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Atlantide, la scienza convalida Platone: cataclisma nel 9500
Aveva ragione Platone: Atlantide esisteva davvero e fu sommersa dall’oceano attorno al 9.600 avanti Cristo. La causa? L’impatto di una “pioggia cometaria” catastrofica. A confermarlo non è l’archeologia, ma la geologia: grazie a Richard Firestone e James Kennett, ora sappiamo che il pianeta fu sconvolto da una sequenza impressionante di cataclismi di origine cosmica, come dimostrano i sedimenti di nano-diamanti “extraterrestri” rinvenuti nelle aree degli impatti. Nel “Crizia” e nel “Timeo” il sommo filosofo greco aveva parlato di una civiltà superiore, preesistente alla nostra, spazzata via da una specie di diluvio universale? E’ andata proprio così, dicono i geologi dal 2014 a questa parte. O meglio: gli scienziati spiegano che proprio 12.000 anni fa – nel periodo indicato da Platone – ci fu un azzeramento planetario. E questo spiazza gli archeologi, che ancora si ostinano a far risalire le nostre origini a un’epoca assai più recente, benché vengano smentiti, di giorno in giorno, dalle scoperte della “rivoluzione archeologica” ormai in atto, difficilmente arrestabile. Lo sostiene Graham Hancock, massimo divulgatore mondiale in materia. E lo sottolinea Nicola Bizzi, autore dell’originalissimo saggio “Da Eleusi a Firenze”.Il lavoro di Bizzi, edito da Aurora Boreale, conferma in modo impressionante come le ultime rivelazioni scientifiche non siano mai state un segreto per gli iniziati ai “misteri eleusini”, comunità di cui lo stesso Bizzi fa parte, per via familiare, essendo stata ben radicata – sottotraccia – nella fiorentissima Firenze dei Medici. Il cosiddetto “mito” eleusino nasce alle porte di Atene, quando la dea Demetra – ultima discendente dei Titani, sconfitti dagli dei olimpici – mette a parte i seguaci del “segreto” dell’origine umana: saremmo stati “fabbricati” dalle divinità titaniche come Poseidone. Da allora (1300 avanti Cristo), il santuario di Eleusi diventa il presidio di questa “verità misterica”, custodita dai sacerdoti di Demetra, eredi di quell’antica rivelazione. Suggestioni vertiginose: per volere di Augusto, il poeta Virgilio celebra la nascita di Roma ad opera di Enea, ultimo eroe di Troia. La guerra omerica dell’“Iliade” sarebbe la traccia letteraria della resa dei conti finale tra i Titani e Zeus, di cui parla anche Esiodo nella sua “Teogonia”.Attenti ai simboli: per la tradizione misterica, la stessa Demetra arrivò a Eleusi partendo da Enna, in Sicilia. In queste tre fonti (Omero, l’“Eneide” e il culto eleusino) ricorre la radice “En’n” (inizio). Non casuale, quindi, il nome di Enea: il troiano fondatore di Roma sarebbe stato l’erede della civiltà “atlantidea”, estesasi nel Mediterraneo prima del grande cataclisma “cometario” che stravolse la Terra. Ma in realtà, anziché “atlantidea”, quella civiltà-madre (nord-atlantica e poi anche minoica, basata a Creta e poi in tutto l’Egeo fino all’Asia Minore) era chiamata “ennosigea”, dal nome di una delle principali di quelle sette macro-isole, chiamata appunto En’n. Questa possibile verità parallela – tranquillamente esposta da Platone – fu tollerata per quasi duemila anni, fino allo sciagurato Editto di Tessalonica del 380 dopo Cristo, quando l’imperatore Teodosio trasformò il neonato Cristianesimo in religione di Stato, l’unica autorizzata, mettendo fuorilegge tutte le altre e dando il via alla feroce persecuzione del paganesimo.A partire da quell’anno, scrive Bizzi nel suo affascinante saggio, tutti i templi eleusini fuorno distrutti – tranne quello di Eleusi, che venne semplicemente abbandonato. Da allora, la “comunità eleusina” si rassegnò a sopravvivere in clandestinità, con esiti spesso clamorosi come il Rinascimento italiano, promosso da principi illuminati del calibro di Lorenzo il Magnifico, espressione della tradizione eleusino-pitagorica. Stando a Bizzi, in possesso di documenti inediti e gelosamente conservati per secoli, erano “eleusini” anche i grandi architetti della Roma rinascimentale, ingaggiati dai Papi medicei. E sempre a Firenze, alla fine del Trecento, si svolse il più incredibile dei summit: alla corte dei Medici si sarebbero confrontati i rappresentati vaticani e persino gli emissari del Celeste Impero cinese, per decidere se e come diffondere la notizia della spedizione navale dello scozzese Henry Sinclair, conte delle Orcadi, sbarcato in America (cent’anni di prima di Colombo) con 40 navi templari sulle coste del Rhode Island.Siamo alla vigilia di scoperte sensazionali sulla vera storia della nostra civiltà? Certo non ci è d’aiuto l’archeologia ufficiale, scrive Bizzi in un’accurata ricostruzione su Facebook, in cui spiega le ragioni dell’assurda reticenza della disciplina archeologica accademica, oggi quotidianamente scavalcata dai nuovi ricercatori, archeologi e non, disposti a procedere incrociando i loro dati con quelli dei geofisici, dei climatologi, dei paleontologi, degli astrofisici. «Considerata in passato come scienza ausiliaria della storia, adatta a fornire documenti materiali per quei periodi non sufficientemente illuminati dalle fonti scritte – ragiona Bizzi – l’archeologia è stata sempre considerata come una delle quattro branche dell’antropologia (insieme all’etnologia, la linguistica e l’antropologia fisica)». I suoi difetti? «Ottusità, malafede, e soprattutto anti-scientificità». Dice Bizzi: «È doloroso doverlo affermare, ma l’archeologia è oggi una delle poche discipline scientifiche (o con pretesa di scientificità) che non procedono secondo un metodo “scientifico”».Una disciplina, l’archeologia, «corrosa e inquinata da pesanti rivalità professionali, da miopia e da ristrettezza di vedute», nonché «minata da una cronica mancanza di fondi per gli scavi e per la preservazione del patrimonio finora scoperto». Soprattutto, «anziché comportarsi da vera disciplina “complementare”, come dovrebbe essere», l’archeologia «si rifiuta di accettare i dati di supporto della geologia, della chimica, della biologia, dell’astronomia e di altre discipline, e resta chiusa in sé stessa e nel suo immobilismo». Risultato: «Tutte le scoperte “scomode”, che rischiano di alterare o stravolgere il “paradigma” comunemente accettato, vengono sistematicamente nascoste, occultare: ne viene negata la pubblicazione e la conoscenza da parte dell’opinione pubblica». Così, a forza di “questo non si può dire”, il sapere «si riduce a dogma di fede». Nel testo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, lo storico della scienza Thomas Kuhn definisce il paradigma scientifico «un risultato universalmente riconosciuto che, per un determinato periodo di tempo, fornisce un modello e soluzioni per una data comunità di scienziati».Solo le discipline più mature, non a caso, possiedono un paradigma stabile, osserva Bizzi. «E il paradigma prevalente rappresenta spesso una forma specifica di vedere la realtà o le limitazioni di proposte per l’investigazione futura». In altre parole, «un freno e un limite talvolta inaccettabile». Lo stesso Hancock, parlando di “paradigma archeologico”, sostiene che l’archeologia ortodossa si basa su «presupposti aprioristici riguardo a ciò che accadde in passato», e li usa come pretesto «per non effettuare indagini ad ampio raggio su ciò che effettivamente accadde». Scarsa cultura, stupidità o malafede? E’ Kuhn il primo a sostenere che, in modo complementare, «una rivoluzione scientifica sia necessariamente caratterizzata da un cambiamento di paradigma». E questa “rivoluzione”, archeologica e non solo, secondo Bizzi è ormai in corso da vent’anni. Cambio di paradigma, appunto: «Benché persistano all’interno degli ambienti accademici una grande miopia e una malcelata ottusità, stiamo assistendo fortunatamente ad un ricambio generazionale, alla crescita professionale e all’avvento di una nuova generazione di giovani storici e archeologi con uno spettro di vedute un po’ più ampio della precedente, e soprattutto con più determinazione e con una maggiore apertura verso la multidisciplinarietà».Certo, «sono ancora pochi quelli disposti a rischiare, magari a compromettere le loro carriere pur di portare avanti teorie innovative». Ma comunque «quei pochi ci sono, e sono sempre di più». Aggiunge Bizzi: «Questa rivoluzione è ormai partita e ritengo che niente possa più fermarla». Un dato sicuramente a favore dei pochi coraggiosi “pionieri” di questo nascente revisionismo storico-archeologico – spiega Nicola Bizzi – è sicuramente il rinnovato interesse da parte dell’opinione pubblica, indubbiamente favorito dall’avvento e dalla diffusione di Internet, che ha potenzialmente ampliato in maniera esponenziale l’accesso ai dati e alle notizie. «Inoltre, grazie alla pubblicazione e alla diffusione a livello mondiale di libri rivoluzionari di studiosi come Robert Bouval, Graham Hancock, John Antony West, Alan Alford, e alla nascita di importanti testate giornalistiche e riviste specializzate a larga diffusione, come l’italiana “Archeomisteri”, sta sempre più crescendo nell’opinione pubblica l’interesse per l’archeologia, e soprattutto la voglia di sapere, di conoscere, di non limitarsi alle apparenze e alle verità ufficiali e di comodo».Bizzi cita il ricercatore italiano Mauro Quagliati, secondo cui «la rivoluzione archeologica parte dall’Egitto». È infatti proprio grazie a tutta una serie di nuove scoperte inerenti alla Sfinge e alle piramidi, che questa “rivoluzione” ha potuto finalmente aprirsi un varco nell’immobilità degli accademici. Nonostante le negazioni a oltranza di certe “autorità”, proprio dall’Egitto sono emersi dei dati estremamente importanti. Recenti scoperte hanno dimostrato ad esempio, con il supporto della geologia, che la Sfinge è stata scolpita non meno di 12.000 anni fa. Il suo corpo è stato infatti eroso da millenni di piogge tropicali, quando l’Egitto aveva un clima ben diverso dall’attuale. Molte altre nuove scoperte tenderebbero a datare alla stessa epoca le tre piramidi di Giza, il Tempio della Valle e molti altri monumenti egizi. «A chi mi chiede se la mitica Atlantide descritta da Platone sia realmente esistita o se si tratti solo di una leggenda – scrive Bizzi – solitamente ribadisco che prima di rispondere dobbiamo partire dalla constatazione di quella che è una realtà oggettiva: la storia della civiltà umana sulla Terra si spinge molto più indietro nel passato di quanto ci venga oggi insegnato sui banchi di scuola».Fino a pochi anni fa, il passato dell’uomo sembrava non avere misteri: sulla base di alcuni rinvenimenti gli scienziati credevano di poter stabilire, a grandi linee, la storia della nostra evoluzione, di essere in grado cioè di seguire lo sviluppo della civiltà attraverso le Età della Pietra, del Bronzo e del Ferro. Ma lo schema fissato da questi studiosi era troppo semplicistico per rispecchiare la realtà. Lo dimostrarono migliaia di successive scoperte che, lungi dal completare il mosaico, lo ampliarono, estendendone le tracce in ogni direzione e rendendolo più incomprensibile che mai. «Oggi ci troviamo di fronte a tracce di grandi culture fiorite in epoche che avrebbero dovuto essere caratterizzate da un’assoluta primitività, almeno secondo le teorie canoniche della “scienza ufficiale”. Segni evidenti ci attestano l’esistenza di importanti baluardi di civiltà là dove non li avremmo mai sospettati». In sostanza, «oggi gli storici e gli scienziati avrebbero in mano dati, nozioni e prove ormai certe tali da poter retrodatare di migliaia di anni la storia della civiltà umana», come dimostra la rivoluzionaria scoperta di Göbekli Tepe, nella Turchia orientale: un sito archeologico imponente e straordinario, fino ad oggi solo in minima parte portato alla luce, la cui datazione ufficiale si attesta oltre il 9.500 avanti Cristo.Per non parlare di altri siti come quello bosniaco di Visoko, le cui impressionanti piramidi sono state datate addirittura al 29.000 avanti Cristo. «Penso sinceramente che, se non assisteremo a una “manipolazione” di questa rivoluzione archeologica – sostiene Bizzi – il castello di carte degli storici accademici sia destinato inesorabilmente a crollare». Sarà allora, aggiunge lo storico, che il “paradigma” sarà finalmente rovesciato. Quel giorno, «la verità inizierà a venire alla luce in tutto il suo splendore». Per ora, resta “pericoloso” mettere in discussione, dal punto di vista storico, persino alcuni eventi della Seconda Guerra Mondiale, «quindi possiamo immaginarci quanto pericoloso possa essere mettere in discussione l’intera cronologia ufficiale della storia dell’uomo». Per Bizzi, «esistono dei “poteri forti”, delle vere e proprie “lobby” che pretendono di decidere sulle teste dei cittadini di questo mondo in tutti campi, non soltanto nella politica e nell’economia, ma anche nella storia: lobby di potere che hanno sempre attuato una sistematica e deliberata soppressione delle informazioni relative alle scoperte archeologiche più “scomode”, operando simultaneamente, oltre al taglio dei fondi e delle risorse, al discredito professionale degli archeologi impegnati in determinate ricerche e in determinati scavi».Francamente, ammettere l’esistenza di una civiltà avanzata prima dell’inizio della nostra era «comporterebbe una vera rivoluzione dei parametri storici: tutto sarebbe da riscrivere e molti ostinati negatori di certe realtà perderebbero la faccia». Per gli studiosi “ortodossi” è molto più facile attenersi al vecchio “paradigma” e ignorare le nuove scoperte, piuttosto che «intraprendere ricerche archeologiche e subacquee che si rivelerebbero costosissime ed estremamente difficoltose». Ma alla fine, «anche i più miopi e ostinati non potranno farlo ancora a lungo». Queste nuove scoperte “scomode” infatti si susseguono, sempre più numerose, con un ritmo ormai impressionante. «E gli argini della diga del “paradigma” mostrano crepe e spaccature ogni giorno più grandi». Come evidenzia Graham Hancock nel suo libro “Il ritorno degli Dei”, una casa costruita sulla sabbia rischia sempre di crollare. «E le prove dimostrano con sempre maggiore evidenza che l’edificio del nostro passato eretto dagli storici e dagli archeologi poggia su fondamenta difettose e pericolosamente instabili». Tra il 10.800 e il 9.600 il nostro pianeta «venne sconvolto da un cataclisma di dimensioni apocalittiche». Si trattò, come sottolinea Hancock, di «un evento che ebbe conseguenze globali e che influì molto profondamente sul genere umano», restando vivo nella memoria, nei miti e nelle tradizioni di tutti i popoli.Un evento sul quale molto è stato scritto, dibattuto e teorizzato, dal medioevo fino ad oggi. Ma soltanto fra il 2007 e il 2014 è stato pienamente confermato dalle prove e dalle testimonianze scientifiche, afferma lo storico fiorentino. Il lavoro divulgativo di Hancock, basato su rigorose ricerche scientifiche, riporta tutti i riscontri oggettivi del cataclisma che sconvolse il mondo tra 12.800 e 11.600 anni fa. «Ci fornisce le tanto attese prove che ci permettono di far uscire una volta per tutte questo evento di portata apocalittica dal calderone delle ipotesi e dalle nebbie del mito, contestualizzandolo cronologicamente e geograficamente». Come ha scritto Randall Carlson in “My Journey to Catastrophism”, «il nostro è un pianeta terribilmente dinamico, che ha subito cambiamenti profondi su una scala che supera di gran lunga qualsiasi cosa accaduta in un arco di tempo a noi prossimo». Quello che chiamiamo “la nostra storia”, dice Carlson, «è semplicemente la testimonianza di eventi umani che si sono verificati a partire dall’ultima grande catastrofe planetaria».Eppure, i popoli con i quali solitamente si vuol fai iniziare la storia “ufficiale”, ovvero i Sumeri e gli Egiziani, ci hanno lasciato documenti scritti che parlano di migliaia di anni della loro storia, precedenti a quella che conosciamo: migliaia di anni di storia precedenti al grande evento apocalittico che, in tutte le culture, fa da cerniera temporale fra il “prima” e il “dopo”. Come osserva lo stesso Hancock, alla luce delle nuove scoperte ci troviamo nel mezzo di un profondo “cambiamento di paradigma” per quanto riguarda il modo in cui guardiamo l’evoluzione della civiltà umana. Gli archeologi? Hanno la pessima abitudine di considerare gli impatti cosmici come fossero lontani milioni di anni, e in più «sostanzialmente irrilevanti nell’arco dei 200.000 anni di esistenza dell’uomo anatomicamente moderno». Finché si credeva che l’ultimo grande impatto fosse stato quello con l’asteroide che 65 milioni di anni fa si ritiene che abbia spazzato via i dinosauri, aveva ovviamente poco senso cercare di correlare gli incidenti cosmici su questa scala quasi inimmaginabile con l’arco di tempo molto più breve della storia dell’umanità. Ma a cambiare tutto, scrive Bizzi, è «lo scenario da incubo emerso dalle ricerche di quel gruppo di scienziati che ha recentemente dimostrato il devastante impatto del Dryas Recente, vale a dire quell’evento sconvolgente di dimensioni apocalittiche che ha sconvolto il nostro pianeta solo 12.800 anni fa, alle porte della nostra storia “ufficiale”».Significa «rovesciare il tavolo con tutto quello che c’è sopra», come si intuisce osservando «le tenaci e disperate resistenze dell’establishment accademico, fin dall’inizio rivolte verso gli studi rivoluzionari di Joseph Harlen Bretz prima e verso le scoperte di Jim Kennett e del suo team di scienziati poi». Resistenze paradossali, visto che ora emerge le nostra civiltà non nasce affatto nel Neolitico, ma assai prima. Ovvio: il vecchio “paradigma”, semplicemente, ignorava il cataclisma planetario. Si scatenò nel Dryas Recente (tra i 12.800 e gli 11.600 anni fa) e venne immediatamente seguito da grandi e importanti segnali di civiltà, come quella di Göbekli Tepe in Turchia. «Non si trattava di civiltà primitive appena uscite dalle caverne, bensì di popoli con strutture sociali complesse e già evolute, con alto senso artistico e religioso e con conoscenze astronomiche e architettoniche chiaramente riscontrabili negli imponenti edifici e monumenti che ci hanno lasciato». Oggi, ormai costretti dall’evidenza e dalle datazioni, gli archeologi definiscono i resti di Göbekli Tepe «primi esperimenti di vita civilizzata», che ebbero luogo subito dopo il “punto di interruzione” rappresentato dal Dryas Recente. «Ma non tengono conto del trauma immane e della distruzione globale messi in moto dagli impatti cosmici che causarono il Dryas Recente». E questo, per Bizzi, «rappresenta una vera e propria carenza nei metodi di ricerca e di valutazione».Peggio ancora: «Non si è pensato di considerare anche solo per un momento la possibilità che capitoli cruciali della storia umana, forse persino una grande civiltà della remota preistoria, possano essere stati cancellati (anche se ciò non è avvenuto nella memoria storica e nei miti di tutti i popoli antichi) da questi impatti e dalle inondazioni, dalle piogge nere bituminose, dall’oscurità e dal freddo indescrivibile che ne seguirono». Fino a non molti anni fa gli studiosi e i ricercatori indagavano su questo cataclisma apocalittico, di cui esitevano molteplici evidenze, ma non ancora le prove scientifiche delle sue cause. Ipotizzavano l’impatto di un meteorite di considerevoli dimensioni, sul modello di quello che si ritiene abbia provocato la scomparsa dei dinosauri. Con l’inizio del nuovo millennio, invece, si è fatta strada un’ipotesi «assai più inquietante, corroborata dalla massa crescente di indizi attestanti che 12.800 anni una cometa gigante, in viaggio su un’orbita che la portò a intersecare il Sistema Solare interno, si frantumò in una miriade di frammenti». Molti dei quali, con un diametro anche superiore ai 2 chilometri, colpirono la Terra.Epicentro del disastro: il Nord America. Luogo dell’impatto: la calotta glaciale nord-americana. Conseguenze: «Lo scioglimento di colossali masse di ghiaccio causò spaventose alluvioni e maremoti, proiettando grandi nuvole di polvere nell’alta atmosfera, avvolgendo l’intero pianeta e impedendo per lungo tempo ai raggi del Sole di raggiungere la superficie». Era stata finalmente individuata la vera causa, che negli anni successivi sarebbe stata corroborata da solide prove scientifiche, del misterioso e repentino periodo di congelamento globale che i geologi chiamano Dryas Recente. «In sostanza, stava emergendo una verità a lungo solo ipotizzata e da molti, in ambito scientifico ed accademico, temuta e rifiutata». L’ultima conferma viene da “The Journal of Geology”, che riporta «la scoperta di un grandissimo quantitativo di nanodiamanti, rilevati in una vasta aerea ritenuta quella dei principali impatti». Si tratta di «diamanti microscopici che si formano in condizioni estremamente rare di pressione e calore di livelli altissimi, e sono ritenuti le impronte caratteristiche – proxy, o indicatori diretti, nel linguaggio scientifico – di potenti impatti di comete o asteroidi».E il team di scienziati guidato da Richard Firestone e da James Kennett, nel 2014, dopo sette anni di accese discussioni e dibattiti, spiegò che i campioni di sedimento sui quali si fondavano le prove contenevano, oltre ai nanodiamanti, diversi altri tipi di detriti che potevano avere unicamente un’origine extraterrestre, riconducibili a una cometa o a un asteroide. Tra i detriti, «minuscole sferule di carbonio che si formano quando goccioline di materiale organico fuso si raffreddano rapidamente a contatto con l’aria e molecole di carbonio contenenti il raro isotopo Elio-3, molto abbondante nel cosmo, ma non sulla Terra». Il team arrivò poi alla conclusione che la causa della devastazione fosse da imputare a una cometa, e non a un asteroide, dal momento che nello strato principale dei sedimenti esaminati erano del tutto assenti gli alti livelli di Nichel e Iridio che caratterizzano gli impatti degli asteroidi. «Si delineavano così con chiarezza le cause scatenanti del Dryas Recente: l’impatto dei frammenti di una super-cometa che avrebbero colpito la calotta glaciale nord-americana in più punti e una vasta aerea dell’emisfero settentrionale, arrivando a toccare il Mediterraneo, la Turchia e la Siria».Riassumendo: gli autori dello studio immaginano «un’onda d’urto devastante e di altissima temperatura che provocò un picco di sovrapressione, seguito da un’onda di pressione negativa, che diede luogo a venti intensi che spazzarono il Nord America viaggiando a centinaia di chilometri orari, accompagnati da potenti vortici generati dagli impatti». Non solo: «Una sfera di fuoco rovente avrebbe saturato la regione vicina agli impatti». E a distanze maggiori, il rientro in atmosfera ad altissima velocità del materiale surriscaldato (espulso al momento delle collisioni) avrebbe provocato «enormi incendi che avrebbero decimato foreste e praterie, distruggendo le riserve di cibo degli erbivori e producendo carbone, fuliggine, fumi tossici e cenere». E in che modo tutto ciò avrebbe potuto causare il drammatico congelamento del Dryas Recente? Gli autori dello studio propongono varie concause: la più rilevante sarebbe stata «l’enorme pennacchio di vapore acqueo proveniente dallo scioglimento della calotta glaciale». Sarebbe stato scagliato nell’atmosfera, combinato a immense quantità di polvere e detriti composti da frammenti dei corpi impattanti, dalla calotta glaciale e dalla crosta terrestre sottostante, oltre al fumo e alla fuliggine prodotta dagli incendi che devastarono l’intero continente.Nel complesso, come rileva Hancock, risulta abbastanza facile capire in che modo una tale quantità di detriti proiettata nell’atmosfera potesse aver portato ad un rapido raffreddamento, bloccando il passaggio della luce solare. L’insieme di vapore acqueo, fumo, fuliggine e ghiaccio – continua Bizzi – avrebbe generato una cortina persistente di nubi “nottilucenti”, con conseguente diminuzione della luce solare e raffreddamento della superficie, riducendo in tal modo l’insolazione alle alte latitudini, aumentando l’accumulo nevoso e causando un ulteriore abbassamento delle temperature in un ciclo continuo di retroazione. Per quanto devastanti, questi fattori diventano quasi insignificanti se paragonati alle conseguenze che gli impatti possono aver avuto sulla calotta glaciale: «Il maggiore effetto potenziale sarebbe stata la destabilizzazione e quindi lo scioglimento parziale della calotta glaciale in seguito all’impatto. Nel breve periodo ciò avrebbe liberato repentinamente acqua di disgelo e enormi blocchi di ghiaccio negli oceani del Nord Atlantico e dell’Artico, abbassando la salinità con conseguente raffreddamento superficiale».«Gli effetti di congelamento a lungo termine – aggiungono gli studiosi – sarebbero derivati in gran parte dal successivo indebolimento della circolazione termoalina nell’Atlantico Settentrionale, mantenendo un clima freddo nel Dryas Recente per più di 1.000 anni, fino a quando i meccanismi ciclici ripristinarono la circolazione oceanica». I risultati pubblicati su “Proceedings of the National Academy of Science” il 4 giugno 2013 beneficiarono inoltre dei più recenti progressi nella tecnologia del radiocarbonio per raffinare la datazione dell’impatto cosmico da 12.900 a 12.800 anni fa e resero possibile una mappatura molto più particolareggiata dell’area di dispersine del materiale da impatto, che incluse quasi 50 milioni di chilometri quadrati del Nord, Centro e Sud America, una grande sezione dell’Oceano Atlantico e gran parte dell’Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente. E il fatto che i calcoli, presenti negli studi del 2013, indicassero il deposito di oltre dieci milioni di tonnellate di sferule all’interno di questo vasto campo di caduta, uniti agli studi presentati l’anno successivo sulla presenza nell’area interessata di enormi quantità di nanodiamanti, fece sì da togliere dalla mente dei ricercatori ogni dubbio sul fatto che al centro di tutto questo vi fosse un impatto cosmico, e nello specifico l’impatto di una supercometa.Sono stati, infine, individuati con chiarezza anche diversi punti d’impatto: la depressione di Charity Shoal nel Lago Ontario, la conca di Bloody Creek nella Nuova Scozia, il cratere di Corossol nel Golfo di San Lorenzo in Canada e l’area di Quebacia Terrain, sempre in Canada, ad Ovest di Corossol. E questi elencati, aggiunge Bizzi, sono i punti d’impatto che è stato possibile individuare grazie alle evidenze geologiche, mentre si ritiene che quelli maggiori e più devastanti, dovuti a frammenti della cometa di dimensioni nell’ordine di due chilometri e mezzo di diametro, abbiano riguardato la calotta di ghiaccio in punti più a Nord e più a Ovest. Ciò che colpisce in special modo, nel risultato di queste scoperte, secondo Hancock è il fatto che i cambiamenti climatici (avvenuti sia all’inizio che alla fine del Dryas Recente) abbiano avuto estensione planetaria e si compirono entrambi nell’arco di una generazione umana: 12.800 anni fa, una forza esplosiva combinata (10 milioni di megatoni) avrebbe sollevato nell’atmosfera sufficiente materiale da far piombare la Terra in una lunga, prolungata oscurità simile ad un inverno nucleare, cioè quel “periodo di oscurità” di cui parlano tanti antichi miti.Poi, il repentino riscaldamento verificatosi 11.600 anni fa, che pose fine al Dryas Recente, sarebbe sì in parte spiegabile con la dispersione finale della nuvola di materiale espulso. Ma vi sarebbe, a completare il quadro, anche un’altra spiegazione complementare: secondo gli scienziati, molti frammenti della cometa (anche enormi) sarebbero rimasti in orbita, fino a impattare nuovamente con il nostro pianeta nel 9.600 avanti Cristo. «La Terra, quindi, avrebbe nuovamente interagito 11.600 anni fa con la scia di detriti della medesima cometa frammentata che aveva causato l’inizio del Dryas Recente, determinandone una repentina fine». Stavolta, anziché nell’Artico, l’impatto di sarebbe verificato nell’Atlantico Settentrionale: cosa che avrebbe provocato «l’innalzamento di enormi pennacchi di vapore acqueo» capaci di creare un effetto serra, «dando il via ad una rapida fase di riscaldamento globale». Gli scienziati, aggiunge Bizzi, stimano che questa seconda ondata di impatti abbia determinato – nel giro di appena cinquant’anni – un aumento delle temperature medie di oltre 7 gradi centigradi, con il conseguente scioglimento di enormi masse di ghiacci e il repentino aumento, in tutto il mondo, del livello dei mari e degli oceani di decine e decine di metri. Era il grande diluvio, o diluvio universale?Sicuramente, scrive Bizzi, le aree del secondo impatto «erano abitate e popolate dall’uomo». Su di esse, «probabilmente fiorivano diverse civiltà». Gli archeologi “ortodossi” si sono sforzati per anni nel sostenere che Platone si fosse inventato tutto. Nei suoi dialoghi “Timeo” e “Crizia”, è datata 9.000 anni prima di Solone la scomparsa di Atlantide per via di un terribile cataclisma di fuoco. Da Platone, per l’ufficialità, ci è giunta solo «un’opera di fantasia o di mera speculazione metaforica e filosofica». Ma gli “ortodossi” hanno sempre ignoranto deliberatamente «l’esistenza di centinaia di miti e antiche tradizioni che, in tutto il mondo, dalle Americhe al Mediterraneo, dall’Africa all’Asia, confermano, direttamente o indirettamente, la narrazione platonica», ora corroborata dalla scienza. «Narrazione che, peraltro, è pienamente avvalorata dal corpo dei testi della Disciplina Arcaico Erudita tramandati dalle scuole misteriche eleusine, i quali – rivela Bizzi – ci raccontano la storia di una civiltà evolutasi su quelle che vengono menzionate come “le Sette Grandi Isole del Mar d’Occidente”».Cos’erano? Testualmente: «Un insieme di vaste terre che sorgevano nell’Atlantico Settentrionale e che si sarebbero inabissate esattamente nel 9.600 avantio Cristo». Quei testi, spiega lo storico fiorentino, «ci descrivono una società avanzata, con grandi conoscenze scientifiche». Evolutasi nell’arco di circa 10.000 anni, quella civiltà «sarebbe arrivata, all’apice del suo splendore, a conquistare e colonizzare l’America Centrale e Meridionale, il bacino mediterraneo, l’Europa Meridionale, il Medio Oriente e parte dell’Asia e dell’Africa, portandovi la propria cultura e le proprie tradizioni». Una civiltà che non chiamava se stessa “atlantidea”, bensì “ennosigea”, dal nome di una delle principali di queste sette terre, chiamata appunto En’n. Proprio la terra di En’n, situata ad Ovest dello stretto di Gibilterra (le mitiche Colonne d’Ercole dell’antichità) era grande quanto Francia e Spagna messe insieme. E stando sempre ai testi eleusini, a En’n «esisteva una regione, collocata in posizione nord-orientale, denominata Hathlanthivjea», un tempo «fiorente Stato indipendente, prima della conquista ennosigea avvenuta attorno al 12.000 avanti Cristo».Hathlanthivjea, cioè Atlantide? «Il suo nome, composto da quattro diversi geroglifici, significherebbe “la Grande Madre venuta dal Mare”», spiega Bizzi, che premette: «I testi delle scuole misteriche eleusine non costituiscono una “prova”»; anche se attribuiti ad autori dell’antichità, «sono stati oggetto di più trascrizioni attraverso il medioevo e i secoli successivi, e non se ne possiedono più gli originali». Tuttavia, «non si può escludere che Platone, nelle sue narrazioni, faccia proprio riferimento alla regione di Hathlanthivjea». Tornando a Hancock, l’autore scozzese ha ragione quando sostiene che le riserve su Platone alludono al fatto che il filosofo abbia forse basato il suo racconto su un cataclisma molto più recente avvenuto nel Mediterraneo, come ad esempio l’eruzione di Thera (Santorini) attorno al 1500 avanto Cristo. «Ma si tratta di una visione miope e di convenienza, del resto ormai superata e surclassata dal pieno riconoscimento scientifico dell’impatto cometario del Dryas Recente», taglia corto Bizzi.Il concetto di un disastro globale verificatosi più di 11.000 anni fa, e in particolare l’idea eretica che esso abbia potuto spazzare via una grande civiltà evoluta esistente in quell’epoca, è sempre stato strenuamente respinto e ridicolizzato dall’archeologia “ufficiale”. Chiaro il motivo, dice Hancock: «Ovviamente gli archeologi dichiarano di “sapere” che non vi fu, e non avrebbe mai potuto esistere in nessuna circostanza, una civiltà altamente sviluppata in quel periodo. Lo “sanno” non grazie a prove inconfutabili che permettano di escludere l’esistenza di una civiltà tipo Atlantide nel Paleolitico Superiore, ma piuttosto basandosi sul principio generale che il risultato di meno di duecento anni di archeologia “scientifica” rappresenti una linea temporale accettata per il progresso della civiltà, che vede i nostri antenati uscire lentamente dal Paleolitico Superiore per entrare nel Neolitico intorno al 9.600 e da lì in poi evolvere attraverso lo sviluppo e il perfezionamento dell’agricoltura nei millenni successivi».Tirando le somme, a Bizzi sembra evidente che stiamo ormai assistendo alla fine dell’attuale “paradigma” e che la rivoluzione archeologica in atto sia ormai incontenibile e irreversibile. «È stato geologicamente provato, grazie alle ricerche condotte da numerose spedizioni oceanografiche, che vaste aree di quello che è oggi l’Atlantico Settentrionale si trovavano in stato di emersione, fino a circa 12.000 anni fa». E non solo: «Il fondale atlantico, proprio in quelle aree – che vanno dai Carabi fino alle Azzorre e a Gibilterra – è cosparso di rovine, di mura, di strutture piramidali e di veri e propri resti di città, estese anche numerosi ettari, con strade che si intersecano perfettamente ad angolo retto». Attenzione: «Stiamo parlando di strutture la cui origine non può essere assolutamente attribuita alla natura. Si tratta di opere dell’uomo realizzate in un’epoca ovviamente precedente alla sommersione di questi tratti di fondale. Sommersione che, grazie a campioni di tectiti, di fossili e di lava vulcanica prelevati dai fondali e opportunamente analizzati, è databile grosso modo al 9.600 avanti Cristo: guarda caso, si tratta della stessa data fornitaci da Platone in merito all’affondamento della “sua” Atlantide».Senza insistere necessariamente su Atlantide, conclude Bizzi, occorre prendere atto che di “Atlantidi” ne sono esistite numerose, in ogni angolo del globo. Quantomeno, sono esistite diverse “civiltà madri” precedenti alla nostra: «E ci hanno lasciato le loro testimonianze inconfutabili, dal Perù ai fondali dell’Atlantico, dal Medio Oriente alla Siberia, dall’Amazzonia all’Indonesia, dal Pacifico all’Antartide». Mentre la gran parte dell’archeologia universitaria continua a tacere, rifiutando di accettare le logiche conclusioni delle ultime rivoluzionarie scoperte, «le prove scientifiche dell’impatto cometario del Dryas Recente», che decretò la scomparsa di quelle antiche civiltà, «costituiscono quello che in gergo poliziesco si chiama “pistola fumante”». Chiosa Nicola Bizzi: «La Storia è ormai da riscrivere, da riscrivere completamente, e non ci sarà “paradigma” che possa impedire di farlo».(Il libro: Nicola Bizzi, “Da Eleusi a Firenze. La trasmissione di una conoscenza segreta”, vol. 1, Aurola Boreale, 800 pagine, 35 euro).Aveva ragione Platone: Atlantide esisteva davvero e fu sommersa dall’oceano attorno al 9.600 avanti Cristo. La causa? L’impatto di una “pioggia cometaria” catastrofica. A confermarlo non è l’archeologia, ma la geologia: grazie a Richard Firestone e James Kennett, ora sappiamo che il pianeta fu sconvolto da una sequenza impressionante di cataclismi di origine cosmica, come dimostrano i sedimenti di nano-diamanti “extraterrestri” rinvenuti nelle aree degli impatti. Nel “Crizia” e nel “Timeo” il sommo filosofo greco aveva parlato di una civiltà superiore, preesistente alla nostra, spazzata via da una specie di diluvio universale? E’ andata proprio così, dicono i geologi dal 2014 a questa parte. O meglio: gli scienziati spiegano che proprio 12.000 anni fa – nel periodo indicato da Platone – ci fu un azzeramento planetario. E questo spiazza gli archeologi, che ancora si ostinano a far risalire le nostre origini a un’epoca assai più recente, benché vengano smentiti, di giorno in giorno, dalle scoperte della “rivoluzione archeologica” ormai in atto, difficilmente arrestabile. Lo sostiene Graham Hancock, massimo divulgatore mondiale in materia. E lo sottolinea Nicola Bizzi, autore dell’originalissimo saggio “Da Eleusi a Firenze”.
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Inaudito Salvini: colpa dei “verdi” la catastrofe-alluvione
Alberi piegati e spazzati via. Interi versanti stravolti. Anche da smottamenti e frane. Corsi d’acqua, ingrossati da piogge torrenziali ma anche da detriti e tronchi. Tanti, tantissimi, al punto di avere l’impressione che si tratti di distese, in movimento. Strade interrotte, abitazioni danneggiate fino a comprometterne l’agibilità. Collegamenti impossibili, da giorni. Acquedotti disintegrati. Quasi un cataclisma. Come un inferno. Nel quale le persone, quelle di ogni luogo, cercano di mettere un po’ d’ordine. Mentre l’aria odora di resina e di pioggia. Ben oltre di un milione di metri cubi di foreste abbattute, in Trentino, in Alto Adige e in Veneto. «È il giorno dei morti, degli alberi morti. Sgomentano le fotografie che mostrano l’immane cimitero di guerra di uno tra i nostri più preziosi patrimoni naturali», ha scritto il 2 novembre Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della Sera”. Insomma, «è cambiato per sempre il profilo delle Dolomiti, nostra straordinaria riserva di ossigeno, pregiatissimo magazzino-vita che non sarà possibile ripristinare chissà per quanto». Chiaro? «Per sempre». Lassù, sulle montagne nelle quali d’estate si va in vacanza a passeggiare oppure d’inverno a sciare, nulla sarà più come prima. Come è stato fino al disastro.«La situazione è pesante, apocalittica, strade devastate, tralicci piegati come fuscelli», ha detto il direttore del dipartimento della Protezione Civile nazionale Angelo Borrelli al termine del sopralluogo sulle zone più colpite dal maltempo. Il presidente del Veneto, Zaia, parla di «almeno 1 miliardo di euro di danni» in tutta la regione e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti annuncia di aver deciso di destinare 1 milione di euro al recupero dei boschi dell’Altopiano di Asiago, devastati dal maltempo. Il vicepremier Luigi Di Maio ha annunciato che sarà dichiarato lo stato di emergenza per tutte le regioni colpite e Matteo Salvini, dopo aver sorvolato in elicottero le zone sconvolte dagli eventi, è arrivato all’aeroporto di Belluno dove è stata istituita una sala operativa dalla Prefettura. Chi si sarebbe aspettato, almeno in questa occasione, che Salvini, rispettando il ruolo istituzionale, avesse parlato con toni pacati, sarà rimasto deluso. Chi immaginava che il ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio dei ministri avrebbe rinunciato al suo naturale desiderio di protagonismo, di fronte al cataclisma, si sarà sorpreso, forse.«Troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto che non ti fanno toccare l’albero nell’alveo ecco che l’alberello ti presenta il conto», ha detto Salvini. Certo ha dichiarato anche che «il bosco vive e deve essere curato e il greto del torrente dragato», aggiungendo che «la tutela della montagna dovrebbe essere affidata alle comunità locali». Certo, ha anticipato che «in settimana ci sarà un Consiglio dei ministri per questi eventi». Innegabile. Ma quel riferimento al “malinteso ambientalismo da salotto” e ai guasti che avrebbe comportato sommerge tutto il resto. Detto e fatto. Vanifica le altre parole e i prossimi impegni. Quindi l’ecatombe di Trentino, Alto Adige e Veneto è la conseguenza dei comitati ambientalisti che da anni si battono perché proprio quelle aree non siano spazi nei quali gli affari prevalgano sulla natura? Non siano zone nelle quali gli interessi di pochi vedano il sacrificio di beni comuni? Quindi per Salvini le contrarietà avanzate da tante associazioni, a partire dalla sezione di Belluno di Italia Nostra, sono corresponsabili di quel che sta accadendo? Quindi il disastro “è colpa” anche della battaglia contro il prolungamento della A27 lungo la direttrice Cadore-Comelico?Quindi il disastro è imputabile anche alla scelta di plaudire alla decisione, seguendo peraltro la normativa europea a tutela delle acque, di dire basta ai finanziamenti al mini-idroelettrico che distrugge gli ultimi torrenti naturali e produce poca energia? Quindi il disastro va ascritto alla decisione di schierarsi avverso la candidatura di Cortina come sede delle Olimpiadi invernali del 2016? Molti quesiti, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri. Molte le domande che il sasso lanciato da Salvini con le sue dichiarazioni, suggerisce. Quel che sembra indubitabile, fra molte incertezze, è che il “malinteso ambientalismo da salotto” evocato dal ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio, può anche suonare come una offesa. Per gli abitanti dell’Agordino, quelli del Feltrino, del Comelico e dell’Ampezzo. Per quelli di Pieve di Livinallogo del Col di Lana. Persone che hanno conosciuto la guerra, della quale rimangono ancora le trincee sulla montagna. Lavoratori che preferiscono le azioni alle parole. Soprattutto quando inappropriate. Lì sulle montagne i tweet non contano. Lassù ci si aspetta aiuto, ma si esige rispetto.(Manlio Lilli, “Maltempo, le parole di Salvini sono un’offesa per chi si batte per l’ambiente”, dal blog di Lilli sul “Fatto Quotidiano” del 4 novembre 2018).Alberi piegati e spazzati via. Interi versanti stravolti. Anche da smottamenti e frane. Corsi d’acqua, ingrossati da piogge torrenziali ma anche da detriti e tronchi. Tanti, tantissimi, al punto di avere l’impressione che si tratti di distese, in movimento. Strade interrotte, abitazioni danneggiate fino a comprometterne l’agibilità. Collegamenti impossibili, da giorni. Acquedotti disintegrati. Quasi un cataclisma. Come un inferno. Nel quale le persone, quelle di ogni luogo, cercano di mettere un po’ d’ordine. Mentre l’aria odora di resina e di pioggia. Ben oltre di un milione di metri cubi di foreste abbattute, in Trentino, in Alto Adige e in Veneto. «È il giorno dei morti, degli alberi morti. Sgomentano le fotografie che mostrano l’immane cimitero di guerra di uno tra i nostri più preziosi patrimoni naturali», ha scritto il 2 novembre Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della Sera”. Insomma, «è cambiato per sempre il profilo delle Dolomiti, nostra straordinaria riserva di ossigeno, pregiatissimo magazzino-vita che non sarà possibile ripristinare chissà per quanto». Chiaro? «Per sempre». Lassù, sulle montagne nelle quali d’estate si va in vacanza a passeggiare oppure d’inverno a sciare, nulla sarà più come prima. Come è stato fino al disastro.
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Il Re Cristiano: Alarico era giudeo, chi glielo spiega a Hitler?
Gettate la rete dall’altra parte della barca, e troverete. E’ una pesca miracolosa quella che il redivivo Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette agli apostoli increduli: se volete pesce, calate le vostre reti sul fianco destro dell’imbarcazione. Linguaggio cifrato: la verità ti attende dove mai avresti pensato che fosse – magari dentro di te, nell’emisfero destro del cervello? Tra le pagine (romanzesche) dedicate a un personaggio devotissimo all’uomo di Betlemme – il “Re Cristiano”, appunto, in azione trecento anni dopo gli eventi evangelici – Gianfranco Carpeoro avverte: li state cercando dalla parte sbagliata, i resti del mitico sovrano dei Visigoti, l’autore del primo Sacco di Roma. Lui, Alarico, recava scritto già nel suo nome il proprio destino: “Re di tutti”, in lingua norrena proto-germanica. “Re di tutti”, tant’è vero che non voleva affatto radere al suolo Roma: al contrario, ambiva a diventarne l’imperatore. Per questo, lasciata la città, si portò via l’augusta principessa discendente della “gens Flavia”, Galla Placidia, sua promessa sposa, insieme a cui si spinse in Calabria per poi attraversare il Mediterraneo: diretto in Africa o a Gerusalemme? Morì a Cosenza, di malaria o avvelenato. Fu sepolto insieme al suo tesoro, a lungo inultilmente cercato – anche da Hitler. E adesso chi glielo spiega, al Führer, che forse il suo Alarico era addirittura un giudeo?Avete sempre scavato dalla parte sbagliata, scrive Carpeoro, perché Alarico non era un barbaro germanico: era romanizzato e cristiano, sia pure di confessione ariana. E forse addirittura ebreo, discendente nientemeno che dalla Maddalena e da Giuseppe di Arimatea, il misterioso armatore che riscattò il corpo di Cristo da Pilato. L’oscuro Giuseppe di Arimatea, cioè l’uomo che poi, si racconta, nel Primo Secolo guidò la spedizione navale che portò in Europa il Cristianesimo, tramite lo sbarco in Provenza delle “Marie venute dal mare” guidate proprio da Maria di Magdala, il cui vero nome – Miriam – è quello che tuttora i Gipsy attribuiscono alla loro regina, consacrata ogni anno a Saintes-Marie-De-La-Mer, in Camargue. Ma che c’entrano, i Goti, con i profughi palestinesi di origine semitica, probabilmente giudei, che raggiunsero le coste meridionali della Francia dopo i fatti di cui parlano i Vangeli? C’entrano eccome, se è vero che i Goti discesi dal Baltico e spintisi a ovest del Danubio – i Derving – poi cambiarono nome, secondo l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, adottando la “M” di Miriam per diventare Merovingi, dinastia regale. E’ così strano pensare che un popolo erratico di origine baltica, poi attestatosi in Francia, sia entrato in contatto con i proto-cristiani di Palestina? Certo che no, se si pensa che i Goti furono in gran parte cristianizzati, già nel Quarto Secolo. Ma attenzione: non erano cattolici, erano seguaci di Ario.Corrente gnostica, secondo cui Cristo è “figlio di Dio” esattamente quanto noi, ciascuno avendo in sé la propria quota di divinità, l’Arianesimo (bocciato nel 325 dal Concilio di Nicea insieme a tutti gli altri cristianesimi non cattolici) ebbe un vastissimo seguito, specie nell’Europa balcanica popolata dai Goti, all’epoca reduci dal Medio Oriente turco: il loro primo vescovo, Wulfila, a partire dall’anno 348 tradusse la Bibbia in lingua gotica. E’ proprio lui, Ulfila, che apre il romanzo meta-storico di Carpeoro, svelando al giovane Alarico il senso profondo e segreto della sua missione: conquistare la regalità nella giustizia, proprio nel nome della mitica antenata Miriam. Simbologo e studioso dei Rosacroce, Carpeoro fa discendere quel “mandato ancestrale” (il governo terreno illuminato dall’alto) direttamente dalla Bibbia: è il compito che Abramo riceverebbe dal misterioso Melchisedek, “Re di Giustizia”, al quale chiede di essere autorizzato a regnare sugli ebrei. E’ il mandato che poi Giuda riceverà a sua volta da Giacobbe-Israele, che descrive le doti del figlio con i tre colori della bandiera italiana. Nella tradizione, proprio il bianco, il rosso e il verde designeranno il contenuto simbolico della discendenza di Davide, fino a tradursi nelle virtù teologali cristiane (fede, speranza e carità). Valori che il potere del mondo ha bandito, ma che qualcuno – in nome di Cristo – ha provato a restaurare? Anche indossando i panni, germanici ma romanizzati, dell’inquieto sovrano dei Goti dell’Ovest?E’ la tesi attorno a cui si interroga Carpeoro, avvicinando il lettore ai primissimi secoli attraverso l’espediente letterario del noir, impersonato dall’anomalo ricercatore milanese Giulio Cortesi, appassionato di musica e soprattutto di cucina. Come già nel “Volo del Pellicano” e poi in “Labirinti”, Cortesi è vegliato dal suo ruvido angelo custode, il commissario Amedeo Bertossi, il cui mestiere non è inseguire fantasmi del passato, ma brutali assassini in carne e ossa. Killer contemporanei, che questa volta fanno fuori un professore – tedesco – che aveva scoperto qualcosa di sconcertante sulla vera identità di Alarico. Un’intuizione fondamentale, imbarazzante e molto pericolosa, che porta dritto anche alla precisa ubicazione della leggendaria sepoltura del condottiero. Se Cosenza è tuttora alla ricerca del Tesoro di Alarico su quella che era la riva pagana del Busento, Carpeoro – che è cosentino di nascita – cita il conterraneo Vincenzo Astorino per suggerire che le spoglie del sovrano vanno cercate sulla sponda opposta del fiumicello, quella che all’epoca era cristiana, dove sorgeva l’antichissima chiesetta di San Pancrazio, oggi interrata dai detriti alluvionali. Secondo la leggenda – e la poesia di August von Platen, tradotta da Carducci – quel piccolo corso d’acqua avrebbe addirittura sommerso il Re dei Goti, inumato (come poi Attila) insieme al suo cavallo nel letto del torrente, deviato per l’occasione.A decrittare anche quei versi ottocenteschi – scomponendoli, in un gioco enigmistico – provvede, nel romanzo, la favolosa équipe di cui si avvale Cortesi: il professore torinese e il suo amico simbologo, l’anziano architetto milanese che tiene in casa un Caravaggio non censito, e poi il vero “aiutante magico”, Fra’ Tommasino, il decano dell’Abbazia di Chiaravalle, “coadiuvato” (in sogno) da Cecilia, la ragazza amata dall’immenso pittore Giorgione, sulla cui “Tempesta” la critica non ha finito di arrovellarsi. Una trama agile e avvincente, piena di colpi di scena giocati tra Milano e la Calabria, riesce a trasportare il lettore tra le brume meno esplorate degli ultimi decenni dell’Impero Romano, dato già per morto quando invece era ancora enorme l’impronta di un grande imperatore come Teodosio. E’ proprio nella guerra di successione che si inserisce l’apparente outsider “germanico” Alarico, che contende Galla Placidia al figlio del suo altrettanto apparente antagonista, il generale Stilicone, accanto al quale ha anche combattuto per difendere Roma. Alarico? Era sì il Re dei germanici Dervingi, ma anche un cittadino romano, promosso addirittura governatore dell’Illiria. E non era pagano: era cristiano. Di più: era ariano, devoto al vescovo Ulfila.Se poi il termine “ariano” ha assunto tutt’altro significato, lo si deve all’Uomo Nero, Hitler, che – in nome del mito della purezza razziale – spedì a Cosenza gli archeologi di Himmler e cercare, inutilmente, le spoglie (e il tesoro) del loro presunto campione germanico. Quello è il modo in cui la lettura distratta della storia può deviare dalla verità, coniando stereotipi e luoghi comuni che poi innescano dinamiche che finiscono sempre nello stesso modo, cioè con una strage di massa. Ne sa qualcosa il sinistro Rudolf von Sebottendorff , il vero fondatore del nazismo “etnico”, il cui spettro si presenta puntuale all’appuntamento coi lettori di Carpeoro – che non è uno storico, ma un simbologo: nella storia, cerca quello che gli storici non dicono, e forse non sanno. Per esempio: perché Alarico, conquistata Roma, porta con sé Galla Placidia? E perché, se voleva dirigersi in Africa, non è salpato da qualsiasi porto tirrenico, spingendosi invece fino a Reggio Calabria, cioè verso la rotta ionica del Medio Oriente? Aveva forse con sé qualcosa di prezioso, che – come poi i Templari – doveva essere “rimesso al suo posto”, cioè nel Tempio di Salomone a Gerusalemme, simbolo dell’unità pacifica di tutti i popoli della Terra?“Il Re Cristiano” (l’acronimo è R+C, Rosacroce) è un romanzo per chi ama le domande, più che le risposte. E’ il sequel della storia che lo precede, “Labirinti”, e in fondo disegna un altro dedalo: come Teseo ha bisogno dell’amore di Arianna per uscire vivo dal labirinto del Minotauro, il valoroso Alarico deve avere al suo fianco Galla Placidia. Non riuscirà a portare a termine la missione, morendo ancora giovane senza poter instaurare il suo “regno di giustizia” a Roma? Ma la storia non finisce lì, avverte Carpeoro. Vi siete mai chiesti chi fosse, davvero, Galla Placidia? Perché era così ambita, importante, decisiva? Vi siete mai domandati perché si fece erigere lo spettacolare mausoleo funebre a Ravenna, poi scegliere di essere sepolta altrove? Cosa nasconde, allora, il Mausoleo di Galla Placidia? E perché proprio lì, a due passi – come fosse un “guardiano della soglia” – volle farsi seppellire Dante Alighieri, amico dei Càtari e dei Templari, nonché capo della confraternita iniziatica dei Fidelis in Amore? Sono solo domande, non risposte. Ma quelle, del resto, spesso mancano anche agli storici. E appunto, a proposito di Goti: qualcuno s’è mai chiesto perché si chiamino “gotiche” le meravigliose cattedrali che ornano le capitali europee, erette mille anni dopo Alarico? E cosa salterebbe fuori, a Cosenza, se qualcuno prima o poi si decidesse a gettare la rete “dall’altra parte”?(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il Re Cristiano”, Melchisedek, 272 pagine, 22 euro).Gettate la rete dall’altra parte della barca, e troverete. E’ una pesca miracolosa quella che il redivivo Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette agli apostoli increduli: se volete pesce, calate le vostre reti sul fianco destro dell’imbarcazione. Linguaggio cifrato: la verità ti attende dove mai avresti pensato che fosse – magari dentro di te, nell’emisfero destro del cervello? Tra le pagine (romanzesche) dedicate a un personaggio devotissimo all’uomo di Betlemme – il “Re Cristiano”, appunto, in azione trecento anni dopo gli eventi evangelici – Gianfranco Carpeoro avverte: li state cercando dalla parte sbagliata, i resti del mitico sovrano dei Visigoti, l’autore del primo Sacco di Roma. Lui, Alarico, recava scritto già nel suo nome il proprio destino: “Re di tutti”, in lingua norrena proto-germanica. “Re di tutti”, tant’è vero che non voleva affatto radere al suolo Roma: al contrario, ambiva a diventarne l’imperatore. Per questo, lasciata la città (non saccheggiata da lui, ma dai detenuti liberati) si portò via l’augusta principessa discendente della “gens Flavia”, Galla Placidia, sua promessa sposa, insieme a cui si spinse in Calabria per poi attraversare il Mediterraneo: diretto in Africa o a Gerusalemme? Morì a Cosenza, di malaria o avvelenato. Fu sepolto insieme al suo tesoro, a lungo inutilmente cercato – anche da Hitler. E adesso chi glielo spiega, al Führer, che forse il suo Alarico era addirittura un giudeo?
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Twin Towers, esplosivi: le prove. Ma l’America non le vuole
Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.Gli “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, ricorda Di Stefano, hanno inviato un dettagliato report (“Oltre la disinformazione”) a oltre 20.000 americani: professionisti, professori, legislatori e giornalisti. L’autore del dossier è Ted Walter, alla guida di un team dal curriulum ragguardevole: tra i membri Sarah Chaplin, architetto (università londinese di Kingston), Mohibullah Durrani (docente di ingegneria e fisica al Montgomery College del Maryland), Richard Gage (fondatore dell’associazione per la verità sull’11 Settembre), Robert Korol e Graeme McQueen (Università McMaster dell’Ontario), più l’architetto Roberto McCoy e l’ingegnere Oswald Rendon-Herrero, docente dell’Università Statale del Mississippi. «Secondo la versione ufficiale rilasciata dal governo Bush – ricorda Di Stefano – le Torri Gemelle del World Trade Center di New York (entrambe di 110 piani per un’altezza di 415 metri) sono crollate a causa dell’impatto, e del conseguente incendio, provocato da due aerei di linea nel corso di un attentato portato a termine da un gruppo di terroristi mediorientali. Inoltre, anche la terza Torre, chiamata Wtc 7, un edificio di 47 piani alto 174 metri, sarebbe crollata simmetricamente su se stessa nel pomeriggio di quel giorno, in seguito all’incendio provocato dai detriti della Torre 1».Ebbene, questa soluzione non viene accettata, in quanto definita “non scientifica”, da buona parte degli architetti e degli ingegneri americani. «Questi esperti dell’edilizia dichiarano, infatti, che le tre torri siano state fatte crollare in seguito ad un’accurata operazione di demolizione controllata provocata dalla disposizione di esplosivi e altri dispositivi, fatti detonare al momento opportuno per far crollare le strutture nel modo desiderato». Non solo. «L’associazione degli Architetti & Ingegneri – continua Di Stefano – dice chiaramente che l’operazione sarebbe stata preparata prima dell’11 Settembre da specialisti della demolizione che hanno avuto libero accesso alle torri nei giorni precedenti l’attentato». L’analisi offerta è esclusivamente scientifica. La storia del crollo di edifici a completa struttura metallica (come le Torri Gemelle) è lunga almeno cento anni: durante questo periodo, non si è mai verificato che un edificio di quel genere fosse crollato a causa di un incendio. Tutti, infatti, sono stati abbattuti nel corso di operazioni di demolizione controllata. Nonostante questo dato di fatto, il Nist (National Institute of Standards and Technology), incaricato dal governo Bush di indagare sul disastroso attentato, nei risultati della sua indagine ufficiale ha scritto che ha trovato 22 casi di incendio che tra il 1970 e il 2002 hanno portato al crollo di altrettanti palazzi.Di questi 22 casi, 15 furono crolli parziali, dei quali cinque superavano i 20 piani di altezza. Analizzando invece ogni singolo caso, prosegue Di Stefano, lo studio accertò che soltanto in quattro casi si verificò un totale crollo dell’edificio interessato all’incendio, ma nessuno di questi aveva una struttura metallica, e il più alto era di appena 9 piani. «Vennero fatti anche diversi test presso il Building Research Establishment (Bre) Laboratories di Cardington, in Inghliterra, ma in nessun caso risultò che edifici con una struttura metallica potessero crollare completamente a causa di un incendio, per quanto devastante». La probabilità che un’evenienza di questo tipo potesse accadere, venne scritto, era “extremely low” (estremamente bassa). «Se poi si confrontano gli effetti di un crollo dovuto ad incendio rispetto ad un crollo da demolizione controllata, le differenze saltano agli occhi. Nel primo caso, infatti, il collasso dell’edificio è sempre parziale e si ferma ai piani inferiori. In una demolizione controllata, invece, il collasso è totale, avviene in pochi secondi e la caduta è libera, con una discesa simmetrica sul proprio asse».C’è poi il discorso delle esplosioni, sottolinea Di Stefano: mentre un crollo da incendio, se mai si dovesse verificare un’esplosione, avverrebbe là dove le fiamme si sono sviluppate, «nel crollo da demolizione controllata le esplosioni si vedono chiaramente piano per piano, all’esterno dell’edificio: ed è quello che è accaduto nelle Torri Gemelle». La probabilità di un incendio che possa aver causato il crollo totale di un edificio molto alto con una struttura metallica è estremamente basso, sostengono gli “Architetti & Ingegneri”. «Un evento di questo genere non è mai accaduto prima dell’11 Settembre 2001. D’altra parte, nella storia, ogni crollo totale di un edificio molto alto a struttura metallica, è stato causato da demolizione controllata». Secondo punto: un incendio che induce un cedimento delle strutture, di fatto, non mostra alcuna delle caratteristiche di una demolizione controllata. Inoltre, come può essere visto in ciò che è accaduto l’11 Settembre 2001, la distruzione di Wtc 1, Wtc 2 e Wtc 7 mostra «quasi tutte le caratteristiche della demolizione controllata e nessuna caratteristica del collasso provocato da un incendio». Aggiunge Edward Munyak, ingegnere specializzato in misure anti-incendio: «Un collasso globale progressivo potrebbe anche essere straordinario. Ma averne tre in un giorno va oltre ogni comprensione».Buio pesto dalle indagini ufficiali: «Per oltre un anno dal disastro, il governo Bush ha impedito qualunque investigazione su quanto accadde quel giorno», premette Di Stefano. Prima del Nist, le indagini ufficiali erano state condotte dalla Fema (Federal Emergency Management Agency). «Il primo a parlare di bombe situate all’interno delle Torri Gemelle fu l’ingegner Ronald Hamburger della Asce (American Society of Civil Engineers), che collaborava con la Fema». Tuttavia, Hamburger «si rimangiò i propri dubbi quando gli venne detto che nessuno aveva sentito esplosioni nei pressi delle Torri Gemelle». Non fu il solo a smentire la propria prima impressione: Van Romero, un esperto di esplosivi della New Mexico Tech, rilasciò un’intervista al quotidiano “Albuquerque Journal” sostenendo: «Il crollo dei palazzi è stato troppo ordinato per essere il risultato fortuito dell’impatto di aeroplani contro le strutture». E aggiunse: «La mia opinione, basata su quanto ho visto nei filmati, è che dopo che gli aerei hanno colpito il World Trade Center, ci siano stati dei congegni esplosivi dentro i palazzi che hanno causato il crollo delle torri».Il 21 settembre, dopo aver parlato con non meglio identificati “ingegneri strutturali”, Romero ritrattò tutto. Il fatto è che il fuoco dell’incendio doveva essere ufficialmente la causa del disastro, spiega Di Stefano. I dubbi, però, non mancavano. Il 29 novembre del 2001 William Baker, uno degli ingegneri della Fema, rilasciò al “New York Times” la seguente affermazione: «Noi sappiamo che cosa è accaduto alle Torri 1 e 2, ma perché la 7 è venuta giù?». Come scrissero i cronisti James Glanz ed Eric Lipton del “New York Times”, per mesi dopo l’11 Settembre gli investigatori non riuscirono a ottenere i progetti dettagliati degli edifici crollati, ad ascoltare i testimoni del disastro, a fare ispezioni a Ground Zero e ad ascoltare le voci registrate della gente che era rimasta intrappolata all’interno delle torri. Inoltre, la Fema «impedì che gli investigatori si rivolgessero al pubblico per ottenere fotografie e video che avrebbero potuto aiutarli nelle indagini».Un comportamento “incomprensibile”, da parte del governo. «Gli investigatori non riuscirono neppure a prelevare campioni dei detriti delle Torri in quanto, con una fretta sospetta, le migliaia di tonnellate di macerie vennero prelevate, caricate su alcune navi e inviate in Cina e in India per essere smaltite». Così, il 1° maggio 2002, la Fema presentò un dossier preliminare «nel quale non forniva una spiegazione definitiva per la distruzione di ogni singolo edificio», preferendo proporre la cosiddetta “teoria pancake”. Ovvero: le singole solette di cemento dei vari piani superiori, colpiti dall’aereo, sarebbero crollate sul piano inferiore determinando un effetto domino. «Il punto, però, è che il piano sottostante in condizioni normali avrebbe resistito all’impatto», obiettano i tecnici indipendenti. Se non è accaduto, «è perché è venuta meno la forza della sua resistenza». In altre parole, sintetizza Di Stefano, «quando un piano crollava su quello inferiore, alcune cariche esplosive distruggevano le colonne portanti di quella seconda soletta, innescando un effetto a catena».Il Nist si è fermato alla “teoria del pancake”, mentre per il terzo edificio, il Wtc 7, se l’è cavata sostenendo di non aver notato «alcuna prova» che il crollo dell’Edificio 7 sia stato «causato da bombe, missili o demolizione controllata». Ultimo verdetto nell’agosto 2008: edificio crollato anch’esso a causa del fuoco. A smentire il Nist è un libro firmato da due ricercatori, Frank Legge e Anthony Szamboti, il cui libro è intitolato, esplicitamente “9/11 and the Twin Towers: Sudden Collapse Initiation was Impossible”, cioè “Torri Gemelle, l’inizio del crollo repentino era impossibile”. Sostengono gli autori: «Un lento, prolungato e cedevole collasso non è stato osservato». Lo confermano i video: «La sezione più alta improvvisamente ha iniziato a cadere e a disintegrarsi». Un punto di vista tecnico largamente condiviso nel dossier degli “Architetti & Ingegneri”. Il governo sostiene che le colonne portanti delle torri si sarebbero deformate diversi minuti prima del crollo? I tecnici indipendenti smentiscono: non si sono visti affatto gli «inconfondibili segni d’avvertimento» e le «grandi deformazioni» che ci si aspetterebbe prima di un crollo.Se questo processo è avvenuto, scrivono i professionisti, allora è stato invisibile. Ed è avvenuto nel singolo istante in cui le strutture sono crollate. Secondo Kevin Ryan, un ex direttore della Underwriters Laboratories, «la diffusione dell’instabilità avrebbe richiesto molto più tempo e non risulterebbe nella caduta libera delle sezioni superiori sulle strutture inferiori». Il Nist, ricorda Di Stefano, afferma che il Wtc 1 è crollato in appena 11 secondi, mentre la Torre 2 in 9 secondi. Sempre il Nist afferma che la “caduta libera” delle Torri Gemelle è dimostrata dai video, in quanto «i piani inferiori al livello del crollo hanno offerto una minima resistenza alla tremenda energia rilasciata dalla massa dell’edificio che stava cadendo». Per gli scienziati indipendenti, autori di un primo esposto insieme a familiari delle vottime, le motivazioni del Nist «non erano scientificamente valide». L’autorità non avrebbe affatto spiegato le cause tecniche: che cosa è realmente accaduto, e perché. In altre parole, come poi lo stesso Nist fu costretto ad ammettere, gli esperti del governo «non erano in grado di fornire una spiegazione completa del crollo totale».Un’altra osservazione che mette in forte dubbio i risultati del Nist, continua Di Stefano nella sua ricostruzione, riguarda l’assoluta mancanza di decelerazione durante il crollo delle torri. «Una mancanza di decelerazione – riporta il dossier – indicherebbe con assoluta certezza che la struttura inferiore è stata distrutta da un’altra forza, prima che la parte superiore la raggiungesse». Il primo studio a mettere in dubbio i risultati ufficiali (“Il colpo mancante”) è stato firmato da Anthony Szamboti, ingegnere meccanico, e Richard Johns, professore di filosofia della scienza. La tesi: il Nist aveva calcolato male la resistenza delle colonne all’interno delle Torri Gemelle. Successivi studi hanno accertato che «la costante accelerazione e la mancanza di una osservabile decelerazione, per se stesse, costituiscono una irrefutabile evidenza che siano stati usati esplosivi per distruggere le Torri Gemelle». Inoltre, una delle caratteristiche più evidenti della distruzione delle Twin Towers è stata la quasi totale polverizzazione del cemento. L’allora governatore di New York, George Pataki, scrisse nella sua relazione sul disastro: «Non c’è cemento. C’è veramente poco cemento. Tutto quello che si vede è alluminio e acciaio. Il cemento è stato polverizzato».Oltre a questo, continua Di Stefano, le strutture d’acciaio delle torri erano quasi interamente smembrate. A parte alcuni muri esterni ancora in piedi alla base di ogni edificio, virtualmente tutti gli scheletri d’acciaio erano rotti in diversi pezzi, con la parte centrale separata dalle colonne esterne. «Che cosa potrebbe mai spiegare la quasi totale polverizzazione di circa 3 milioni di metri quadrati di solette di cemento e il quasi totale smembramento di 220 piani di struttura d’acciaio? Il Nist non fornisce alcuna spiegazione e la sola forza di gravità non appare plausibile. Anche perché, viene spiegato nel dossier, l’energia necessaria per polverizzare il cemento e smembrare le strutture d’acciaio è calcolabile in 1.255 gigajoule. Una misura decisamente lontana dagli stimati 508 gigajoule di potenziale energia gravitazionale contenuta negli edifici». L’enorme nuvola di cemento polverizzato che ha sommerso Manhattan «diventa ancora più incomprensibile se si pensa che il crollo è avvenuto “essenzialmente in caduta libera”». Secondo il dottor Steven Jones, ex professore di fisica presso la Brigham Young University, «il paradosso è facilmente risolvibile con l’ipotesi della demolizione esplosiva, là dove gli esplosivi facilmente rimuovono i materiali dei piani inferiori, incluse le colonne portanti, permettendo di fatto un crollo in caduta libera».Altro fattore “inspiegabile”, il lancio di materiali verso l’alto e lateralmente, piuttosto distanti dal perimetro degli edifici. Secondo la Fema, i materiali dei due edifici sono stati lanciati fino a oltre 150 metri dalla base di ogni torre. In video prodotto dal fisico David Chandler, si nota l’espulsione esplosiva di materiali dalla Torre 1, «continui e molto estesi», anche alla velocità di 170 chilometri orari. «Il palazzo – afferma – è stato progressivamente distrutto, a partire dalla cima, da ondate di esplosioni che hanno creato una spessa coltre di detriti». E aggiunge: «Insieme alla nuvola di polvere vi sono pesanti travi e intere sezioni di frammenti d’acciaio che sono stati lanciati fuori dal palazzo: alcuni sono finiti così lontano, come due campi di football dalla base della torre». A chi sostiene che l’espulsione “esplosiva” di quei frammenti sia stata un semplice prodotto del crollo, il professor Chandler risponde: «Non abbiamo visto isolate travi lanciate all’esterno. Noi abbiamo visto la maggior parte della massa dell’edificio ridotta in piccoli pezzi di pietrisco e polvere fina, espulsa esplosivamente in tutte le direzioni».Secondo lo scienziato Kevin Ryan, l’espulsione esplosiva dei materiali dalle Torri Gemelle è spiegabile soltanto come «scoppi ad alta velocità di detriti espulsi da precisi punti degli edifici». L’ipotesi della demolizione, afferma Ryan, «suggerisce che questi scoppi di detriti siano il risultato della detonazione di cariche esplosive piazzate in punti chiave della struttura, per facilitare la rimozione della resistenza». E specifica: «Ognuno di questi scoppi era costituito da un’improvvisa e secca emissione che appariva provenire da un preciso punto, espellendo approssimativamente tra i 15 e i 30 metri dal lato del palazzo, in una frazione di secondo». Dai fotogrammi estratti da un video, «possiamo stimare che uno di questi scoppi è durato complessivamente 0,45 secondi: questo ci fornisce una velocità media di circa 52 metri al secondo». Rileva Di Stefano: «E’ significativo che il Nist non abbia nemmeno parlato di questi scoppi nella sua relazione finale, mentre nelle sue “Faq” cita gli scoppi come “sbuffi di fumo”, sostenendo che “la massa crollante del palazzo aveva compresso l’aria sottostante – quasi come l’azione di un pistone – forzando il fumo e i detriti fuori dalle finestre mentre i piani inferiori crollavano sequenzialmente».Secondo Ryan, la spiegazione del Nist non è valida. «I piani delle torri – sostiene lo scienziato – non erano containers chiusi e altamente pressurizzati in grado di generare alte pressioni abbastanza forti da far scoppiare le finestre. La massa crollante avrebbe dovuto agire come un disco piatto che esercita una pressione uniforme su tutti i punti. Ma le sezioni superiori, esse stesse disintegrate come si vede nei video, non possono esercitare una pressione uniforme». Anche prendendo in considerazione un ipotetico perfetto container e una pressione uniforme, usando la “Legge del Gas Ideale” per calcolare il cambiamento della pressione, «possiamo determinare che la pressione dell’aria non potrebbe aumentare abbastanza per far scoppiare le finestre». Tanto più che «gli scoppi contenevano detriti polverizzati, non fumo e polvere». Inoltre, «i detriti del palazzo da 20 a 30 piani sotto la zona del crollo, non potevano essere polverizzati ed espulsi lateralmente dalla pressione dell’aria».Oltre al ricco materiale fotografico e televisivo riguardante la distruzione delle Torri Gemelle, continua Rino Di Stefano, bisogna considerare anche il numero delle testimonianze raccolte dai vigili del fuoco (Fdny, New York Fire Department) nella loro relazione, più di 10.000 pagine di dichiarazioni giurate di oltre 500 pompieri. In più, come documentato dal dottor Graeme McQueen, ben 156 testimoni oculari hanno parlato esplicitamente delle esplosioni che hanno visto e sentito durante il crollo delle torri. Tra questi, 121 sono pompieri e 14 sono agenti della polizia portuale (Port Authority Police Department). Altri 13 sono giornalisti presenti sul posto. In caso di normali incendi, si registrano quattro tipi di esplosioni: da vapore, da impianti elettrici, da fumo e da combustione. I vigili del fuoco di New York «sanno riconoscere questi fenomeni, anche perché sono irregolari e certamente non sincronizzati». Invece, nel caso delle Torri Gemelle, «i testimoni hanno parlato di esplosioni precise e distanziate di pochi secondi l’una dall’altra», tanto che alcuni si sono spinti ad affermare che «le Torri Gemelle sono state distrutte dalle esplosioni».«Si è arrivati al punto che è infuriata una discussione sulla percezione che abbiamo avuto circa il fatto che il palazzo sembrava fosse stato fatto saltare in aria con delle cariche», racconta Cristopher Fenyo in un’intervista rilasciata al “Wtc Task Force”. «In effetti, ho pensato che stava esplodendo», ricorda John Coyle, un altro testimone: «Questo è ciò che ho pensato in seguito per diverse ore. Penso che chiunque a quel punto pensasse che quei palazzi fossero esplosi». Nonostante il Nist si ostini ad ignorare le testimonianze, sostenendo invece che non ci siano prove di esplosioni nelle Torri Gemelle, il professor McQueen, riferendosi alla relazione dei vigili del fuoco di New York, afferma: «Abbiamo avuto 118 testimoni su 503 intervistati. Circa il 23% del gruppo sono testimoni delle esplosioni. A mio avviso, questa è un’alta percentuale di testimoni, specialmente considerando che a queste persone non sono state rivolte domande circa le esplosioni e, nella maggior parte dei casi, neanche sono state poste domande circa il crollo delle torri». In conclusione, il dossier sostiene che il Nist, decidendo di non indagare a fondo su quelle che sono state le vere cause del crollo delle Torri Gemelle, ha condotto una “piccola analisi” sul comportamento tenuto dalle strutture edilizie, ignorando volutamente qualunque prova ne potesse derivare. Di conseguenza, il Nist non è riuscito a fornire convincenti prove scientifiche.Poi c’è il “mistero” del crollo, quasi simmetrico dell’Edificio 7, a parecchia distanza dalle due torri colpite dagli aerei. La terza torre, ricorda Di Stefano, è crollata su se stessa intorno alle 17 dell’11 settembre 2001, senza essere stata colpita da nessun jet o comunque coinvolta nel crollo delle altre due torri principali. Per il Nist, l’evento è normale e rientra nella logica delle cose. L’incendio si sarebbe esteso anche al terzo edificio del complesso, indebolendone le strutture e facendolo crollare. «Oltre alla spiegazione verbale, il Nist non ha fornito alcuna motivazione strutturale o scientifica». Secondo David Chandler, docente di fisica, questa spiegazione non regge. «La caduta libera – afferma – non è compatibile con qualunque scenario naturale che abbia a che fare con la debolezza, la deformazione o la frantumazione delle strutture, in quanto in ognuno di questi scenari ci sarebbero grandi forze di interazione con le sottostanti strutture, che avrebbero fatto rallentare la caduta… Il crollo naturale risultante da caduta libera, semplicemente non è plausibile». Per Chandler, il crollo del Wtc 7 è la prova lampante della demolizione controllata. Il Nist obietta: non vi fu vera “caduta libera”, poiché 18 piani dell’edificio sono crollati in 5,4 secondi, cioè con un margine del 40% più lungo (circa 1,5 secondi) rispetto al tempo stimato della caduta libera. Ma Chandler taglia corto: «Il crollo non è avvenuto per il cedimento di una colonna, o di alcune colonne o di una sequenza di colonne. Tutte le 24 colonne interne e le 58 perimetrali sono state rimosse simultaneamente nell’arco di otto piani e in una frazione di secondo. In questo modo la metà superiore dell’edificio è rimasta intatta».Così come le Torri Gemelle, anche la struttura metallica dell’Edificio 7 è stata completamente smembrata. E i detriti hanno formato un compatto cumulo di rifiuti lungo il perimetro del palazzo. Anche in questo caso, sospetta Di Stefano, lo smembramento dell’edificio si può spiegare soltanto con la demolizione controllata. Lo spiegava già nel 1996 Stacey Loizeaux, della Controlled Demolition Inc., azienda specializzata: i demolitori agiscono da due a sei piani, a seconda dell’altezza del palazzo, per colpire le colonne portanti e far crollare l’edificio su se stesso, riducendo anche la grandezza degli eventuali detriti. Inoltre, più che di “esplosione” si dovrebbe parlare di “implosione”, in quanto il palazzo deve crollare senza uscire dal proprio perimetro. Come, appunto, è accaduto nel caso del Wtc 7. Altra omissione del Nist, le testimonianze: l’agenzia governativa sostiene che non esistano, ma è smentita da svariati video. «Improvvisamente ho guardato verso l’alto e ho visto che il palazzo crollava su se stesso», racconta Craig Bartmer, ex agente della polizia di New York. «Ho cominciato a correre e per tutto il tempo ho sentito “thum, thum, thum, thum, thum”. Credo di riconoscerla, un’esplosione, quando la sento».Conferma un volontario, Kevin McPadden: «Abbiamo sentito delle esplosioni, come ba-booom! Era un suono distinto, ba-boom. Si poteva sentire un rombo nel terreno, come se ci si volesse aggrappare a qualcosa». La reporter televisiva Ashleigh Banfield della “Msnbc” era sul posto. Nel servizio in diretta a un certo punto si sente una forte esplosione e lei dice: «Oh, mio Dio… Ci siamo». Circa 7 secondi dopo, il Wtc 7 è crollato. E appena un’ora dopo la distruzione delle Torri Gemelle, le autorità hanno cominciato a parlare del crollo dell’Edificio 7 con un alto grado di sicurezza e di precisione. «Le loro anticipazioni erano talmente certe – scrive Di Stefano – che alcuni giornali hanno scritto del crollo del Wtc 7 ancora prima che avvenisse». Una previsione azzeccata? Non esattamente: «Quando i filmati video furono esaminati con calma, ci si accorse che la notizia era basata su una precisa conoscenza dei fatti. Dal momento che gli ingegneri si definivano sbalorditi per quanto era accaduto al Wtc 7, come facevano le autorità a “predire” un evento che neanche gli ingegneri sapevano spiegarsi quattro anni e mezzo dopo?». Del resto, aggiunge Di Stefano, «ci sono prove inconfutabili di esplosioni avvenute nell’edificio: durante una ripresa televisiva, la “Cnn” ha registrato l’inconfondibile suono di un’esplosione proveniente dal Wtc 7 e l’urlo di un operaio che avvertiva come l’edificio “stava esplodendo”, pochi secondi prima del crollo. Nonostante tutto questo, il Nist si è rifiutato di prendere in considerazione qualunque prova».Secondo la Nfpa 921, cioè la guida ufficiale americana le cui norme devono essere seguite in caso di indagini inerenti eventuali incendi o esplosioni, è necessario valutare tutte le possibili fonti per accertare le cause dei disastri sui quali si indaga. Una di queste fonti, da prendere in considerazione nell’eventualità di fusione dell’acciaio, è la termite. Si tratta – spiega Di Stefano – di una miscela esplosiva altamente incendiaria, a base di polvere di alluminio e triossido di ferro, in grado di sciogliere istantaneamente l’acciaio. Normalmente, la termite viene usata per saldare i binari e per usi militari (all’interno delle granate). «Ebbene, per evitare di parlare della termite nel caso dell’11 Settembre, il Nist si è rifiutato di adottare la consueta procedura della Nfpa 921», secondo “Architetti e Ingegneri” «negando, ignorando o accampando spiegazioni di carattere speculativo, non basate su analisi di tipo scientifico». E questo, afferma il dossier, «in quanto non esiste alcuna plausibile e logica spiegazione della presenza di reazioni chimiche ad alta temperatura, se non quella di una demolizione controllata, usando meccanismi a base di termite».Secondo il Nist, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano già dalla Torre 2 prima del crollo totale, erano di alluminio fuso. «C’è un problema, però. Come si vede distintamente dai video sul disastro di New York, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano dalle Torri Gemelle erano di un giallo-fuoco brillante, mentre l’alluminio fuso è di colore argenteo». Come spiega il dottor Steven Jones nel suo “Why Indeed Did the Wtc Buildings Completely Collapse” (Perché davvero gli edifici del Wtc sono completamente crollati), «il color giallo implica un metallo fuso con una temperatura approssimativa di 1000 °C, evidentemente al di sopra di quella che l’incendio da idrocarburi avvenuto all’interno delle Torri avrebbe potuto produrre». Inoltre, «il fatto che il metallo liquido tendesse ad una sfumatura color arancio in prossimità del terreno esclude ulteriormente la presenza di alluminio». Non appena si è reso conto che la sua posizione era indifendibile, il Nist ha cercato di correre ai ripari sostenendo che «il color arancio era dovuto al fatto che l’alluminio liquido si era mescolato con solidi materiali organici, cambiando colore». Ma Jones smentisce categoricamente: «L’alluminio fuso non altera affatto il suo colore».A complicare la situazione, ci sono altre testimonianze. Leslie Robertson, uno dei progettisti delle Torri Gemelle, racconta: «Eravamo al livello B-1 e uno dei vigili del fuoco ha detto: “Credo che questo dovrebbe interessarvi”. E ci ha mostrato un grosso blocco di cemento sul quale scorreva un piccolo rivo di acciaio fuso». Ma non è l’unico testimone. Il capitano Philip Ruvolo ricorda la scena a cui assistette insieme ad altri vigili del fuoco: «Se guardavi sotto, vedevi acciaio fuso, acciaio fuso che scorreva giù, lungo i canali delle inferriate, come se fossimo stati in una fonderia, come lava». Secondo il Nist, il più alto grado di temperatura raggiunto nelle Torri in fiamme è stato di 1.100 gradi. Ma l’acciaio delle strutture non comincia a fondere con meno di 1.482 gradi. Come si spiega, dunque, la presenza del metallo fuso? «Il Nist semplicemente non risponde, ignorando il problema». Altro guaio: come riportato da James Glanz e Eric Lipton sul “New York Times” già nel febbraio del 2002, i detriti delle Torri Gemelle (analizzati dal Worcester Polytechnic Institute) hanno rivelato la presenza di residui di zolfo combinatosi con l’acciaio, «formando un composto che si scioglie a temperature più basse». Com’era potuto accadere? La risposta, per Steven Jones, sta proprio nella termite, l’esplosivo della demolizione controllata: quel composto infiammabile, dice, «viene prodotto quando lo zolfo è aggiunto alla termite, e questo fa in modo che l’acciaio fonda a una temperatura molto più bassa e più velocemente, grazie alla solforazione e all’ossidazione dell’acciaio attaccato».Ancora una volta, aggiunge Di Stefano, il Nist ha ignorato l’evidenza, rispondendo che di fatto non era più possibile analizzare rottami di acciaio provenienti dall’Edificio 7, in quanto tutti i detriti erano stati portati via da un pezzo, già all’inizio delle indagini. La situazione si aggrava ulteriormente, con vari studi tecnici: il primo, “The Rj Lee Report” (maggio 2004), rileva nella polvere «sfere di ferro e vescicole di particelle di silicio», prodotte a temperature altissime. Il microscopio elettronico ha individuato «sferette di ferro» nella polvere della Torre 2 (“The Usgs Report, prodotto nel 2005 dall’Us Geological Survey). Un terzo studio, del 2008, prodotto da otto scienziati, ha confermato la presenza di sfere di ferro, più silicati e sfere disciolte di molibdeno, materiale che fonde a 2.623 gradi. Ma le sorprese non sono finite, continua Di Stefano. Nell’aprile del 2009, un gruppo di scienziati guidati dal dottor Niels Harrit, un esperto di nano-chimica che ha insegnato per oltre 40 anni all’Università di Copenaghen, ha pubblicato sulla rivista internazionale “Open Chemical Physics Journal” un articolo che denuncia la presenza di “materiali termitici attivi” scoperti nella polvere della catastrofe dell’11 Settembre. «Questo studio ha rivelato la presenza di nano-termite (e cioè una specie di termite esplosiva progettata a livello di nano-particelle) nella polvere seguita al disastro».I campioni da analizzare furono prelevati in due riprese: il primo venti minuti dopo il crollo del Wtc 1, gli altri due nel giorno successivo. Lo studio giunse alla conclusione che i grattacieli di Mahnattan, le due Torri Gemelle più l’Edificio 7, «furono tutti distrutti da demolizione controllata e altri materiali incendiari». Inutile dire che, anche questa volta, le autorità hanno ignorato i ricercatori indipendenti. «In tutti i modi il Nist ha provato a ribattere alla pioggia di critiche di chi portava prove e fatti a dimostrazione che le tre Torri siano state intenzionalmente distrutte con esplosivi», conclude Di Stefano. «Il problema è che, in realtà, non ci sono prove a supporto della teoria che gli incendi abbiano fatto crollare edifici a struttura metallica come quelli». Il Nist ha anche fornito modelli digitali per dimostrare le proprie tesi, «ma sono sempre mancate le prove scientifiche per poter affermare senza possibilità di dubbio che, in effetti, siano proprio stati gli incendi ad abbattere quei giganti della moderna edilizia e ad uccidere quasi tremila persone». Servirebbe una nuova indagine, ma c’è un problema a monte. Enorme: «L’americano medio non può e non vuole accettare l’idea che il proprio governo sia implicato in un atto criminale di quelle proporzioni». L’unica certezza è che le 2.974 vittime degli attentati (2.999 se si calcolano anche quelle morte in seguito) restano ancora in attesa di giustizia: di fronte all’America, e all’umanità intera.Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.