Archivio del Tag ‘decenza’
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Mazzucco: sul web la battaglia contro la Tv delle menzogne
E’ caduto Skype, dice Massimo Gramellini (Rai Tre) mentre la regia sfuma vistosamente, cioè lentamente, l’audio del filosofo-antagonista Diego Fusaro, impegnato nella consueta contestazione universale del sistema, di cui lo stesso Gramellini – scuola Fabio Fazio – è un esemplare altamente rappresentativo. Si infuria, Massimo Mazzucco, in web-streaming su YouTube: com’è possibile che nel 2018 sia consentito raccontare favole così inaudite, per giunta essendo profumatamente pagati dalla televisione di Stato, cioè dai contribuenti? Non si vergogna, l’esimio Gramellini, a trattare i suoi telespettatori come autentici deficienti? Delle due l’una, insiste Mazzucco: Fusaro sarà scomodo, ma se lo inviti poi lo lasci parlare. E se invece lo “tagli”, almeno – per decenza – non ti metti a raccontare che è caduto il collegamento, mentre tutti vedono benissimo che non è crollata nessuna connessione (semplicemente, la regia ha progressivamente silenziato l’ospite). La vera novità? I narratori ufficiali, televisivi, stanno perdendo terreno. L’ha ammesso anche Mentana: la vera sfida, ormai, si combatte sul web. In dieci anni, la visibilità del sito di Mazzucco, “Luogo Comune”, è decluplicata. «Avanti così, e la popolazione disposta a informarsi continuerà a crescere a vista d’occhio».Lo sa bene il commissario europeo Günther Oettinger, che ha premuto su Strasburgo per far approvare il recentissimo bavaglio al web, in vista delle prossime europee: motori di ricerca e social media eviteranno di far circolare contenuti “scomodi”. Lo stesso Mentana, in una conferenza del ciclo “Ted”, sostiene che la battaglia per la verità ormai si svolge in Rete: un buon giornalista, dice il direttore del Tg de La7, deve saper “scendere” (testualmente) nel web, per contrastare tutte quelle voci liberamente diffuse. Se n’è accorto Mentana, a cui sta franando il terreno (televisivo) sotto i piedi: «State tranquilli che se ne sono accorti in tanti», ribadisce Mazzucco, in diretta online con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «E’ come se Mentana dicesse: se non reagiamo sul web, fra un po’ noi informazione mainstream non contiamo più niente». Oggi, sottolinea il video-reporter, non si fanno più le manifestazioni di piazza. «Tutto avviene su Internet, dove si condividono le informazioni. E quando Mentana (simbolo del giornalismo venduto) dice una scemenza sull’11 Settembre, gli si riversano addosso 150.000 persone che lo coprono di insulti: questo è “scendere in strada”, oggi. La strada, oggi, è la Rete».Poi, certo, esistono “finestre” televisive come quelle di Gramellini, dove – rarissimamente – la narrazione ufficiale può cedere il posto, per un attimo, a un outsisder come Fusaro, costretto però in condizioni di inferiorità. «Si chiama “gioco del tre contro uno”: la voce dissonante è sempre solo una, e ha contro i tre che stanno in studio». In qualsiasi momento è possibile “silenziare” l’antagonista, ospitato solo per far credere che la trasmissione sia aperta, democratica e trasparente. Nel caso del bavaglio maldestramente imposto a Fusaro, il primo ad apparire sorpreso era proprio Mentana, presente in studio. «E certo: Mentana sa benissimo come si fa a sfumare un filmato», dice Mazzucco. «A me dà fastidio solo una cosa: a questa gente paghiamo noi lo stipendio, e pure caro. Parlo di Gramellini, Alberto Angela e tutti gli altri: non è possibile che questa gente possa andare lì e fare quello che vuole, senza mai avere un contraltare, un dibattito vero». Vale per tutto: scienza, medicina, vaccini. Politica, bilancio, deficit e spread. «I media mainstream liquidano qualsiasi problema. Scie chimiche? Roba da complottisti, dicono. Come se il cielo, da qualche anno, non fosse letteralmente invaso da scie persistenti, rilasciate dagli aerei: un fenomeno al quale ci si ostina a non dare nessun tipo di risposta credibile».Già assistente di Oliviero Toscani e poi sceneggiatore a Hollywood, Mazzucco – autore e regista – ha all’attivo film e documentari importanti, su materie “difficili”: dal successo delle cure alternative per il cancro all’ultimo lavoro, “American Moon”, nel quale i maggiori fotografi internazionali dimostrano che le immagini dello “sbarco sulla Luna” trasmesse in mondovisione nel 1969 sono un clamoroso falso, costruito in studio. Mazzucco ha legato il suo nome soprattutto all’11 Settembre, con i documentari “Inganno globale” e “La nuova Pearl Harbor”, che smontano la versione ufficiale sugli attentati alle Torri Gemelle. Oggi, di fronte all’ordinaria impudenza di un post-giornalista come Gramellini che silenzia Fusaro raccontando al pubblico che “è caduto Skype”, Mazzucco rievoca la data d’inizio dell’era della disinformazione planetaria: proprio dopo l’11 Settembre furono inviate “lettere all’antrace” a giornalisti americani e senatori, all’epoca intenzionati ad aprire un’inchiesta autonoma.Quelle lettere, dice, avevano tutta l’aria di essere «una minaccia, destinata a chiunque avesse anche solo un’idea lontana di mettere in discussione la versione ufficiale». Tant’è vero che «poi s’è scoperto che la famosa antrace, anziché dal perfido Saddam Hussein, proveniva da un laboratorio militare americano». Da allora in poi, il mondo ha assistito a un drammatico, progressivo black-out dell’informazione. Secondo un veterano come Seymour Hersh, Premio Pulitzer, avremmo assistito a meno stragi, nel mondo, se i reporter non avessero smesso di fare il loro mestiere. Oggi, la verità su quanto avviene attorno a noi la si trova quasi solo sul web. «Bisogna continuare a usare la Rete per informare l’opinione pubblica, nel modo più organizzato possibile», sostiene Mazzucco. «I tempi sono quelli che sono, e le “forze della reazione” le conosciamo». Sono potenti. «Ma se ognuno di noi fa tutto il possibile per diffondere tutte le informazioni scomode di cui è convinto – dice Mazzucco – poi alla fine il numero di persone informate aumenterà, per forza». Sta già succedendo. Certo, bisogna mettere in conto «la diffidenza di amici e familiari, dei colleghi di lavoro che ti danno del complottista». L’importante è «essere ben preparati sugli argomenti, e proporli in modo chiaro». Chiosa Mazzucco: «Se uno (scusate il termine) rompe i coglioni a tutti, continuamente, su certi temi, poi le persone che si “svegliano” continueranno a crescere di numero».E’ saltato Skype, dice Massimo Gramellini (Rai Tre) mentre la regia sfuma vistosamente, cioè lentamente, l’audio del filosofo-antagonista Diego Fusaro, impegnato nella consueta contestazione universale del sistema, di cui lo stesso Gramellini – scuola Fabio Fazio – è un esemplare altamente rappresentativo. Si infuria, Massimo Mazzucco, in web-streaming su YouTube: com’è possibile che nel 2018 sia consentito raccontare favole così inaudite, per giunta essendo profumatamente pagati dalla televisione di Stato, cioè dai contribuenti? Non si vergogna, l’esimio Gramellini, a trattare i suoi telespettatori come autentici deficienti? Delle due l’una, insiste Mazzucco: Fusaro sarà scomodo, ma se lo inviti poi lo lasci parlare. E se invece lo “tagli”, almeno – per decenza – non ti metti a raccontare che è caduto il collegamento, mentre tutti vedono benissimo che non è crollata nessuna connessione (semplicemente, la regia ha progressivamente silenziato l’ospite). La vera novità? I narratori ufficiali, televisivi, stanno perdendo terreno. L’ha ammesso anche Mentana: la vera sfida, ormai, si combatte sul web. In dieci anni, la visibilità del sito di Mazzucco, “Luogo Comune”, è decuplicata. «Avanti così, e la popolazione disposta a informarsi continuerà a crescere a vista d’occhio».
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Chi hanno fatto santo, al posto del vero Francesco d’Assisi?
Secondo il filologo Igor Sibaldi, il “patrono d’Italia” non si chiamava neppure Francesco, ma Giovanni: era di origine provenzale, e dall’appellativo “il francese” nacque poi il nome canonico del futuro “poverello di Assisi”. Nel saggio “San Francesco, le verità nascoste” (Melchisedek) Gian Marco Bragadin denuncia «l’ipocrita ricostruzione che lo ha trasformato nel più fedele e mansueto servitore della Chiesa, nel medioevo e oltre, fino ai giorni d’oggi». Un falso storico: «Moltissimi documenti, scritti, memorie su Francesco (e probabilmente anche su Chiara) sono stati dati alle fiamme per non propagare un ritratto non idoneo a farne un obbediente santo della Chiesa cattolica». E non a caso, rivela la storica medievale Chiara Mercuri, autrice di “Francesco d’Assisi, la storia negata” (Laterza), per la biografia ufficiale di Francesco, ovviamente postuma, fu incaricato Bonaventura da Bagnoregio: un frate erudito, ma che non aveva mai conosciuto Francesco. Venne così effettuata una vera e propria opera di demolizione, spiega Paolo Franceschetti, autore di un saggio (“Alla ricerca di Dio”) che traccia ponti spirituali tra le diverse religioni. Specialità di cui era un campione proprio Francesco d’Assisi: vicino ai Catari, ai Templari e ai Sufi. Al punto da raggiunge il Sultano, in Egitto, nel settembre del 1219.
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Malvezzi: Juncker ubriaco, emblema di un’Europa che crolla
Vedere quelle immagini produce tristezza. Un vecchio che oscilla, incapace di reggersi sulle proprie gambe, ridanciano e scomposto nei gesti, articolando parole che, immagino, siano sconnesse come i suoi pensieri. Ad alcuni, compresi primi ministri, provoca involontaria risata, soffocata dall’imbarazzo. Perché questo indecoroso spettacolo pubblico non è elargito da un barbone in una qualunque stazione dei treni italiana. Questa scena imbarazzante è proposta in mondo visione da un signore che, degli italiani, ha spesso formulato giudizi critici, sprezzanti, al limite dell’offesa e del buon gusto. Questo signore è il presidente della Commissione Europea, Juncker, cioè il vertice del governo che decide sulla vita di noi tutti, cittadini europei, italiani baffi neri e mandolino, mafia e spaghetti compresi. Quando tu, Juncker, dicevi ancora recentemente che gli italiani dovrebbero recuperare competitività, lavorare di più, essere meno corrotti e non accusare l’Europa dei propri mali, parlavi come presidente di tutti noi, sudditi spreconi della nostra vita. Ma noi non siamo tutti mafiosi e non balliamo come cicale aspettando che le operose formiche del nord Europa lavorino per noi. Se non altro, noi camminiamo eretti sulle nostre gambe, e non abbiamo bisogno di nessuno che ci sostenga.Ti ricordo, presidente, che il bilancio dell’Italia nei confronti dell’Unione Europea è a credito per decine di miliardi, a differenza di quanto la tua vergognosa narrazione (e quella dei tuoi tanti servili cortigiani) tende a far credere. Da creditore, pertanto, sono a dirti esattamente l’opposto di quanto affermi. L’Italia lavora in ore medie lavorate pro capite più di tanti altri paesi del nord, Germania compresa. La nostra inefficienza, te lo scrivo da economista, è dovuta a una moneta senza Stato, che in un sistema a cambi fissi e in un modello predatorio ha avvantaggiato gli uni e penalizzato altri. Ti dirò di più; è stato fatto per quello. Solo che questo popolo ora si è stancato di vedere imprenditori suicidarsi in onore delle vostre presunte “riforme”. Questo popolo si è stancato di tagliare le pensioni per far quadrare bilanci che non possono quadrare, perché sono gli interessi sul debito verso banche private e non più pubbliche a mangiarli. Questo popolo si è stancato di perdere posti di lavoro in onore della vostra “produttività”, che si dovrebbe chiamare come è: deflazione salariale.Questo popolo si è stancato di tagliare la spesa pubblica per gli anziani non autosufficienti, per i malati di cancro negli ospedali, per i posti di lavoro dei giovani disperati costretti ad emigrare, mentre voi organizzate spostamenti di massa tra continenti per abbassare la competitività salariale, con una lotta tra poveri. Questo popolo si è stancato di credere alla favola dello spread e dei “mercati”, perché ha capito che una banca centrale, se vuole, può metterli a tacere per il bene del popolo, comprando i titoli dello Stato oggetto di speculazione privata. E a chi mi dice che questa sia demagogia, caro signore, da economista rispondo con un garbato “vaffanculo”. Lo faccio in memoria degli imprenditori suicidi di Stato, dei risparmiatori truffati dal bail-in, dei poveri senza lavoro e speranza. Quella scena di te che oscilli tra i grandi delle Terra rimarrà indelebile nella memoria di milioni di persone. Quella resterà nei libri di storia, te lo dico oggi, come una pagina memorabile.Il tuo oscillare, dopo tanti anni di sicumera ed arroganza, dopo aver offeso un intero popolo, rimarrà ad imperitura memoria della caduta del vostro potere. Tu sei il simbolo cadente, Juncker, di un potere decadente. Ti possono sostenere membri della corte compiacenti, come nei penosi filmati che circolano in rete tutto il mondo ha potuto vedere. Non ti potranno sostenere in eterno, perché la rabbia del popolo oppresso è inarrestabile, e colma ne è la misura. La tua traballante camminata, su quel tappeto rosso, produce ilarità. Bene lo spiegava Pirandello – un grande italiano, sai? – nel fatto che l’imprevisto provoca il riso. Ma dopo quel riso, la riflessione è amara è ineluttabile. Tu sei il simbolo, insostenibile e indifendibile, della barcollante tenuta di un sistema oligarchico di potere che, irrispettoso del bene e del volere del popolo, lo ha oppresso per vent’anni. Potrete offenderci con le parole; potrete chiamarci demagoghi o populisti, retrogradi o qualunquisti, razzisti o nazionalisti. Non potrete fermare l’ineluttabilità degli eventi, come non si può sorreggere un corpo senza più energia dalla forza di gravità.L’Unione Europea dei burocrati, dei prevaricatori, dei legislatori che pretendono di sfuggire al giudizio popolare non potrà reggersi a lungo, perché priva delle gambe della moralità. Un’Europa che ha anteposto alla legge del cuore quella del portafoglio non può andare lontano. Un’Europa che si preoccupa più dei mercati che dei suoi cittadini non potrà coesistere con le loro speranze. Un’Europa che antepone la finanza alla morale non ha più futuro. Io ti dico oggi che la tua incerta e indecorosa camminata, in un traballante contesto ufficiale, non è altro che la simbolica anticipazione di un’ineluttabile caduta di un intero centro di potere illiberale, non democratico e oligarchico. Quel tipo di Europa cadrà, prima o poi. E io sarò lì a vederlo e a segnarlo sui libri di storia, come tanti miei concittadini italiani, donne e uomini dalle gambe salde e dal cuore puro. Ti manderemo un biglietto in tanti, quando quella Europa, la vostra e non certo la nostra, cadrà. Lo faremo ricordando un verso in endecasillabi di un altro grande Italiano, un poeta che ricordava che esiste l’inferno, ma poi c’è il paradiso. “E cadde come corpo morto cade”. Sul mittente di quella missiva leggerai: un italiano come tanti.(Valerio Malvezzi, “Quando l’Europa barcolla, spettacolo Juncker”, da “Scenari Economici” del 13 luglio 2018).Vedere quelle immagini produce tristezza. Un vecchio che oscilla, incapace di reggersi sulle proprie gambe, ridanciano e scomposto nei gesti, articolando parole che, immagino, siano sconnesse come i suoi pensieri. Ad alcuni, compresi primi ministri, provoca involontaria risata, soffocata dall’imbarazzo. Perché questo indecoroso spettacolo pubblico non è elargito da un barbone in una qualunque stazione dei treni italiana. Questa scena imbarazzante è proposta in mondo visione da un signore che, degli italiani, ha spesso formulato giudizi critici, sprezzanti, al limite dell’offesa e del buon gusto. Questo signore è il presidente della Commissione Europea, Juncker, cioè il vertice del governo che decide sulla vita di noi tutti, cittadini europei, italiani baffi neri e mandolino, mafia e spaghetti compresi. Quando tu, Juncker, dicevi ancora recentemente che gli italiani dovrebbero recuperare competitività, lavorare di più, essere meno corrotti e non accusare l’Europa dei propri mali, parlavi come presidente di tutti noi, sudditi spreconi della nostra vita. Ma noi non siamo tutti mafiosi e non balliamo come cicale aspettando che le operose formiche del nord Europa lavorino per noi. Se non altro, noi camminiamo eretti sulle nostre gambe, e non abbiamo bisogno di nessuno che ci sostenga.
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Giannuli: Potere al Popolo, per scuotere questi partiti morti
«Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».La destra berlusconiana, «anche se solo tatticamente» (per affondare Renzi) ha votato No al referendum, «mentre il Pd era l’eversore». Secondo Giannuli, «il nemico costituzionale è un nemico strategico assoluto». Dopo, non c’è più possibilità d’intesa: «Non glielo perdoneremo mai». Questo però non è chiaro a quella parte del Pd (neppure a tutta) che votò No e poi si è scissa, dando vita a “Liberi e Uguali”. Ok, ieri hanno ingaggiato la battaglia referendaria e oggi non hanno accettato di entrare in coalizione col Pd, ma l’hanno fatto «con un costante margine di ambiguità, per cui in Lazio entrano nella coalizione di Zingaretti e non escludono alleanze future». Il problema? Per Leu non è il Pd, ma Renzi: «Con un Pd senza Renzi si potrebbe ragionare», pensano. «E invece no: il Pd era una cosa sbagliata anche prima del fiorentino, un intruglio venefico fra neoliberismo e centralismo staliniano per il quale il gruppo dirigente fa opportunisticamente quel che vuole senza mai rendere conto a nessuno». D’altra parte, aggiunge Giannuli, il Pd appartiene a quella post-socialdemocrazia “terzista”, blairiana, «che si arrese al neoliberismo e che oggi sta pagando il conto, riducendosi a percentuali non rilevanti». La sua stagione è finita, e questo vale anche per il Pd. «Ma i nostri amici di Leu non sembrano capaci di imparare dall’esperienza, e insistono».Poi c’è stata «l’imbarazzante vicenda della caccia al “capo”», prima inseguendo «quel nulla politico che è Pisapia», per poi planare incredibilmente su Pietro Grasso, «un nome che non ha bisogno di commenti». Quindi, continua Giannuli, sono passati all’ancora più imbarazzante vicenda delle candidature, «in cui Leu si è dimostrata un ufficio di collocamento per parlamentari in cerca di rielezione, senza nessuna consultazione della base», con politici a fine carriera «paracadutati in collegi in cui non c’entravano nulla». Il programma di “Liberi e Uguali”? Lo svela una colorita espressione siciliana: “Nuddu, ammiscàtu a nenti” (nessuno, sommato a niente). «Insomma, iniziativa politica zero, idee zero, democrazia interna zero: invotabili». Giannuli, che vota a Milano, farà un’eccezione solo per Onorio Rosati, candidato con Leu alle regionali lombarde, «perché la Regione non è il Parlamento nazionale». Quanto ai 5 Stelle, dopo la manfrina elettoralistica del “né di destra, né di sinistra”, hanno fatto la scelta peggiore: la destra neoliberista. Il “reddito di cittadinanza”? «Una proposta tutta interna al neoliberismo». Lorenzo Fioramonti, il guru arruolato da Di Maio nonché suo mentore a Wall Street? «Nemico numero uno del Pil, economista di spiccata ispirazione neoliberista» (vorrebbe amputare del 40% il debito pubblico).«La solita solfa “né di destra né di sinistra” è un vecchio trucco per raccogliere voti da ambo le parti», ricorda Giannuli: «Per primi lo usarono i Fasci di Combattimento di Mussolini esattamente 99 anni fa». Furbetti e pilateschi, i 5 Stelle, su questo punto, «per non dire dell’annosa vicenda dei migranti». Quanto al modello organizzativo – apparato di funzionari o notabili parlamentari, oppure gruppi dirigenti regolarmente selezionati in modo collegiale e democratico – il Movimento 5 Stelle «ha scelto il peggiore: quello dell’uomo solo al comando, tanto simile a quello renziano». E l’ha fatto «con un colpo di mano statutario sbalorditivo», adottando «un regolamento subito applicato, senza neppure essere mai stato votato da nessuno». Il risultato, ferma restando la “pasticcioneria dell’ultima ora” tipica dei 5 Stelle, «è questa selezione di candidati su cui non spenderemo neppure mezza parola». Unico auspicio: forse non finirà così. «La base del movimento non è stata consultata e ha taciuto perché c’erano le elezioni, ma il 5 marzo magari avrà qualcosa da dire». Poi bisogna vedere come andrà Di Maio alle elezioni, cosa diranno Grillo e Di Battista, «e Dio non voglia che vengano fuori una decina di “responsabili”»). Comunque sia, per Giannuli, la base pentastellata resta pur sempre «un serbatoio di forze antisistema per nulla trascurabile».Poi ci sono le liste-contro, specie quelle di sinistra: l’unica che in base ai sondaggi sembra avere una chance (almeno di conquistare qualche seggio) è “Potere al Popolo”, messa insieme all’ultimo momento e tra mille difetti. «Però non c’è dubbio che una sua affermazione scombinerebbe molti giochi», sostiene Giannuli: «Tanto per cominciare, questo significherebbe che la domanda di una nuova rappresentanza politica si fa avanti e non è frenata», nonostante le tante “trappole” inventate dalla classe politica, tra sbarramenti e scatole cinesi: dalla valanga di firme da raccogliere in tempo record per ogni per circoscrizione, fino alla stessa «incomprensibile» legge elettorale, per cui «persino quelli di Forza Italia hanno rischiato». Non sta scritto da nessuna parte che il Parlamento debba essere monopolio dei tre poli maggiori, sottolinea Giannuli. E allora «allarghiamo il club e vediamo soprattutto quanti voti raccoglieranno le liste fuori coalizione».Queste elezioni, in fondo, sono solo il secondo round del crollo dell’infelicissima Seconda Repubblica. Il primo round è stato il referendum. Ne verrà un terzo tra un anno alle europee, poi forse un quarto alle regionali, sempre che prima non ci siano elezioni anticipate. Dunque, un voto necessariamente tattico: «Se “Potere al Popolo” prendesse ora il 3%, fra un anno parteciperebbe alle elezioni senza dover raccogliere le firme». Un bel punteruolo nella schiena di Leu e M5S: «Mica male, considerate le porcherie che hanno combinato questa volta». Capirebbero che «non possono dar da bere alla gente proprio tutto»? Inizieranno a correggere la rotta? «Ho visto dei sondaggi che danno “Potere al Popolo” al 2,4%», scrive Giannuli. «Certo, c’è la valanga degli indecisi che poi, quando rientra, non premia i piccoli partiti». Ma forse l’impresa non è impossibile: “Potere al Popolo” ha registrato una crescita costante fin dall’inizio, «quando nei sondaggi non compariva proprio». Lo spazio politico da riempire c’è tutto, chiosa Giannuli: «Diciamo che deve rastrellare 120-130.000 voti, per farcela». Poi dipende anche dall’astensionismo: in quanti voteranno? Quanti, invece, diserteranno le urne?«Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».
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Giannuli: elezioni-spazzatura. Dai partiti, una gara di rutti
La peggior campagna elettorale di sempre: la più indecente. Lo sostiene Aldo Giannuli, politologo dell’ateneo milanese. «Avevo 16 anni quando seguii consapevolmente la campagna elettorale delle politiche, era il 1968. Dunque, quest’anno ”festeggio” (si fa per dire) il cinquantesimo della mia partecipazione politica. Da allora ho visto 13 campagne elettorali politiche, 8 europee e 10 regionali. Ebbene, debbo dire che una campagna elettorale così ripugnante, sciatta, volgare, sguaiata, offensiva come questa non l’avevo ancora vista. E non abbiamo visto tutto, siamo all’inizio». Una camapgna elettorale «offensiva, soprattutto dell’intelligenza degli elettori», costretti a votare con una legge-truffa, ad ascoltare promesse grottesche, a scegliere tra candidati più che mediocri e, in ogni caso, di strettissima obbedienza: tutti devoti al capo del partito che li schiera, si chiami Berlusconi, Renzi o Di Maio. Il Rosatellum? «Incostituzionale, pieno di trucchi demenziali: riesce nel mirabile intento di sacrificare la rappresentatività del Parlamento senza assicurare una maggioranza, salvo che una qualche trappola del sistema (una valanga monocolore nei collegi uninominali, una quota importante di voti dispersi sotto la quota di esclusione) non crei una maggioranza del tutto fittizia. L’unica cosa divertente è che punirà i suoi ideatori».Per non parlare dei programmi: tutti i partiti esibiscono solo il “libro dei sogni”. «Abbassare le tasse, ridurre il debito, aumentare la spesa – cioè no, ridurla ma concedendo il reddito di cittadinanza». E poi: «Investimenti per l’occupazione, le dentiere ai vecchi, il bonus alle famiglie e i lecca-lecca agli infanti. E nessuno che si sia degnato di dire dove troverebbe le risorse per tutto questo». I conti? «Numeri in libertà, a casaccio». La gara, nel settore, «l’ha vinta il M5S, che promette tutto ed il contrario di tutto». Ma anche Pd e Forza Italia hanno il loro bel piazzamento. “Liberi e Uguali”, tra mille inconsistenti vaghezze, ha «una sola proposta precisa», cioè abolire le tasse universitarie per tutti: «La traduzione in chiave universitaria della “flat tax” trumpiana». S’indigna, Giannuli: «Ma chi credete di prendere in giro? Pensate che gli elettori abbiano tutti l’anello al naso?». E le liste? «Semplicemente un orrore. La Lega candida solo gli amici di Salvini, il Pd solo quelli di Renzi, il M5S esclude almeno 1/10 dei candidati alla selezione e non comunica le motivazioni, perché deve prevenire infiltrazioni, cambia-casacca, pregiudicati, scalatori e riciclati. Poi si scopre che fra i candidati c’è una valanga di riciclati dell’ultima ora, compreso qualcuno che non si ricordava di essere ancora consigliere comunale di un altro partito, c’è anche un amico di mafiosi, qualche altro ha precedenti penali… meno male che hanno fatto una attenta selezione, perché altrimenti chissà cosa ci presentavano!».E anche dal punto di vista politico, tra i 5 Stelle, spiccano gli economisti di scuola neoliberista come Fioramonti, nonché «i giornalisti Fininvest amici di Gianni Letta». A Firenze, «contro Renzi c’è un renziano che solo 14 mesi fa ha fatto campagna elettorale per il sì al referendum (e questa non ve la perdoneremo mai)». Mancano solo «un po’ di spie, un lenone e qualche alcolizzato cronico (o ci sono e non ce lo avete detto?)». Poi “Liberi e Uguali”: «Ha delle liste che sembrano il festival della ribollita, i poveri militanti di base sono stati semplicemente ignorati». Forza Italia? «Non è cambiata: come sempre mette in lista nani, ballerine e camerieri vari». E bravi, tutti. «Ma insomma, non vi vergognate? Non esiste più la Lega ma il Pds (Partito di Salvini), non il Partito Democratico ma il Pdr (partito di Renzi), non Forza italia ma – come sempre – il Pdb (partito di Berlusconi). E, mi costa dirlo, al posto del M5S c’è il Pdd (partito di Di Maio) che ancora è quel che si oppone all’inciucio renzusconiano, ma di questo passo…».Infine il metodo d’azione, lo stile: «La Lega arriva all’orrore di cavalcare i tentati omicidi fascisti per raccogliere voti anche in quella sentina». Il Pd ha un unico chiodo fisso: il Movimento 5 Stelle, «che attacca con argomenti elegantissimi come l’attacco personale a Di Maio perché incespica sui congiuntivi (come se i suoi fossero tutti accademici della Crusca: mai sentito parlare la ministra della pubblica istruzione Fedeli?)». Dal canto suo, il M5S invita i suoi seguaci a raccogliere prove e foto sulle nefandezze dei rivali, trasformando le elezioni nello “sputtanamento show”. «Anche a me non piacciono i pregiudicati in lista, anche se una condanna in primo grado non significa che uno lo sia, ma insomma, nelle campagne elettorali si parla di politica: magari fai notare le troppe presenze di candidati con guai giudiziari, ma poi vai avanti e confrontati sulle proposte politiche». Qui invece «l’unico confronto è quello degli insulti», dice Giannuli, «e vale per tutti». Un consiglio? «Fate una cosa sfidatevi, a gara di rutti e vediamo chi vince». D’altra parte, chiosa il politologo, «dopo 26 anni di deserto della politica, massimo frutto di Mani Pulite e del populismo occhettiano di Occhetto, Segni e Pannella, cosa possiamo pretendere? Ci si era parlato di partiti-farfalla, constatiamo che il risultato sono i partiti-monnezza».La peggior campagna elettorale di sempre: la più indecente. Lo sostiene Aldo Giannuli, politologo dell’ateneo milanese. «Avevo 16 anni quando seguii consapevolmente la campagna elettorale delle politiche, era il 1968. Dunque, quest’anno ”festeggio” (si fa per dire) il cinquantesimo della mia partecipazione politica. Da allora ho visto 13 campagne elettorali politiche, 8 europee e 10 regionali. Ebbene, debbo dire che una campagna elettorale così ripugnante, sciatta, volgare, sguaiata, offensiva come questa non l’avevo ancora vista. E non abbiamo visto tutto, siamo all’inizio». Una camapgna elettorale «offensiva, soprattutto dell’intelligenza degli elettori», costretti a votare con una legge-truffa, ad ascoltare promesse grottesche, a scegliere tra candidati più che mediocri e, in ogni caso, di strettissima obbedienza: tutti devoti al capo del partito che li schiera, si chiami Berlusconi, Renzi o Di Maio. Il Rosatellum? «Incostituzionale, pieno di trucchi demenziali: riesce nel mirabile intento di sacrificare la rappresentatività del Parlamento senza assicurare una maggioranza, salvo che una qualche trappola del sistema (una valanga monocolore nei collegi uninominali, una quota importante di voti dispersi sotto la quota di esclusione) non crei una maggioranza del tutto fittizia. L’unica cosa divertente è che punirà i suoi ideatori».
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Mattei: siamo merce da macello, controllata via smartphone
Negli ultimi tre o quattro anni sono stati installati, soltanto nella parte occidentale del mondo, quindi nel nord globale, circa un miliardo e quattrocentomila sensori per l’Internet delle cose. Gran parte dei quali sono costruiti nei muri delle case, nei nuovi televisori – in tutti gli apparecchi elettronici che comperiamo – e nelle automobili. Parte di questi sensori, che sono invece fissi, sono inseriti negli spazi pubblici e sono quelli con i quali i nostri meccanismi elettronici si collegano senza che noi lo sappiamo. Queste cose vengono chiamate “Smart”, nel senso che noi sentiamo parlare costantemente di “Smart City”, “Smart Card”, eccetera. Tutte le volte in cui si sente la parola “Smart” io penso sempre che gli “Smart” siano loro e i cretini siamo noi. Qui la situazione sta diventando davvero molto preoccupante. C’è in costruzione un gigantesco dispositivo (e qui proprio la parola “dispositivo” studiata da Foucault è direttamente utilizzabile per parlare dei dispositivi elettronici che noi compriamo). Un gigantesco dispositivo di controllo sociale di tutti quanti, che viene ovviamente sperimentato per fare un passo in avanti in modo da rendere in qualche modo l’umanità coerente con la nuova frontiera.Parliamo della frontiera di tanto tempo fa, del saccheggio coloniale e così via. Quella era la frontiera della modernità. Con la modernità si scoprono le Americhe, nelle Americhe si sperimenta tutto ciò che non si poteva fare all’interno del nostro continente europeo. Perché non si poteva fare? Perché la tradizione lo impediva. La tradizione giuridica impediva la sperimentazione di ideologie proprietarie come quelle di Locke, che presupponevano la tabula rasa, un’idea di un vuoto che viene colmato attraverso delle istituzioni giuridiche fortemente semplificate. Fra le quali due capisaldi della modernità che sono la proprietà privata assoluta, il dominio dispotico di cui hanno parlato i giuristi da un lato e la sovranità dello Stato. Che sono i due poli organizzativi intorno ai quali noi abbiamo costruito le categorie giuridiche e politiche della modernità: il pubblico e il privato. Oggi la frontiera non è più una frontiera fisica, non abbiamo più le scoperte di Magellano, di Amerigo Vespucci o di Cristoforo Colombo, ma chiaramente è una frontiera di tipo informatico. Quella che Floridi aveva chiamato qualche anno fa “l’Infosfera”.Questa frontiera di tipo informatico condivide con la frontiera fisica, la frontiera dell’inizio della modernità, una caratteristica fondamentale, che ha reso il capitalismo da essa completamente dipendente: oggi è impensabile immaginare il capitalismo nella forma attuale – quindi dei rapporti di produzione capitalistici globali – senza la mediazione della rete di Internet. Se voi pensate alla vostra vita quotidiana, vi rendete conto perfettamente che nulla oggi può funzionare se non mediato dalla rete. Quando andavo a comprare un biglietto del treno, per andare a trovare i miei amici in età giovanile, c’era un signore che me lo faceva a mano. Certo, io sono molto anziano, però oggi se arrivi in stazione e il computer è giù, tu il biglietto non lo compri e il treno non lo prendi. Perché la sostituzione della macchina all’umano, in queste operazioni anche molto semplici come quella di fare un biglietto, è tale per cui semplicemente non è più possibile farne a meno. Se estendete tutto questo al mercato finanziario, alle banche, a tutto quanto, vi rendete perfettamente conto che chi può accedere al Master Switch (come è stato chiamato in un famosissimo libro molto importante di un signore che si chiama Tim Wu, professore della Columbia University), che sarebbe l’interruttore centrale, è colui che in realtà può disattivare il capitalismo.In questa frontiera si sperimentano molte cose. La frontiera dell’Infosfera è una frontiera dalla quale il capitalismo è dipendente e che dev’essere naturalmente tutelata in un modo assolutamente molto forte. Tramite che cosa? Tramite la costruzione di una serie di tabù, di una serie di ideologie, di una serie di convinzioni generalizzate che non si possono mettere in discussione. Faccio un esempio molto semplice. Quando a noi arriva un messaggio di posta elettronica, di solito sotto c’è scritto: “Non stampare questa email, mantieni l’ambiente salubre”. Questo è una sorta di messaggio criptico per cui sostanzialmente la posta elettronica sarebbe, dal punto di vista ecologico, un modo di comunicare totalmente sostenibile, mentre stampare la carta e spedire la lettera non lo sarebbe. Il messaggio che passa è che la rete Internet vive in una sorta di empireo astratto assolutamente pulito (adesso si parla di nuvole, no?). In realtà la rete Internet è fatta, fisicamente, dall’hardware: sono dei giganteschi cavi, estremamente grossi, che passano sotto i mari. Sono una serie di server potentissimi che consumano una quantità spaventosa di energia e che semplicemente nessuno sa dove siano. Si sa vagamente che sono collocati nella zona dell’Occidente degli Stati Uniti, tra la parte – diciamo – nord della Stato della California, dello Stato di Washington e dell’Oregon. Si pensa che pezzi siano nel Canada, ma non v’è certezza. Una delle tesi più accreditate è che il famoso Master Switch, cioè il server centrale, quello davvero importante, stia in un sottomarino nucleare al largo di Seattle.Tutto questo si va a schiantare contro quello che è la nostra impronta ecologica. L’impronta ecologica giusta è 1, ma oggi l’impronta ecologica globale è 1.4 e 1.5, il che significa che tutti gli anni verso luglio-agosto siamo nel cosiddetto Overshoot Day, vale a dire il giorno nel quale abbiamo finito di consumare le risorse che sono teoricamente riproducibili e incominciamo a consumare delle risorse che non saranno mai più riprodotte. 1.4 è una pessima impronta ecologica! Ma la cosa ancor peggiore è che i luoghi che vengono indicati da tutti come i più avanzati del mondo, la famosa Silicon Valley, dove ci si va a fotografare se si diventa primi ministri, da Twitter a Cupertino, a Palo Alto, a Mellow Yellow Party, i famosi posti della famosa Silicon Valley, ebbene l’impronta ecologica della Silicon Valley è 6. Il che significa che se tutto il mondo vivesse e si sviluppasse per poter diventare come ci dicono che potremmo diventare, cioè come la Silicon Valley («Crescete in modo tecnologicamente avanzato», e noi importiamo questo modello di sviluppo), ci vorrebbero sei pianeti per poter mantenere tutti quanti questo tenore di vita. Il che significa che se l’impronta ecologica è di appena 1.4, è solo perché dal Burkina Faso, all’India alla stessa Cina, l’impronta ecologica è molto più bassa rispetto a quella che è l’impronta ecologica dell’Occidente ricco. D’accordo?La Cina ha un’impronta ecologica di più della metà rispetto a quella degli Stati Uniti, anche se viene normalmente indicata come il posto in cui tutti inquinano e fanno delle cose tremende! E quella pro-capite è doppia negli Stati Uniti. Se poi ci stupiamo dei flussi migratori, delle situazioni drammatiche che si verificano, questo dipende semplicemente dal fatto che l’equilibrio globale è fortemente sbilanciato dal punto di vista dei consumi. Nessuno dei temi, compreso quello della Costituzione, può essere affrontato senza un’analisi seria dello stato del capitalismo attuale. Perché altrimenti noi ci mettiamo a ragionare di categorie astratte e non capiamo le condizioni materiali nell’ambito delle quali l’umanità si trova a vivere. E quali sono le possibilità, i rischi legati alla costruzione di questi dispositivi? Esempio molto semplice: gli untori. «Teniamo fuori i bambini che possono contagiare tutti gli altri». Che cosa significa? Che le mamme di questi bambini sono dei cattivi cittadini perché non investono sufficientemente in precauzione rispetto agli altri. Si costruisce un modello moralistico contro quelle mamme, e questo modello moralistico rende utilizzabile una sorta di implementazione diffusa di un ordine giuridico assolutamente contrario al precetto della Costituzione stessa.La Costituzione prevede che non si possano imporre trattamenti sanitari obbligatori se non in casi assolutamente particolari, ed è chiaro che una vaccinazione a tutto raggio, fatta per tutti quanti, non rientra in quelle categorie di eccezionalità che giustificano il trattamento sanitario obbligatorio. Questo lo capisce chiunque. Allora, il punto vero è che oggi quella sperimentazione che viene fatta in Italia, per poi estendere i vaccini in tutto il mondo, io credo che venga fatta anche per sperimentare una futura possibile frontiera. Che è quella di rendere l’Internet delle cose sempre più inevitabile. In altre parole, se ci fate caso, quando vi comprate un telefonino di questa generazione ultima, non potete più togliere la batteria. Vi sarete chiesti: perché non si può più togliere la batteria? Perché togliendo la batteria ci si può disconnettere. Non la puoi togliere fisicamente! E certo, potresti smontare il telefono, ma guardate che se voi comprate un telefonino di ultima generazione e lo accendete – questo vale per la vostra televisione o per qualunque oggetto Smart – prima di poterlo utilizzare dovete premere una serie di pulsanti sui quali c’è scritto: “I agree. I agree. I agree”. E voi che cosa accettate, naturalmente senza leggerlo? Tu hai accettato in quel momento una serie di cose che non accetteresti mai rispetto a una tua normale proprietà.Per esempio hai accettato il fatto che non lo potrai portare a riparare da chi ti pare, ma dovrai portarlo a riparare soltanto da quello che ti indica il venditore. Hai accettato il fatto che non potrai hackerare, manipolare la tua proprietà per renderla più compatibile con un altro sistema operativo, perché se lo fai commetti un reato! Hai accettato semplicemente una giurisdizione all’interno della quale tutta una serie di comportamenti, che sono comportamenti totalmente normali rispetto a un proprio oggetto, sono in realtà rilevanti dal punto di vista penale. Hai in più accettato anche il fatto di togliere di mezzo ogni giurisdizione, cioè che utilizzando questo strumento e scaricando qualsiasi tipo di App, implicitamente non puoi più andare in una giurisdizione – sia straordinaria che amministrativa – a far causa a uno qualsiasi di questi provider cui hai venduto i tuoi dati. Facebook ha un miliardo e mezzo di utenti. È tanta gente! I nostri giornalisti ci dicono che si tratta della più grande nazione del mondo. Quel miliardo e mezzo di persone hanno accettato il sistema di risoluzione delle controversie tra l’utente e Facebook stesso, ma indovinate quante volte nella storia di Facebook lo hanno utilizzato? Sessantaquattro!Vale a dire che è stato completamente tolto di mezzo qualsiasi strumento di accesso alla giurisdizione ordinaria. E anche quella speciale, che ti viene offerta come giurisdizione privata, non viene semplicemente utilizzata mai. Cosa significa questo? Significa che nella frontiera dell’Infosfera possiamo fare a meno del giurista! La presenza del diritto non è più necessaria per costruire la struttura portante del capitalismo. Il giurista e il diritto sono stati sostituiti dai programmatori che riescono a introdurre dei processi che fondano le basi di transazioni economiche al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo da parte dei giuristi. Voi mi direte: «Ma che bella cosa, perché i giuristi ci stanno molto antipatici!», e io sono anche d’accordo, da un certo punto di vista, perché purtroppo li frequento molto. Però il punto è che mentre nella storia tutte le rivoluzioni fin qui hanno sempre cercato di togliersi dai piedi i giuristi, ma non ci sono mai riuscite perché prima o dopo la loro presenza era necessaria per costruire le basi di una società organizzata fondata sullo scambio, oggi per la prima volta è possibile. Il che significa che mentre prima il capitalismo doveva in qualche modo sopportare i pistolotti dei giuristi che gli dicevano: «Ma guarda che ci sono anche gli standard di decenza, ci sono i diritti umani fondamentali, non si possono imporre vaccini obbligatori, non si possono fare una serie di cose senza ragionevolezza», perché quel ceto era un ceto in qualche modo indispensabile per la funzione primaria da cumulo capitalistico, oggi che quel ceto non serve più.Anche le nostre prediche sono destinate a rimanere, come diceva il buon Bob Dylan, Blowin’in the Wind. Sono destinate a rimanere completamente inascoltate, per un semplice fatto: che incentivo hanno ad ascoltare Ugo Mattei che gli fa il predicozzo, se poi non ne hanno bisogno per poter estrarre valore nei rapporti economici commerciali utilizzando le sue dottrine sul contratto sulla proprietà? Semplicemente se lo tolgono dai piedi nell’uno e nell’altro settore. Questa è una sperimentazione che per ora sta avvenendo in frontiera, nell’Infosfera, ma che sempre più rapidamente – io prevedo – arriverà anche nella madrepatria, nel mondo off-line – come oggi si chiama – perché quelle sperimentazioni lì vengono fatte in quel luogo e poi dopo ricadono anche nella nostra vita quotidiana. Proprio come le sperimentazioni di saccheggio nell’America Latina, soprattutto nel Nord America, sono ricadute nella strutturazione del capitalismo della madrepatria. Questo è un punto di una certa gravità, perché né tu né un altro miliardo di persone adesso potete più togliere la batteria: c’è il diritto penale che presiede alla vostra ubbidienza rispetto a quello che avete accettato.E questo è gravissimo, perché nel momento in cui tutti noi, dal primo all’ultimo, commettiamo dei reati senza saperlo, perché premiamo dei pulsanti, noi tutti, dal primo all’ultimo, possiamo essere inquisiti per quello che abbiamo fatto. E quindi noi, dal primo all’ultimo, possiamo finire nei guai proprio come è successo ad Aaron Swartz negli Stati Uniti d’America. Quanti di voi hanno sentito parlare di Aaron Swartz? Era un ragazzo che all’età di 12 anni era un genio informatico, un genio che aveva preso una sua consapevolezza politica. A 12 anni aveva fatto il Coding per il famoso programma, quello di Lawrence Lassie per i CoPilot, quindi insomma era un personaggio di grandissimo livello. A un certo punto capisce l’importanza di questi discorsi e pubblica un piccolo manifesto che si chiama “Guerilla Open Access Manifesto”. Pubblica questa cosa e comincia a dire che l’unico modo di mantenere la società come una società di liberi e non una società di schiavi è quella di rendere la cultura accessibile a tutti. Siccome era un genio e sapeva fare queste cose, penetra nella notte negli archivi del Mit, il Massachusetts Institute of Technology, e scarica tutte le collezioni di Jstor, che è il più grande collettore di dati scientifici che ci siano nel mondo, e le rende pubbliche. Ok?Fa questa operazione di guerriglia per rendere accessibile questa informazione sulla base di una consapevolezza politica impressionante, perché nel Guerrilla Manifesto c’è tutto un ragionamento sul fatto dello iato tra i paesi ricchi e i paesi poveri, sulla cultura e di come deve essere in qualche modo accessibile, distribuita. Insomma, un personaggio di grande spessore nonostante la giovane età. Viene ovviamente preso di mira dall’Fbi e nonostante ottenga un accordo con Jstor per uscire dalla cosa – io conoscevo bene il suo avvocato che mi ha raccontato tutto – distrutto dai conti che ha dovuto pagare, tra avvocati e altre spese, all’età di 26 anni si è suicidato. C’è un bellissimo documentario che ne racconta la storia, si chiama “Killswitch”, vale la pena di vederlo perché è esattamente la storia di come in frontiera la partita si svolga tutta fra programmatori, così come una volta il giurista critico era visto come il peggior nemico del capitalismo stesso. Pashukanis viene ammazzato dallo stesso Stalin perché aveva introdotto una riflessione critica sul diritto che dava fastidio a chiunque volesse costruire delle strutture di sovranità. Quindi era sostanzialmente demonizzato perché conoscitore del segreto iniziatico. Stessa cosa successa per Aaron Swartz.Quindi questa è una partita molto importante. Che cosa impedirà un domani di far uscire una legge che, per ragioni di sicurezza e per lotta contro il terrorismo, ci obblighi a introdurci con una piccola iniezione un microchip sottocutaneo che si collega automaticamente con i vari sensori che ci sono nel mondo? Assolutamente nulla! Dal punto di vista tecnico è già totalmente possibile – ci sono già state sperimentazioni sull’introduzione di particelle talmente piccole che possono essere sostanzialmente iniettate sotto cute. Poi mi dicono che sono un “Conspiracy theorist”, che è il modo di dire di qualcuno che cerca di pensare criticamente: gli dicono che fa la “Conspiracy theory“, ma la verità vera è che oggi la tecnologia – se non oggi fra 3 anni, 5 anni, 8 anni, ma in un tempo molto vicino – consentirà cose di questo genere in modo assolutamente banale. Perché sono già totalmente possibili. Oggi il mio telefono, che è di un livello medio-scarso, è già molto più potente del top di gamma dell’Apple computer nel 2005. L’accelerazione tecnologica legata alla cosiddetta Legge di Moore, fa sì che oggi noi abbiamo un telefonino di livello medio-basso molto più potente del top di gamma non di 30 anni fa, ma di quattro, cinque, otto anni fa. Io credo che la questione della tecnologia debba essere affrontata in modo molto serio, perché ha trasformato profondamente i nostri sistemi politici portando alla sparizione totale della famosa contrapposizione fra pubblico e privato, sulla quale abbiamo costruito la civiltà liberale che ci governa, o comunque la civiltà moderna.Quando Barack Obama fu eletto presidente degli Stati Uniti, io dissi: «Secondo me Obama è come Gorbaciov». Gorbaciov era stato l’ultimo dei comunisti all’interno del sistema sovietico, che aveva cercato di trasformare dall’interno senza riuscirci. Barack Obama è stato l’ultimo degli americani a provare a trasformare il sistema liberale dall’interno, a provarci secondo diciamo le possibilità concrete di farlo, che erano assai limitate perché non era un uomo particolarmente coraggioso. L’esito è stato da un lato la rivoluzione che ha portato a Putin, dall’altro Donald Trump, e poi questo modello di governo che stiamo vedendo ovunque, da Modi in India, alle trasformazioni del partito comunista cinese. Ovunque si sono istituite delle Costituzioni tecno-fasciste. In altre parole delle Costituzioni, delle strutturazioni che si sono liberate completamente dal vecchio controllo, dalla vecchia dicotomia pubblico/privato. Oggi nel consiglio di amministrazione di Facebook, delle cinque grandi corporation di grandi gruppi farmaceutici, siedono tanto dei rappresentanti del capitale quanto dei rappresentanti del Dipartimento di Stato, della Cia all’Fbi. Perché non c’è più sostanzialmente nessuna separazione, e non può più esserci.Chi è il proprietario di queste grandi strutture dentro Internet? Chi mantiene quei cavi? Chi ha le chiavi per entrare ad aggiustare quel Master Server? Chi è che fa gli investimenti per migliorarlo? Semplicemente non lo sappiamo. Io sarò un ricercatore ignorante, zuccone e asino, ma sono tre anni che provo a trovare dei lavori scientifici seri sull’hardware, sulla parte hard della rete Internet, e non si trova assolutamente niente. Non c’è un paper scientifico che affronti dal punto di vista teorico quella che è la questione della proprietà delle infrastrutture materiali che governano l’Infosfera. Questo è un buco nelle nostre conoscenze estremamente pericoloso. Allora, se così stanno le cose, io credo che noi non possiamo trovare soluzioni che si facciano carico dei problemi, così come essi si verificano a questo livello di sviluppo tecnologico, all’interno delle vecchie strutture dell’ordinamento costituito. Noi non possiamo immaginare che possano essere i legislatori ordinari dei paesi del mondo, siano essi i paesi deboli e semiperiferici come il nostro, ma siano anche i grandi blocchi avanzati, a riuscire a mettere sotto controllo il potere economico così come è venuto a svilupparsi oggi. I rapporti di forza tra privato e pubblico sono drammaticamente cambiati.Il Leviatano un tempo era un signore pubblico, contro il quale avevamo costruito il diritto costituzionale liberale, per proteggere l’individuo vivo, la proprietà privata, la privacy, la nostra entità o la persona rispetto alle potenziali deviazioni del potere concentrato. Oggi le cose non stanno più così. Oggi non è più il privato a essere più debole del pubblico e a necessitare della tutela nei confronti del pubblico stesso, ma è il pubblico, sono questi sistemi burocratici che sono stati talmente colonizzati dal capitale privato, per cui nessuna delle scelte che vengono fatte può essere più considerata una scelta politica. Ma voi pensate che sia stata davvero la Lorenzin a decidere questa cosa dei vaccini? Ma stiamo scherzando? E pensate davvero che siano state le istituzioni europee sulla base di qualche think-tank di alto livello? Ma scherzate proprio? Sono stati i consigli di amministrazione di due, tre, quattro grosse multinazionali, che erano le stesse che ai tempi della mucca pazza – ogni tanto vengono costruite queste situazioni d’emergenza – avevano creato le condizioni per poter operare delle “estrazioni” – come dire – molto importanti.Perché per la mucca pazza in Italia avevamo comprato una quantità di vaccini, che poi abbiamo buttato via, impressionante! Milionate di vaccini! Avremmo finanziato la ricerca nei beni comuni, nel territorio e tutto quel che volevamo, ma c’è stato l’allarme mucca pazza, no? Adesso si è capito – come spesso avviene – che il momento di estrazione e di accumulo originario, quello che il vecchio Marx chiamava l’“Accumulazione Primitiva” non è un momento specifico (le Torri Gemelle, e allora dichiaro la guerra). No! Semplicemente si tratta di un modello permanente di strutturazione della società che consente a questi processi di andare avanti in modo lineare sempre in quella particolare direzione. Allora, come si risponde a questo? Io credo che prima di tutto bisogna avere l’umiltà di provare a capire questi processi. E provare a capire questi processi non è facile perché ti oppongono: «Ma tu, Mattei, sei un giurista. Che ne capisci di informatica? Tu, sociologo, che ne capisci di medicina? La medicina e l’informatica non sono democratiche, no?».Esattamente questo è il punto! Si sente la necessità di una cultura che sia nuovamente una cultura di tipo olistico, una cultura di tipo interdisciplinare che sia capace una volta tanto di esercitare un controllo critico sulle cose che lo specialismo cerca di farci ingurgitare. Questo è un punto – secondo me – molto molto importante. La seconda cosa è capire che oggi noi come individui non contiamo più niente: non importa niente a nessuno di noi come individui. Noi siamo delle categorie merceologiche. Nel momento in cui qualcosa ci viene dato gratis, significa che noi siamo la merce. Quando qualcosa è gratis, il prodotto sei tu. Siamo categorie merceologiche che sono interessanti nel momento in cui veniamo raggruppati attraverso la forza computazionale, che sta aumentando in modo rapidissimo. Vi ricordate von Hayek? La teoria della conoscenza liberale qual era? Che il piano sovietico è destinato a perdere perché il libero mercato ha molte più informazioni di quante ne abbia il piano. Per cui i sovietici, non avendo il mercato libero che produce informazione, erano destinati al fallimento perché non si sapeva quanti stivali e quante scarpe col tacco lungo erano desiderati in quel momento, e quindi si producevano troppi stivali e troppo poche scarpe col tacco. E questo comportava l’impossibilità di far funzionare il piano.Oggi non è più così. Oggi la capacità computazionale crea una capacità pianificatoria molto più forte rispetto alla catalessi del mercato. Non c’è più – secondo me – un elemento per cui il potere diffuso possa imporsi rispetto al potere concentrato, nel momento in cui il potere concentrato mette sotto controllo la tecnologia ai livelli in cui la tecnologia è messa sotto controllo oggi. Il che significa che dobbiamo ripensare le stesse basi del dibattito teorico-filosofico che ci hanno accompagnati dalla modernità fino ad oggi. E’ un compito molto serio, molto molto importante e di cui però bisogna cominciare ad occuparsi. Bisogna che qualcuno abbia il coraggio di prendersi del buffone, ma andare a parlare di queste cose dove di queste cose bisogna parlare. Siccome non contiamo più come individui, ma come categoria merceologica, abbiamo la necessità di ricostruire istituzioni del collettivo. L’individuo è morto. L’individualismo basato sul diritto soggettivo assoluto è, come diceva Rosa Luxemburg a proposito della socialdemocrazia tedesca dell’epoca, un fetido cadavere, cioè qualcosa che non ha più senso di esistere perché oggi ci sono i collettivi che vanno ricostruiti.O ricostruiamo una situazione di collettivizzazione, anche di quelle persone che non accettano di essere merci da estrazione capitalistica, o ci siamo fatti riempire la testa di nozioni che ci depotenziano. Io sento dire che su alcune cose, i diritti civili liberisti sono più avanzati e quindi gli vogliamo dare spazio. Non si capisce che i diritti più importanti, come quelli sul nostro corpo, quelli sulla nostra identità sessuale, sono destinati a non servire assolutamente a nulla. Quindi ricostruire condizioni del senso comune, ricostruire solidarietà, ricostruire strutture di condivisione anche fondate sull’amore è secondo me molto importante, perché quello è il solo modo grazie al quale si può avere il coraggio di opporsi in modo radicale a delle leggi che sono leggi insostenibili, ingiuste e che creano obblighi collettivi di resistenza.(Ugo Mattei, “Perché non ti fanno più togliere la batteria dallo smartphone”, da “ByoBlu” del 26 novembre 2017. Il post è la trascrizione di un intervento di Mattei al convegno “Costituzione, comunità e diritti” tenutosi all’università di Torino il 19 novembre 2017. Giurista, Ugo Mattei è professore di diritto internazionale e comparato alla California University e docente di diritto privato nell’ateneo torinese).Negli ultimi tre o quattro anni sono stati installati, soltanto nella parte occidentale del mondo, quindi nel nord globale, circa un miliardo e quattrocentomila sensori per l’Internet delle cose. Gran parte dei quali sono costruiti nei muri delle case, nei nuovi televisori – in tutti gli apparecchi elettronici che comperiamo – e nelle automobili. Parte di questi sensori, che sono invece fissi, sono inseriti negli spazi pubblici e sono quelli con i quali i nostri meccanismi elettronici si collegano senza che noi lo sappiamo. Queste cose vengono chiamate “Smart”, nel senso che noi sentiamo parlare costantemente di “Smart City”, “Smart Card”, eccetera. Tutte le volte in cui si sente la parola “Smart” io penso sempre che gli “Smart” siano loro e i cretini siamo noi. Qui la situazione sta diventando davvero molto preoccupante. C’è in costruzione un gigantesco dispositivo (e qui proprio la parola “dispositivo” studiata da Foucault è direttamente utilizzabile per parlare dei dispositivi elettronici che noi compriamo). Un gigantesco dispositivo di controllo sociale di tutti quanti, che viene ovviamente sperimentato per fare un passo in avanti in modo da rendere in qualche modo l’umanità coerente con la nuova frontiera.
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Altro che Bankitalia: comandano i boss del Casinò-Europa
Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.«Possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano», è l’accusa. «Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia», dissero i parlamentari europei. Questo “pericolo per la democrazia”, osserva Baranes, diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto del Ceo. «In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1». Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento Europeo su una direttiva comunitaria riguardante gli “hedge fund” e le “private equity”, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario. Al Parlamento Europeo, continua Baranes, sono attivi gruppi come l’Epfsf (European Parliamentary Financial Services Forum), che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento Europeo e l’industria dei servizi finanziari”.«Questo “dialogo” – scrive Baranes – comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali Jp Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri». E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in sede Ue nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. «Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili». Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.«Analogamente – aggiunge Baranes – il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 2 milioni per Ong, società civile e sindacati. Un rapporto di 60 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, Ong e sindacati». Uno squilibrio «ancora più impressionante» quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti”, ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, Bce o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche: «In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo». Nel “De Larosière Group on financial supervision in the European Union”, figurano ben 62 membri del mondo finanziario, e nessuno da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse. «Sulla Mifid, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5». La musica non cambia nel gruppo di esperti sui derivati: 86 provengono dal mondo finanziario, e nessuno da Ong, consumatori o sindacati.Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione Europea ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati. «Se possibile va ancora peggio alla Bce, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”». La parola stakeholder, precisa Baranes, viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. «Il gruppo presso la Bce prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei». I risultati? Ovvi: «Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci». Sicché, il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi «continua a lavorare indisturbato», mentre – al culmine del paradosso – sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita «a ritrovarsi con il cerino in mano e a dover accettare sacrifici e austerità».Osserva sempre Baranes: «La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati». Altro capitolo cruciale: «La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto». A settembre 2013 il commissario europeo Michel Barnier annunciava tranquillamente in un comunicato stampa: «Dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra». Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, «per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo», a dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers e dallo scoppio della crisi, «la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse».Era il 2014, ma da allora non si è andati oltre le parole: nessuno osa rievocare il Glass-Steagall Act creato da Roosevelt per mettere l’economia al riparo dalla finanza speculativa: quella provvidenziale diga, che separava il credito ordinario dalle banche d’affari, fu abbattuta da Bill Clinton. E non un partito, in Europa, che oggi metta in agenda la questione: si preferisce restare al riparo di piccole polemiche, come quelle che investono la presunta omessa vigilanza di Bankitalia (Ignazio Visco), in realtà – come tutti sanno e fingono di non sapere – messo lì apposta, come i predecessori, per chiudere un occhio sul “grande gioco” deciso lontano da Roma. «Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio», conclude Andrea Baranes, che cita il compianto sociologio Luciano Gallino. «Il paradosso – disse – è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli Stati».Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.
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Sogni d’oro, Italia: il superpotere Ue festeggia il Rosatellum
Aveva ben presente, l’allora giovane rottamatore Renzi, quale fosse il cuore del problema: metter fine alla sciatteria di una farsa, recitata da partiti impresentabili. Un acquario virtuale, dentro cui c’erano mille sigle ma mancava la bandiera fondamentale, quella dell’Italia: il calpestato popolo italiano, non più sovrano né decentemente rappresentato nelle sue istanze fondamentali. Solo che il Matteo ne ha organizzata un’altra, di farsa – la sua – limitandosi a fingere di rottamare un sistema ingessato, perfettamente funzionale alla grande oligarchia affaristica internazionale, con i suoi terminali nella piccola oligarchia nazionale. E’ stato ferocemente boicottato, Renzi, e poi si è auto-affondato con un referendum sbilenco. Ma intanto gli era già caduta la maschera: il suo dirompente potenziale comunicativo l’aveva sprecato scagliandolo appositamente fuori bersaglio, contro ipotetici mulini a vento (le “auto blu” grillesche, la “casta”, gli “sprechi”), sparacchiando a casaccio contro l’antropologia partitocratica, per poi affrettarsi a svendere gioielli di famiglia (Poste Italiane) mettendosi in coda: ecco, sono io il nuovo feudatario, è con me che dovete parlare per continuare il grande saccheggio. “Sburocratizzare”, è stata la sua parola d’ordine, perfettamente adatta a evitare di sfiorare l’unica vera burocrazia nefasta, quella di Buxelles, da cui l’Italia è intrappolata.Oggi si indignano, i dinosauri dell’Ulivo, di fronte allo spettacolo dell’ultima legge elettorale imposta con la forza, manu militari, arrivando a rimpiangere il Berlusconi del Porcellum, avversato con autentico odio per vent’anni, salvo poi spalancare le porte a Mario Monti, al pareggio di bilancio, al Fiscal Compact, alla legge Fornero sulle pensioni. Non una parola di autocritica dalla sfinge Prodi – demolitore dell’Iri, fanatico supporter dell’euro e del Trattato di Maastricht, presidente della Commissione Europea, super-privatizzatore, advisor europeo di Goldman Sachs. Contro Renzi si agita D’Alema, che vantò il record europeo delle privatizzazioni all’epoca in cui aveva trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank. E sul già famerigerato Rosatellum si abbattono i fulmini dei grillini, ben decisi anche loro – esattamente come Renzi – a non sfiorare nemmeno lo zerbino di Bruxelles, astenendosi da qualsiasi proposta per contrastare la super-oligarchia Ue-Nato, i diktat di Juncker e Merkel, le sanzioni alla Russia, l’infame euro-sistema, le regole intoccabili dell’austerity. Inservibili, anche loro: buoni solo a drenare rabbia, illudendo un elettore su tre di poter votare per il meno peggio. Alla freschezza spontanea di una base di militanti e attivisti è stato imposto un regime di caserma, con ordini impartiti dall’alto ed eseguiti a comando da figure debolissime, come l’avatar Di Maio.Piangono un po’ tutti, per la nuova super-schifezza elettorale, perché sanno di dover recitare – per un riflesso di decenza – almeno l’avanspettacolo del pianto. Ma sono ben contenti di aver rinnovato l’abbonamento a vita alla palude, l’acquitrino dove ciascun nuotatore sa perfettamente che non deciderà nulla, dovendo limitarsi a ratificare scelte adottate fuori dall’Italia. Il nuovo concorso-poltrone, progettato per un potere piccolo e senza idee (quello dei Letta, dei Gentiloni) dimostra solo che l’Italia continuerà a restare innocua e sottomessa, inoffensiva, di fronte ai grandi poteri che si trincerano dietro la Merkel e Macron. Un’Italia inerte, alla deriva nel Mediterraneo, in balia di un equipaggio inaffidabile, mediocre, mercenario. Non uno straccio di idea, di progetto per il paese. Meno tasse e più servizi? Investimenti strategici per uscire dalla cosiddetta crisi? Servono soldi, ma per metterli a bilancio bisogna litigare coi signori dell’Europa. Troppa fatica, troppi rischi. Meglio restare a guardare la nave che lentamente affonda, tenendosi stretti alla poltrona riconquistata con il sotterfugio di una legge elettorale che imbarazza persino chi l’ha imposta. Grasse risate, come al solito, da Parigi a Berlino: sogni d’oro, Italia. Nessuno disturberà il manovratore.Aveva ben presente, l’allora giovane rottamatore Renzi, quale fosse il cuore del problema: metter fine alla sciatteria di una farsa, recitata da partiti impresentabili. Un acquario virtuale, dentro cui c’erano mille sigle ma mancava la bandiera fondamentale, quella dell’Italia: il calpestato popolo italiano, non più sovrano né decentemente rappresentato nelle sue istanze fondamentali. Solo che il Matteo ne ha organizzata un’altra, di farsa – la sua – limitandosi a fingere di rottamare un sistema ingessato, perfettamente funzionale alla grande oligarchia affaristica internazionale, con i suoi terminali nella piccola oligarchia nazionale. E’ stato ferocemente boicottato, Renzi, e poi si è auto-affondato con un referendum sbilenco. Ma intanto gli era già caduta la maschera: il suo dirompente potenziale comunicativo l’aveva sprecato scagliandolo appositamente fuori bersaglio, contro ipotetici mulini a vento (le “auto blu” grillesche, la “casta”, gli “sprechi”), sparacchiando a casaccio contro l’antropologia partitocratica, per poi affrettarsi a svendere gioielli di famiglia (Poste Italiane) mettendosi in coda: ecco, sono io il nuovo feudatario, è con me che dovete parlare per continuare il grande saccheggio. “Sburocratizzare”, è stata la sua parola d’ordine, perfettamente adatta a evitare di impensierire l’unica vera burocrazia nefasta, quella di Bruxelles, da cui l’Italia è intrappolata.
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Spagna addio? Bruxelles tace, come Macron e la Merkel
«Una cosa è certa: il primo cadavere raccolto tra le urne di un referendum tanto illegale quanto cialtronesco è quello dell’Unione Europea», scrive Gian Micalessin sul “Giornale” all’indomani della consultazione sull’indipendenza della Catalogna che avrebbe coinvolto oltre 2 milioni di persone, cifra comunque inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori catalani. In Francia e in Germania, scrive Micalessim, l’Ue se l’era cavata per il rotto della cuffia, e non per meriti propri. «Nel voto francese era stata una Marine Le Pen – incapace di trasformarsi da capofila dell’opposizione a leader nazionale – a regalare la sopravvivenza a Bruxelles», mentre un Germania «l’avanzata della destra anti-immigrati non bastava certo ad intaccare la solidità di un’Angela Merkel parzialmente ridimensionata». Eppure, nonostante questi due “colpi di fortuna”, Bruxelles non ha aperto gli occhi: «Di fronte all’irresponsabilità delle forze catalane guidate dal presidente Carles Puigdemont – scrive Micalessin – l’Ue dimostra, ancora una volta, di non aver a cuore la sovranità dei propri Stati nazionali e di non saper affrontare con tempismo le crisi interne. Il silenzio più paradossale è stato forse quello di Emmanuel Macron e Angela Merkel: giovedì a Tallinn i due politici simbolo dell’Europa sopravvissuta alla propria crisi sono riusciti a non spendere mezza parola sul drammatico referendum».In compenso, ignorando il derby Madrid-Barcellona, Macron e la Merkel hanno approfittato del vertice europeo per ribadire la loro volontà di governare il continente. «E così anche sul versante catalano – come su quello turco e su quello libico durante l’emergenza immigrati – l’Ue conferma la sua inesistenza, la sua lontananza, la sua incapacità d’imporsi come autorità credibile», aggiunge l’inviato del “Giornale”. «Dai primi di settembre, quando la crisi catalana ha incominciato prender forma, la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker non ha saputo far di meglio che esprimere un balbettante, flebile e quasi impercettibile sostegno a Madrid, ma si è ben guardata dall’entrare nel merito della questione». Aggiunge Micalessin; si è ben guardata, la Commissione Europea, «dal confermare l’evidente illegalità di un referendum non previsto dalla Costituzione spagnola e proprio per questo esplicitamente respinto dalla Corte Costituzionale di Madrid». In questa latitanza, aggiunge il giornalista, «si nasconde la perversa debolezza politica di un’istituzione che invece di affermarsi garantendo legalità e certezza del diritto scommette bizantinamente sulla erosione del potere degli Stati per affermare la propria autorità». E pur di farlo, «arriva ad appoggiare le mosse inconsulte di una regione spinta all’arrembaggio indipendentista da una dirigenza locale estremista ed esagitata».Lo «spettacolo indecente» di Barcellona «conferma ulteriormente il suicidio europeo», conclude Micalessin, sottolineando la disobbedienza dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale catalana, che si è rifiutata di sigillare i seggi, ignorando l’ordine ricevuto dal governo di Madrid. «E’ un evidente atto di sedizione e sovversione». Un gesto grave, «che Bruxelles non può permettersi d’osservare in silenzio: perché qualsiasi polizia regionale o locale europea potrebbe decidere, a questo punto, di sottrarsi all’autorità centrale», nell’assoluta indifferenza delle autorità europee. Nessuno, aggiunge Micalessin, «trova nulla da eccepire sul merito una consultazione che – comunque vada lo spoglio – non avrà un briciolo di legalità». In mancanza delle liste elettorali ufficiali, custodite dal governo, «nessuno infatti può garantire la validità di un referendum senza quorum, su cui non ha vigilato alcun osservatore indipendente e dove i rischi di brogli e di accessi multipli alle urne sono stati palesi». E così, chiosa il giornalista, «il suicidio dell’Ue conferma inesorabilmente la velleità delle aspirazioni indipendentiste della Catalogna». Una Catalogna che, qualora finisse fuori dalla Spagna, «potrebbe sopravvivere soltanto nel grembo di un’Europa che non c’è».«Una cosa è certa: il primo cadavere raccolto tra le urne di un referendum tanto illegale quanto cialtronesco è quello dell’Unione Europea», scrive Gian Micalessin sul “Giornale” all’indomani della consultazione sull’indipendenza della Catalogna che avrebbe coinvolto oltre 2 milioni di persone, cifra comunque inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori catalani. In Francia e in Germania, scrive Micalessim, l’Ue se l’era cavata per il rotto della cuffia, e non per meriti propri. «Nel voto francese era stata una Marine Le Pen – incapace di trasformarsi da capofila dell’opposizione a leader nazionale – a regalare la sopravvivenza a Bruxelles», mentre un Germania «l’avanzata della destra anti-immigrati non bastava certo ad intaccare la solidità di un’Angela Merkel parzialmente ridimensionata». Eppure, nonostante questi due “colpi di fortuna”, Bruxelles non ha aperto gli occhi: «Di fronte all’irresponsabilità delle forze catalane guidate dal presidente Carles Puigdemont – scrive Micalessin – l’Ue dimostra, ancora una volta, di non aver a cuore la sovranità dei propri Stati nazionali e di non saper affrontare con tempismo le crisi interne. Il silenzio più paradossale è stato forse quello di Emmanuel Macron e Angela Merkel: giovedì a Tallinn i due politici simbolo dell’Europa sopravvissuta alla propria crisi sono riusciti a non spendere mezza parola sul drammatico referendum».
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Elegantissimo, aristocratico, anarchico Paolo Villaggio
Elegantissimo, come nessuno. Lui, Paolo Villaggio, con gli zoccoli di plastica rossi e il caftano di foggia maghrebina. Italiano e rabdomante, come il cantautore Paolo Conte, come lo scrittore Maurizio Maggiani. Anime raffinatissime, capaci di raccontare anche tacendo, di affermare per negazioni, per assenze. In grado di stare ovunque, sempre e comunque, partendo da quella porzione di cielo dove si stagliano le idee che poi maturano, diventando pensieri, vocati a incarnarsi in qualcosa di terreno, masticabile, a volte emozionante, persino profetico. Puoi scegliere il sentiero dell’asceta o quello del guitto, ma è lo stesso: cambia soltanto l’abito. Il doppiopetto, oppure lo “spigato siberiano” con la sciarpa amorevolmente accomodata dalla signora Pina, quel “curioso animale domestico, dai capelli color topo”. Non c’era, la signora Pina, nella “Voce della Luna”. C’era il prefetto Gonnella, con il suo sploverino sdrucito, che – sorgendo dal caos infernale della discoteca-hangar – all’improvviso fa il vuoto attorno a sé guidando, in un valzer di cristallo, una soave dama dei tempi che furono, direttamente discesa dai paradiso dei sogni affrescato da Federico Fellini. Un paradiso in cui il prefetto Gonnella sbalordisce tutti, surclassando l’eroe nazionale più convenzionale, Roberto Benigni.Sempre elegantissimo, Paolo Villaggio, anche nei panni dell’austero e perfido colonnello Pròcolo, che per tutta la durata del film (“Il segreto del bosco vecchio”, di Ermanno Olmi) tenta di assassinare il nipote, il giovane Benvenuto, per carpirgli l’eredità e abbattere la sua foresta sacra, simbolo della vita prima di noi – la vita che continua dopo di noi, malgrado noi. Paolo Villaggio anziano, alle prese con reading e presentazioni sempre altamente spettacolari dei suoi 28 titoli, incluso l’esilarante e folle “Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda”, in cui il poeta mette l’anima all’asta, alla maniera di Majakovskij, deliziando anche il pubblico della Russia profonda, che l’ha sempre amato considerandolo un grande scrittore popolare, come autorevolmente confermato da superstar della letteratura internazionale del calibro di Evgenij Evtushenko (con grande scorno – come ricordato dallo stesso Paolo, gongolante – dei vari Moravia dell’intellighenzia regolare, seriosamente ufficiale). Sarà stato decisamente divertente, un vero premio alla carriera, per un finto cialtrone d’alta scuola perfettamente a suo agio in un perimetro popolato di nomi come Fabrizio De André, Vittorio Gassman, Mario Monicelli, accanto a quello dell’inseparabile Gigi Reder.Finto cialtrone d’alta scuola ma senza scuola, e che ha fatto storia. La scuola è stata l’Italsider, sono state le navi da crociera, i piano-bar col Fabrizio e il Silvio, quello fissato con la televisione. Villaggio poeta: l’amore, al profumo dei pitosfori in fiore. Arte di puro istinto, intelligenza prontamente liquefatta in un copione tragicomico, grottesco, inattendibile, felicemente in fuga nel regno dell’iperbole. Cifra stilistica, diranno i critici. «Stronzate, io ormai mi cago addosso», li ha zittiti regolarmente il principe Bakunin, l’anarchico genovese, l’aristocratico della risata che ti costringe a pensare, senza mai scendere a patti con l’angusto lessico delle chiacchiere mainstream. Non un’intervista lineare, in decenni di esposizione mediatica. Giacimenti di verità sparsi qua e là, in mezzo a pernacchie e livide freddure, nutrite di cinismo divertito: trovalo tu, l’umano in me, io non posso scodellartelo sul piatto, sono costretto a insolentirti – con affetto, sempre, ma senza mai venire meno alla regola monastica che ho scelto, di cavaliere in missione per conto di voi tutti, me compreso. “Storia della libertà di pensiero”, scrisse, divertendosi – ancora – a fare scempio di monumenti, totem e tabù. L’ultimo atto editoriale vale un’epigrafe: “Siamo nella merda”, testualmente. Lo siamo eccome, ora, non avendo più con noi Paolo Villaggio, il gigante goffo, l’elegantissimo signore che stava sotto i riflettori solo per dirci come siamo veramente: impresentabili, indecenti, regolarmente inadeguati, cioè bellissimi.Elegantissimo, come nessuno. Lui, Paolo Villaggio, con gli zoccoli di plastica rossi e il caftano di foggia maghrebina. Italiano e rabdomante, come il cantautore Paolo Conte, come lo scrittore Maurizio Maggiani. Anime raffinatissime, capaci di raccontare anche tacendo, di affermare per negazioni, per assenze. In grado di stare ovunque, sempre e comunque, partendo da quella porzione di cielo dove si stagliano le idee che poi maturano, diventando pensieri, vocati a incarnarsi in qualcosa di terreno, masticabile, a volte emozionante, persino profetico. Puoi scegliere il sentiero dell’asceta o quello del guitto, ma è lo stesso: cambia soltanto l’abito. Il doppiopetto, oppure lo “spigato siberiano” con la sciarpa amorevolmente accomodata dalla signora Pina, quel “curioso animale domestico, dai capelli color topo”. Non c’era, la signora Pina, nella “Voce della Luna”. C’era il prefetto Gonnella, con il suo sploverino sdrucito, che – sorgendo dal caos infernale della discoteca-hangar – all’improvviso fa il vuoto attorno a sé guidando, in un valzer di cristallo, una soave dama dei tempi che furono, direttamente discesa dal paradiso dei sogni affrescato da Federico Fellini. Un paradiso in cui il prefetto Gonnella sbalordisce tutti, surclassando l’eroe nazionale più convenzionale, Roberto Benigni.
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Càtari, Templari, Sufi: San Francesco d’Assisi, quello vero
«Parlava con tutti gli animali, con i lupi; abbracciava i maiali, si spogliava nudo in chiesa, lavorava con i muratori e si faceva beffe delle autorità». Era il vero San Francesco d’Assisi, il “giullare di Dio” cantato da Dario Fo. Non era affatto un uomo di Chiesa: era un laico, che amava la sua compagna – Chiara – e predicava il messaggio di Cristo alle folle, criticando i ricchi e i potenti. Non era un prete, dunque, ma un cavaliere: ispirato dai Templari. E per giunta figlio di una donna proveniente dalla Linguadoca, la terra dei càtari, dove la Crociata Albigese stava facendo decine di migliaia di morti, con lo sterminio sistematico dei “boni homines”, i cristiani alternativi che stavano dalla parte degli ultimi. Ma poi accadde che, appena dopo la sua morte, il vero Francesco d’Assisi scomparve di colpo. Tutti i suoi documenti furono distrutti, bruciati. La sua memoria, cancellata. Al suo posto, nacque un nuovo San Francesco. Inventato di sana pianta, completamente falso: il San Francesco cattolico. Per riesumare le prime tracce di quello autentico ci vollero cinque secoli, col riemergere di un libro antico. Ma ormai era tardi: il Vaticano aveva fabbricato il docile “format” francescano, impresso nell’immaginario popolare.E’ la grande rivelazione al centro del libro “San Francesco, le verità nascoste”, a cura di Gian Marco Bragadin. In 488 pagine pubblicate dalla casa editrice Melchisedek, il libro racconta la vera vita e il carattere del santo d’Assisi, rivelando «l’ipocrita ricostruzione che lo ha trasformato nel più fedele e mansueto servitore della Chiesa, nel medioevo e oltre, fino ai giorni d’oggi». Una clamorosa manipolazione storica: «Moltissimi documenti – scritti, memorie su Francesco (e probabilmente anche su Chiara) – sono stati dati alle fiamme per non propagare un ritratto non idoneo a farne un obbediente santo della Chiesa cattolica», racconta Bragadin, intervistato da “AdnKronos”. Un lavoro, il suo, sulla stessa lunghezza d’onda di “Francesco D’Assisi, la storia negata”, pubblicato di recente da Laterza e scritto dalla storica medievale Chiara Mercuri. Non a caso, per “riscrivere” la biografia dell’uomo di Assisi, fu incaricato «un frate erudito», Bonaventura, «che però non aveva conosciuto Francesco». Al biografo infedele fu ordinato di raccontare la vita del santo «attutendo, modificando, spesso cancellando del tutto ogni aspetto che poteva mettere in discussione quel ritratto del “poverello d’Assisi” che si è perseguito per secoli».Quali sono, dunque, le verità nascoste? «Praticamente tutto quello che Francesco è stato ed ha fatto, per gran parte della sua vita», spiega Bragadin all’“AdnKronos”, sottolineando come San Francesco sia stato «un guerriero, che ha combattuto e che è stato imprigionato, e che più volte ha tentato di andare alla Crociata per diventare un valoroso cavaliere». Il vero Francesco «si è innamorato dell’ideale dei Templari, al punto che il suo ordine è modellato su quello templare». Inoltre, «templari erano alcuni suoi frati». La stessa madre di Francesco era nativa dell’Occitania, la patria dei càtari, cristiani “eretici” perché dualisti come i mazdei, i seguaci di Zoroastro, convinti che la creazione fosse opera del demiurgo, il “dio straniero”, nonostante ogni creatura avesse in sé la scintilla divina del “padre celeste”. In un mondo, quello feudale, basato sulla pretesa investitura “divina” del potere e quindi della proprietà terriera, il messaggio sociale dei càtari era devastante, intollerabile per l’ordine costituito: i “buoni cristiani” (così si chiamavano, tra loro) erano convinti che niente e nessuno potesse legittimare la “privata proprietà dei beni”. Da qui la loro scelta di campo, a fianco degli ultimi.«Dai càtari – conferma Bragadin – Francesco ha preso il concetto di servizio ai poveri, il rifiuto della proprietà. Ma non si deve dire, perché la Chiesa all’epoca lanciò una crociata per distruggere i càtari, con massacri orribili». Si ricorda quello di Béziers: 20.000 persone sterminate per essersi rifiutate di consegnare ai crociati i 200 eretici presenti in città. «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», fu l’ordine dell’abate Arnaud Amaury, capo spirituale della crociata. Era il 1209. L’ultimo grande eccidio, nel 1244, a Montségur, sui Pirenei, con 220 “perfetti” càtari arsi sul rogo. Ma non finì lì. Proprio per debellare il Catarismo fu istituito il tribunale speciale dell’Inquisizione, che impiegò 70 anni ad estirpare l’eresia, con “purghe” terribili, torture, roghi. Un regime di terrore, fondato sulla delazione, che devastò la Francia meridionale, distruggendo il tessuto sociale di una regione che, per Simone Veil, era stata la culla della civiltà mediterranea medievale, la terra tollerante dov’era fiorita la poesia dei trovatori. Più tardi la contro-predicazione evangelica dei “buoni uomini” avrebbe lambito lo stesso ordine francescano, a lungo ritenuto anch’esso in odore di eresia, data la sua predilezione per i poveri e i loro diritti.Ma Francesco d’Assisi – quello vero – non stimava solo i càtari. «Ha tentato in tutti i modi il contatto con i musulmani», racconta Bragadin: «Non per convertirli (lui non giudicava nessuno, mostrava il suo esempio di vita), ma per trovare i punti di unione tra le religioni, per raggiungere una pace duratura». Ancora oggi, da allora, i francescani hanno la cura del Santo Sepolcro a Gerusalemme, dono del Sultano a Francesco e Frate Elia. Tutte verità nascoste, perché Francesco, aggiunge Bragadin, «ha vissuto una esistenza da eretico, sempre sul filo di finire al rogo». Vista però la sua enorme popolarità, dovuta al rivoluzionario messaggio d’amore che portava, «si è fatta conoscere solo una parte della sua vita, nascondendo tutto ciò che lo riguardava», incluso il legame con «la sua amata compagna Chiara», unione che «poteva essere disdicevole per l’istituzione ecclesiastica». Pochi sanno, continua Bragadin, che Francesco «ha voluto restare sempre un laico». Certo, un laico sui generis: «Predicava il Vangelo nelle piazze, alle feste, nei mercati: come poteva, la rigida Chiesa del tempo, ammettere che un laico parlasse di Cristo alla gente? Poteva predicare agli uccelli o ai lupi, non alla gente. E invece Francesco non ha fatto altro per tutta la vita, perfino quando era malato». Non a caso, la storica Chiara Frugoni, in varie interviste, si domanda perché esistano migliaia di quadri e affreschi su Francesco, ma neanche uno in cui predica. «E la ragione è la seguente: non si voleva tramandare l’immagine di un laico che parlasse di Cristo».Morto Francesco nel 1226, allontanati i suoi vecchi confratelli e segregata Chiara nel convento, sono scattate le grandi manovre per cancellarne la vera storia e dare ai fedeli «una immagine edulcorata di mansueto, docile soldatino della Chiesa cattolica», spiega Bragadin, attingendo a diverse fonti, tra cui molti scritti di Tommaso da Celano. Come si organizzò la grande impostura? Già nel 1260, al Capitolo, l’annuale riunione dei francescani che quell’anno si teneva a Narbonne, nella Francia mediterranea. A frate Bonaventura venne affidato il compito di scrivere una nuova biografia di Francesco, che fu poi approvata a Pisa nel 1263, durante il Capitolo successivo. Tre anni dopo, sempre il Capitolo (stavolta riunito a Parigi) «giunse a decretare la distruzione di tutte le biografie precedenti alla “Legenda Maior”, con la scusa che biografie diverse avrebbero condotto l’ordine verso una divisione». Una scelta atttuata in modo così meticoloso, aggiunge Bragadin, da far sparire dalla faccia della terra anche gli scritti di Francesco e quelli di Chiara, le lettere, le testimonianze. «Non solo: vennero distrutti nelle chiese immagini, affreschi, tutto». Damnatio memoriae. Sepolto il vero Francesco, doveva sopravvivere solo quello falso. E così sarebbe stato, fino al 1768.Quell’anno, ormai in pieno Illuminismo, viene ritrovata miracolosamente “La Vita Prima”, del Celano, «a più di cinque secoli dalla morte di Francesco». Poco dopo torna alla luce anche “La Vita Seconda”, un manoscritto che Bragadin definisce «molto difettoso», scoperto nel 1806. E infine il terzo libro, “Il Trattato dei Miracoli”, «acquistato casualmente a un’asta pubblica nel 1900». Grazie a quei tre volumi, spiega l’autore, si è potuta finalmente ricostruire la biografia autentica del vero Francesco. Ma nei cinque secoli precedenti, aggiunge, il Vaticano «ha avuto tutto il tempo di costruire una storia artificiale e falsa». Lo confermano anche gli storici ufficiali: nell’agiografia di Bonaventura «si inventano anche false vicende, per far corrispondere la figura di Francesco a quanto si voleva tramandare, funzionale cioè alla posizione che voleva prendere l’ordine. E si trascura del tutto, naturalmente, la figura di Chiara e le sue vicende, quasi che le clarisse non facessero parte del movimento». Di Chiara «si sa poco», conferma il medievista Franco Cardini. Anche perché attorno al santo di Assisi fu fatta, letteralmente, terra bruciata: Bonaventura ordinò di dare alle fiamme tutti gli scritti su Francesco. «Sembra un ordine dal Cremlino». Da quel momento, la verità su Francesco, non sarebbe più stata quella della sua vita privata, ma una verità imposta dalla Chiesa.Bragadin ha ignorato la storiografia ufficiale, affidata a documenti autentici ma inattendibili (menzogneri) e si è spinto in pellegrinaggio ad Assisi per almeno cento volte in un quarto di secolo, raccogliendo indizi e confidenze preziose da anziani monaci, segeretamente “innamorati” del vero Francesco. «Ho studiato attentamente ogni cosa – racconta – incluse le informazioni su Internet di frati o storici non allineati come Paul Sabatier, che ipotizza tutto quello che poi io ho provato a raccontare». E’ il caso, per esempio, dei colloqui con vecchi frati amici che «se ne fregavano, data l’età, di mantenere segreti sui due santi d’Assisi e sul loro immenso amore cosmico, che nell’ordine si tramandava per via orale». Dalle biografie di Celano, poi, affiorano storie «che sono al limite della decenza», perché emerge un Francesco che si mette a nudo, in chiesa, spogliandosi completamente. «Un estremista, barricadero, che incita la folla contro i potenti. No, un santo così non lo si può accettare». E’ decisamente troppo, per vescovi e cardinali.L’autore parla anche dell’amore di Francesco per i Sufi, l’elusiva confraternita dei mistici orientali approdati all’Islam dopo aver attraversato l’induismo e il buddismo, mantenendo vivi molti aspetti del mazdeismo zoroastriano. Un network segreto, quello dei Sufi, da sempre impegnato per la pace. E’ un rosario Sufi, scrive Bragadin, quello tumulato insieme alle spoglie di Francesco, di cui l’autore ripercorre anche lo storico viaggio in Terrasanta. Fonti e storici ufficiali, racconta Bragadin, negano che Francesco, dopo i massacri dei Crociati a Damietta, nel 1220, si sia recato a Gerusalemme, nonostante avesse un permesso speciale del sultano El-Kamil, che aveva incontrato. «Ma come possiamo credere – dice l’autore – che Francesco, a pochi passi dalla meta, in quasi un anno di permanenza in Terrasanta, rinunci al sogno di una vita, visitare i luoghi santi del suo Gesù?». Altri documenti, infatti, dimostrano che quei luoghi li ha visitati. Lo ammette anche Ratzinger, sicuramente basandosi su fonti inoppugnabili: «San Francesco ha visitato il Santo Sepolcro, ci sono elementi certi», scrive Benedetto XVI. «Ha gettato un seme che avrebbe portato molto frutto».Gli stessi documenti arabi confermano che Francesco abbia incontrato i Sufi: «Metà del “Cantico di Frate Sole”, sembra tratto dai poemi di Rumi», il massimo poeta islamico, afghano, fondatore della prima scuola Sufi dei Dervisci Rotanti. E il sultano, Francesco l’aveva incontrato «non certo per “convertirlo” (una fissa della Chiesa Cattolica), ma per confrontarsi in un rapporto di amore reciproco». Pace, nella diversità: unire ciò che è stato diviso. Francesco faceva parte, dunque, di una sorta di “intelligence informale” dell’epoca: una rete che, evidentemente, condivideva conoscenze esoteriche e collaborava per l’unità sostanziale dei popoli, al di là delle differenze religiose. “Perché il mondo non è nostro, e noi non siamo del mondo”, recita il “Pater” dei càtari, che sembra ispirato direttamente da Zoroastro e invita a liberarsi del “giogo” della materia. “Nel mondo, ma non del mondo”, è il motto dei Sufi. “Nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”. Ecco in cosa credeva Francesco. Quello vero.(Il libro: Gian Marco Bragadin, “San Francesco. Le verità nascoste”, Melchisedek, 492 pagine, euro 21,25, ebook a 12,99 euro).«Parlava con tutti gli animali, con i lupi; abbracciava i maiali, si spogliava nudo in chiesa, lavorava con i muratori e si faceva beffe delle autorità». Era il vero San Francesco d’Assisi, il “giullare di Dio” cantato da Dario Fo. Non era affatto un uomo di Chiesa: era un laico, che amava la sua compagna – Chiara – e predicava il messaggio di Cristo alle folle, criticando i ricchi e i potenti. Non era un prete, dunque, ma un cavaliere: ispirato dai Templari. E per giunta figlio di una donna proveniente dalla Linguadoca, la terra dei càtari, dove la Crociata Albigese stava facendo decine di migliaia di morti, con lo sterminio sistematico dei “boni homines”, i cristiani alternativi che stavano dalla parte degli ultimi. Ma poi accadde che, appena dopo la sua morte, il vero Francesco d’Assisi scomparve di colpo. Tutti i suoi documenti furono distrutti, bruciati. La sua memoria, cancellata. Al suo posto, nacque un nuovo San Francesco. Inventato di sana pianta, completamente falso: il San Francesco cattolico. Per riesumare le prime tracce di quello autentico ci vollero cinque secoli, col riemergere di un libro antico. Ma ormai era tardi: il Vaticano aveva fabbricato il docile “format” francescano, impresso nell’immaginario popolare.
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Maggiani: paga sempre il popolo (ma il peggio era Hillary)
I giovani americani manifestano contro Donald Trump con una veemenza e una determinazione, e una massa, che almeno qui e noi non vedevamo dai tempi di Fragole e Sangue. Belle facce, bei cuori. Magari, si fossero alzati di buon mattino martedì scorso e si fossero messi in coda ai seggi elettorali con la ferma intenzione di dare il loro voto al nemico del loro nemico, oggi se ne starebbero più sereni loro e il mondo intero, ma sarebbe stato chiedere troppo. La Clinton non l’avrei votata neppure io, che sono vecchio e di certo meno intollerante al tanfo di quando avevo vent’anni. Naturalmente spero che il movimento dei giovani americani abbia in qualche modo fortuna, anche se non so in quale modo potrebbe, Donald Trump è una verità insopprimibile. Per sopprimere Trump bisognerebbe prima sopprimere il popolo americano e l’unico, imperfetto, macchinoso modo che ha a disposizione per porre allo sguardo del potere la verità della sua esistenza, la verità dei suoi problemi, la verità della dignità che gli spetta, il sistema elettorale.La signora Clinton invece è una menzogna, l’ultima menzogna di un sistema politico, universale, pervertito in una maschera di sardonico cinismo, e definitivamente, universalmente, fuori corso. La verità è che i giovani americani innalzando i loro cori contro un presidente sessista, volgare e autoritario stanno intraprendendo una battaglia di retroguardia; e Dio sa quanto ci scoccia ammetterlo, ma ora questo sono i diritti civili. La battaglia d’avanguardia la fa la commessa a 900 dollari al mese per un salario decente, e se la commessa è lesbica, il suo primo bisogno è di nutrirsi e vestirsi e curarsi decentemente e il secondo, se vorrà, di sposarsi. Infatti sposarsi può ormai farlo dove vuole, ma un salario decente non è disposto a concederglielo nessuno. E non risulta un movimento giovanile a sostegno della lotta alla povertà, né picchetti di studenti ai cancelli delle fabbriche in serrata o tra i filari di granturco o nei magazzini dell’e-commerce.La battaglia d’avanguardia ha promesso di farla Donald Trump, ed è paradossale che gliela sia stata regalata, visto che è il meno attendibile in proposito, ma è ancora una verità. La verità che la signora Clinton scrive alla sua assistente in una mail spiattellata da Wikileaks: “sono lontana dalla gente, aiuto le banche a crescere”. Prima di prendere a odiare Trump, la commessa da 900 dollari ha sotto mano chi odiare con tutte le forze, compresa quella unica che ancora le è riconosciuta, la forza del voto. Sappiamo che quando il popolo si prende la briga di decidere finisce quasi sempre per sbagliare, ma è certo che paga sempre e unicamente il popolo. Ovunque.(Maurizio Maggiani, “Trump e Clinton”, da “Il Secolo XIX” del 13 novembre 2016, articolo ripreso dal sito ufficiale di Maggiani).I giovani americani manifestano contro Donald Trump con una veemenza e una determinazione, e una massa, che almeno qui e noi non vedevamo dai tempi di Fragole e Sangue. Belle facce, bei cuori. Magari, si fossero alzati di buon mattino martedì scorso e si fossero messi in coda ai seggi elettorali con la ferma intenzione di dare il loro voto al nemico del loro nemico, oggi se ne starebbero più sereni loro e il mondo intero, ma sarebbe stato chiedere troppo. La Clinton non l’avrei votata neppure io, che sono vecchio e di certo meno intollerante al tanfo di quando avevo vent’anni. Naturalmente spero che il movimento dei giovani americani abbia in qualche modo fortuna, anche se non so in quale modo potrebbe, Donald Trump è una verità insopprimibile. Per sopprimere Trump bisognerebbe prima sopprimere il popolo americano e l’unico, imperfetto, macchinoso modo che ha a disposizione per porre allo sguardo del potere la verità della sua esistenza, la verità dei suoi problemi, la verità della dignità che gli spetta, il sistema elettorale.