-cuscinetto, dove la parte russofona (nel Donbass e in Crimea) possa avere la propria autonomia, pur restando entro i confini statali ucraini, senza però essere discriminata. Ricordiamoci che questa guerra è iniziata nel 2014, sono otto anni che si trascina: questo è l’epilogo della guerra, la sua fine. E purtroppo ci siamo caduti anche noi, in questa guerra, probabilmente perché Joe Biden, vista la scarissima popolarità che sconta negli Usa, specie dopo la débacle afghana, sta cercando di spostare all’esterno l’attenzione del mondo, utilizzando l’arena ucraina come campo da gioco per dare in pasto all’opinione pubblica internazionale il nuovo cattivone di turno, il nuovo pazzo, il guerrafondaio. In realtà, negli ultimi anni, la Nato si è espansa verso Est in modo massiccio: Romania, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Estonia. E la Russia, che ha accettato tutto questo storcendo il naso, non può pensare di avere a 180 chilometri da casa propria le batterie missilistiche puntatele addosso da un nuovo membro della Nato, che confina con essa.Chi sta pagando il prezzo più alto, purtroppo, oggi è il popolo dell’Ucraina, che è strumentalizzato e usato, da una parte e dall’altra, per rivendicare ognuno la propria egemonia. O meglio, Putin sta cercando di rifiutare l’egemonia del Nuovo Ordine Mondiale sulla Russia, e l’Ucraina viene utilizzata come terreno di scontro tra queste due visioni del mondo: una identitaria e nazionale, l’altra globalista e trasnazionale, oltre che realmente comunista. Paradossalmente, il comunismo oggi non è quello di Putin, ma è quello di Klaus Schwab, del Forum di Davos, della sinistra globalista europea della Fabian Society, quella che nasce dalla London School of Economics. Parla da solo il logo della Fabian Society, il lupo travestito da agnello: quello che stanno facendo (e l’abbiamo appena visto anche con il Covid) è il controllo sociale e l’annientamento progressivo della proprietà privata. Non a caso, con la scusa della pandemia, in Italia hanno chiuso 400.000 aziende. E ora, con la scusa della “green economy”, le proprietà che non si adegueranno verranno colpite dal governo.Lentamente, la nostra sovranità di cittadini viene meno: e c’è sempre qualcuno che pensa per noi e ci dice quando respirare, quando uscire di casa, quando poter andare a lavorare e quando no (non ci vai se non sei un cittadino modello, cioè se non hai il passaporto verde). Questo è il modello comunista cinese, il modello del lasciapassare per l’espatrio che era in vigore nella Ddr, la Germania Est. Oggi, purtroppo, i comunisti sono a Occidente. Non sottovalutiamo neppure i segnali di malcontento che emergono anche dai nostri vertici militari e da generali come Inzerilli e Marco Bertolini, alti ufficiali che hanno fatto la storia dell’intelligence italiana. Oggi, vedono che l’attuale primo ministro (mai eletto neppure come assessore in un piccolo Comune, ma paracadutato dalla finanza a guidare una nazione in un momento critico come questo), non osserva lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione e non difende gli interessi dell’Italia, anche sul piano dei rapporti con la Russia e dell’energia, che per noi è necessaria.Berlusconi fece un ottimo lavoro, nel cercare di rendere l’Italia sempre più forte e più indipendente, sul piano energetico. Con la fine di quel governo, pian piano, ci siamo sottomessi agli interessi di qualcun altro: abbiamo ceduto alla Francia la leadership in Libia, abbiamo progressivamente perso tono, e oggi siamo un paese che non ha più quasi niente: soprattutto dopo due anni di cosidetta pandemia, ci troviamo in una condizione di disastro economico. Per rendersene conto basta fare un salto alla pompa di benzina, o dare un’occhiata alle bollette: tutto è aumentato, da quando Super-Mario è arrivato alla guida del paese. Mi domando: chi ce l’ha mandato, e perché? Ci stiamo giocando la democrazia e la libertà, mentre il governo – anziché quelli nazionali – fa gli interessi di qualcun altro. Oggi più che mai, si contrappongono due visioni del mondo: chi crede nella libertà, nell’identità dei popoli in una logica di cooperazione fra Stati indipendenti e sovrani, e chi invece vuole imporre un Nuovo Ordine Mondiale nelle mani di un’élite finanziaria di potenti che, attraverso la paura e il bisogno, dominano sul resto del mondo.Ecco perché oggi la Russia è il target da eliminare: è una spina nel fianco, perché impedisce il completamento del progetto, che – filosoficamente – è davvero “luciferino”, e adotta sempre gli stessi metodi. Berlusconi, ad esempio, fu tolto di mezzo – con la storia delle doninne – proprio dopo la crisi in Libia: occasione d’oro, per Francia e Germania, per liberarsi del vicino scomodo. E vogliamo parlare di come è stato liquidato Trump, che alle presidenziali aveva ottenuto 15 milioni di voti in più, rispetto a quattro anni prima? Conteggiando più volte le stesse schede elettorali è stato insediato Joe Biden, il cui figlio – Hunter Biden – è nel Cda di Burisma, il colosso dell’energia ucraina. E oggi il mondo rischia di dover affrontare una guerra su vasta scala: ma per chi? Per Schwab? Per Biden? Per gli interessi di un comico messo lì a sacrificare il proprio popolo in nome del potere di qualcun altro? Dobbiamo ricominciare a ripensare agli interessi nazionali. Vorrei tanto che ci fosse una classe politica come quella di un tempo: nonostante tutto, aveva il senso delle istituzioni nazionali.Mai prima d’ora, da parte italiana, c’era stata tanta determinazione nel sostenere una guerra – alla faccia della nostra Costituzione, più volte calpestata anche durante l’intera gestione Covid. Ancora una volta, lo stato d’emergenza conferisce i super-poteri a Super-Mario, che ha super-incasinato il nostro paese: ha super-fatto fallire 400.000 imprese e ha super-favorito i grandi centri finanziari transnazionali. Quindi mi domando: a chi giova, tutto questo? Sicuramente non al popolo italiano, tantomeno a quello ucraino. Dunque chi ne beneficia, se non un’élite di mascalzoni che vorrebbero dominare il mondo sul sangue, sul dolore e sul sacrificio dei popoli? Per tornare all’Agenda: di verde, la “green economy” non ha niente, esattamente come il Green Pass. Si punta esclusivamente alla sottommissione, delle persone e dell’economia reale, alle logiche di potere dell’alta finanza: l’unica cosa “green”, in questa storia, è il loro portafoglio. Il punto è questo: stiamo erodendo il tessuto sociale delle nazioni Ue. Stiamo rinunciando ai nostri diritti, alla nostra libertà, al nostro denaro (siamo arrivati al punto in cui non si può entrare in banca o in Posta senza il passaporto sociale).Stiamo arrivando a un lento e progressivo annientamento della proprietà privata, frutto del lavoro onesto (non della speculazione, che infatti non viene toccata: anzi, beneficia della crisi in cui viene gettata la maggioranza dei cittadini). Tutto questo è contro l’umanità. Quando si parla di geoingegneria, in nome del cosiddetto “global warming” (altra leggenda metropolitana) per ammettere che si vorrebbe “oscurare il Sole”, significa che siamo arrivati alla presunzione, da parte di questa élite di satrapi, di potersi “sostituire a Dio” e ridisegnare non solo l’economia e la vita delle persone, ma persino il creato, a loro immagine e somiglianza: e questo è inaccettabile. Io credo che servirebbe un soprassalto di dignità e di sano patriottismo, al di là di ogni schieramento ideologico: credo che ogni italiano dovrebbe amare il proprio bellissimo paese, a prescindere da come la pensa politicamente. Dovremmo riscoprire la nostra storia, la nostra cultura: per ritrovarci uniti, anziché divisi. Bisogna riscoprirsi italiani: e capire quanto stiamo perdendo, in nome del nulla.Persino durante la Guerra Fredda, l’Italia ha svolto un importante ruolo diplomatico di mediazione e pacificazione: a quello dovremmo tornare, abbandonando l’attuale linea (stupida, se non criminale) di asservimento agli interessi altrui. Noi dovremmo pensare, innanzitutto, a difendere il nostro paese e proteggere la nostra gente da chi ci vuole usare come agnello sacrificale per i suoi interessi. Ci si domanda se Putin sia consapevole, del fatto che la sua iniziativa lo esponga al rischio di essere defenestrato. Il problema è uno solo: probabilmente, la tenuta del potere di Putin è strumentale al fatto di non doversi inginocchiare davanti al totem del Nuovo Ordine Mondiale. Alla fine, credo che anche la lunga permanenza di Putin alla guida della Federazione Russa sia necessaria a tenere duro, di fronte al tentativo di sottomettere anche la Russia all’adorazione di Moloch, cioè al dominio dell’élite globalista. Lo scenario che viviamo è molto pericoloso: forse mai, dal dopoguerra, abbiamo rischiato tanto. Una guerra totale, su scala mondiale.Se la situazione precipitasse davvero, rischierebbero di saltare gli storici trattati sul controllo reciproco degli armamenti atomici. L’Europa dovrebbe essere la prima a mediare, invece – stranamente – sta soffiando sulla brace, invece di provare a spegnere l’incendio. Anziché operare fine diplomazia, l’Europa – con l’inasprimento delle sanzioni, con l’invio di armamenti – sta aumentando la tensione. Mi domando: cui prodest? Purtroppo, i ruoli si sono invertiti: oggi il comunismo ce l’abbiamo in casa, qui in Europa. Con questo non dico che Putin sia un santo. Dico che ha le sue ragioni, specie per le aree della Crimea e del Donbass. Non solo: non è stato rispettato il Trattato di Minsk, non è stata rispettata l’autonomia di Donetsk e Lugansk. E i morti del Donbass, chissà perché, non fanno rumore: non hanno mai surriscaldato le coscienze di nessuno. Ripeto: il popolo ucraino ha tutta la mia solidarietà. Ma attenzione: gli ucraini non stanno combattendo per la loro indipendenza nazionale, cui hanno certamente diritto; stanno combattendo per il Nuovo Ordine Mondiale, che è nemico giurato di qualsiasi identità, compresa la loro.Gli ucraini sono l’agnello sacrificale nelle mani del New World Order, che sfrutta il legittimo nazionalismo ucraino, strumentalizzandolo. Kira Raduk, una deputata ucraina vicina a Zelensky, si è fatta riprendere mentre imbraccia un kalashnikov e dice: non stiamo combattendo solo per la nostra indipendenza, ma anche per il Nuovo Ordine Mondiale. Lo ha ammesso: ma il Nuovo Ordine è nemico di qualsiasi indipendenza e di qualsiasi sovranità. Lo vedete, il paradosso? Si lasciano strumentalizzare facilmente, gli ucraini. Vale anche per l’uso (sempre strumentale) di un’ideologia come il nazismo, ormai condannata dalla storia. Prendiamo il famigerato Battaglione Azov: è stato messo in piedi dello stesso finanziatore di Zelenzy, cioè Igor Kolomiosky. Dunque a finanziare i neonazisti del Battaglione Azov è stato un ebreo (ashkenazita): è assurdo, ma è così.Le stesse insegne dell’Azov si richiamano direttamente al nazismo: in questo modo, purtroppo, si insultano persino le vittime della Shoah. Questi miliziani potrebbero compiere operazioni di pulizia etnica nel Donbass. Se si macchiassero di gravi colpe, però, proprio la loro etichetta “nazista” metterebbe al riparo i loro finanziatori. Le bandiere del Battaglione Azov rappresentano un utilizzo un po’ infantile della simbologia nazista. Ma, anche in questo caso, diventa comodo far ricadere su organizzazioni di ispirazione neonazista colpe che in realtà appartengono all’apparato. Strano, che un presidente come Zelensky tolleri il Battaglione Azov. Anche Zelenzky, tra l’altro, è lui ebreo ashkenazita: come Kolomiosky e la stessa deputata Raduk. Questi signori dovrebbero vergognarsi, in nome della memoria degli ebrei perseguitati dal regime nazista. Mi chiedo come possano utilizzare strumentalmente certi personaggi e certe simbologie, per fini che non sono assolutamente chiari. Dovrebbero vergognarsi perché, prima di tutto, sono ebrei: e dovrebbero avere più rispetto, per i propri antenati perseguitati.(Gianluca Sciorilli, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “La guerra dei mondi”, l’8 marzo 2022. Sciorilli è un analista indipendente esperto in intelligence, sicurezza e studi strategici).Chi ci guadagna, nel trascinare verso terreni ignoti una crisi come quella ucraina? Posso dire chi ci perde: innanzitutto il popolo ucraino, sacrificato per coprire gli interessi di una élite che ha come unico obiettivo quello di accerchiare Putin, buttarlo fuori dai giochi ed escluderlo, come player, dal processo in corso, cioè il malaugurato Nuovo Ordine Mondiale. Questo è il disegno: sfruttare l’Ucraina come casus belli per assediare Putin e costringerlo a una fuoriuscita dalla scena politica internazionale, per poi probabilmente sostituirlo con qualcuno che possa adeguarsi all’Agenda 2030 e quindi alla realizzazione di un New World Order al di sopra degli interessi nazionali, al di sopra dei popoli e delle loro tradizioni e identità. E’ una specie di élite dominante, non eletta da nessuno, che si arroga il potere di regolare le sorti del mondo. C’è qualcuno che evidentemente non cede, rifiutandosi di accettare questo. E allora, così come hanno eliminato Trump dalla scena politica con i brogli del 2020, oggi stanno cercando di portare Putin a una situazione di esasperazione.
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Magaldi: violerò i divieti. Delazioni? Denunceremo Speranza
«Se diventa illegale tenere feste in casa con più di 10 persone, ne organizzanerò una ogni sera. E invito sin d’ora polizia e carabinieri a venirmi a trovare: avrò il piacere di spiegare loro che le misure dell’ultimo Dpcm sono incostituzionali, e che gli stessi pubblici ufficiali possono rifiutarsi di eseguire ordini basati su norme illegittime». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, annuncia la sua disobbedienza civile nei confronti delle ultime imposizioni del governo Conte: «L’obbligo di indossare sempre la mascherina, anche all’aperto e persino se si è soli – afferma – contraddice una legge dello Stato che impone ai cittadini di rendersi sempre riconoscibili alle forze dell’ordine». Le eventuali sanzioni – aggiunge – saranno tutte impugnate: «Il servizio di Sostegno Legale del Movimento Roosevelt mette gratuitamente i suoi avvocati a disposizione dei cittadini, che invito a non indossare all’aperto la mascherina». Nel mirino di Magaldi, in particolare, il ministro della salute Roberto Speranza, già capogruppo del Pd alla Camera: intervistato da Fabio Fazio, ha detto di aspettarsi “segnalazioni” dai vicini di casa degli eventuali “trasgressori”, nel caso di feste domestiche affollate.«Non ho mai capito – premette Magaldi – in nome di quale virtù politica Speranza fosse stato scelto da Bersani per un incarico importante in Parlamento. Ora è addirittura ministro? Evidentemente – aggiunge – per fare il ministro della sanità devi proprio essere un mediocre passacarte: uno che non solo non ha sale in zucca, ma si fa latore delle peggiori stronzate, quando non sono nefandezze». Speranza viene da sinistra, e quindi – per Magaldi – «dovrebbe avere ogni giorno il pudore di dire “non sono comunista”, e invece ora propone l’applicazione di quella che era la peggior consuetudine nella Germania Est, ben rappresentata dal film “Le vite degli altri”, che racconta la delazione quotidiana e il controllo asfissiante sui cittadini». La stessa piaga, aggiunge Magaldi, affliggeva gli italiani anche durante il fascismo: «In ogni condominio c’era chi spifferava alla polizia politica fascista quello che facevano i condomini». Il presidente del Movimento Roosevelt non fa sconti: «Si vergogni, Speranza: l’incitamento alla delazione è una cosa schifosa e vergognosa. Il ministro, oltretutto, è passibile di denuncia: la sua è un’incitazione alla violazione della privacy (che è una cosa pesante, tutelata dalle nostre leggi)».Lungi dal negare l’esistenza dell’epidemia, Magaldi contesta radicalmente la sua narrazione “terroristica” e manipolata, a partire dalle cifre fornite, e senza dimenticare che «purtroppo, la scorsa primavera, ad aggravare il bilancio hanno provveduto anche gli errori iniziali dei medici, nella gestione dei pazienti in terapia intensiva». Oggi, continua il presidente “rooseveltiano”, si gioca ancora sulla paura esibendo la crescita dei contagiati (per lo più asintomatici), fingendo di non sapere che quel numero dipende dall’aumento vertiginoso del volume dei test eseguiti. «Mi domando: per quanto ancora si potrà continuare a raccontare alla gente che siamo insidiati da una sorta di peste nera?». Per Magaldi, la situazione – drammatica per il paese, specie sul lato economico e sociale – ha persino aspetti comici: «Mentre si procura il terrore generale, “giovanotti” non certo di primo pelo (da Briatore a Berlusconi, lo stesso Trump) guariscono dal Covid in pochi giorni, grazie a terapie che ormai esistono. Alla fine, il contrasto tra la narrazione ufficiale e la realtà dei fatti si imporrà di per sé, anche con il nostro aiuto». Certo, a pesare è anche la massa dei cittadini impauriti e rassegnati alla sottomissione: «Ogni dittatura – chiosa Magaldi – si è sempre affermata grazie alla passività dei cittadini e anche alla complicità di molti di essi».«Se diventa illegale tenere feste in casa con più di 10 persone, ne organizzerò una ogni sera. E invito sin d’ora polizia e carabinieri a venirmi a trovare: avrò il piacere di spiegare loro che le misure dell’ultimo Dpcm sono incostituzionali, e che gli stessi pubblici ufficiali possono rifiutarsi di eseguire ordini basati su norme illegittime». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, annuncia la sua disobbedienza civile nei confronti delle ultime imposizioni del governo Conte: «L’obbligo di indossare sempre la mascherina, anche all’aperto e persino se si è soli – afferma – contraddice una legge dello Stato che impone ai cittadini di rendersi sempre riconoscibili alle forze dell’ordine». Le eventuali sanzioni – aggiunge – saranno tutte impugnate: «Il servizio di Sostegno Legale del Movimento Roosevelt mette gratuitamente i suoi avvocati a disposizione dei cittadini, che invito a non indossare all’aperto la mascherina». Nel mirino di Magaldi, in particolare, il ministro della salute Roberto Speranza, già capogruppo del Pd alla Camera: intervistato da Fabio Fazio, ha detto di aspettarsi “segnalazioni” dai vicini di casa degli eventuali “trasgressori”, nel caso di feste domestiche affollate.
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Obama-Hillary: guerra civile, per rubare la vittoria a Trump
Hillary Clinton ha annunciato aver detto a Biden di non accettare in nessun caso la vittoria di Trump a novembre prossimo. E’ chiaro infatti che Trump vincerà le prossime presidenziali Usa, dunque l’unico modo per boicottarlo è con il voto postale. Chiaro, se fosse una vittoria a valanga, il tentativo Dem sarebbe palese. Ma ormai, per quello di cui al seguito, penso non si faranno alcun problema anche ad andare anche allo scontro istituzionale in grado di travalicare verso la guerra civile. Alla fine il piano Dem era semplice, per affossare i consensi per Trump a novembre 2020: far crollare la Borsa (la vendita di marzo sui mercato fu commentata real time in Italia guarda caso dall’obamiano Mattero Renzi sulla “Cnn”), vedere crollare l’economia a -30% in un trimestre causa Covid, poi la semi-guerra civile, la rivolta dei negri finanziata da Antifa. Ossia anche – sembra – da Soros, ovvero dalla Germania, che secondo organi di stampa avrebbe addirittura finanziato come Stato direttamente il movimento di protesta dei neri negli Usa… Peccato che detto “perfetto piano” – Covid e crolli di Borsa ci sono stati – non sembri funzionare!
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Gasdotti: c’è la Germania (non Putin) dietro il caso Navalny
Navalny non era una minaccia per Putin, si sa, con percentuali di voto da prefisso telefonico. Parimenti egli sembrava “di molto” avere le fattezze di una spia straniera; di norma quelli più attrezzati per inserire spie in Russia sono gli uomini della ex Ddr, a maggior ragione quelli post 1990, ossia la Stasi fusa nel Bnd sotto Schäuble, il potentissimo ministro della segretezza economica tedesca. Il North Stream II rappresenta invece l’autonomia energetica germanica o quasi, infatti i 100+ bcm/yr di metano sono davvero la pietra angolare del sogno di potenza per via energetica della Germania. North Stream II maturato – lo ricordo – con un accordo della 25esima ora che uccise Atene nel suo tentativo di Grexit ante 2015, ossia tagliando la linea di credito russa promessa da Mosca con Varoufakis a capo delle finanze, linea necessaria per uscire dall’euro; ciò avvenne, il tradimento russo ad Atene intendo, in forza di un accordo a tre tra Merkel-Putin e Obama atto a permettere – in cambio del mantenimento dell’euro, ossia del ritiro del prestito russo ad Atene (infatti la fine della moneta unica sarebbe stata in grado di deragliare la rielezione di Obama, così fu venduta all’inquilno della Casa Bianca, si dice) – il raddoppio del collegamento gas-energetico russo, bruciando per altro il South Stream italiano e con esso Saipem ed Eni.All’appello manca dunque la Stasi, con il deputato tedesco Gregor Gysi che oggi dice che l’avvelenamento di Navalny è stato perpetrato da gente che non voleva il North Stream II. Si dice ci sia un vecchio detto, in Stasi, “bisogna sempre dire il contrario della realtà che ti infastidisce”, o qualcosa del genere. Bene, Gregor Gysi è anche figlio di un plenipotenziario riconosciuto della Stasi, addirittura ex ambasciatore alla Santa Sede della Ddr durante il sequestro Moro, poi traslocato in fretta e furia all’estero dopo il tragico epilogo. Il figlio attuale, Gregor, del partito Spd, è stato guarda caso anche finanziatore di Carola Rackete, ossia della Ong Sea Watch, indicando perfettamente la strada che la Stasi ha percorso, con un piano 3d, per destabilizzare l’Italia (e la Grecia). Oggi i formidabili servizi segreti tedeschi potrebbero anche aver avvelenato Navalny, ovvero aver fatto finta di avvelenarlo. Per farlo tornare in patria, forse era davvero un loro asset, versione plausibile quanto meno. Dando poi la colpa alla Russia per l’avvelenamento. Ossia, forse i tedeschi speravano così di creare un’onda mediatica anti-russa, per cui il mondo occidentale si sarebbe scagliato contro Mosca e contro Putin, cosa che invece non è accaduta, complice l’uscita in diretta di Trump che ha detto: «Non c’è nessuna prova dell’avvelenamento russo di Navalny».Come dire, se non la piantate diciamo che siete stati voi tedeschi, forse… (la prima vera crepa Russia-Germania è arrivata, verso la Yalta II?). Il movente tedesco del fallito piano poteva ben essere che, ad esempio, visto che Trump sta per dinamitare il progetto di North Stream II forse anche d’accordo con Putin, a fronte di qualche contropartita vicino-caucasica per Mosca dagli States (che forse oggi non si può ancora dire), Berlino potrebbe aver deciso di tentare il tutto per tutto per salvare il progetto del gas dal nord, vitale, l’equivalente di un piccolo Lebensraum energetico tedesco. Ben conoscendo il piano l’attacco in corso anti-tedesco, dagli Usa. Dunque ecco forse la messa in scena di Navalny avvelenato per sviare l’attenzione: non mi stupirei di vederlo fra un po’ zampettare da qualche parte, certamente cercato dai media Uk e Usa che faranno a gara per trovarlo vivo e vegeto, il Navalny, mentre i media tedeschi faranno invece l’opposto, proprio non lo cercheranno lasciandolo nell’oblio, un po’ come successe con il gambizzatore di Schäuble o con l’ex moglie del compagno di Angela Merkel.Chiaro, queste sono ipotesi, un modo come un altro per mettere ordine agli eventi. Certamente quella presentata è solo una delle tante ipotesi possibili, che potrebbe essere comunque vera in parte o in toto, direi più in parte al limite. Ma che se non altro ha il pregio di mettere in evidenza – che è il vero scopo dell’intervento – quali siano i veri driver della faccenda Navalny-North Stream II-sfida agli Usa da parte dell’asse sino-tedesco. In attesa del coup de theatre: l’esposizione degli artefici europei dell’Obamagate, appena – presto o tardi – il generale Flynn verrà riabilitato. Sono sicuro che ne vedremo delle belle, in Germania ed in Italia. Quello che deve rimanervi, di questo pezzo, non è tanto l’ipotesi presentata, una delle tante sul tavolo, ma la sensazione – netta – che le cose, soprattutto di questi tempi, non sono quasi mai come ve le fanno apparire, ad arte. Abbiate ancora un po’ di pazienza.(Mitt Dolcino, “Navalny avvelenato, North Stream II e Stasi reloaded: una versione per mettere tutti d’accordo nel caos apparente, fomentato da Berlino”, dal blog di Mitt Dolcino del 9 settembre 2020).Navalny non era una minaccia per Putin, si sa, con percentuali di voto da prefisso telefonico. Parimenti egli sembrava “di molto” avere le fattezze di una spia straniera; di norma quelli più attrezzati per inserire spie in Russia sono gli uomini della ex Ddr, a maggior ragione quelli post 1990, ossia la Stasi fusa nel Bnd sotto Schäuble, il potentissimo ministro della segretezza economica tedesca. Il North Stream II rappresenta invece l’autonomia energetica germanica o quasi, infatti i 100+ bcm/yr di metano sono davvero la pietra angolare del sogno di potenza per via energetica della Germania. North Stream II maturato – lo ricordo – con un accordo della 25esima ora che uccise Atene nel suo tentativo di Grexit ante 2015, ossia tagliando la linea di credito russa promessa da Mosca con Varoufakis a capo delle finanze, linea necessaria per uscire dall’euro; ciò avvenne, il tradimento russo ad Atene intendo, in forza di un accordo a tre tra Merkel-Putin e Obama atto a permettere – in cambio del mantenimento dell’euro, ossia del ritiro del prestito russo ad Atene (infatti la fine della moneta unica sarebbe stata in grado di deragliare la rielezione di Obama, così fu venduta all’inquilno della Casa Bianca, si dice) – il raddoppio del collegamento gas-energetico russo, bruciando per altro il South Stream italiano e con esso Saipem ed Eni.
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L’asse Trump-Putin contro i “cinesi” Soros, Obama e Merkel
Se Donald Trump verrà rieletto, grazie alla maggioranza silenziosa degli americani (oltre il 60%, secondo i nostri sondaggi), sicuramente aiuterà l’Italia a liberarsi della tirannide burocratica dell’Unione Europea a guida franco-tedesca. Già ora le relazioni tra Usa e Germania sono gelide, come dimostra la decisione della Merkel di non partecipare al G7 negli Stati Uniti. Da decine di anni, i tedeschi usano i soliti sistemi finanziari per ingabbiare l’Italia: hanno sempre ingarbugliato i conti per far sembrare solvente la Germania, mentre le banche tedesche (soprattutto la Deutsche Bank) sarebbero già fallite dieci volte, se fossero state italiane; ma il governo tedesco e i suoi pupazzetti all’Ue continuano a mettere un salvagente sopra l’altro, per aiutare le banche tedesche. Penso che la fine del “Quarto Reich” sarà soprattutto una fine economica, così come quella della Cina comunista. Prima di abbandonare la Casa Bianca, Barack Obama disse: «Lascio ad Angela Merkel il testimone della difesa dell’ordine liberale». Al di là delle etichette (lui di sinistra, lei di destra), Obama e Merkel fanno parte della stessa squadra. Nonostante la censura in atto, il web è pieno di documenti che comprovano i legami di Obama e Merkel con George Soros.Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Ungheria finì nelle mani dei sovietici, George Soros smise l’uniforme delle SS e passò con i comunisti, facendo carriera nei servizi segreti ungheresi. Dopodiché passò al Kgb, dove conobbe una certa Angela Merkel, che nell’allora Germania Est lavorava a sua volta nei servizi segreti: quelli della Ddr, la famigerata Stasi. I due divennero amici. Poi Soros emigrò negli Usa, divenne americano e, fra l’altro, finanziò un certo Barack Obama. Nessuno sapeva chi fosse, Obama, e ancora oggi non si sa bene cosa abbia fatto da giovane (prima in Africa, poi in Indonesia). Si sa solo che era un grande amico di Soros. Obama, Soros e Merkel sono un trio: si conoscono molto bene. Anche sui media italiani, si è scatenata una guerra contro Trump: ogni giorno, il “Corriere della Sera” attacca il presidente americano, mentre “Repubblica” elogia la Merkel. Il “Corriere”, purtroppo, fu infiltrato da gente di Soros già ai tempi di Berlusconi. La propaganda contro Trump è orchestrata a livello internazionale, da elementi filo-cinesi che magari hanno fabbriche in Cina o comunque controllano giornali e televisioni.Gli stessi media, poi, demonizzano Putin come dittatore e invece trattano coi guanti bianchi Xi Jinping. La ragione è la stessa che spinse Hillary Clinton, nelle presidenziali 2016 e anche dopo, con il Russiagate, a criminalizzare Mosca. La sinistra, ormai controllata dal partito comunista cinese, non può immaginare neanche lontanamente la possibilità che gli Stati Uniti e la Russia si stringano la mano e comincino a cooperare. Se queste due superpotenze dovessero cominciare a collaborare, quella tigre di carta che è la Cina di oggi (tigre di carta economica e propagandistica) crollerebbe in pochi mesi. I russi conoscono bene George Soros, ma anche l’ex agente della Stasi Angela Merkel e tanti altri, che sono infiltrati negli Stati Uniti e in altri paesi, compresa l’Italia. I russi hanno in mano tutti i file del vechio Kgb: informazioni che potrebbero passare agli amici americani, se Trump dovesse rimanere presidente. E’ per questo che la Cina, e tutti gli elementi pro-cinesi, stanno facendo una guerra all’ultimo sangue, contro Trump, per fare in modo che gli Usa di Trump e la Russia di Putin non si mettano d’accordo e non comincino a condividere informazioni sulla Cina. Il sistema di potere che ha costruito questa globalizzazione infame sta per crollare. Faremo di tutto, intanto, per aiutare Trump a essere rieletto.(George Lombardi, dichiarazioni rilasciate a Francesco Toscano nella diretta web-streaming di “Vox Italia Tv” del 6 luglio 2020, su YouTube. Noto imprenditore italoamericano, Lombardi è uno stretto collaboratore di Trump).Se Donald Trump verrà rieletto, grazie alla maggioranza silenziosa degli americani (oltre il 60%, secondo i nostri sondaggi), sicuramente aiuterà l’Italia a liberarsi della tirannide burocratica dell’Unione Europea a guida franco-tedesca. Già ora le relazioni tra Usa e Germania sono gelide, come dimostra la decisione della Merkel di non partecipare al G7 negli Stati Uniti. Da decine di anni, i tedeschi usano i soliti sistemi finanziari per ingabbiare l’Italia: hanno sempre ingarbugliato i conti per far sembrare solvente la Germania, mentre le banche tedesche (soprattutto la Deutsche Bank) sarebbero già fallite dieci volte, se fossero state italiane; ma il governo tedesco e i suoi pupazzetti all’Ue continuano a mettere un salvagente sopra l’altro, per aiutare le banche tedesche. Penso che la fine del “Quarto Reich” sarà soprattutto una fine economica, così come quella della Cina comunista. Prima di abbandonare la Casa Bianca, Barack Obama disse: «Lascio ad Angela Merkel il testimone della difesa dell’ordine liberale». Al di là delle etichette (lui di sinistra, lei di destra), Obama e Merkel fanno parte della stessa squadra. Nonostante la censura in atto, il web è pieno di documenti che comprovano i legami di Obama e Merkel con George Soros.
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Poliziotti: basta, siamo stufi di perseguitare cittadini italiani
Se quando abbiamo scelto di arruolarci nella polizia ci avessero detto che un giorno ci sarebbe toccato agire come cani da pastore o, peggio, da guardia di una sorta di Muro di Berlino, ci saremmo fatti grasse risate. Invece, a distanza di oltre trent’anni (e già, chi scrive non é una GiaccaBlu di primo pelo, siamo abbastanza adulti e con una certa esperienza) è proprio quello che sta accadendo e siamo increduli, attoniti. Certo, sapevamo benissimo che fare questo lavoro comporta (anche) essere invisi, sapevamo che non andavamo incontro a scrosci di applausi come rockstar; indossare la GiaccaBlu non è da tutti e non è per tutti, sono più i rospi da ingoiare che i riconoscimenti per i quali gioire, ma sapevamo che era nel conto. Quello che non è nel “contratto” stipulato col giuramento fatto alla Repubblica e alla Costituzione è agire, operare fuori (se non addirittura contro) i suoi dettami. Per mesi e mesi, durante il corso di addestramento e formazione, ci sono stati ribaditi certi principi che abbiamo assimilato (non che ce ne fosse bisogno, la coscienza democratica era ben radicata in tutti noi, esclusi quelli che in certe riunioni sindacali usavano introdurre i loro interventi con “carissimi amici, colleghi, compagni”!). Ma oggi?Oggi ci ritroviamo in una situazione in cui siamo (stati) trasformati in una quasi-milizia, costretti a persegui(ta)re i nostri concittadini non appena osano mettere il naso fuori dalla loro abitazione, a “chiedergli” di certificare la legittimità dei loro movimenti e decidere se sono plausibili o meno, da ultimo persino a valutare se e quali sono i loro congiunti! A questo siamo stati ridotti noi eredi del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza? A questo è ridotta la nostra istituzione? La nostra gloriosa GiaccaBlu come uno straccio, oltraggiata e svilita senza che nessuno osi opporsi a questo scempio? La nostra polizia, che negli ultimi 30 anni ha retto l’urto dei maniaci del federalismo tout court che la volevano smantellata e (sotto)posta ai sindaci negli anni ’90? No! Così non va bene! Non ci sta bene! Basta! Non siamo disposti a farci mettere in svendita, la GiaccaBlu non è un orpello, ha un valore intrinseco, non può essere messa in svendita o in saldo. Se così è, lo si dica chiaramente, se si ha il coraggio. Siamo stufi di doverci “scontrare” quotidianamente con persone che hanno perso il lavoro, non hanno sostentamento ma famiglia a carico, che non sanno più come mantenere.Siamo consapevoli della situazione emergenziale a causa del Covid19, ma ancor più lo siamo dell’assurdità di certi provvedimenti amministrativi e di certe (deliranti) ordinanze emesse dalle autorità locali. Ci siamo espressi contro l’utilizzo dei droni (una follia) per la caccia all’uomo, utili e strumentali solo ed esclusivamente alle manie di protagonismo di alcuni sindaci scatenati in una gara a chi è più realista del Re (altro prodotto di una politica stupida e insensata sulla gestione della sicurezza pubblica). Siamo uomini, donne, mariti, mogli, padri, madri; molti viviamo il dramma della chiusura di piccole attività che contribuivano a farci arrivare a fine mese senza eccessivi patemi d’animo. E siamo testimoni dello stesso identico dramma che moltissimi nostri concittadini stanno vivendo, delle lacrime che versano e dell’angoscia che li pervade ogni volta che procediamo a un semplice controllo. Vi sembra normale tutto ciò? Non vogliamo essere “congiunti” di uno Stato Etico in stile Ddr, non vogliamo essere complici di questo sfascio sociale. Ne prendano atto, coloro che vivono nelle loro torri d’avorio. La vostra ignavia sta mettendo in serio pericolo la coesione sociale.(”Congiunti di uno Stato etico? No, grazie!”, post apparso il 3 maggio 2020 sul forum “Poliziotti.it”, seguito dallo slogan “IoNonSanziono” e dall’hashtag #FedeleAllaCostituzione. “Poliziotti.it” è nato nel 2001 da una intuizione di Salvatore Baiocchi all’indomani dei fatti di Genova, come portale non istituzionale e asindacale per favorire il dialogo democratico tra poliziotti e cittadini).Se quando abbiamo scelto di arruolarci nella polizia ci avessero detto che un giorno ci sarebbe toccato agire come cani da pastore o, peggio, da guardia di una sorta di Muro di Berlino, ci saremmo fatti grasse risate. Invece, a distanza di oltre trent’anni (e già, chi scrive non é una GiaccaBlu di primo pelo, siamo abbastanza adulti e con una certa esperienza) è proprio quello che sta accadendo e siamo increduli, attoniti. Certo, sapevamo benissimo che fare questo lavoro comporta (anche) essere invisi, sapevamo che non andavamo incontro a scrosci di applausi come rockstar; indossare la GiaccaBlu non è da tutti e non è per tutti, sono più i rospi da ingoiare che i riconoscimenti per i quali gioire, ma sapevamo che era nel conto. Quello che non è nel “contratto” stipulato col giuramento fatto alla Repubblica e alla Costituzione è agire, operare fuori (se non addirittura contro) i suoi dettami. Per mesi e mesi, durante il corso di addestramento e formazione, ci sono stati ribaditi certi principi che abbiamo assimilato (non che ce ne fosse bisogno, la coscienza democratica era ben radicata in tutti noi, esclusi quelli che in certe riunioni sindacali usavano introdurre i loro interventi con “carissimi amici, colleghi, compagni”!). Ma oggi?
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Russia derubata: l’imbroglio americano del Muro di Berlino
Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pace vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: e il mondo è precipitato nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trennennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.E’ la tesi che Giulietto Chiesa espone del provocatorio saggio “Chi ha costruito il muro di Berlino?”, che esplora i decisivi albori del dopoguerra – da Hiroshima alla guerra fredda – frugando, carte alla mano, tra i segreti della nostra storia più recente. Al punto in cui erano, chiusi nell’angolo – sostiene Chiesa – nel 1961 i sovietici non potevano far altro che innalzare quell’odioso, maledetto muro: non avevano i soldi per rispondere ad armi pari alla micidiale offensiva statunitense in Germania Est, realizzata violando tutti gli accordi tra le superpotenze. Per esempio, la decisione (condivisa da Roosevelt e Stalin) di progettare insieme il futuro della Germania, in modo bilaterale. Via Roosevelt, il voltafaccia americano si fece palese. E Berlino, insieme alla Germania Ovest, divenne il perno su cui investire per puntare all’unico crollo che interessasse davvero a Washington: quello di Mosca. Se a Yalta i vincitori si erano accordati lealmente per co-gestire l’imminente dopoguerra, a Potsdam nell’estate del ‘45 gli americani decisero di cambiare passo: le atomiche sul Giappone sarebbero state una minaccia diretta all’Unione Sovietica. Un anno prima, del resto, a Bretton Woods il sistema capitalista (”miracolato” dal New Deal ma pronto a emarginare lo stratega progressista Keynes) aveva stabilito il gold standard, la supremazia del dollaro come valuta internazionale e il ruolo “imperiale” del Fmi rispetto alle banche centrali, tranne quella americana.Non c’è bisogno di dichiararsi anticomunisti per ammettere che, ovunque abbia conquistato il potere, quell’ideologia abbia sistematicamente deluso, tradito e represso il popolo, imponendo un’oligarchia dittatoriale capace di macchiarsi dei peggiori crimini. Preoccupa, semmai, che il Parlamento Europeo abbia appena votato una mozione che equipara il comunismo al nazismo: in 150 anni, ricorda lo storico Alessandro Barbero, la parola “comunismo” ha unito milioni di persone che speravano in un modo migliore, più giusto e solidale, mentre – com’è noto – il nazismo aveva come primo obiettivo il primato “razziale” germanico e lo sterminio degli ebrei. L’aspetto più inquietante, nel caotico dopoguerra (secondo Giulietto Chiesa, e non solo) riguarda lo strano feeling tra l’élite statunitense e la Germania nazista sconfitta: subito dopo lo spettacolare Processo di Norimberga, scrive Chiesa, furono almeno 20.000 i criminali nazisti reclutati da Washington per dar vita ai propri apparati di sicurezza come la Cia, ma anche la Nato e lo stesso esercito della Germania Occidentale, paese scelto – almeno dal 1947, a quanto pare – come leva strategica per scardinare la presa sovietica sull’Est Europa, fino poi a far crollare il regime di Mosca.Eterogenesi dei fini: paradossalmente, osserva Chiesa, è proprio “grazie a Hitler” (aiutato sottobanco dalla finanza facente capo a Rockefeller e Allen Dulles, poi capo della Cia) che l’America ha potuto diventare la superpotenza “imperiale”, unica padrona dei destini europei. «L’Europa che abbiamo ereditato – sostiene Giulietto Chiesa, già militante comunista e a lungo corrispondente da Mosca per “L’Unità” – è il risultato della sottrazione della vittoria alla Russia, dell’impossessarsi della vittoria da parte degli Usa e della fine dell’impero britannico, sostituito dall’impero americano». La sua ricostruzione della crisi di Berlino – culminata con la costruzione del Muro – è decisamente inconsueta. Nel 1946, subito dopo Norimberga, gli Usa decidono di rivalutare il marco della Germania Occidentale di quasi 5 volte il suo valore, nonostante gli accordi iniziali sulla co-gestione, con i russi, del futuro del paese. Tra parentesi: la battaglia di Berlino, culminata il 2 maggio del ‘45, aveva messo l’Armata Rossa nelle condizioni di dilagare in gran parte del territorio tedesco. «Stalin invece si fermò a Berlino, fedele al patto siglato a Yalta con Roosevelt». Salito Truman alla Casa Bianca, «di colpo l’Occidente vuole mezza Germania per sé, inclusa la parte occidentale di Berlino». E cosa fa? Rivaluta la moneta. «Risultato: a Berlino Ovest, da un giorno all’altro, si guadagna 4 volte tanto».Chiesa parla di «banconote preparate segretamente già dal 1947». A Berlino, alla vigilia della costruzione del Muro, 50-60.000 lavoratori dell’Est fanno i pendolari: lavorano nella zona Ovest, passando liberamente da un settore all’altro. All’improvviso, con l’impennata valutaria del marco occidentale, succede questo: all’Est, pane e benzina costano 4 volte meno, quindi i berlinesi dell’Ovest corrono a svuotare i negozi dell’Est. In parallelo, comincia l’esodo: 200.000 tedeschi lasciano Berlino Est per trasferirsi a Berlino Ovest. «In due anni e mezzo, traslocarono quasi 2 milioni di persone». L’Urss, ancora devastata dall’invasione nazista, non aveva i soldi per reagire sul piano economico-finanziario: «Nella Germania Orientale, Mosca aveva promosso infrastrutture avanzate: ospedali, università, centri di ricerca. Ma il livello di vita era quello socialista, come in Urss». Conclusione: «Il Muro di Berlino fu un atto elementare difensivo, al quale non ci si poteva sottrarre (se non arrendendosi)». Si dirà: ha stravinto, in ultima analisi, il modello economico più convincente. L’unico (dei due) capace di motivare gli individui, lasciandoli liberi di parlare, pensare ed esprimersi democraticamente, e soprattutto di conquistare in tempi brevi una condizione di notevole benessere.Giulietto Chiesa non si nasconde, ovviamente, le aberrazioni dello stalinismo: «C’erano stati milioni di arresti, le deportazioni in Siberia, l’industrializzazione mediante lavoro forzato». Eppure, aggiunge, «in quel momento la dirigenza sovietica aveva un enorme consenso popolare: finita la guerra, i russi pensavano che sarebbe cessata anche la repressione, e che si sarebbe cominciato finalmente a vivere, anche in Russia, in condizioni diverse». Attenzione: «La Russia aveva vinto la guerra, sul suo territorio. Aveva avuto 20 milioni di morti: non voleva, né poteva, considerarsi battuta». Orgoglio, e non solo: l’Unione Sovietica aveva sconfitto il nazismo, ereditando solo macerie. Città distrutte, industrie rase al suolo: un sacrificio immenso. L’America? Intatta. Nello Sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944, gli alleati ebbero 4.400 morti e quasi 8.000 feriti. Cifre che impallidiscono di fronte a Stalingrado, battaglia decisiva per le sorti della Seconda Guerra Mondiale, protrattasi dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio dell’anno seguente. Bilancio: mezzo milione di soldati sovietici uccisi e 650.000 feriti, oltre un milione di perdite inflitte ai tedeschi e ai loro alleati. L’attuale demonizzazione del comunismo pretesa (per legge) dall’Unione Europea finisce per mettere in ombra la storia, scippando un’altra volta la Russia: che, secondo Chiesa, quel dannato Muro fu costretta a erigerlo, dopo esser stata ingannata dall’ex alleato americano.(Il libro: Giulietto Chiesa, “Chi ha costruito il muro di Berlino? Dalla guerra fredda alla nascita della bomba atomica sovietica, i segreti della nostra storia più recente”, Uno Editori, 160 pagine, euro 13,90).Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pacificazione vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: siamo precipitati nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo e contro le stesse democrazie. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trentennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.
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Cangiani: odiano la democrazia, e la chiamano socialismo
Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».Solo in seguito, continua Cangiani nell’anticipazione del suo saggio, pubblicata su “Sbilanciamoci”, si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico”, denunciato dallo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet nel 1995, aveva tolto l’ossigeno vitale all’interesse pubblico, alle nostre comunità nazionali. La finanza, privata e pubblica («dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà») ha continuato a «provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria». Anziché un metodo efficiente di finanziamento delle imprese, Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali, fino a denunciare il dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Caffè «sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito». Le rendite – che a suo parere, ricalcando Keynes, sono la prova di una «inefficienza sociale» – gli appaiono connaturate con «la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario».Spiega Cangiani: «I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di “aggiustamento strutturale” imposte dal Fmi negli anni Ottanta e, in generale, di un’economia “usuraia”». La stessa politica, cioè «la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali», è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli Usa, con il presidente Clinton, continuavano a indicare la stessa rotta, «riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la deregolamentazione delle attività finanziarie». Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994, ricorda Cangiani, fu elaborato da Fmi e Usa «per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio». I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione, mentre la pressione del debito estero (insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro) portarono alla rovina l’economia dell’Argentina, «predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo Stato».Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete, aggiunge Cangiani, erano stati fattori decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – e per la ex Ddr ebbero conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina. «Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica», osserva Cangiani. In un articolo del 1985, Federico Caffè aveva indicato alcuni punti critici, fondamentali e sottovalutati. A suo avviso, l’integrazione europea avrebbe dovuto adottare «idonee e coordinate misure di politica economica» contro la disoccupazione e la disuguaglianza. La futura Ue avrebbe dovuto controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, aggiungeva Caffè, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli Stati membri sugli altri. Il problema, diceva, è se si realizzerà «un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette». Ora, rileva Cangiani, «sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi».Caffè denunciava la tendenza verso un’Europa «strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri», contraria al permanere di «settori pubblici dell’economia», soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere «un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali», le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi. La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata, scrive Cangiani. La sinergia tra le imposizioni Ue e la trasformazione neoliberista si è fatta profonda ed efficace, e la moneta è stata resa autonoma dallo Stato. Ecco «una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo», commentava Caffè, segnalando l’impronta “ottocentesca” del pensiero economico neo-feudale dell’ultraliberista austriaco Friedrich Von Hayek. Un analista come Claus Thomasberger oggi dimostra che la situazione attuale corrisponde a quella disegnata dal reazionario Hayek nel 1937, «che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali». Secondo quel progetto, ricorda Cangiani, «i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi».Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Per Hajek, infatti, le istituzioni democratiche devono avere semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti, e l’Unione Europea quella di impedire l’interferenza dei singoli Stati nell’attività economica. Le idee di Hayek e quelle dell’inglese Lionel Robbins hanno avuto infine successo. L’ideologia liberista si spiega con il vincolo del profitto, «caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica», e la sua persistenza secolare deriva da «fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali». Inoltre, continua Cangiani, il neoliberismo rappresenta «un successo paradossale», perché predica «l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui», i quali invece «restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario».Ne è uno specchio l’Ue, dove è stata imposta la libera circolazione di merci, attività finanziarie e movimenti dei capitali, mentre «le politiche dei singoli Stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale». Anzi: «Si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da “paradisi fiscali”». Capita che persino la stesura di rapporti sui “beni comuni” sia affidata a grandi società private, «per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business». In Europa oggi «viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso». La privatizzazione investe anche attività vitali: acqua e altri beni comuni, le “public utilities”, la formazione, la sanità e l’assistenza sociale. Si tagliano le pensioni, crescono tasse e imposte mentre cala la loro progressività rispetto ai redditi delle famiglie. «Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione».E i numeri parlano da soli: nel 2014, la spesa sanitaria (pubblica) è stata, in Francia, equivalente a 4.950 dollari pro capite, mentre negli Usa (sanità privatizzata) si è speso il doppio, 9.403 dollari. «La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del Pil dei due paesi», annota Cangiani. «La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli Usa», secondo dati Oms aggiornati al 2016. «Dunque, negli Usa, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del Pil, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre».Quanto alla disoccupazione, che è «un problema sistemico» che riguarda «almeno 30 milioni di persone nell’Ue», tende a venir affrontata con politiche di “attivazione” e di “workfare” rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro, osserva Cangiani. «La contrattazione collettiva va scomparendo. La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi». Tutto ciò, aggiunge l’analista, corrisponde al credo neoliberale, «cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi». L’esito è sotto i nostri occhi: tendenza depressiva e aumento delle disuguaglianze, smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e crescita della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli Stati membri dell’Unione. «Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui».La sovranità popolare attraverso il Parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, «viene seriamente compromessa, sia dai governi “tecnici” e di “grande coalizione” sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori, denuncia Cangiani. «Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono». Di fatto, questa dinamica (spacciata per tecnico-ecomomica) è invece squisitamente ideologica, politica, egemonica: di fronte alla crisi iniziata negli anni Settanta, «il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione corrispondente ai propri interessi», scrive Cangiani. «Ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia», e poi «ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate». La nuova economia imposta all’Occidente, specie in Europa, «si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano».A questo si aggiunge la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli storicamente sottratti alla gestione pubblica ci sono «l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali». Investimenti di questo tipo consentono a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, «dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività». Come scrive David Harvey, il principale risultato del neoliberismo è stato di «trasferire, più che creare reddito e ricchezza». In altre parole, è stata «un’accumulazione mediante espropriazione». Rimedi? L’indebitamento (pubblico e privato) serve a sostenere la domanda e un certo livello di attività, «ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria», secondo Cangiani, visto che genera «rendita finanziaria ed esigenza di “austerità”, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale».Nel 2015, un economista come Wolfram Elsner ha dimostrato che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. «Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza)». Anche per questo, secondo Cangiani, sono politiche «controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte». Per Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. «Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi», dal momento che, con il capitalismo, le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico.Inoltre, osservano Lohoff e Trenkle, la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito: prima o poi «deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio». James O’Connor ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. «Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo». In effetti, continua Cangiani, questa tendenza a spese dell’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale. «La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione». Esiste una via d’uscita? Nel 2013, Colin Crouch ha immaginato una possibile socialdemocrazia, vista come «la forma più alta del liberalismo», mediante la quale il capitalismo verrebbe reso «adatto alla società». Ma c’è un problema politico, che si chiama élite: «La minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch».Il sociologo Luciano Gallino la chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, e finora è risultata vincente. Per Elsner, lo smantellamento progressivo della democrazia è “necessario”, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini dell’aumento del profitto. Il capitalismo ha bisogno di nuove strutture regolative, ha spiegato nel 2014 Wolfgang Streek: bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, le nuove strutture di controllo consentirebbero di combattere i «cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato», e cioè «la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale». E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta «un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo». Il problema, riassume Cangiani, è che riforme tipicamente keynesiane – il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito – sono, attualmente, «non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili».O meglio, riforme classicamente keynesiane, sociali e proggresiste non sono realizzabili «nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento». Sono ormai cadute le passate illusioni di un’economia “mista” o di una “terza via”, a metà strada tra capitalismo e socialismo, conclude Cangiani: «Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma». E in più, «mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive». Che direbbe oggi del sistema finanziario il professor Federico Caffè? Di fronte a una situazione «incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta», Caffè osservava che «l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo», strutture «spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico».Paleocapitalismo da età della pietra: neoliberismo. Nelle osservazioni di Caffè traspariva già «l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico», con «paesi dominanti che tendono alla prepotenza», in mezzo a «una politica segnata da servilismo e inefficienza». E dagli economisti «una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza». Secondo Cangiani, servirebbe il coraggio di una ricerca indipendente, insieme a «un titanico lavoro di organizzazione politica», per capire cosa potrebbe «salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica». Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo «a un punto di svolta globale», come scrivono John Bellamy Foster e Fred Magdoff, riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che «un’organizzazione sociale più razionale» implicherebbe «una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano “socialismo” e massimamente temono e denigrano».(Il libro: Michele Cangiani, “Stato sociale, politica economica e democrazia. Riflessioni sullo spazio e il ruolo dell’intervento pubblico oggi”, Asterios editore, 288 pagine, 29 euro).Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».
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Ricca Germania e poveri tedeschi, divario record in Europa
«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstly sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.La disoccupazione, un problema cruciale per gli altri paesi Ue, per il sondaggio è solo al quinto posto. Marcel Fratzscher, capo del centro di ricerca economica Diw e consigliere dell’Spd, dice: «L’economia sta andando bene. La grande preoccupazione è per quelli che vengono lasciati indietro». I conservatori che sostengono la Merkel non sono d’accordo su questo punto, scrive Wagstly, nell’articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. Ma in una recente intervista su YouTube, la stessa Merkel ha ammesso che la disuguaglianza sta diventando un problema politico: «Veramente – ha detto – molte persone ne sono preoccupate», Ma quanta disuguaglianza c’è in Germania, dopo 12 anni di governo Merkel? Dal 1990 (anno della riunificazione) ad oggi, le disparità sono realmente aumentate, anche se negli ultimi cinque anni sono state in parte attutite grazie alla crescita della produzione, dei posti di lavoro e dei salari. In termini di redditi delle famiglie, la Germania è vicina alla media europea. «Ma in termini di ricchezza – scrive Wagstly – la Germania è significativamente più disuguale rispetto agli altri paesi, con le famiglie più ricche che controllano una quota della ricchezza più ampia rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale».Il 40% dei tedeschi più poveri non possiede praticamente alcun bene patrimoniale, nemmeno dei risparmi in banca. Per quanto riguarda i redditi, il divario tra il 10% dei più poveri e quello dei più ricchi ha iniziato ad allargarsi dalla metà degli anni ’90. «Accade in larga misura per le stesse ragioni degli altri paesi del mondo sviluppato: globalizzazione e perdita di posti di lavoro tramite cambiamenti tecnologici». Dopo un periodo di iniziale stagnazione dopo la riunificazione, la Germania è tornata a crescere grazie a un boom delle esportazioni (“dopate” dall’euro), combinato con una moderazione salariale da parte dei sindacati, e col pacchetto Hartz IV per il mercato del lavoro (flessibilità) e le riforme dell’assistenza sociale, che hanno spinto sempre più disoccupati al lavoro. «Gli effetti economici complessivi sono stati molto ampi, riportando la Germania alla testa della Ue e cementando il sostegno a favore della Merkel», al potere dal 2005. Le riforme Hartz IV erano state comunque ereditate dal governo precedente del socialdemocratico Gerhard Schröder. «Ma se la disoccupazione è diminuita, le persone a reddito basso guadagnano comparativamente sempre meno rispetto ai lavoratori ben pagati».Un ruolo importante nel ridurre la disoccupazione e aumentare il numero degli occupati al livello record di 44 milioni ha avuto l’espansione dei mini-job, posti di lavoro part-time deregolamentati, che sono passati da 4,1 milioni nel 2002 a oltre 7,5 milioni quest’anno. «I loro sostenitori dicono che hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, ad esempio per madri con figli piccoli, studenti e pensionati. Ma i critici affermano che questi mini-job hanno spesso rimpiazzato posti di lavoro a tempo pieno, specialmente nei settori della ristorazione e della vendita al dettaglio», scrive il “Financial Times”. E il sindacato Dgb aggiunge che, anziché aprire la strada a posti di lavoro permanenti, i mini-job sono diventati per i lavoratori un vicolo cieco. «Ci vorrebbe un cambiamento molto più drastico sui redditi per contrastare una causa ancora più grande di disuguaglianza in Germania, ossia la distribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri, che è straordinariamente iniqua».Il paese non ha quell’abbondanza di miliardari che si trovano, ad esempio, nel Regno Unito, ha però una pletora di milionari, spesso concentrati nelle famiglie che possiedono industrie medio-grandi. Intanto, solo il 45% dei tedeschi possiede la casa nella quale vive. Tutti gli altri sono in affitto, specie nelle grandi città, dove i prezzi si sono rapidamente alzati dopo la crisi finanziaria del 2008. «Questo ha ulteriormente ampliato il divario tra gli abbienti e i nullatenenti». Secondo punto, le pensioni: sono generose più che altro con gli ex lavoratori a tempo pieno. «I ricchi si garantiscono una pensione con i fondi privati, ma il tedesco medio non se lo può permettere. In teoria le pensioni pubbliche dovrebbero essere un modo altrettanto sicuro delle pensioni private per garantirsi un reddito in età avanzata, al pari delle pensioni private negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ma l’investimento manca di flessibilità. Per esempio, è impossibile andare in pensione prima e ottenere un riscatto dell’intera somma, che potrebbe essere usata per avviare un’attività produttiva». Infine, l’imposta di successione in Germania favorisce i proprietari di impresa.La disuguaglianza nella distribuzione di ricchezza e redditi aumenta la disuguaglianza sociale, prosegue Wagstly nella sua analisi. Le scuole tedesche reggono bene il confronto con gli altri paesi Ocse, ma «fanno peggio» se solo «si considera il divario tra i bambini di famiglie ricche e quelli di famiglie povere». Nel 2015 la condizione economica di uno studente spiegava il 16% delle differenze nel successo scolastico in Germania, rispetto al 13% della media Ocse. «Allo stesso modo, nella salute c’è un profondo divario tra i ricchi e i poveri, che sembra essere più ampio in Germania che nella media dei paesi Ue». A queste disuguaglianze, conclude il “Financial Times”, si somma un divario regionale che persiste tuttora: «Sebbene dopo la riunificazione del 1990 la Germania Est abbia fatto progressi, i redditi rimangono più bassi di un terzo rispetto ai livelli della Germania Ovest». I giovani hanno smesso di emigrare a frotte, ma il resto della popolazione sta invecchiando più rapidamente: se fosse uno Stato autonomo, con il 24% della popolazione over-65, la Germania Est sarebbe il paese «più anziano del mondo». Ma le sacche di povertà non si limitano alle regioni dell’Est. «I ricchi se ne vanno dai quartieri poveri, e persone povere affluiscono», dice Dieter Heisig, pastore protestante che ha prestato servizio nella città per più di 30 anni. «Non vorrei dover dire che abbiamo dei ghetti, qui in Germania, però li abbiamo».«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstyl sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.
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A salvare la Russia è stato Andropov: il Kgb, cioè oggi Putin
Quando sta per arrivare la “fine del mondo”, c’è sempre qualcuno che la vede in anticipo. E in silenzio, dietro le quinte, prepara il “dopo”. Prendiamo l’Urss, crollata nel 1991. Colpa di Gorbaciov? No: la perestrojka fu un tentativo generoso ma tardivo, fuori tempo massimo. Tutti, al Cremlino, sapevano perfettamente che l’Unione Sovitica era finita: come sistema sociale non poteva più reggere. Il primo a saperlo era l’uomo che allevò Gorbaciov: Yurij Andropov, ininterrottamente a capo del Kgb dal lontano 1967. Proprio il potente servizio segreto era il migliore osservatorio della situazione: prima ancora che andasse a sostituire Breznev nel 1982 alla guida del paese, Andropov già sapeva che solo il Kgb avrebbe potuto impedire la catastrofe definitiva, il tracollo della Russia. Lo sostiene il filosofo Igor Sibaldi, di origine russa per parte di madre, autore di besteller come “I maestri invisibili”. Tre le sue fonti confidenziali anche un amico d’infanzia, ufficiale del Kgb. Non a caso, lo stesso Gorbaciov veniva dall’intelligence, ne era stato il direttore amministrativo. E chi è Vladimir Putin? Un ex colonnello del Kgb. «Ancora oggi, Putin rappresenta un potente network, di cui è il portavoce: è ancora l’ex Kgb a reggere il paese, dopo averne evitato il crollo».Lo ammette anche Giulietto Chiesa, autore di libri come “Roulette russa” e “Russia addio”, scritti durante la disastrosa epoca Eltsin, con la colossale svendita del paese a vantaggio del grande capitale americano, con la mediazione degli “oligarchi” cresciuti attorno al Cremlino. «Il vero iniziatore della perestrojka fu Jurij Andropov, cioè il Kgb, che era la parte più “informata dei fatti”», scrive Chiesa in una riflessione su “Megachip”. «Gorbaciov arrivò quando ormai la situazione era intenibile. Fece degli errori gravi? Sicuramente. Si fidò dell’Occidente, che non conosceva abbastanza? Sicuramente. Ma il fatto incontestabile (se si vuole essere onesti nei confronti della realtà) è che l’Impero del Bene di reaganiana memoria aveva già conquistato le menti della grande maggioranza dei russi. E di quasi tutta l’intelligencija sovietica». L’alternativa concreta che si pose davanti a Gorbaciov, continua Chiesa, fu semplice e tragica: «Continuare così, fino al collasso (con il rischio che i cretini di ambo le parti tentassero la soluzione di forza, e sarebbe stata la fine del genere umano), oppure avviare i cambiamenti necessari». Non ha funzionato, come sappiamo. Ma incolpare solo Gorbaciov «significa oscurare del tutto il progetto di dominio mondiale che cominciò ad attuarsi in quegli anni e che oggi strangola tutti noi».In una conversazione registrata su YouTube, Sibaldi traccia un parallelo tra la crisi terminale dell’Unione Sovietica e l’attuale collasso del nostro sistema, fondato sul consumo di merci superflue: «Le crepe sono evidentissime, la situazione sta crollando. Non sappiamo più neppure chi siamo e cosa ci piace: sappiamo solo cosa dobbiamo dire che ci piace». Nei momenti difficili, aggiunge Sibaldi, conta l’individuo consapevole, che ha coscienza di sé e sente che sta cambiando l’aria, in modo irreversibile. «La domanda da porsi è: come ci si organizza, per il dopo? La Russia sovietica già negli anni ‘70 non aveva più futuro, ma i cittadini non lo volevano accettare: pensavano che l’Unione Sovietica sarebbe durata per sempre. A capire la situazione, con largo anticipo, fu il Kgb. Che, con Andropov, si organizzò per il “dopo” con larghissimo anticipo». Insiste Sibaldi: «Già negli anni ‘60, Andropov si era accorto che l’impero russo sarebbe crollato, inevitabilmente: non aveva speranza, un paese che diceva di essere comunista ma in realtà andava verso il nazismo, di mese in mese, con atrocità intollerabili». Era lucido, il capo del Kgb: «Ha pensato: lo Stato crolla, salvarlo è impossibile. E allora bisogna preparare un edificio a parte, che resista. E ha fatto quello che Isaac Asimov aveva scritto nei suoi romanzi di fantascienza: solo che, anziché su un altro pianeta, l’ha fatto in una struttura statale».Uno Stato nello Stato, in assoluta segretezza. «Poi il crollo è avvenuto, e l’unica cosa che è rimasta in piedi è stato proprio il Kgb, cioè quello che Andropov era riuscito a costruire. Non per niente, Putin è un colonnello del Kgb, non un generale: non è “il dittatore”, è l’espressione visiva di una struttura che è dietro di lui, e che è rimasta solidissima». Il fenomeno dei “nuovi ricchi” russi? E’ la dimostrazione di «processi sociali avviati in quel periodo, accuratamente progettati: la diffusione di un nuovo sistema di ricchezza, dall’alto, per “tener su” un popolo mentre lo Stato crolla». Una visione che coincide in parte con quella di Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”, spesso molto critico di fronte agli entusiasmi dei “corifei” del nuovo Zar di Mosca. Magaldi rivela che Putin fu affiliato alla supermassoneria internazionale già nei primi anni ‘80, quando risiedeva in Germania Est: «Insieme ad Angela Merkel, che conosce personalmente da allora – ricorda Magaldi a “Colors Radio” – Putin fu accolto nella Ur-Lodge “Golden Eurasia”, non esattamente progressista». E’ al potere da troppo tempo e impedisce che la democrazia russia maturi pienamente? Vero. Ma, per contro – ammette Magaldi – Putin ha stabilizzato il paese, migliorando la vita dei russi. «E, altra cosa utile per l’equilibrio del mondo: è riuscito a riproporre la Russia come potenza». Nel segno del capostipite del network, il lungimirante Yurij Andropov.Quando sta per arrivare la “fine del mondo”, c’è sempre qualcuno che la vede in anticipo. E in silenzio, dietro le quinte, prepara il “dopo”. Prendiamo l’Urss, crollata nel 1991. Colpa di Gorbaciov? No: la perestrojka fu un tentativo generoso ma tardivo, fuori tempo massimo. Tutti, al Cremlino, sapevano perfettamente che l’Unione Sovitica era finita: come sistema sociale non poteva più reggere. Il primo a saperlo era l’uomo che allevò Gorbaciov: Yurij Andropov, ininterrottamente a capo del Kgb dal lontano 1967. Proprio il potente servizio segreto era il migliore osservatorio della situazione: prima ancora che andasse a sostituire Breznev nel 1982 alla guida del paese, Andropov già sapeva che solo il Kgb avrebbe potuto impedire la catastrofe definitiva, il tracollo della Russia. Lo sostiene il filosofo Igor Sibaldi, di origine russa per parte di madre, autore di besteller come “I maestri invisibili”. Tre le sue fonti confidenziali anche un amico d’infanzia, ufficiale del Kgb. Non a caso, lo stesso Gorbaciov veniva dall’intelligence, ne era stato il direttore amministrativo. E chi è Vladimir Putin? Un ex colonnello del Kgb. «Ancora oggi, Putin rappresenta un potente network, di cui è il portavoce: è ancora l’ex Kgb a reggere il paese, dopo averne evitato il crollo».
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Bukovskij: l’Ue coniata con l’Urss, aspettatevi Kgb e Gulag
Nel 1992 ho avuto un accesso senza precedenti ai documenti del Politburo e del Comitato Centrale, documenti che sono stati classificati per 30 anni, e lo sono ancora oggi. Questi documenti dimostrano molto chiaramente che l’idea di trasformare il mercato comune europeo in uno Stato federale è stata concordata tra i partiti di sinistra dell’Europa e Mosca come un progetto congiunto che [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov nel 1988-89 chiamò la nostra “casa comune europea”. L’idea era molto semplice. È emersa per la prima volta nel 1985-86, quando i comunisti italiani visitarono Gorbaciov, seguiti dai socialdemocratici tedeschi. Tutti loro si lamentarono che i cambiamenti nel mondo, in particolare dopo che [il primo ministro britannico Margaret] Thatcher introdusse la privatizzazione e la liberalizzazione economica, stessero minacciando di eliminare le conquiste (come le definivano) di generazioni di socialisti e socialdemocratici, minacciando di annullarle completamente. Quindi l’unico modo per resistere a questo attacco del capitalismo selvaggio (come lo definivano) era cercare di introdurre contemporaneamente gli stessi obiettivi socialisti in tutti i paesi.Precedentemente, i partiti di sinistra e l’Unione Sovietica si erano molto opposti all’integrazione europea, perché la percepivano come un mezzo per bloccare i loro obiettivi socialisti. Dal 1985 in poi hanno completamente cambiato idea. I sovietici giunsero a un accordo con i partiti di sinistra e alla conclusione che, se avessero lavorato insieme, avrebbero potuto dirottare l’intero progetto europeo e ribaltarlo. Invece che in un mercato aperto, lo avrebbero trasformato in uno Stato federale. Secondo i documenti [segreti sovietici], il 1985-86 è il punto di svolta. Ho pubblicato la maggior parte di questi documenti. Potete trovarli anche su Internet. Ma le conversazioni che hanno avuto aprono veramente gli occhi. Per la prima volta si capisce che c’è una cospirazione – abbastanza comprensibile per loro, perché cercavano di salvarsi politicamente la pelle. A Est, i sovietici avevano bisogno di un cambiamento di relazioni con l’Europa, perché stavano entrando in una crisi strutturale protratta e profonda; a Occidente, i partiti di sinistra temevano di essere spazzati via e di perdere la loro influenza e il loro prestigio. Quindi era una cospirazione, apertamente fatta, concordata e elaborata da loro.Nel gennaio del 1989, per esempio, una delegazione della Commissione Trilaterale è venuta in visita a Gorbaciov. Ha incluso [l’ex primo ministro giapponese Yasuhiro] Nakasone, [l’ex presidente francese Valéry] Giscard d’Estaing, [il banchiere americano David] Rockefeller e [l’ex segretario di Stato americano Henry] Kissinger. Hanno avuto una bella conversazione dove hanno cercato di spiegare a Gorbaciov che la Russia sovietica doveva integrarsi nelle istituzioni finanziarie del mondo, come il Gatt, il Fmi e la Banca Mondiale. Nel mezzo della conversazione, Giscard d’Estaing prende improvvisamente la parola: «Signor presidente, non posso dirvi esattamente quando accadrà, probabilmente entro 15 anni, ma l’Europa diventerà uno Stato federale e dovete prepararvi a questo. Dovete lavorare con noi, e coi leader europei, e dovete essere preparati, su come reagireste, come permettereste agli altri paesi dell’Europa dell’Est di interagirvi o farne parte».Questo era il gennaio 1989, in un momento in cui il trattato di Maastricht [1992] non era nemmeno stato redatto. Come diavolo faceva Giscard d’Estaing a sapere cosa sarebbe avvenuto in 15 anni? E – sorpresa, sorpresa – come è diventato l’autore della Costituzione Europea [nel 2002-03]? Un’ottima domanda. Odora di cospirazione, vero? Fortunatamente per noi, la parte sovietica di questa cospirazione era crollata in precedenza e non raggiunse il punto in cui Mosca poteva influenzare il corso degli eventi. Ma l’idea originaria era quella di avere quella che chiamavano una convergenza, per cui l’Unione Sovietica si sarebbe addolcita diventando più socialdemocratica, mentre l’Europa occidentale sarebbe diventata socialdemocratica e socialista. Allora ci sarebbe stata la convergenza. Le strutture si sarebbero divute adattare tra loro. Ecco perché le strutture dell’Unione Europea sono state originariamente costruite allo scopo di adattarsi alla struttura sovietica. Ecco perché sono così simili nel funzionamento e nella struttura.Non è un caso che il Parlamento Europeo, ad esempio, mi ricordi il Soviet Supremo. Sembra il Soviet Supremo perché è stato progettato come il Soviet Supremo. Allo stesso modo, quando si guarda alla Commissione Europea, sembra il Politburo. Voglio dire, è esattamente il Politburo, salvo il fatto che la Commissione adesso ha 25 membri e il Politburo ha soltanto 13 o 15 membri. A parte questo, sono esattamente gli stessi, non devono rendere conto a nessuno, non sono eletti direttamente da nessuno. Quando si guarda a tutta questa bizzarra attività dell’Unione Europea con le sue 80.000 pagine di regolamenti, sembra il Gosplan. Noi eravamo abituati ad avere un’organizzazione che pianificava tutto nell’economia, fino all’ultimo dado e bullone, in anticipo per cinque anni. Esattamente la stessa cosa sta avvenendo nell’Ue. Quando si guarda al tipo di corruzione dell’Ue, è esattamente il tipo di corruzione sovietico, che procede dall’alto verso il basso piuttosto che dal basso verso l’alto.Se si passano in rassegna tutte le strutture e le caratteristiche di questo emergente mostro europeo, si noterà che assomiglia sempre di più all’Unione Sovietica. Naturalmente, è una versione più mite dell’Unione Sovietica. Per favore, non fraintendetemi. Non sto dicendo che ha i Gulag. Non ha nessun Kgb – non ancora – ma sto osservando molto attentamente ad esempio strutture come Europol. Ciò mi preoccupa molto, perché questa organizzazione probabilmente avrà poteri più grandi di quelli del Kgb. Avranno l’immunità diplomatica. Potete immaginare un Kgb con immunità diplomatica? Dovranno sorvegliarci su 32 tipi di reati – due dei quali sono particolarmente preoccupanti, uno è chiamato razzismo, l’altro è chiamato xenofobia. Nessun tribunale penale sulla terra definisce qualcosa del genere come un crimine [questo non è del tutto vero, perché il Belgio già procede in questo modo]. Quindi è un nuovo crimine, e siamo già stati avvertiti. Qualcuno nel governo britannico ci ha detto che coloro che si oppongono all’immigrazione incontrollata dal Terzo Mondo saranno considerati razzisti e quelli che si oppongono all’integrazione europea saranno considerati xenofobi. Penso che Patricia Hewitt lo abbia detto in pubblico.Di conseguenza, siamo stati avvertiti. Nel frattempo introducono sempre più ideologia. L’Unione Sovietica era uno Stato governato dall’ideologia. L’ideologia odierna dell’Unione Europea è socialdemocratica, statalistica, e una gran parte di essa è il politically correct. Osservo con molta attenzione come il politicamente corretto si diffonda e diventi un’ideologia oppressiva, per non parlare del fatto che vietano di fumare quasi ovunque. Guardate questa persecuzione delle persone come il pastore svedese che è stato perseguitato per diversi mesi perché ha detto che la Bibbia non approva l’omosessualità. La Francia ha approvato la stessa legge contro l’incitamento all’odio sui gay. La Gran Bretagna sta introducendo leggi contro l’incitamento all’odio nelle relazioni razziali e ora anche nelle questioni religiose, e così via. Quello che si osserva, preso in prospettiva, è l’introduzione sistematica di ideologia, che potrebbe essere successivamente fatta rispettare con misure oppressive. A quanto pare questo è l’intero scopo dell’Europol. Altrimenti perché ne abbiamo bisogno? L’Europol mi sembra molto sospetta. Osservo con molta attenzione chi viene perseguito per cosa e cosa sta succedendo, perché è un campo in cui sono un esperto. So come nascono i Gulag.Sembra che viviamo in un periodo di rapido, sistematico e molto consistente smantellamento della democrazia. Guarda questo disegno di legge per la riforma legislativa e normativa. Rende i ministri dei legislatori che possono introdurre nuove leggi senza preoccuparsi di dirlo al Parlamento né a nessun altro. La mia reazione immediata è: perché ci serve? La Gran Bretagna è sopravvissuta a due guerre mondiali, alla guerra con Napoleone, all’Armada spagnola, per non parlare della Guerra Fredda, quando ci veniva detto che in qualsiasi momento potevamo avere una guerra mondiale nucleare, senza necessità di introdurre questa legislazione, senza bisogno di sospendere le nostre libertà civili e introdurre poteri emergenziali. Perché ne abbiamo bisogno adesso? Questo può trasformare il vostro paese in una dittatura in pochissimo tempo. La situazione di oggi è veramente triste. I principali partiti politici sono stati completamente catturati dal nuovo progetto comunitario. Nessuno di loro vi si oppone veramente. Sono diventati molto corrotti. Chi difenderà le nostre libertà?Sembra che stiamo andando verso una specie di collasso, una sorta di crisi. L’esito più probabile è che ci sarà un collasso economico, in Europa, che a tempo debito dovrà accadere con questa crescita delle spese e delle tasse. L’incapacità di creare un ambiente competitivo, l’eccessiva regolamentazione dell’economia, la burocratizzazione, porterà al crollo economico. In particolare l’introduzione dell’euro è stata un’idea folle. La valuta non dovrebbe essere una questione politica. Non ne ho dubbi. Ci sarà un crollo dell’Unione Europea, quasi simile al modo in cui è collassata l’Unione Sovietica. Ma non dimenticate che quando queste cose crollano lasciano una tale devastazione che ci vuole una generazione per recuperare. Basta pensare che cosa accadrà se si tratterà di una crisi economica. Le recriminazioni tra le nazioni saranno enormi. Si potrebbe arrivare alla guerra.Guardate l’enorme numero di immigrati provenienti dai paesi del Terzo Mondo che ora vivono in Europa. Questa immigrazione è stata promossa dall’Unione Europea. Cosa succederà se c’è un crollo economico? Probabilmente avremo tanti conflitti etnici che la mente ne rimane sconvolta, come è avvenuto con la fine dell’Unione Sovietica. In nessun altro paese vi erano tensioni etniche come nell’Unione Sovietica, tranne probabilmente in Jugoslavia. Quindi è esattamente ciò che accadrà anche qui. Dobbiamo essere preparati a questo. Questo enorme edificio di burocrazia crollerà sulle nostre teste. Ecco perché, e sono molto sincero, quanto prima chiuderemo con l’Ue, meglio è. Quanto prima crolla, meno danni avrà fatto a noi e ad altri paesi. Ma dobbiamo essere rapidi, perché gli eurocrati stanno muovendosi molto velocemente. Sarà difficile sconfiggerli. Oggi è ancora semplice. Se oggi un milione di persone marcia a Bruxelles, questi personaggi scapperanno alle Bahamas.Se domani metà della popolazione britannica rifiuterà di pagare le proprie tasse, non accadrà nulla e nessuno andrà in prigione. Oggi puoi ancora farlo. Ma non so quale sarà la situazione domani, con un Europol completamente sviluppata, con personale preso da ex-funzionari della Stasi o della Securitate. Potrebbe succedere di tutto. Stiamo perdendo tempo. Dobbiamo sconfiggerli. Dobbiamo sederci e pensare, elaborare una strategia per ottenere il massimo effetto possibile nel modo più breve possibile. Altrimenti sarà troppo tardi. Quindi cosa dovrei dire? La mia conclusione non è ottimista. Finora, malgrado il fatto che in quasi tutti i paesi abbiamo delle forze anti-Ue, ciò non è sufficiente. Stiamo perdendo e stiamo sprecando tempo.(Vladimir Bukovskij, testo del discorso pronunciato a Bruxelles nel 2006 e ancora drammaticamente attuale, ripreso da “Voci dall’Estero”. Già dissidente politico in Urss, lo scrittore riparò in Gran Bretagna dopo la prigionia nei Gulag. Tra le sue opere “Una nuova malattia mentale in Urss, l’opposizione”, Etas Kompass, “Guida psichiatrica per dissidenti”, L’erba voglio, “Il vento va e poi ritorna”, Feltrinelli, “Urss, dall’utopia al disastro”, Spirali, e “Gli archivi segreti di Mosca”, Spirali).Nel 1992 ho avuto un accesso senza precedenti ai documenti del Politburo e del Comitato Centrale, documenti che sono stati classificati per 30 anni, e lo sono ancora oggi. Questi documenti dimostrano molto chiaramente che l’idea di trasformare il mercato comune europeo in uno Stato federale è stata concordata tra i partiti di sinistra dell’Europa e Mosca come un progetto congiunto che [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov nel 1988-89 chiamò la nostra “casa comune europea”. L’idea era molto semplice. È emersa per la prima volta nel 1985-86, quando i comunisti italiani visitarono Gorbaciov, seguiti dai socialdemocratici tedeschi. Tutti loro si lamentarono che i cambiamenti nel mondo, in particolare dopo che [il primo ministro britannico Margaret] Thatcher introdusse la privatizzazione e la liberalizzazione economica, stessero minacciando di eliminare le conquiste (come le definivano) di generazioni di socialisti e socialdemocratici, minacciando di annullarle completamente. Quindi l’unico modo per resistere a questo attacco del capitalismo selvaggio (come lo definivano) era cercare di introdurre contemporaneamente gli stessi obiettivi socialisti in tutti i paesi.
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Al funerale di Kohl i becchini di quest’Europa germanizzata
Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.Fu dalla riunificazione a tappe forzate che alla fine emerse evidente la nuova pesante centralità della Germania. Tornata grande – con il marco al centro del mercato europeo – così tanto da dover accettare, sul tavolo della trattativa con l’Unione europea che appena nasceva, come contrappeso l’avvio dell’integrazione europea e dell’adozione dell’euro. Questa «epoca delle promesse» ieri è stata ricordata non a caso da un personale politico che – senza confronto col nuovo Corbyn – più vintage non si può: c’erano infatti in mezzo a tanti incredibili leader attuali, come l’ex monarchico berlusconiano Tajani, diventato chissà come presidente dell’Europarlamento, Bill Clinton, Romano Prodi e perfino Silvio Berlusconi. Tutti a contendersi le spoglie del «dopo-Muro» che fu. Ma non c’è più il dopo-Muro di una volta. Da quel crollo inziale, precipitò l’Unione sovietica che con Michail Gorbaciov proponeva la «casa comune europea», un’idea straordinaria fatta a pezzi dai leader occidentali che preferirono la sua caduta e l’avvento a Mosca di Boris Eltsin, piuttosto che corrispondere positivamente.Adesso, al contrario, è tornata la guerra fredda ai confini della Russia-nazione, con l’incendio in Ucraina, nel Donbass, e con gli eserciti atlantici dislocati tutti sulla frontiera russa. Mentre la guerra calda infuria nell’inferno mediorientale e l’Africa torna a vocazione post-coloniale. E soprattutto l’erede di Kohl, Angela Merkel, pur avendo sviluppato le tematiche democristiane della Cdu in chiave socialdemocratico-cristiana, si muove proprio al contrario del grande padre Kohl che l’ha introdotta nel partito e nel potere. Lo ha affermato con durezza il nuovo leader della Spd Martin Schulz, quando all’ultimo congresso straordinario della Spd di pochi giorni fa, ha così accusato l’ex ragazza dell’est «mutti»: «L’idea dell’ex cancelliere Helmuth Kohl era quella della Germania europea, non dell’Europa germanizzata». Un attacco frontale che fotografa lo stato delle cose. Con una Germania che, dopo la Brexit, si candida apertamente a guidare i destini d’Europa, surrogata dalla Francia di Macron che annuncia nuova grandeur.Insomma la Grande Germania è tornata, si sceglie i profughi, privilegia le sue banche, decide sanzioni, marginalizza le aree da escludere come la Grecia, guida i rapporti con l’Asia, fa guerre a destra e a manca, ingloba truppe dell’est nella Bundeshweher. Subalterni i restanti 26 paesi europei. Mentre quelli dell’Est, a proposito della Cortina di ferro, diventati appendice di Berlino e della Nato, vanno per proprio conto a destra, cancellando diritti umani e democrazia. Mentre solo in Europa di muri ne sono stati eretti almeno altri dieci. No, non c’è più il dopo-Muro di una volta.(Tommaso Di Francesco, “L’addio a Kohl e il dopo-Muro di una volta”, dal “Manifesto” del 2 luglio 2017).Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.