Archivio del Tag ‘declino’
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Morto che parla: le bugie di Prodi e la Repubblica senza idee
Romano Prodi, ancora lui. «Due volte presidente del Consiglio», lo presenta Simona Casalini su “Repubblica”, evitando di evidenziare le funzioni rivelatrici che ne illumiano il curriculum: privatizzatore dell’Iri, presidente della Commissione Europea e advisor europeo della Goldman Sachs, la cupola di “bankster” che ha infiltrato le economie nazionali per saccheggiarle crocifiggendole al debito, come la Grecia a cui lavorò Mario Draghi. Ma, per “Repubblica”, nel giugno 2018 – con Di Maio e Salvini e al governo – Romano Prodi è ancora il “due volte presidente del Consiglio”, l’autorevole “professore” interpellato sull’Italia come fosse un economista di Sydney, un osservatore neutrale e nobilmente estraneo al disastro italiano. Al forum “La Repubblica delle Idee”, Prodi risponde alle affabili domandine del direttore del quotidiano di De Benedetti, Mario Calabresi, affiancato dal collega de “L’Espresso”, Marco Damilano. «La gente non ha più fiducia nelle democrazie», proclama soavemente Prodi, fingendo di non sapere che in quest’Europa è stata proprio la democrazia a trionfare in Gran Bretagna addirittura con un referendum, mentre ora in Italia – sempre a suon di voti – ha mandato a casa l’ex inaffondabile euro-Pd. Se c’è una notizia è proprio la riscoperta della democrazia come possibilità. E i direttori del gruppo Espresso lasciano che il super-tecnocrate italiano dica il contrario esatto della verità.Il crollo generale di fiducia – non “nelle democrazie”, com’è evidente, ma negli euro-governi non democratici – secondo Prodi nasce da «un problema di diritti», palesemente conculcati. E ammette: «Bisogna cambiare registro. La disparità è aumentata in quasi tutti i paesi del mondo proprio perché i governi democratici hanno adottato modelli fiscali e di welfare che hanno aumentato la disparità». Dov’era, il “professore”, mentre tutto ciò accadeva? Su Marte, potrebbe pensare il lettore, se non sapesse che Prodi era prima all’Iri, impegnato a tagliare le gambe all’Italia, per poi “finire il lavoro” tra Bruxelles e Palazzo Chigi, lautamente ricompensato da Wall Street. “Chi sei e da dove vieni” dovrebbero essere l’abc del giornalismo? Nei film, forse. Nella realtà, Mario Calabresi “incalza” Prodi chiedendogli di esercitare il suo apollineo intelletto misurandosi su giudizi temerari, come quello concernente la vera natura del neonato governo gialloverde. Per la precisione: l’orientamento del neo-premier. «Conte? E’ di destra», sentenzia il “professore”, per quarant’anni al servizio della destra economica neoliberista. Ormai l’Italia è spacciata, ripeteva, da Palazzo Chigi: l’economia del mondo è in mano a grandi “cluster” industriali, di fronte ai quali il made in Italy – piccola e media impresa – può solo estinguersi.Ambasciatore prescelto dall’Impero globalista per piegare le ultime resistenze della sinistra sociale, l’ipocrita Prodi – travestito da cattolico “di sinistra” – tiene ancora banco, tra gli addetti alla non-informazione quotidiana. «Quando si governa ci sono decisioni che sono di sinistra e altre di destra», pontifica il grande rottamatore dell’Italia, sfoggiando il suo cinico pragmatismo (così apprezzato, da Bruxelles a Washington). «Serve un progetto politico», brontola, pensando all’ex finta sinistra da lui un tempo guidata. Auspica «un ampio, largo dibattito collettivo nel paese». Velenose falsità, come sempre, anche sull’euro-mostro chiamato Unione Europea: «Se qualcuno si vuole male esce dall’Europa». L’euro? «L’introduzione della moneta unica doveva essere accompagnata da molte altre decisioni e invece siamo rimasti a metà». Che peccato. Ma vorrebbe suscitare tenerezza l’amarcord da coccodrillo in lacrime che riserva all’ingenua platea della “Repubblica delle Idee”: «Kohl mi disse che i tedeschi erano contro la sua introduzione ma lui lo volle a tutti i costi perchè era anche un forte simbolo di pace, raccontandomi che suo fratello era morto in guerra».Kohl, sì: il cancelliere che telefonava a Roma, dando ordini – da Berlino – al governo italiano. Per la precisione, pretendeva l’allontanamento dell’economista keynesiano e progressista Nino Galloni, il funzionario strategico che lavorava (con Andreotti) per parare i colpi mortali di Maastricht. E sua eccellenza Prodi, il “professore”? Era impegnato a smontare l’Iri, per poi prepararsi a spiegare – all’Italia ormai declassata – che avrebbe dovuto subire 25 anni di disgrazie, presentate come “sacrifici” purtroppo inevitabili, nel mondo-cluster visto come l’unico possibile dal globalizzatore fatalista e reazionario Romano Prodi, massimo architetto della “democratura” italiana sottomessa a poteri privati e famelici. Il ruolo di quei poteri, i soli e veri decisori, non è neppure lontanamente evocabile – né ora né mai – nelle sacrestie provinciali del nuovo feudalesimo imperiale e nei servili retrobottega della macchina che fabbrica notizie false e pensieri deprimenti. Il paese è in rivolta a causa del declino nel quale è stato precitato? Ovvio, per “Repubblica” ed “Espresso”, chiedere lumi proprio all’uomo che, più di ogni altro, quel declino ha organizzato, prima come privatizzatore e poi come liquidatore fallimentare del paese. Bel tipo, il “professore”: pagato dai banchieri, s’intende, ma pur sempre “di sinistra”.Romano Prodi, ancora lui. «Due volte presidente del Consiglio», lo presenta Simona Casalini su “Repubblica”, evitando di evidenziare le funzioni rivelatrici che ne illumiano il curriculum: privatizzatore dell’Iri, presidente della Commissione Europea e advisor europeo della Goldman Sachs, la cupola di “bankster” che ha infiltrato le economie nazionali per saccheggiarle crocifiggendole al debito, come la Grecia a cui lavorò Mario Draghi. Ma, per “Repubblica”, nel giugno 2018 – con Di Maio e Salvini e al governo – Romano Prodi è ancora il “due volte presidente del Consiglio”, l’autorevole “professore” interpellato sull’Italia come fosse un economista di Sydney, un osservatore neutrale e nobilmente estraneo al disastro italiano. Al forum “La Repubblica delle Idee”, Prodi risponde alle affabili domandine del direttore del quotidiano di De Benedetti, Mario Calabresi, affiancato dal collega de “L’Espresso”, Marco Damilano. «La gente non ha più fiducia nelle democrazie», proclama soavemente Prodi, fingendo di non sapere che in quest’Europa è stata proprio la democrazia a trionfare in Gran Bretagna addirittura con un referendum, mentre ora in Italia – sempre a suon di voti – ha mandato a casa l’ex inaffondabile euro-Pd. Se c’è una notizia è proprio la riscoperta della democrazia come possibilità. E i direttori del gruppo Espresso lasciano che il super-tecnocrate italiano dica il contrario esatto della verità.
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Il fantasma di Monti incombe sulla democrazia gialloverde
L’Italia è quel paese in cui l’austero professor Mario Monti è senatore a vita. E dal suo scranno, può permettersi di ammonire – retroattivamente – il popolo italiano che già stritolò nel 2011: ricordavi, avverte, di quello che potrebbe capitarvi anche nel 2018, se non righerete dritti. Nella sua visione grottesca della politica, Monti arriva a fregiarsi dell’infima gloria sinistra del gauleiter, il grigio reggente regionale che si presenta come il male minore rispetto truce Führer: senza la mia purga sanguinosa, allora, vi sarebbe toccata quella della Troika, il nuovo potere imperiale che regna sull’Europa senza alcun mandato e dispone della vita e della morte delle economie, delle società, delle democrazie. E’ come se dicesse: io sono lo spread, la punizione biblica per voi miscredenti, non abbastanza timorati della vendetta degli déi. Un lessico che ricorda quello, altrettanto cupo, maneggiato dal presidente della Repubblica nel vietare a Paolo Savona l’ingresso al ministero dell’economia: guai a chi osa sfidare il potere supremo della divinità che è l’unico arbitro del nostro destino, ben al di sopra della sciocca e pericolosa presunzione degli elettori, che si credono sovrani. Non sanno, gli stolti, che ben altri poteri sovrastano la risibile finzione confederale chiamata Unione Europea, con i suoi Parlamenti nazionali ormai solo decorativi?Si è ribaltato l’universo, nella percezione della maggioranza degli elettori italiani – ai quali, incredibilmente, è ancora concesso il diritto formale di voto. Si è capovolto il pianeta, nella testa di milioni di cittadini (la maggioranza), se è vero che sono stati capaci di mandare a casa gli storici camerieri del regime, travestiti da politici. Eppure, Mario Monti si offre al pubblico nella sua invariata fissità statuaria, con il suo identico verbo altrettanto mortuario: crisi e rigore, senza alternative. E il suo alter ego al femminile, Elsa Fornero, autrice della più famigerata riforma degli ultimi anni, ha facoltà di parola – ogni settimana – nei salotti televisivi, dove viene regolarmente interpellata come una sorta di nume della saggezza, insieme agli altri professori della sciagura nazionale fondata sui tagli al bilancio in nome dei conti del salumiere europeo, la premiata macelleria di Bruxelles. Uno spettacolo, quello delle figure marmoree detronizzate, che gli addetti al culto mediatico non riescono ad accettare: smarriti, si rifugiano nella pretesa sapienza di colleghi e sacerdoti di rito ortodosso, sedicenti giornalisti e pomposi analisti – gli stessi che applaudirono il pontefice Monti, l’inviato speciale degli Inferi, e poi la sue versioni annacquate e letargiche, il mite Letta e il torpido Gentiloni, passando per l’imbarazzante fanfarone di Rignano sull’Arno, spacciato per rigeneratore libertario della provincia italiana dell’impero medievale.E mentre il Parlamento incorona i nuovi governanti, insieme alla loro spericolata ipotesi di riforma radicale del sistema, le parrocchie televisive – per reagire all’affronto – affollano gli studi di politici di ieri, mesti cantori del “tua culpa” e supporter del passato, infidi scrutatori mai imparziali di un mondo che non esiste più. E’ il lutto a reti unificate a dominare il cosiddetto mainstream, tramortito dall’insolenza inconcepibile dell’elettore medio, che ai faccendieri dell’impero stavolta ha preferito i masanielli del nord e del sud, isole comprese. E’ elusa, come sempre, la domanda madre: perché accade tutto questo? Perché hanno tradito la casalinga e l’operaio, l’imprenditore e lo studente, il precario e il disoccupato? Perché hanno smesso, riprovevolmente, di riporre la loro fede nei disciplinati ed eleganti maggiordomi dell’ineffabile zarismo di Bruxelles? Temendo la risposta, gli uscieri del mainstream trovano facile accanirsi, fin da subito, sulle presunte incongruenze dei neo-eletti, la loro scarsa dimestichezza con i sacramenti dell’ufficialità. E lasciano l’Italia a fari spenti, in una notte in cui riappare l’ectoplasma del disastro, Mario Monti. Il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio, con annessa maledizione egizia per i profanatori del santuario del rigore.L’impero regna ancora: ha perso il Parlamento, non la banca. Né le parole – false – che ha forgiato nei decenni, raccontando che al declino non si sfugge: lo schiavo non può mai cambiare il suo destino. Era una fiaba nera, che lentamente è diventata verità di piombo. Sanno, gli incantatori, che le parole hanno un potere fondativo. Sanno benissimo, i fabbricanti di “fake news”, quanto determinante sia la narrazione degli eventi. Sono perfettamente consapevoli che basterebbe poco, un niente, per invertire il corso delle cose, il sentimento del presente. Pace e fiducia basterebbero a sfrattare la paura, la principale leva su cui fonda il suo potere il verbo eternamente minaccioso di un impero che ha ridotto il vecchio continente a una congrega di impostori e di meschini, così codardi da tremare al semplice sussulto di un paese che si affida a portavoce per una volta alieni, non mafiosi e non ancora compromessi, non partoriti dalla filiera dell’oligarchia che ha preso il posto, ovunque, della democrazia dei tempi andati, il cui fantasma turba il sonno dei gerarchi e dei loro datori di lavoro. Piramidi nefaste, di un business che si avventa sugli Stati per spolparli, invocando la norma religiosa della privazione come dogma. E si prepara a dispiegare tutta la potenza che gli resta per minacciare e scoraggiare, spaventare la popolazione insorta. Nella pericolosa guerra che si annuncia, par di capire che saranno proprio le parole – ancora – a disputare una battaglia decisiva, in nome della verità che questa pseudo-Europa ha costretto alla più dura clandestinità.L’Italia è quel paese in cui l’austero professor Mario Monti è senatore a vita. E dal suo scranno, può permettersi di ammonire – retroattivamente – il popolo italiano che già stritolò nel 2011: ricordavi, avverte, di quello che potrebbe capitarvi anche nel 2018, se non righerete dritti. Nella sua visione grottesca della politica, Monti arriva a fregiarsi dell’infima gloria sinistra del gauleiter, il grigio reggente regionale che si presenta come il male minore rispetto truce Führer: senza la mia purga sanguinosa, allora, vi sarebbe toccata quella della Troika, il nuovo potere imperiale che regna sull’Europa senza alcun mandato e che dispone della vita e della morte delle economie, delle società, delle democrazie. E’ come se dicesse: io sono lo spread, la punizione biblica per voi miscredenti, non abbastanza timorati della vendetta degli déi. Un lessico che ricorda quello, altrettanto cupo, maneggiato dal presidente della Repubblica nel vietare a Paolo Savona l’ingresso al ministero dell’economia: guai a chi osa sfidare il potere supremo della divinità che è l’unico arbitro del nostro destino, ben al di sopra della sciocca e pericolosa presunzione degli elettori, che si credono sovrani. Non sanno, gli stolti, che ben altri poteri sovrastano la risibile finzione confederale chiamata Unione Europea, con i suoi Parlamenti nazionali ormai solo decorativi?
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Non abbiate paura: l’umanità all’epoca di Bob Kennedy
Esattamente 50 anni fa, nella notte tra il 5 e il 6 giugno del 1968, veniva ammazzato Robert Kennedy. Con lui si spegneva una stagione politica americana fatta di lotta per i diritti, per un mondo più inclusivo ed egualitario. Il suo omicidio arrivava dopo quello del fratello John (1963), quello di Malcolm X (1965) e quello di Martin Luther King (1968). La sua mancata corsa alla presidenza ha mutato il destino di un’America che oggi sarebbe molto diversa da com’è. E possiamo tranquillamente dire che sarebbe migliore. Per chi volesse ripercorrerne la storia, “Netflix” ha pubblicato una serie in 4 episodi. “Bob Kennedy for president”, il passato che è futuro. In quest’epoca di democrazie claudicanti è bello vedere questa serie: si racconta un’epoca storica in cui le democrazie occidentali erano nel loro fiore, dove si credeva nel potere dei diritti, dove i diritti avevano un appeal, dove si lavorava per unire, migliorare, superare vecchi schemi, verso un futuro in cui l’umanità era in grado di prendersi per mano per crescere.Fu un’epoca soppressa nel sangue, ma che portò con sé un’onda lunga di sogni e di battaglie. Fino a qualche anno fa tutto ciò che era razzista, violento, guerrafondaio veniva visto anche come vecchio, destinato al superamento e alla scomparsa. Sembrava naturale ipotizzare un progresso tecnologico che andasse a braccetto con un progresso civile, culturale, economico e sociale. Negli ultimi anni tutti i fantasmi del passato hanno ripreso concretezza. Il razzismo è tornato in voga, la guerra sembra una necessità, i diritti sembrano un ingombro per un neoliberismo che come una macchina impazzita divora tutto ciò che incontra. Eppure ci sono segnali. Sarà che Urano è entrato in Toro, ma credo che l’epoca di Robert Kennedy stia tornando.Chi era Robert Kennedy? Che sogno portava avanti? Come è stato infranto questo sogno e da chi? Tutto viene raccontato attraverso materiali d’epoca in un viaggio in un passato che è futuro. I semi possono attendere in un vaso per anni, ma quando il giardiniere si ricorda di loro, li può prendere, seppellire e in un attimo li vedrà germogliare. Il progresso è un fatto di memoria, la memoria innanzitutto della sua possibilità.(Paolo Mosca, riflessione sulla memoria di Bob Kennedy proposta in “Ricordiamo Bob Kennedy a 50 anni dall’assassinio”, sul blog del Movimento Roosevelt il 6 giugno 2018, e nel post “Bob Kennedy for president, il passato che è futuro”, sul blog “Mosquicide”).Esattamente 50 anni fa, nella notte tra il 5 e il 6 giugno del 1968, veniva ammazzato Robert Kennedy. Con lui si spegneva una stagione politica americana fatta di lotta per i diritti, per un mondo più inclusivo ed egualitario. Il suo omicidio arrivava dopo quello del fratello John (1963), quello di Malcolm X (1965) e quello di Martin Luther King (1968). La sua mancata corsa alla presidenza ha mutato il destino di un’America che oggi sarebbe molto diversa da com’è. E possiamo tranquillamente dire che sarebbe migliore. Per chi volesse ripercorrerne la storia, “Netflix” ha pubblicato una serie in 4 episodi. “Bob Kennedy for president”, il passato che è futuro. In quest’epoca di democrazie claudicanti è bello vedere questa serie: si racconta un’epoca storica in cui le democrazie occidentali erano nel loro fiore, dove si credeva nel potere dei diritti, dove i diritti avevano un appeal, dove si lavorava per unire, migliorare, superare vecchi schemi, verso un futuro in cui l’umanità era in grado di prendersi per mano per crescere.
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Massoni, manovre, bugie e omissioni sull’Italia gialloverde
Un presidente della Repubblica che ammette a reti unificate che il paese è ostaggio dei mercati finanziari privati. L’oligarchia euro-tedesca che minaccia apertamente la fine dell’Italia. E l’uomo di Trump che si precipita a Roma per ostacolare i terminali di Berlino e, infine, premere in senso opposto sull’establishment conservatore. Obiettivo: far nascere un governo ibrido e sotto ipoteca, con promesse impossibili da mantenere senza prima scardinare il paradigma teologico europeista del rigore suicida, imposto a mano armata dalla massoneria reazionaria che ha in mano la governance della Germania, della Bce e dell’Unione Europea. L’analista geopolitico Federico Dezzani sottolinea il ruolo di primo piano svolto dall’asse angloamericano nella crisi italiana, evidenziando le mosse di Steve Bannon e dell’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg, che ha incontrato Salvini e Di Maio a fine marzo. Quindi i britannici: «Lo stesso Movimento 5 Stelle è un prodotto più inglese che americano, come dimostrano la lunga carriera di Gianroberto Casaleggio presso il colosso dell’informatica inglese Logica Plc e il doppio passaporto, italiano e britannico, del figlio Davide». Sempre secondo Dezzani, Londra ha giocato un ruolo decisivo nella nascita del governo giallo-verde «attraverso il “protestante” Jorge Mario Bergoglio che, a sua volta, ha schierato l’ancora influente Conferenze Episcopale Italiana».
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L’impresentabile Cottarelli, contro l’Italia che voleva Savona
L’Italia è vistosamente in subbuglio, dopo la decisione del presidente Mattarella di non consentire la nascita del “governo del cambiamento” bloccando – in modo controverso – la nomina di Paolo Savona, ministro designato all’economia. In attesa che si chiarisca il profilo giuridico della decisione, da più parti ampiamente contestata (fino alla possibile richiesta di impeachment nei confronti del capo dello Stato), emerge in mille rivoli un sentimento popolare che si sta rivelando maggioritario: l’amarezza per una decisione percepita come una beffa, uno schiaffo alla cosiddetta sovranità popolare. Eloquente lo stesso discorso del presidente della Repubblica dopo il licenziamento di Giuseppe Conte: impossibile nominare un ministro che rischi di irritare i mercati finanziari privati, da cui ormai dipende la finanza pubblica. A questo è ridotta la sovranità democratica, in nome della quale si chiede ai cittadini di partecipare alle elezioni? Di fatto, il capo dello Stato ha compiuto un’azione che secondo molti osservatori non ha precedenti, imponendosi sui partiti eletti nel bocciare un candidato ministro per le sue idee politiche. E come se nulla fosse accaduto, mentre il paese intero si interroga sul proprio destino, un tecnocrate del Fondo Monetario Internazionale accetta con la massima disinvoltura l’incarico di presidente del Consiglio.
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Savona: ho subito un grave torto, così si distrugge l’Europa
Ho subito un grave torto dalla massima istituzione del paese sulla base di un paradossale processo alle intenzioni di voler uscire dall’euro e non a quelle che professo e che ho ripetuto nel mio comunicato, criticato dalla maggior parte dei media senza neanche illustrarne i contenuti. Insieme alla solidarietà espressa da chi mi conosce e non distorce il mio pensiero, una particolare consolazione mi è venuta da Jean Paul Fitoussi sul “Mattino” di Napoli e da Wolfgang Münchau sul “Financial Times”. Il primo, con cui ho da decenni civili discussioni sul tema, afferma correttamente che non avrei mai messo in discussione l’euro, ma avrei chiesto all’Unione Europea di dare risposte alle esigenze di cambiamento che provengono dall’interno di tutti i paesi-membri; aggiungo che ciò si sarebbe dovuto svolgere secondo la strategia di negoziazione suggerita dalla teoria dei giochi che raccomanda di non rivelare i limiti dell’azione, perché altrimenti si è già sconfitti, un concetto da me ripetutamente espresso pubblicamente. Nell’epoca dei like o don’t like anche la presidenza della Repubblica segue questa moda.Più incisivo e vicino al mio pensiero è il commento di Münchau. Nel suo commento egli analizza come deve essere l’euro per non subire la dominanza mondiale del dollaro e della geopolitica degli Stati Uniti, affermando che la moneta europea è stata mal costruita per colpa della miopia dei tedeschi. La Germania impedisce che l’euro divenga come il dollaro «una parte essenziale della politica estera». Purtroppo, egli aggiunge, il dollaro ha perso questa caratteristica, l’euro non è in condizione di rimpiazzarlo o, quanto meno, svolgere un ruolo parallelo, e di conseguenza siamo nel caos delle relazioni economiche internazionali; queste volgono verso il protezionismo nazionalistico, non certo foriero di stabilità politica, sociale ed economica. È il tema che con Paolo Panerai ho toccato nel pamphlet recentemente pubblicato su Carli e il Trattato di Maastricht, dove emerge la lucida grandezza di Paolo Baffi.L’Italia registra fenomeni di povertà, minore reddito e maggiori disuguaglianze. Il 28 e 29 giugno si terrà un incontro importante tra capi di Stato a Bruxelles: chi rappresenterà le istanze del popolo italiano? Non potrà andarci Mattarella, né può farlo Cottarelli. Se non avesse avuto veti inaccettabili, perché infondati, il governo Conte avrebbe potuto contare sul sostegno di Macron, così incanalando le reazioni scomposte che provengono dall’interno di tutti indistintamente i paesi-membri europei verso decisioni che aiutino l’Italia a uscire dalla china verso cui è stata spinta. Münchau giustamente afferma che teme «non vi sia un sostegno politico nel Nord Europa» e quindi non ci resta che patire gli effetti del protezionismo e dell’instabilità sociale. Si tratta di decidere se gli europeisti sono quelli che stanno creando le condizioni per la fine dell’Ue o chi, come me, ne chiede la riforma per salvare gli obiettivi che si era prefissi.Ho subito un grave torto dalla massima istituzione del paese sulla base di un paradossale processo alle intenzioni di voler uscire dall’euro e non a quelle che professo e che ho ripetuto nel mio comunicato, criticato dalla maggior parte dei media senza neanche illustrarne i contenuti. Insieme alla solidarietà espressa da chi mi conosce e non distorce il mio pensiero, una particolare consolazione mi è venuta da Jean Paul Fitoussi sul “Mattino” di Napoli e da Wolfgang Münchau sul “Financial Times”. Il primo, con cui ho da decenni civili discussioni sul tema, afferma correttamente che non avrei mai messo in discussione l’euro, ma avrei chiesto all’Unione Europea di dare risposte alle esigenze di cambiamento che provengono dall’interno di tutti i paesi-membri; aggiungo che ciò si sarebbe dovuto svolgere secondo la strategia di negoziazione suggerita dalla teoria dei giochi che raccomanda di non rivelare i limiti dell’azione, perché altrimenti si è già sconfitti, un concetto da me ripetutamente espresso pubblicamente. Nell’epoca dei like o don’t like anche la presidenza della Repubblica segue questa moda.
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Magaldi: fidatevi, sarà proprio l’Italia a cambiare l’Europa
Fidatevi: sarà l’Italia a cambiare l’Europa. Eresia pura, a prima vista. Tempi: non sospetti. Fine 2014, con il giovane Renzi insediato a Palazzo Chigi e pronto a recitare la sua mediocre particina teatrale, il dinamismo giovanilistico e solo cosmetico di riformette Merkel-compatibili, pre-formattate da Mario Draghi, Jp Morgan e colleghi. «Fidatevi: sarà l’Italia a cambiare l’Europa». Firmato: Gioele Magaldi, il visionario. Il massone dissidente, l’eretico, il fastidioso smascheratore di un sistema truccato, neoliberale e segretamemte super-massonico. Autore di un bestseller clamoroso (“Massoni”, edito da Chiarelettere) che svela il ruolo decisivo di 36 superlogge internazionali nel retrobottega di qualsiasi potere, nazionale e internazionale, con ramificazioni solidissime in tutti i centri decisionali anche italiani, dalla Banca d’Italia a Palazzo Chigi fino al Quirinale. Draghi, Monti, Napolitano: «Tutti massoni neo-aristocratici, protagonisti della crisi pilotata che ha segnato il declino del nostro paese sotto il ricatto artificioso dello spread». Il nostro paese: l’Italia stremata dal piduista Berlusconi e sabotata dal finto progressista Prodi, «globalizzatore in grembiulino». Venticinque anni di decadenza, «grazie a una regia occulta». Ebbene, nonostante ciò – questo il lieto annuncio, a fine 2014 – sarà proprio dall’Italia che partirà un riscatto popolare e democratico, in grado di cambiare l’Europa.Magaldi il sognatore, il poetico utopista? In capo a quattro anni, contro ogni previsione, nel 2018 proprio l’Italia “scodella” un nome come quello di Paolo Savona: per la prima volta, probabilmente, dal Trattato di Maastricht, un paese-cardine dell’Unione Europea candida come ministro dell’economia un oppositore dichiarato del sistema. Chi l’avrebbe detto? Attenzione: come da molti sottolineato, Paolo Savona non è un oppositore qualsiasi. Personalità autorevolissima, economista dell’establishment vicinissimo al massone Ciampi al momento di costruirla, l’Unione Europea. Un uomo capace di ripensamento: questa Europa così com’è non funziona. Non va bene per l’Italia, ma in fondo non va bene per nessuno, se alimenta risentimento e competitività interna. Rimettiamo la palla al centro, propone Savona: troviamo il coraggio di ridiscutere i termini dei trattati. Sotto la spinta di forti pulsioni euroscettiche, la Gran Bretagna – mai entrata nell’Eurozona, e rimasta a lungo nell’Ue in condizioni privilegiate – ha già abbandonato l’Unione Europea (ma c’è voluto un referendum estremamente sofferto, e dall’esito sorprendente e lacerante). Nulla di simile s’è mai visto in Germania o in Francia, dove Marine Le Pen si è limitata a una battaglia di principio contro Bruxelles, ben sapendo che sarebbe stato facile – per un massone conservatore come Macron – neutralizzare il Front National facendo leva sulla paura dei francesi.Contro ogni previsione – non di Magaldi, certo – il Rubicone l’ha varcato proprio l’Italia. Sono stati Matteo Salvini e Luigi Di Maio, paracadutati fra i tornanti di una vorticosa evoluzione della crisi post-elettorale, a tener duro – anche contro il Quirinale – sul nome del ministro “eretico”, di cui il potere finanziario europeo pare avere il terrore. Paolo Savona è diventato un totem: la possibilità del cambiamento. Le ultime settimane hanno preso in contropiede politici, elettori, istituzioni e mondo economico – ma non Magaldi: in fondo se l’aspettava, “sapeva” che l’Italia – e solo l’Italia – sarebbe stata capace di tornare al centro della politica europea. Il momento è drammatico: uno scontro istituzionale inaudito, con ripercussioni incalcolabili. Ma il costo di una “rivoluzione” è sempre meglio, in ogni caso, della morte lenta assicurata dallo status quo: la sovranità democratica non ha prezzo, vale più di qualsiasi stabilità momentanea perché può garantire benessere diffuso ed equità sociale, senza cui la società collassa. Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, indica l’esempio di Nino Galloni. Keynes, nel terzo millennio: investire sull’Italia, per uscire dalla crisi e dal ricatto della paura. In altre parole: il futuro. L’unico possibile. Nel bene e nel male, oggi l’Italia è al centro della scena europea. Volano parole inaudite, rivoluzionarie. Sembrano il germe di un risveglio, per tutta l’Europa. Nate dove? In Italia.Fidatevi: sarà l’Italia a cambiare l’Europa. Eresia pura, a prima vista. Tempi: non sospetti. Fine 2014, con il giovane Renzi insediato a Palazzo Chigi e pronto a recitare la sua mediocre particina teatrale, il dinamismo giovanilistico e solo cosmetico basato su riformette Merkel-compatibili, pre-formattate da Mario Draghi, Jp Morgan e colleghi. «Fidatevi: sarà l’Italia a cambiare l’Europa». Firmato: Gioele Magaldi, il visionario. Il massone dissidente, l’eretico, il fastidioso smascheratore di un sistema truccato, neoliberale e segretamemte super-massonico. Autore di un bestseller clamoroso (“Massoni”, edito da Chiarelettere) che svela il ruolo decisivo di 36 superlogge internazionali nel retrobottega di qualsiasi potere, nazionale e internazionale, con ramificazioni solidissime in tutti i centri decisionali anche italiani, dalla Banca d’Italia a Palazzo Chigi fino al Quirinale. Draghi, Monti, Napolitano: «Tutti massoni neo-aristocratici, protagonisti della crisi pilotata che ha segnato il declino del nostro paese sotto il ricatto artificioso dello spread». Il nostro paese: l’Italia stremata dal piduista Berlusconi e sabotata dal finto progressista Prodi, «globalizzatore in grembiulino». Venticinque anni di decadenza, «grazie a una regia occulta». Ebbene, nonostante ciò – questo il lieto annuncio, a fine 2014 – sarà proprio dall’Italia che partirà un riscatto popolare e democratico, in grado di cambiare l’Europa.
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L’opulenta macchina del fango di parassiti senza vergogna
Per una volta mi sforzerò di scrivere un articolo più breve in risposta ad una macchina del fango infinitamente più potente rispetto alla mia “penna”; breve, ma che esprime sincera solidarietà al professor Conte e soprattutto a M5S e Lega. Conte, diciamolo immediatamente, è a tutti gli effetti un politico, in quanto presentato da Di Maio come membro di quella potenziale squadra di governo che successivamente è stata votata dai cittadini il 4 marzo: una legittimazione più che sufficiente. Dalle mie parti usiamo dire “come la fai, la sbagli”: state certi, e lo dico pure col cuore, mettendo da parte un attimo quella “asettica professionalità” che un opinionista dovrebbe tenere, che chiunque Salvini e Di Maio avessero proposto come presidente del Consiglio (che non è un capo ma un “primo tra pari” perché non è un premier) non sarebbe andato bene a questa popò di servitù chiamata “stampa”, notoriamente mantenuta a cascata dall’“euromungitura”. Non solo! Conte non è un tecnico perché i tecnici sono legati a quei poteri forti che stanno operando per non vederlo in sella. Eppure il vero obbiettivo di questa campagna reazionaria ed oligarchica è Paolo Savona…L’economista è temuto per le proprie posizioni economiche, posizioni che non sono “euroscettiche”, come riferito erroneamente dalla combriccola dell’Ancien Régime (cui dobbiamo dire grazie per 40 anni di corruzione, macelleria sociale, parassitismo ed alto tradimento), bensì pro-italiani. E’ uomo di potere, certo, non è una novità politica; ma ben vengano figure di questo livello, rimaste indipendenti di fronte alle lusinghe del sistema finanziario internazionale (che ha in mano la nostra informazione), personalità che possano “dare del tu” e ricevere rispetto da Merkel e Macron. Come scrissi nel saggio che presentai alla Camera nel 2016 (collaborando con l’ex deputato 5S Massimiliano Bernini e con la deputata Ciprini), la stampa da “cane da guardia della democrazia” si è trasformata nel “dobermann del potere” (e forse non è casuale che il dobermann sia una razza tedesca). I media tuttavia stanno sottovalutando un fattore: non sempre i manipolatori delle emozioni umane vincono la partita. Sono certo che Lega e 5S abbiano accusato un contraccolpo in termini di consenso, in questi giorni; eppure allo stesso tempo spero che ai cittadini interessi altro: una ingente riduzione della pressione fiscale anche alla luce della tipologia di paese in cui viviamo(!); l’espulsione di tutti coloro, non profughi, che sono giunti e vogliono giungere in Italia senza un permesso di soggiorno, senza un contratto di lavoro “in tasca”; una reale flexicurity (flessibilità nei contratti unita a diritti sociali universali come il salario orario e il Reddito Minimo Garantito di Cittadinanza); il collocamento di una bella pietra tombale su corruzione, parassitismo e rendite speculativo-finanziarie, un salasso per il nostro paese.Pd e Silvio Berlusconi (Responsabili sì, ma del declino italiano!) non concederebbero mai riforme degne di questo nome; molto meglio per loro un paese di cittadini in difficoltà, perciò in svendita. Il “governo del cambiamento”, ricordo a lor signori, non ha mai parlato di “uscita dall’euro” (quanto mai opportuna) bensì di trattativa nell’interesse del nostro popolo, di rispetto della centralità della Costituzione: ciò significa centralità del nostro benessere. Gli altri paesi trattano e ottengono; all’Italia è vietato farlo perché chi ha preceduto il “governo del cambiamento” ha abituato i “partner” dell’Eurozona (in realtà competitors che non regalano niente) a una totale sottomissione, in cambio di quelle prebende personali che piovono dalla macchina finanziaria ad essi connessa. Il tutto mentre il cittadino è privato anche della dignità col combinato disposto “tasse, disoccupazione e assenza di diritti sociali universali”. L’ Articolo 1 è l’articolo fondamentale della Costituzione italiana; nel momento in cui venga dimostrato che qualche accordo internazionale generi perdita di posti lavoro (su cui siamo fondati), o/e macelleria sociale, è automaticamente anticostituzionale, si pone fuori dallo Stato di diritto e va ridiscusso finché non risulti coerente con la Carta, finché non si dimostri conveniente per gli interessi nazionali.Chi governa ha quindi l’obbligo istituzionale (non ha scelta) di aprire un tavolo con le altre nazioni; eppure questa prospettiva è ciò che soggetti multinazionali ed esteri non vogliono accada. L’articolo 1 recita che “la sovranità appartiene al popolo”, quindi essa non può emigrare e si esercita con il voto democratico, ergo non è possibile imporre “un Cottarelli” nel momento in cui la maggioranza del paese (5S e Lega) indichi un altro nome. La verità celata ai cittadini è che l’Italia, rispetto al proprio Pil, ha un livello di debito estero (peraltro generato proprio dalla moneta unica, a causa del rapporto-truffa di cui abbiamo GIA’ DETTO QUI già detto qui) più o meno pari a quello tedesco (vedi il “Sole 24 Ore”): per il resto è indebitata verso se stessa!!! Questo, unitamente alla solidità delle partite correnti, dovrebbe essere il criterio cui dovrebbero riferirsi (quando parlano di noi o di qualsiasi nazione al mondo) Fmi, Ue, Ue-M e i grandi giornalisti italiani e stranieri. Il famoso aumento dell’Iva, tanto desiderato dai parassiti cui dedico questo articolo, non serve nemmeno per idea a rendere sostenibili i conti pubblici, ma semmai a peggiorarli; genera un meccanismo (noto a tutti nell’ambiente economico) che, a cascata, trasferisce risorse dall’Italia a quelle banche private tedesche che devono essere salvate; e con esse emigra anche l’occupazione.Le cosiddette sinistre (italiane ed europee), i radicali, il noto possessore di grosse SpA e tutti i quotidiani (nessuno escluso, e domandatevi perché!) hanno dimostrato di essere pronti ad anteporre a milioni di cittadini i loro interessi privatistici (quando non addirittura aziendali) pur di portarci in un mondo globalista il quale, in nome di una finanza ordoliberista e di promesse fantasiose, renderebbe gli esseri umani pari a numerini privi di spinta individuale e creativa (privati della libertà). Concludo con una critica. In questa fase, se si vuole bene al proprio paese, di fronte a questo macello mediatico si ha l’onesto obbligo di rimanere compatti e non ci si presta alla strumentalizzazione, non ci si riposiziona politicamente (conosco i miei polli e ho sempre disprezzato l’opportunismo fino a non partecipare più alla politica attiva) anche se farlo, un domani, a qualcuno, potrebbe fare comodo. Soprattutto quando si ha ben chiaro che i nemici del popolo italiano non sono i leghisti ma ben altri…(Marco Giannini, “L’opulenta macchina del fango di parassiti senza vergogna”, pubblicato su “Libreidee” il 24 maggio 2018. Già attivista del Movimento 5 Stelle, Giannini è autore del saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, sottotitolo “Corso di sopravvivenza per chi non sa niente di economia”, edito da Andromeda nel 2015, presentato anche alla Camera. Nel gennaio 2017 Giannini si è distanziato dal movimento fondato da Grillo dopo la tentata adesione del M5S al gruppo ultra-europeista dell’Alde in seno al Parlamento Europeo).Per una volta mi sforzerò di scrivere un articolo più breve in risposta ad una macchina del fango infinitamente più potente rispetto alla mia “penna”; breve, ma che esprime sincera solidarietà al professor Conte e soprattutto a M5S e Lega. Conte, diciamolo immediatamente, è a tutti gli effetti un politico, in quanto presentato da Di Maio come membro di quella potenziale squadra di governo che successivamente è stata votata dai cittadini il 4 marzo: una legittimazione più che sufficiente. Dalle mie parti usiamo dire “come la fai, la sbagli”: state certi, e lo dico pure col cuore, mettendo da parte un attimo quella “asettica professionalità” che un opinionista dovrebbe tenere, che chiunque Salvini e Di Maio avessero proposto come presidente del Consiglio (che non è un capo ma un “primo tra pari” perché non è un premier) non sarebbe andato bene a questa popò di servitù chiamata “stampa”, notoriamente mantenuta a cascata dall’“euromungitura”. Non solo! Conte non è un tecnico perché i tecnici sono legati a quei poteri forti che stanno operando per non vederlo in sella. Eppure il vero obbiettivo di questa campagna reazionaria ed oligarchica è Paolo Savona…
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Sapelli: basta veti, Mattarella rispetti il voto degli italiani
Di Maio lo ha definito «l’italiano senza santi in paradiso». Avrebbe già dovuto ricevere l’incarico dal capo dello Stato di formare il nuovo governo, ma per ora non se ne parla. Giuseppe Conte è sotto la lente del Quirinale, che ha preso tempo per riflettere sulle credenziali del giurista e per tranquillizzare l’Europa e i “mercati”. «Il caso Conte assomiglia molto all’ennesima manovra per non far partire questo governo», dichiara l’economista Giulio Sapelli, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Per Sapelli, occorre non cedere al ricatto dei “mercati”, chiamandoli per nome e scegliendo di stare dalla parte delle gente. Ma non lo fanno né l’Europa, né chi attualmente comanda in Italia. Mattarella ha consultato i presidenti di Camera e Senato, prendendo altro tempo. «Non capisco perché», protesta Sapelli: «Avrebbe già dovuto mandare Di Maio in Parlamento, come si faceva nella Prima Repubblica». Un messaggio al Qurininale: «Prima ancora del rispetto della Costituzione – dice Sapelli – bisognerebbe comportarsi secondo la regola del buon padre di famiglia: questa mancanza di fiducia nelle persone e nel voto popolare è grave e preoccupante».Ci sarebbero perplessità anche su Paolo Savona, che la Lega vorrebbe come ministro dell’economia: le sue posizioni critiche sull’euro (e la Germania) hanno messo in allarme Bruxelles e il Colle. «Ma per favore», taglia corto Sapelli: «Il professor Savona gode di una stima universale, gli basterebbe alzare il telefono per parlare con tutti i banchieri centrali del mondo. Lo conosco da trent’anni e posso assicurare che è un grande servitore di questo paese. Anzi, lo vedrei benissimo come premier». Evidentemente c’è qualcuno che non si fida. «Mai come in queste ore – aggiunge Sapelli – bisognerebbe invece agire con benevolenza: senza fiducia e benevolenza, la politica muore. E la società anche». La polemica sui “tecnici” al governo? «Lega e M5S parlano di premier tecnico molto impropriamente», dice Sapelli. «Ogni cosiddetto tecnico ha anche una visione politica. Se dice di non averla, mente e rappresenta quella di qualcun altro». Secondo l’economista, «si è rotto il rapporto tra intellettuali e popolo, come diceva Pasolini, perché i grandi partiti di massa si sono estinti». Come si può ricostruirlo? «Con la propria voce, con i social. Non è protagonismo, ma ricerca di un rapporto con l’opinione pubblica, che non abbiamo più». E cosa c’è al suo posto? «Giornali che rappresentano gruppi di interesse e di potere esterni».Sempre secondo Sapelli. «la parola “mercati” andrebbe bandita, insieme a quella di “populismo”. Come diceva Federico Caffè, i mercati hanno un nome, un cognome e spesso anche un soprannome. Quando sento parlare di “mercati” – aggiunge – ho paura che ritornino cose terribili che in parte conosciamo». Monti, il fantasma (pilotato) dello spread: il pretesto per spolpare il paese. «Chi asseconda l’allarme dei mercati mi fa venire in mente il discorso di Franz Neumann negli anni Trenta sul controllo politico dell’angoscia: e l’angoscia porta a destra, al fascismo, alla mentalità autoritaria, anche all’antisemitismo», accusa Sapelli. Le agenzie di rating? «Fanno gli interessi di quattro-cinque grandi banche di investimento speculativo e rappresentano istanze che vogliono danneggiare il paese. Le istituzioni dovrebbero dire questo, in Europa e in Italia: parlare alla gente, prendere per mano il popolo e pacificarne gli animi. Invece li eccitano, gli animi, spesso gli uni contro gli altri». Si sono fatte sentire anche le autorità europee: sui conti pubblici non si scherza. E’ vero, ribatte Sapelli, ma quelle «sono espressioni di una volontà di dominio antidemocratico».L’austerity, i poteri europei: «Il problema vero è che l’Europa si sta disfacendo, sotto i colpi non dei cannoni ma della progressiva occupazione di spazi di potere nella Ue e all’interno della macchina tecnocratica e burocratica europea», continua il professore. «In quanti sanno chi è Martin Selmayr, che da portavoce di Juncker si è ritrovato segretario generale della Commissione? Eppure è a capo di un esercito di più di 20mila funzionari e controlla le leve delle nostre vite». Sapelli aggiunge due osservazioni: la prima è che il popolo italiano ha eletto Di Maio, la seconda è che le istituzioni responsabilizzano, educano. «E perciò do fiducia anche al giovane Di Maio. Del resto, se qualcuno ha dato fiducia a Marianna Madia e nessuno ha battuto ciglio, perché non darla a Di Maio?». Pare che Salvini intenda fare muro su Savona: o va all’economia o salta tutto. «Se è così, fa bene. Se il nome fosse rifiutato si aprirebbe una faglia gravissima tra il presidente della Repubblica e il Parlamento». Resterebbe solo il voto. «Forse, nello stato in cui siamo, sarebbe la soluzione migliore». Con questa legge elettorale? «Non se ne possono fare altre. Per fare una legge elettorale seria ci vorrebbero dei partiti veri, con una cultura politica e di governo».Di Maio lo ha definito «l’italiano senza santi in paradiso». Avrebbe già dovuto ricevere l’incarico dal capo dello Stato di formare il nuovo governo, ma per ora non se ne parla. Giuseppe Conte è sotto la lente del Quirinale, che ha preso tempo per riflettere sulle credenziali del giurista e per tranquillizzare l’Europa e i “mercati”. «Il caso Conte assomiglia molto all’ennesima manovra per non far partire questo governo», dichiara l’economista Giulio Sapelli, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Per Sapelli, occorre non cedere al ricatto dei “mercati”, chiamandoli per nome e scegliendo di stare dalla parte delle gente. Ma non lo fanno né l’Europa, né chi attualmente comanda in Italia. Mattarella ha consultato i presidenti di Camera e Senato, prendendo altro tempo. «Non capisco perché», protesta Sapelli: «Avrebbe già dovuto mandare Di Maio in Parlamento, come si faceva nella Prima Repubblica». Un messaggio al Qurininale: «Prima ancora del rispetto della Costituzione – dice Sapelli – bisognerebbe comportarsi secondo la regola del buon padre di famiglia: questa mancanza di fiducia nelle persone e nel voto popolare è grave e preoccupante».
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Addio rondini: clima, il Sahara avanza e ferma i migratori
Vola sulle ali delle rondini il meraviglioso romanzo “Il viaggiatore notturno”, Premio Strega 2005, nel quale il poetico irundologo immaginato da Maurizio Maggiani scommette sulla memoria ancestrale della Terra: vuoi vedere che i piccoli migratori sostano ancora nel deserto algerino, dopo migliaia di anni, perché “si ricordano” che quelle lande bruciate dal sole erano state, un tempo, un vero e proprio paradiso umido, ricco di lagune e insetti? Il problema, oggi, è che la “memoria” delle rondini potrebbe non bastare più, da quando – a causa del surriscaldamento climatico – il Sahara ha preso ad avanzare anche verso Sud, estendendo in modo pericoloso l’habitat proibitivo del deserto: troppi chilometri, senza più la possibilità di rifornirsi di cibo durante l’immensa fatica della migrazione stagionale. Risultato: potremmo dire addio, per sempre, alla presenza delle rondini nei nostri cieli. «Le nostre amate rondini, come anche il balestruccio e il topino, stanno diminuendo a ritmo costante», avverte Marco Gustin, ricercatore della Lipu: «Il deserto Transahariano è la loro casa invernale che, per il riscaldamento globale, si sta allargando verso Sud. Quindi, raggiungere i luoghi dove svernare è sempre più faticoso: le distanze tra Sahara ed Europa aumentano e gli uccelli nel percorso consumano preziose energie. Tanto che molti non sopravvivono, soprattutto le nuove generazioni».E’ sempre più difficile la convivenza tra uomo e natura, ammette Valentina Venturi su “Repubblica”. «Il campanello d’allarme risuona inascoltato per gli uccelli migratori, i grandi viaggiatori della Terra, che di anno in anno diminuiscono, in maniera inesorabile. Vivono letteralmente la fatica di essere migranti». Negli ultimi anni, osservano gli ornitologi, ben 200 specie di volatili nomadi sono state classificate come globalmente minacciate, mentre il 40% delle specie migratrici sono in diminuzione. Le migrazioni sono a ciclo continuo, e le rondini non fanno eccezione: vivono in Africa dalla metà di ottobre alla metà di marzo, mentre nei restanti sei mesi migrano verso l’Europa. Tra le principali cause del flusso migratorio ci sono «la perdita e il degrado dell’habitat, il rischio di collisione con le turbine eoliche e le linee elettriche posizionate in modo sbagliato, l’eccessivo sviluppo non sostenibile delle risorse naturali e ovviamente l’uccisione e la cattura illegale di volatili». Ma il massimo comun denominatore di questa vera e propria ecatombe, aggiunge Venturi, è proprio il riscaldamento globale del pianeta.Un’emergenza ricordata dalla campagna globale di sensibilizzazione e educazione sostenuta dall’Onu per la Giornata mondiale degli uccelli migratori, che pone l’accento sulla necessità di una cooperazione internazionale. «Gli uccelli migratori connettono persone, ecosistemi e nazioni. Sono simboli di pace e di un pianeta unito: i loro epici viaggi ispirano persone di tutte le età, in tutto il mondo», sottolinea il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. «C’è da dire – conclude Marco Gustin – che il processo è quasi irreversibile: siamo noi uomini la causa di questo dramma ambientale. Occupiamo ogni giorno più spazio fisico, riducendo le zone naturali a disposizione della flora e della fauna. Solo in Italia siamo 60 milioni di persone che volenti o nolenti incidono sull’ambiente. Più cresceremo senza rispettare la natura e più il pianeta ne risentirà». Spariranno un giorno anche le rondini? Nel “Viaggiatore notturno”, sono gli uccelli a “ricordarsi” di com’era la Terra. Verrà un giorno in cui saranno gli uomini a poter solo ricordare gli uccelli migratori, minuscoli ed eroici testimoni di un pianeta verde, estintosi insieme a loro?Vola sulle ali delle rondini il meraviglioso romanzo “Il viaggiatore notturno”, Premio Strega 2005, nel quale il poetico irundologo immaginato da Maurizio Maggiani scommette sulla memoria ancestrale della Terra: vuoi vedere che i piccoli migratori sostano ancora nel deserto algerino, dopo migliaia di anni, perché “si ricordano” che quelle lande bruciate dal sole erano state, un tempo, un vero e proprio paradiso umido, ricco di lagune e insetti? Il problema, oggi, è che la “memoria” delle rondini potrebbe non bastare più, da quando – a causa del surriscaldamento climatico – il Sahara ha preso ad avanzare anche verso Sud, estendendo in modo pericoloso l’habitat proibitivo del deserto: troppi chilometri, senza più la possibilità di rifornirsi di cibo durante l’immensa fatica della migrazione stagionale. Risultato: potremmo dire addio, per sempre, alla presenza delle rondini nei nostri cieli. «Le nostre amate rondini, come anche il balestruccio e il topino, stanno diminuendo a ritmo costante», avverte Marco Gustin, ricercatore della Lipu: «Il deserto Transahariano è la loro casa invernale che, per il riscaldamento globale, si sta allargando verso Sud. Quindi, raggiungere i luoghi dove svernare è sempre più faticoso: le distanze tra Sahara ed Europa aumentano e gli uccelli nel percorso consumano preziose energie. Tanto che molti non sopravvivono, soprattutto le nuove generazioni».
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Magaldi: imbecilli a reti unificate minacciano Lega e 5 Stelle
Imbecilli: lasciano credere che il debito dello Stato sia come quello della tabaccheria sotto casa, esposta con la banca. Imbecilli pericolosi: perché scrivono sui giornali e parlano ogni sera in televisione. Somari in buona fede, disastrosamente ignoranti, o vecchi marpioni in malafede? «Non so cosa sia peggio», dice Gioele Magaldi: una persona intelligente puoi sempre persuaderla, mentre di fronte a un cretino non ci sono speranze. Gli imbecilli di turno? Quelli che cercano di spaventare gli italiani, bocciando le “mirabolanti promesse” dell’ipotetico governo gialloverde di Salvini e Di Maio. Lega e 5 Stelle, in realtà, stanno terrorizzando solo l’establishment: i professori della catastrofe, i notai dell’infame declino del paese. Le loro ricette hanno devastato l’Italia, eppure insistono: bisogna tagliare redditi e consumi, senza capire che – per quella strada, se il Pil non cresce – poi a esplodere è proprio il debito, inevitabilmente. «Arriva a comprenderlo anche un mediocre studente di economia, ma non gli imbecilli che ci parlano ogni giorno sui giornali e in televisione», dice Magaldi, in una diretta web-streaming su YouTube con Marco Moiso, in cui rilancia un nome fortissimo per Palazzo Chigi: quello dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt.
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Sì, la Bce può assorbire il debito: chi lo nega è un cialtrone
Perché la Bce può benissimo cancellare 250 miliardi. E chi lo nega è ignorante o in malafede, sostiene Maurizio Blondet, ricordando che il motivo lo ha spiegato – in un articolo del giugno 2013 – Paul De Grauwe, attualmente docente alla John Paulson Chair in European Political Economy, nella London School of Economics, già membro del Parlamento belga dal 1991 al 2003, autore di ricerche e libri fondamentali sulla politica monetaria, di cui è considerato fra le massime autorità. De Grauwe rispose al governatore Jens Weidmann della Bundesbank, la banca centrale tedesca, che s’era appellato alla Corte Costituzionale di Berlino, sostenendo che gli acquisti a palate di titoli di debito pubblico dei paesi dell’Eurozona che sta operando la Bce, esponevano i contribuenti tedeschi al rischio di dover pagare con le tasse le “perdite” che avrebbe subito la Bce in caso di insolvenza di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. «De Grauwe mostra che la Bundesbank è ignorante, come quasi tutti gli economisti italiani (e non parliamo dei giornalisti) a ventilare una simile spaventosa ipotesi». Il motivo: «Applicano alle banche centrali i criteri di solvibilità e insolvenza di una banca privata, o di una qualsiasi impresa privata», sottolinea Blondet nel suo blog, ricordando che una banca centrale – prestatore di ultima istanza – non può mai “fallire”, potendo emettere denaro in modo illimitato.«Il livello di confusione è così alto – scrisse De Grauwe – che il presidente della Bundesbank si è rivolto alla Corte Costituzionale tedesca sostenendo che il programma Omt della Bce esporrebbe i cittadini tedeschi al rischio di dover pagare tasse per coprire potenziali perdite generate dalla Bce». Una paura «mal posta», perché mentre le società private «si ritengono solvibili quando il valore del loro patrimonio netto è positivo, ossia quando il valore dei loro asset è superiore a quello del debito», questi stessi “vincoli di solvibilità” «non dovrebbero essere applicati alle banche centrali», visto che queste ultime «non possono fallire», dal momento che una banca centrale «può emettere tutta la moneta che vuole e chi le serve per ripagare i suoi “creditori”». E chi sono i creditori della banca centrale? Sono «i detentori della sua moneta». Per la banca centrale, il loro “ripagamento” «consisterebbe semplicemente nel sostituire la moneta vecchia con moneta nuova». Non siamo più nel sistema del tallone aureo, quando una banca centrale prometteva di convertire la moneta che emetteva in oro. E quindi, «al contrario delle società private, i debiti delle banche centrali non rappresentano un diritto sugli asset delle banche centrali». Quindi, «la sola promessa che una banca centrale fa al mercato è che il denaro sarà convertibile in un paniere di beni e servizi a un prezzo più o meno fisso. In altri termini, la banca centrale fa una promessa di stabilità dei prezzi. Tutto qui».La banca centrale può assorbire qualsiasi perdita, a patto che questa perdita non comprometta la stabilità dei prezzi. Non è nemmeno corretto affermare che la banca centrale ha bisogno di mantenere un patrimonio netto positivo per “restare solvibile”, sottolinea Blondet. Ma visto che qualcuno ancora non capisce, De Grauwe spiega di nuovo: la banca centrale (che non può fallire) non ha bisogno di alcun sostegno fiscale dal governo (che invece può fallire). L’unico sostegno di cui la banca centrale necessita da parte del governo è che essa possa mantenere il monopolio sull’emissione di moneta in tutto il territorio su cui ha giurisdizione. Una volta che abbia quel potere, la banca centrale è libera da ogni limite di solvibilità. Chiarito ciò, De Grauwe illustra il caso più semplice: quello di una banca centrale che emetta moneta per un solo Stato, anche comprando buoni del Tesoro. «Acquistando i titoli di debito statali, la banca centrale trasforma la natura del debito pubblico. Quando la banca centrale compra il debito del proprio governo, il debito viene trasformato: il debito governativo, che porta con sé un tasso di interesse e un rischio di default, diventa una passività della banca centrale (base monetaria); che è priva di rischio default, ma soggetta a rischio di inflazione».Per capire cosa sia questa trasformazione, e come agisca nel bilancio, supponiamo che banca centrale e governo siano tutt’uno (come dopotutto sono: due rami separati del settore pubblico, ed erano prima del “divorzio” fra Tesoro e Bankitalia). Attenzione, aggiunge Blondet, perché qui troviamo spiegato perché 250 miliardi di debiti possono essere “cancellati”. «Dopo la trasformazione, il debito governativo detenuto dalla banca centrale viene cancellato. Esso è un attivo in un ramo dello Stato (la banca centrale) e un passivo nell’altro ramo (il governo). Quindi, scompare». E non è finita: «La banca centrale può ancora tenerlo a bilancio [come fa la Bce coi nostri 250 miliardi], ma esso non ha più alcun valore economico. Di fatto la banca centrale può sbarazzarsi di questa finzione ed eliminarla dal suo bilancio, e il governo può quindi eliminarlo dall’ammontare del suo debito. Esso non ha più valore – scrive De Grauwe – in quanto è stato rimpiazzato da una nuova forma di debito, ossia la moneta, che comporta un rischio inflattivo, ma non un rischio di default». Dunque non ha senso – come voleva far credere la Bundesbank – che le banche centrali, quando il prezzo di mercato dei titoli di Stato scende, ci perdano.«Se ci fosse una perdita per la banca centrale, sarebbe compensata alla pari da un guadagno equivalente da parte del governo (perché il valore di mercato del suo debito è sceso in uguale proporzione). Non ci sono perdite per il settore pubblico». Chiaro, no? Sottolinea De Grauwe: «Quando una banca centrale ha acquisito titoli di Stato, un declino nel prezzo di mercato di questi titoli non ha alcuna conseguenza fiscale», perché la perdita in un ramo (la banca centrale) è compensata dal profitto nell’altro (lo Stato). «Un altro modo di vedere questo effetto è guardare ai flussi degli interessi sottostanti ai titoli pubblici». Esempio: la banca centrale ha comprato un miliardo di euro in titoli di Stato. «Questi hanno una cedola, diciamo, del 4%. Perciò la banca centrale che ha in portafoglio i titoli riceve 40 milioni di euro all’anno da parte del governo. Nella pratica della contabilità, questo viene contato come un profitto per la banca centrale. Alla fine dell’anno, la stessa banca centrale girerà i propri profitti al governo stesso». Assumendo che il costo marginale della gestione di questi bond sia pari a zero, la banca centrale girerà al governo i 40 milioni di euro. «E’, per così dire, la mano sinistra che paga la mano destra». La classica partita di giro.«La tecnicalità della tenuta dei libri contabili ha potuto far credere a qualcuno che tali interessi siano signoraggio (ossia profitto per la banca centrale), ma non lo sono», assicura De Grauwe, che spiega: «Non c’è alcun profitto, nel settore pubblico: il profitto della banca centrale è esattamente compensato da una perdita del governo». Capito? L’economista vuol essere ancora più chiaro. «L’uno e l’altra potrebbero eliminare questa convenzione contabile perché in queste perdite e profitti non c’è alcuna sostanza economica». Detto in modo ancora più esplicito: «La Bce può distruggere i titoli di Stato, senza nessuna perdita». Ma, probabilmente temendo che questo sia al di sopra delle possibilità intellettuali del governatore Weidmann della Bundesbank (e degli eurocrati in genere) il belga insiste: «E’ letteralmente vero che la banca centrale potrebbe distruggere i titoli di Stato nel trituratore della carta: niente sarebbe perduto». Nel famoso esempio, «la banca centrale non riceverebbe più 40 milioni di euro l’anno, e non dovrebbe più girarli al governo ogni anno». E cosa succede se il governo fa default sui suoi bond in scadenza? Il default causa certamente delle perdite ai detentori privati dei titoli. Ma, attenzione, «è irrilevante per i titoli detenuti dalla banca centrale: infatti essi adesso non valgono più nulla, ma erano già privi di valore anche prima del default. Si tratta della mano destra che paga la sinistra». In altre parole: «Per il settore pubblico, non è successo nulla. Perciò la perdita della banca centrale a causa del default non ha alcuna conseguenza fiscale».Nel caso dell’Eurozona le cose sono più complesse. Ma all’osso, la sostanza non cambia: le funzioni restano le stesse. Altro esempio: la Bce acquista 1 miliardo di titoli spagnoli a un tasso del 4%. Le conseguenze fiscali sono le seguenti: la Bce riceve 40 milioni di euro in interessi annuali dal Tesoro spagnolo e restituisce questi 40 milioni di euro non alla sola Spagna, ma a tutte le banche centrali nazionali dell’Eurozona; la distribuzione avviene proporzionalmente alla quota di capitale nella Bce. La banca centrale nazionale trasferisce quanto ricevuto al proprio Tesoro nazionale. Per esempio, la Bce trasferirà l’11.9% dei 40 milioni al Banco de España. Il resto andrà alle banche centrali degli altri paesi membri. Chi riceverà di più è la Bundesbank tedesca; che con una quota di capitale del 27.1%, riceverà quindi 10.8 milioni di euro. Ecco perché, all’inizio del discorso, De Grauwe spiega che, anziché essere danneggiati, «i tedeschi sono i principali beneficiari del programma di acquisti di debiti pubblici avviato da Draghi». L’effetto paradossale è questo: in un’unione monetaria che non è anche un’unione fiscale, un programma di acquisto di titoli di Stato «porta a un trasferimento annuale dai paesi i cui titoli vengono acquistati verso tutti gli altri», cioè dai paesi più indebitati e poveri a quelli non indebitati e ricchi. Che altro serve per dimostrare perversione del sistema euro?Perché la Bce può benissimo cancellare 250 miliardi. E chi lo nega è ignorante o in malafede, sostiene Maurizio Blondet, ricordando che il motivo lo ha spiegato – in un articolo del giugno 2013 – Paul De Grauwe, attualmente docente alla John Paulson Chair in European Political Economy, nella London School of Economics, già membro del Parlamento belga dal 1991 al 2003, autore di ricerche e libri fondamentali sulla politica monetaria, di cui è considerato fra le massime autorità. De Grauwe rispose al governatore Jens Weidmann della Bundesbank, la banca centrale tedesca, che s’era appellato alla Corte Costituzionale di Berlino, sostenendo che gli acquisti a palate di titoli di debito pubblico dei paesi dell’Eurozona che sta operando la Bce, esponevano i contribuenti tedeschi al rischio di dover pagare con le tasse le “perdite” che avrebbe subito la Bce in caso di insolvenza di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. «De Grauwe mostra che la Bundesbank è ignorante, come quasi tutti gli economisti italiani (e non parliamo dei giornalisti) a ventilare una simile spaventosa ipotesi». Il motivo: «Applicano alle banche centrali i criteri di solvibilità e insolvenza di una banca privata, o di una qualsiasi impresa privata», sottolinea Blondet nel suo blog, ricordando che una banca centrale – prestatore di ultima istanza – non può mai “fallire”, potendo emettere denaro in modo illimitato.