Archivio del Tag ‘disinformazione’
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La Bce: non ci sarà più lavoro nemmeno in caso di ripresa
Vedete, parlo semplice. Ci sono i grandi capi, quelli che, come Mario Draghi o Jean-Claude Juncker, appaiono in pubblico e davanti alla stampa. Loro sorridono, e come canta l’immensa canzone di Povia “Chi comanda il mondo” vi dicono che tutto va bene, c’è la ripresa. Voi ragazzi, qui in Italia disoccupati al 44%, in Spagna oltre il 55% ecc, sperate. Poi ci sono i tecnici che lavorano nell’ombra degli uffici dei grandi capi, quegli scienziati economici ragionieri dei numeri VERITA’, che scrivono per i loro grandi capi la VERITA’. Eccola: “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Tradotto è: marzo 2015, proiezioni macroeconomiche del personale della Bce per la zona euro. E cosa ci dicono i tecnici che sanno la VERITA’ nelle ombre della dittatura dell’Eurozona? Che Draghi non risolverà un accidenti di nulla con tutti i suoi trucchi MONETARI (T-Ltro, Abs, Omt, Qe), perché l’ECONOMIA REALE non ne beneficia (lo diceva anche Barnard).E soprattutto che anche alla fine di tutti i trucchi di Draghi e della cosiddetta ripresa di cui parlano i giornalisti puzzoni delle Tv e quotidiani, attenti… La disoccupazione in Eurozona RIMARRA’ QUASI IDENTICA A OGGI, cioè RISOLTO NULLA, ZERO, per noi gente, famiglie, aziende. ZERO, NULLA. Questo ci dice “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Ma peggio. Il documento interno ha portato il “Financial Times” a scrivere: «La crisi dell’Eurozona è stata così devastante che ha PERMANENTEMENTE DISTRUTTO la capacità delle sue economie di creare lavoro, persino quando ci sarà ripresa». Agghiacciante. Questa è la verità del vostro futuro, ragazzi.E poi la beffa finale. Prima della crisi, INTERAMENTE DOVUTA all’avvento dell’euro come moneta non sovrana per nessuno (con moneta sovrana come il dollaro si rimedia, infatti gli Usa della crisi hanno oggi il 5,5% di disoccupazione, non il 12-14% nostro), ci dice il documento della Bce, «le disoccupazioni erano più o meno simili in tutti i maggiori paesi d’Europa». No, ma l’euro è un successone, suvvia. Lo dice Ezio Mauro di La (vomito) Repubblica, non date retta ai tecnici della Bce. De Benedetti ne sa di più. Poveri voi ragazzi. Vi voglio bene.(Paolo Barnard, “Dietro i loro sorrisi si cela il vostro funerale, ragazzi: la ripresa vista dal vero potere”, dal blog di Barnard del 28 marzo 2015).Vedete, parlo semplice. Ci sono i grandi capi, quelli che, come Mario Draghi o Jean-Claude Juncker, appaiono in pubblico e davanti alla stampa. Loro sorridono, e come canta l’immensa canzone di Povia “Chi comanda il mondo” vi dicono che tutto va bene, c’è la ripresa. Voi ragazzi, qui in Italia disoccupati al 44%, in Spagna oltre il 55% ecc, sperate. Poi ci sono i tecnici che lavorano nell’ombra degli uffici dei grandi capi, quegli scienziati economici ragionieri dei numeri verità, che scrivono per i loro grandi capi la verità. Eccola: “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Tradotto è: marzo 2015, proiezioni macroeconomiche del personale della Bce per la zona euro. E cosa ci dicono i tecnici che sanno la verità nelle ombre della dittatura dell’Eurozona? Che Draghi non risolverà un accidenti di nulla con tutti i suoi trucchi monetari (T-Ltro, Abs, Omt, Qe), perché l’economia reale non ne beneficia (lo diceva anche Barnard).
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Celente: le banche (e i loro politici) ci stanno rubando tutto
Non è mai accaduto niente di simile nella storia del mondo. Sotto gli occhi di tutti, e a spese di tutti, i governi continuano a razziare ingenti ricchezze per arricchire i responsabili dei più efferati crimini e nefandezze economico-finanziarie. Prima c’era la Tarp. Come pretesto per arginare le turbolenze nel mercato azionario dopo il collasso di Lehman Brothers nel settembre 2008, il presidente George W. Bush approvò solo un mese dopo il “Troubled Asset Relief Program”. Il piano permise al Tesoro degli Stati Uniti di assicurare 700 miliardi di dollari di “beni in difficoltà”, un eufemismo che in realtà significa coprire le nefandezze finanziarie commesse dalle grandi banche e dai grandi speculatori di Wall Street. Poco dopo, il neo-eletto presidente Barack Obama appioppò alla sua nazione nel 2009 il “Recovery and Reinvestment Act”, un piano da 900 miliardi, il più vasto programma finanziario del genere nell’intera storia americana.Obama dichiarò: «Quattrocentomila uomini e donne stanno per mettersi al lavoro per la ricostruzione delle nostre strade e dei nostri ponti fatiscenti, per la riparazione delle nostre dighe e i nostri argini instabili, per portare la banda larga alle imprese e alle famiglie in quasi tutte le comunità degli Stati Uniti d’America, per ammodernare i nostri sistemi di trasporto di massa e per la costruzione di linee ferroviarie ad alta velocità in grado di migliorare gli spostamenti e il commercio in tutta la nostra nazione». Le uniche ‘strade’ che quel trilione di dollari ha riparato veramente sono quelle di Wall Street. Allo stesso tempo, la Federal Reserve statunitense ha portato i tassi di interesse ai minimi storici e ha lanciato politiche di allentamento monetario senza precedenti, che hanno alimentato un boom di Wall Street al costo di Main Street. Il Dow è salito da 8.000 nel 2009 a 18.000 nel 2014, mentre si stima che il 95% dei guadagni è andato all’1% della popolazione degli Stati Uniti.Tuttavia, nello stesso periodo, il prodotto interno lordo ha arrancato intorno a una media del 2,2 %, senza mai dar segno di quel rialzo di cui tanto parlano e si vantano quelli di Washington e la stampa finanziaria. A seguito del piano della Fed, il programma monetario ‘Abenomico’ giapponese annunciato nel dicembre del 2012, ha ottenuto risultati simili. Il Nikkei recentemente ha raggiunto picchi mai toccati da 15 anni a questa parte, mentre il Pil del Giappone oscilla tra cadute improvvise e tiepidi rialzi. Ora, la Banca Centrale Europea ha avviato un programma di Qe (quantitative easing, allentamento monetario) che inietterà 1.300 miliardi di dollari nel sistema finanziario nel corso dei prossimi 16 mesi – e forse anche più a lungo, se sarà ritenuto necessario. Il risultato finale, come per Usa e Giappone, sarà lo stesso: i tassi d’interesse ai minimi storici e il flusso di denaro ‘facile’ faranno rialzare temporaneamente i mercati azionari, mentre le economie dell’Eurozona oscilleranno tra moderata crescita e nuova recessione.I più grandi perdenti in tutto questo saranno i comuni cittadini, senza più un posto sicuro dove mettere i propri risparmi e con sempre più banche europee che ‘pagano’ alcuni selezionati clienti per poter tenere il loro denaro. E con le obbligazioni che ripagano i rendimenti negativi, le compagnie di assicurazione che vendono prodotti e rendite e investono quel denaro in obbligazioni governative e societarie – con l’aspettativa che il rendimento delle obbligazioni sia maggiore di quello che dovranno pagare per l’assicurato – il danno è assicurato. In previsione del piano di Qe del presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, che ammette si tratti di un piano “non convenzionale”, gli investitori (o meglio i giocatori d’azzardo di alto bordo) hanno già pompato circa 36 miliardi di dollari nei mercati azionari europei.Nel frattempo, l’uomo della strada ha appena visto il suo potere d’acquisto scendere drammaticamente a mano a mano che l’euro continua la sua caduta libera, da 1,39 dollari lo scorso marzo a un recente minimo di 1,04 , con la previsione che nel futuro – non troppo lontano – vada in parità o scenda anche al di sotto del dollaro. Breaking Point 2.0. Le iniezioni multi-trilionarie di dollari da parte delle banche centrali, le politiche a tasso zero, i tassi d’interesse negativi, i rendimenti obbligazionari negativi e i fiumi di dollari a basso prezzo che gonfiano artificialmente i mercati azionari e alimentano i giochi perversi di investimenti di capitali/private equity/hedge fund, hanno già avuto dei precedenti nella storia del mondo. E quando sulla terra esplode la Grande Bolla Speculativa, lo scoppio si avverte in tutto il mondo – e per generazioni.(Gerald Celente, “Il tuo denaro, la tua vita”, da “Information Clearing House” del 26 marzo 2015, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Fondatore e direttore del “Trends Research Institute”, autore di “Trends 2000” e “Trend Tracking” nonché editore del “The Trends Journal”, Celente fa previsioni economiche e finanziarie fin dal 1980 e di recente ha pubblicato “Il Collasso del ‘09”).Non è mai accaduto niente di simile nella storia del mondo. Sotto gli occhi di tutti, e a spese di tutti, i governi continuano a razziare ingenti ricchezze per arricchire i responsabili dei più efferati crimini e nefandezze economico-finanziarie. Prima c’era la Tarp. Come pretesto per arginare le turbolenze nel mercato azionario dopo il collasso di Lehman Brothers nel settembre 2008, il presidente George W. Bush approvò solo un mese dopo il “Troubled Asset Relief Program”. Il piano permise al Tesoro degli Stati Uniti di assicurare 700 miliardi di dollari di “beni in difficoltà”, un eufemismo che in realtà significa coprire le nefandezze finanziarie commesse dalle grandi banche e dai grandi speculatori di Wall Street. Poco dopo, il neo-eletto presidente Barack Obama appioppò alla sua nazione nel 2009 il “Recovery and Reinvestment Act”, un piano da 900 miliardi, il più vasto programma finanziario del genere nell’intera storia americana.
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L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)
Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.(Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?
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La Merkel come Bismarck, nell’Europa riletta da Giannuli
Molti parlamentari italiani non sanno neppure dove stia la Libia, quale città ne sia la capitale e con quali paesi confini? Vero, la classe politica italiana fa schifo, scrive Aldo Giannuli, ma gli altri come sono messi? «Certo, un ceto politico non si improvvisa, e da vent’anni la distruzione dei partiti e la scomparsa di ogni attività di formazione politica hanno prodotto una classe politica scalcinata di improvvisatori, cialtroni e incapaci. Ma, chiediamoci: l’impreparazione del ceto politico è un fatto italiano o più generale?». Restando in Occidente e tralasciando i recenti movimenti di protesta – tipo M5S, Front National, Indignados e “Veri Finlandesi” – il politologo dell’ateneo milanese si concentra sui capi di Stato e di governo che hanno retto i propri paesi dal crollo del Muro di Berlino, cioè dall’avvento della globalizzazione neoliberista. I Bush? Il padre, uno dei pochi non confermati per il secondo mandato. Il figlio? «Uno dei peggiori presidenti della storia americana». Di Clinton, «non si ricordano particolari successi». Soprattutto, Giannuli non ricorda né i bombardamenti su Belgrado, né la clamorosa abolizione del Glass-Steagal Act, che scatenò Wall Street verso l’orgia finanziaria culminata nella crisi mondiale del 2007, dovuta proprio alla licenza di speculare concessa da Clinton a tutte le banche.«Molte speranze aveva suscitato Barack Obama, sia dal punto di vista dell’uscita dalla crisi economica, sia da quello della pace internazionale sia, infine, per quanto riguarda il riequilibrio delle diseguaglianze interne». E invece: nessuna riforma storicamente importante, «dato il modestissimo esito tanto della riforma sanitaria quanto di quella sulla finanza». Sul piano della politica internazionale, Obama «ha chiuso gli interventi in Iraq e Afghanistan, ma lasciando una situazione di sfascio totale», poi «ha partecipato all’intervento in Libia e anche lì la situazione è uno sfascio». Infine «ha rotto con la Russia, creando una situazione che non si vedeva dalla fine della guerra fredda». Un bilancio «forse peggiore di quello di Bush figlio», dice Giannuli, che però non cita le ombre più inquietanti della presidenza Obama: l’introduzione degli omicidi di massa mediante bombardamenti missilistici coi droni, il surreale annucio – senza prove – della presunta eliminazione di Osama Bin Laden in Pakistan e il finanziamento dello jihadismo in Siria, poi riciclato anche in Iraq con la sigla “Isis”. Passerà alla storia la tensione del 2013 con la Russia sulla crisi in Siria, da cui poi le immediate ripercussioni in Ucraina.Singolare anche l’interpretazione che Giannuli fornisce della politica francese. Chirac? «Un presidente mediocre». Eppure, osò opporsi a Bush evitando di schierare la Francia nella guerra contro Saddam: una “mediocrità” di cui oggi ci sarebbe estremo bisogno. Sempre per Giannuli, trascurando l’incolore Hollande, il presidente «di gran lunga peggiore» della storia francese sarebbe stato Sarkozy e non Mitterrand, «cui si deve la riorganizzazione europea dopo la riunificazione tedesca», cioè l’attuale “inferno” dell’Eurozona. Il professor Giannuli lo definisce «un piano molto ambizioso, che sul lungo periodo non ha retto». Secondo la maggior parte degli osservatori indipendenti europei, al contrario, Mitterrand è stato il principale artefice dell’attuale regime tecnocratico europeo: un piano che ha retto benissimo, perché mirato alla confisca della democrazia in Europa. Il grande economista francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo, rivelò la natura “monarchica” di Mitterrand e dei suoi più stretti consiglieri come Jacques Attali, quello della famosa frase sulla “plebaglia europea” («credono davvero che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?»).Altrettanto inconsueta l’analisi di Giannuli sulla Germania. Helmut Kohl? «Al pari di Mitterrand, è stato l’artefice della riorganizzazione europea e dell’ingresso dell’Europa nell’era della globalizzazione». Poi, Schoeder «ha proseguito sulla linea europeista del predecessore», avvicinando la Germania alla Russia e allontanandola da Parigi. E l’abominevole Merkel? «Nel contesto europeo attuale spicca, sembra quasi Bismarck, ma vista sul piano storico si colloca in posizione medio-bassa nella graduatoria. Forse in po’ più su di Schroeder, ma comunque al di sotto di Schmidt o Khol». Non una parola, da Giannuli, sull’Italia, se non l’accenno alla «catastrofe del 1992-93», cioè il ciclone Tangentopoli che cancellò la Prima Repubblica. Chiarissimo, al contrario, un analista di rango come l’economista Nino Galloni: fu Kohl a pretendere la testa dell’Italia – anche con Mani Pulite, appunto – per accettare l’euro imposto da Mitterrand come contropartita dell’unificazione tedesca. Kohl accettò a una condizione: che venisse azzoppata la concorrenza industriale italiana. Ormai è tutto chiaro, ma forse non per Giannuli: «Dovremo tornarci su – conclude – per chiederci il perché di questa decadenza della politica».Molti parlamentari italiani non sanno neppure dove stia la Libia, quale città ne sia la capitale e con quali paesi confini? Vero, la classe politica italiana fa schifo, scrive Aldo Giannuli, ma gli altri come sono messi? «Certo, un ceto politico non si improvvisa, e da vent’anni la distruzione dei partiti e la scomparsa di ogni attività di formazione politica hanno prodotto una classe politica scalcinata di improvvisatori, cialtroni e incapaci. Ma, chiediamoci: l’impreparazione del ceto politico è un fatto italiano o più generale?». Restando in Occidente e tralasciando i recenti movimenti di protesta – tipo M5S, Front National, Indignados e “Veri Finlandesi” – il politologo dell’ateneo milanese si concentra sui capi di Stato e di governo che hanno retto i propri paesi dal crollo del Muro di Berlino, cioè dall’avvento della globalizzazione neoliberista. I Bush? Il padre, uno dei pochi non confermati per il secondo mandato. Il figlio? «Uno dei peggiori presidenti della storia americana». Di Clinton, «non si ricordano particolari successi». Soprattutto, Giannuli non ricorda né i bombardamenti su Belgrado, né la clamorosa abolizione del Glass-Steagal Act, che scatenò Wall Street verso l’orgia finanziaria culminata nella crisi mondiale del 2007, dovuta proprio alla licenza di speculare concessa da Clinton a tutte le banche.
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Odiano Putin perché intercettò i missili Nato contro la Siria
Gli americani hanno dichiarato guerra a Putin, ma quello che non vi dicono è decisivo. La crisi in Ucraina è stata scatenata dopo che la flotta russa schierata nel Mediterraneo a difesa di Damasco ha neutralizzato un attacco missilistico segreto, scatenato nel 2013 contro la Siria. Mai accaduta una cosa simile, dal 1945: le armi russe avrebbero “parato” i missili statunensi, facendoli inabissare in mare aperto prima che potessero raggiungere la costa siriana. Lo afferma l’Ossin, osservatorio internazionale indipendente che annovera tra i suoi collaboratori grandi esperti, giornalisti e giuristi anche italiani, attenti osservatori del Maghreb e del Medio Oriente. L’associazione avvalora oggi le prime notizie, mai confemate all’epoca ma diffuse subito da fonti libanesi, che nel 2013 parlarono addirittura di abbattimenti di aerei Nato in prossimità della Siria a opera della contraerea di Mosca. Non di caccia si trattò, ma di missili Tomahawk, scrive Ossin: i missili furono intercettati dal sistema russo anti-missilistico dispiegato al largo delle coste siriane, “assediate” da un vasto contingente aeronavale angloamericano e forse anche francese.Questa, sostiene il centro studi, è la ragione segreta – e forse determinante – che ha spinto Obama e i falchi del Pentagono a premere l’acceleratore sull’Ucraina, facendo esplodere la crisi per rappresaglia contro Putin, il capo del Cremlino che ha osato opporsi con le armi all’attacco illegale scatenato dalla Nato contro la Siria per poi minacciare direttamente l’Iran. Sullo sfondo, un torbido retroterra di depistaggi: dalle accuse false al regime di Assad di aver usato gas tossici contro la popolazione di Damasco, fino all’abbattimento del volo Mh-17 in Ucraina attribuito ai filo-russi, nonostante le evidenze fornite dimostrino che l’aereo di linea fu colpito da un missile aria-aria, scagliato da un jet militare di Kiev tracciato dai radar russi. La “guerra” contro Mosca è ovviamente originata da motivi geopolitici: Washington non sopporta che l’Europa dipenda dalla Russia per l’energia, proprio mentre Putin allaccia relazioni strategiche con la Cina e insieme a Pechino guida i Brics, il gruppo di paesi emergenti (India, Brasile, Sudafrica) impegnati a promuovere un sistema economico mondiale che non dipenda più dal dollaro, cioè dai ricatti politici del Fmi e della Banca Mondiale.«L’elemento scatenante della improvvisa ostilità contro la Russia e Putin», scrive Ossin sul suo sito, si può però individuare «in quasi tutti gli avvenimenti, non resi pubblici, che si sono susseguiti tra la fine di agosto e l’inizio di settembre 2013». Ovvero: «Un attacco a sorpresa della Nato contro la Siria è stato stoppato dalla Russia». Secondo Ossin, «è stata probabilmente la prima volta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, che un attacco militare organizzato dall’Occidente si è trovato contro una forza sufficiente a imporre il suo annullamento». Attenzione: «Non lo si è detto alla gente in Occidente». Troppo imbarazzante per Obama e i leader europei. Meglio allora lasciare la presa sulla Siria e optare per il nuovo piano, e cioè «demolire l’Ucraina e impadronirsi della Crimea». Ma anche l’acquisizione della strategica Crimea è fallita, come si sa: la popolazione, attraverso un referendum, ha scelto di tornare alla madrepatria russa, da sempre presente nella penisola con la grande base navale di Sebastopoli che ospita la flotta del Mar Nero, quella che fu impiegata in Siria nel 2013 per sventare l’attacco della Nato.Ossin riferisce che il 31 agosto 2013 un ufficiale statunitense telefonò alla segreteria del presidente francese Hollande per preannunciargli una telefonata di Obama che avrebbe dato il via all’attacco. Così, Hollande dispose che i caccia Rafale fossero armati con missili da crociera Scalp, da lanciare contro la Siria da 400 chilometri di distanza. Poi, invece, Obama chiamò Hollande a fine giornata per annunciargli che l’attacco previsto per l’indomani, 1° settembre, alle 3 di notte, non ci sarebbe stato. Tre giorni dopo, scrive Ossin, alle 6,16 del 3 settembre, «venivano lanciati due missili contro le coste siriane “dalla zona centrale del Mediterraneo”», ma i due missili «si sono inabissati in mare». Secondo Israel Shamir, che cita fonti diplomatiche attraverso la stampa libanese, quei missili sarebbero stati lanciati da una base aerea della Nato in Spagna, e sarebbero stati abbattuti «da un sistema russo di difesa mare-aria, posto a bordo di navi russe». “Asia Times” sostiene che i russi abbiano fatto ricorso ai loro disturbatori di frequenza Gps «per rendere impotenti i costosissimi Tomahawk, disorientandoli e rendendoli inefficaci». Un’altra versione, infine, attribuisce il lancio ai “soliti” israeliani.«Vi è stato l’invio da parte della Russia di una forza navale operativa, messa insieme frettolosamente, ma competente, verso la costa siriana», scrive un accanito oppositore di Obama come il blogger geopolitico “The Saker”. Quella russa «non era una forza tale da poter battere la marina Usa», ma era comunque «in grado di fornire all’esercito siriano una visione completa del cielo, al di sopra e oltre la Siria». In altri termini, aggiunge “The Saker”, «per la prima volta, gli Stati Uniti non hanno potuto realizzare un attacco a sorpresa», né con i missili da crociera, né con la loro potenza aerea. «Peggio: la Russia, l’Iran e Hezbollah si sono impegnati in un programma nascosto ma dichiarato di assistenza materiale e tecnica della Siria, che è riuscito alla fine a battere l’insurrezione wahhabita», lo jihadismo finanziato dagli Usa che poi, come sappiamo, è stato “dirottato” in Iraq sotto la sigla “Isis”. «Ci è difficile conoscere tutte le manovre sotterranee che si sono susseguite tra agosto e settembre 2013», ammette Ossin, «ma il risultato finale è chiaro: dopo anni di tensioni crescenti e di minacce, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno deciso di non attaccare la Siria, così come avevano deciso». A stopparli, è stata la fermezza di Putin.«Ora, dopo il ripiegamento – continua Ossin – possiamo constatare che questo attacco diretto fallito contro la Siria ha dato luogo a un crescente attacco indiretto e alla crescita di quello che viene attualmente conosciuto come Stato Islamico». L’osservatorio sostiene che non ci sono solo cattive notizie, ricordando che il 29 agosto 2013 il Parlamento di Londra tenne conto dell’opinione pubblica, contraria all’attacco, e negò al governo Cameron l’autorizzazione ad aggredire la Siria. Fondamentale, inoltre, la clamorosa iniziativa pubblica di Papa Francesco, con veglia di preghiera contro l’attacco Nato (per inciso, la diplomazia vaticana è in contatto con tutti i paesi del mondo, compresi quelli non rappresentati all’Onu). L’altra ragione della rinuncia all’attacco, aggiunge Ossin, è l’ampiezza della concentrazione di truppe della Siria, della Russia, e anche della Cina: «Russi e cinesi non si sono accontentati di bloccare gli Stati Uniti in ambito di Consiglio di Sicurezza, hanno “votato” anche con la loro forza militare». In quei giorni infatti si parlò di navi da guerra di Pechino dirette verso il Canale di Suez per rinforzare la flotta russa. «Quand’è che i cinesi hanno inviato l’ultima volta loro navi da guerra nel Mediterraneo?».Per Shamir, si è trattato di un punto di svolta epocale: «L’egemonia statunitense è cosa del passato, il bruto è stato messo sotto controllo: abbiamo doppiato il Capo di Buona Speranza, simbolicamente parlando, nel settembre 2013. Con la crisi siriana il mondo si è trovato di fronte ad una biforcazione essenziale della storia moderna. Era un lascia o raddoppia, rischioso quasi come la crisi dei missili cubani del 1962». Secondo l’analista, «ci vorrà un po’ di tempo perché ci si renda pienamente conto di quanto abbiamo vissuto: è normale, per avvenimenti di tale portata». Russia e Cina «hanno semplicemente costretto gli Stati Uniti a ritirarsi e ad annullare i loro piani di guerra». Inoltre, «la gente comune – negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in molti altri paesi – era del tutto contraria all’attacco, quanto lo stesso popolo siriano». Un altro analista internazionale di peso, come Pepe Escobar, è ancora più drastico: «La Cina si è tolta i guanti diplomatici. E’ giunto il momento di costruire “un mondo disamericanizzato”», dotato cioè di «una moneta di riserva internazionale che sostituisca il dollaro».Per Escobar, «invece di adempiere ai propri obblighi come una potenza che esercita una leadership responsabile», una Washington «egocentrica» ha di fatto «abusato della posizione di superpotenza e ha perfino accresciuto il caos mondiale trasferendo i propri rischi finanziari all’estero, provocando tensioni regionali nei conflitti territoriali e impegnandosi in guerre senza senso, giustificate da menzogne». La Cina non starà più a guardare: vuole fermare «le avventure militari degli Stati uniti», poi allargare l’adesione alla Banca Mondiale e al Fmi ai paesi emergenti, e infine preparare una nuova moneta di riserva internazionale, «che sostituisca la dominazione del dollaro». E’ per questa ragione, conclude Ossin, che i leader dell’Occidente non celebrano la guerra che non vi è stata: in Siria, russi e cinesi «hanno costretto l’Occidente a rispettare il diritto internazionale e ad evitare una guerra illegale». Inoltre, i cinesi vedono in questo l’inizio di una nuova era della politica mondiale: Usa, Europa e Giappone «dovranno rassegnarsi al fatto che non potranno più prendere da soli tutte le importanti decisioni del mondo». L’instabilità planetaria dunque si accentuerà, ma almeno ora sappiamo perché la diffidenza verso Putin si è trasformata in scontro senza quartiere: tutta “colpa” di quei missili inabissati in mare, emblema di una superpotenza non più onnipotente.Gli americani hanno dichiarato guerra a Putin, ma quello che non vi dicono è decisivo. La crisi in Ucraina è stata scatenata dopo che la flotta russa schierata nel Mediterraneo a difesa di Damasco ha neutralizzato un attacco missilistico segreto, scatenato nel 2013 contro la Siria. Mai accaduta una cosa simile, dal 1945: le armi russe avrebbero “parato” i missili statunensi, facendoli inabissare in mare aperto prima che potessero raggiungere la costa siriana. Lo afferma l’Ossin, osservatorio internazionale indipendente che annovera tra i suoi collaboratori grandi esperti, giornalisti e giuristi anche italiani, attenti osservatori del Maghreb e del Medio Oriente. L’associazione avvalora oggi le prime notizie, mai confemate all’epoca ma diffuse subito da fonti libanesi, che nel 2013 parlarono addirittura di abbattimenti di aerei Nato in prossimità della Siria a opera della contraerea di Mosca. Non di caccia si trattò, ma di missili Tomahawk, scrive Ossin: i missili furono intercettati dal sistema russo anti-missilistico dispiegato al largo delle coste siriane, “assediate” da un vasto contingente aeronavale angloamericano e forse anche francese.
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Gli orrori della globalizzazione e il silenzio degli intellettuali
Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.«La crisi finanziaria, imprevista e imprevedibile, è curata con costanti iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro», scrive Giannuli sul suo blog. «Le rivolte arabe, anch’esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi economica e dinamiche socio-culturali che sfugge alle capacità di gestione della comunità internazionale». In più, «lo sviluppo cinese ha mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi insospettati». Questo, continua lo storico, determina un profondo disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti, «che si trovano ad affrontare problemi a un livello di complessità incomparabilmente maggiore del passato, e questo disorientamento sta già producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni: è lo shock da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti, politologi».Almeno per quel che riguarda l’Occidente, secondo Giannuli, lo shock sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei governati e l’afasia degli intellettuali. «I decisori appaiono sempre più indecisi sul da farsi, tanto sul fianco finanziario (dove l’unica cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa guadagnare tempo ma non cura la crisi), quanto sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire)». Di fronte a un corso dei fatti, che Giannuli reputa «del tutto imprevisto», e non frutto di pianificazione da parte di una ristrettissima élite, come invece suggerisce Gioele Magaldi nel libro “Massoni”, che svela il ruolo occulto delle “Ur-Lodges”, le superlogge internazionali del massimo potere mondiale, i decisori (tanto politici quanto finanziari) «reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione».Dai governanti “rassegnati” alla globalizzazione autoritaria, senza più alternative politiche, si passa ai governati, «cui era stato promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito». I cittadini, scrive Giannuli, «assistono impotenti al crollo di queste aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita, e avvertono sempre più la paura del futuro». Che è, al tempo stesso, «paura dei diversi che giungono dal sud del mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro e identità culturale, paura della crisi che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei paradisi finanziari ma si accanisce sui ceti medi». E ancora: «Paura del terrorismo, delle epidemie, di tutto». E su questo paesaggio «impera il chiassoso silenzio degli intellettuali, che parlano di tutto senza dir nulla». Infatti, «una critica della globalizzazione e dei modi con cui si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi», i quali però vengono «spinti ai margini» e restano «privi, in gran parte, di accesso alle tribune massmediatiche». Secondo Giannuli, «c’è una sottile vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano l’unica forma di pensiero legittimata», a scapito di «tutte le altre correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale».Per il politologo dell’ateneo milanese, «la resa senza condizioni della socialdemocrazia ha segnato la riduzione dello spazio politico: tutto il resto ne era espulso». E così, «il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media, il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà, persino l’uso calibrato del Premio Nobel, tutto è stato usato per imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali – in grande maggioranza – si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose, rinunciando ad ogni residuo spirito critico». Oggi, nel momento della crisi, i decisori – non meno che i governati – di fatto «non trovano le parole per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi in atto». E questo, conclude Giannuli, «accade perché dal fronte degli studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa afasia degli intellettuali», peraltro “incanalati” nel mainstream dai tempi del manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Commissione Trilaterale: propaganda conculcata negli atenei e nei media anxche attraverso la poderosa macchina dei think-tanks, come l’Aspen Institute, che recluta intellettuali di fama. Il Verbo è sempre lo stesso: il Mercato deve vincere sullo Stato. La democrazia sociale? Rottamata. Il vero potere è finito nelle mani di pochissimi, come nel feudalesimo medievale. E paga legioni di intellettuali perché non dicano la verità e non raccontino quello che sta davvero succedendo.Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.
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Guerra e bugie: rapinare la Jugoslavia, tutto cominciò lì
Guai se la denuncia del nazifascismo, risuonata nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, serve a depistare l’opinione pubblica dall’altro fascismo, il “nostro”, fondato sulla menzogna che giustifica le peggiori, sistematiche aggressioni. Per esempio la Libia di Gheddafi, travolta dopo la decisione di costituire una banca africana e una moneta alternativa al dollaro. E la Jugoslavia, rasa al suolo dopo la decisione della Germania di riconoscere i separatisti: inaccettabile, per la nascente Eurozona, la sopravvivenza di un grande Stato multientico con l’economia interamente in mani pubbliche. E avanti così, dalla Siria all’Ucraina, fino alle contorsioni terrificanti del cosiddetto Isis, fondato sulle unità di guerriglia addestrate dall’Occidente in Libia contro Gheddafi, poi smistate in Siria contro Assad e quindi dirottate in Iraq. Possiamo chiamarlo come vogliamo, dice John Pilger, ma è sempre fascismo. E’ il “nostro” fascismo quotidiano. «Iniziare una guerra di aggressione», dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, «non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo». Se i nazisti non avessero invaso l’Europa, Auschwitz e l’Olocausto non sarebbero accaduti.«Se gli Stati Uniti e i loro vassalli non avessero iniziato la loro guerra di aggressione in Iraq nel 2003, quasi un milione di persone oggi sarebbero vive, e lo Stato islamico, o Isis, non ci avrebbe in balìa delle sue atrocità», scrive Pilger in una riflessione ripresa da “Come Don Chisciotte”. I nuovi “mostri” sono «la progenie del fascismo moderno, svezzato dalle bombe, dai bagni di sangue e dalle menzogne, che sono il teatro surreale conosciuto col nome di “informazione”». Infatti, «come durante il fascismo degli anni ‘30 e ‘40, le grandi menzogne vengono trasmesse con la precisione di un metronomo grazie agli onnipresenti, ripetitivi media e la loro velenosa censura per omissione». In Libia, nel 2011 la Nato ha effettuato 9.700 attacchi, più di un terzo dei quali mirato ad obiettivi civili, con strage di bambini. Bombe all’uranio impoverito, Misurata e Sirte bombardate a tappeto. L’omicidio di Gheddafi «è stato giustificato con la solita grande menzogna: stava progettando il “genocidio” del suo popolo». Se gli Usa avessero esitato, disse Obama, la città di Bengasi «avrebbe potuto subire un massacro che avrebbe macchiato la coscienza del mondo». Peccato che Bengasi non sia mai stata minacciata da nessuno: «Era un’invenzione delle milizie islamiche che stavano per essere sconfitte dalle forze governative libiche».Le milizie, scrive Pilger, dissero alla “Reuters” che ci sarebbe stato «un vero e proprio bagno di sangue, un massacro come quello accaduto in Ruanda». La menzogna, segnalata il 14 marzo 2011, ha fornito la prima scintilla all’inferno della Nato, definito da David Cameron come «intervento umanitario». Molti dei “ribelli”, segretamente armati e addestrati dalle Sas britanniche, sarebbero poi diventati Isis, decapitatori di “infedeli”. «Per Obama, Cameron e Hollande – scrive Pilger – il vero crimine di Gheddafi era l’indipendenza economica della Libia e la sua dichiarata intenzione di smettere di vendere in dollari Usa le più grandi riserve di petrolio dell’Africa», minacciando così il petrodollaro, che è «un pilastro del potere imperiale americano». Gheddafi aveva tentato con audacia di introdurre una moneta comune in Africa, basata sull’oro, e voleva creare una banca tutta africana per promuovere l’unione economica tra i paesi poveri ma dotati di risorse pregiate. «Era l’idea stessa ad essere intollerabile per gli Stati Uniti, che si preparavano ad “entrare” in Africa corrompendo i governi africani con offerte di collaborazione militare». Così, “liberata” la Libia, Obama «ha confiscato 30 miliardi di dollari dalla banca centrale libica, che Gheddafi aveva stanziato per la creazione di una banca centrale africana e per il dinaro africano, valuta basata sull’oro».La “guerra umanitaria” contro la Libia aveva un modello vicino ai cuori liberali occidentali, soprattutto nei media, continua Pilger, ricordando che, nel 1999, Bill Clinton e Tony Blair inviarono la Nato a bombardare la Serbia, «perché, mentirono, i serbi stavano commettendo un “genocidio” contro l’etnia albanese della provincia secessionista del Kosovo». L’ambasciatore americano David Scheffer affermò che «circa 225.000 uomini di etnia albanese di età compresa tra i 14 e i 59 anni potrebbero già essere stati uccisi». Sia Clinton che Blair evocarono l’Olocausto e «lo spirito della Seconda Guerra Mondiale». L’eroico alleato dell’Occidente era l’Uck, Esercito di Liberazione del Kosovo, «dei cui crimini non si parlava». Finiti i bombardamenti della Nato, con gran parte delle infrastrutture della Serbia in rovina – insieme a scuole, ospedali, monasteri e la televisione nazionale – le squadre internazionali di polizia scientifica scesero sul Kosovo per riesumare le prove del cosiddetto “olocausto”. L’Fbi non riuscì a trovare una singola fossa comune e tornò a casa. Il team spagnolo fece lo stesso, e chi li guidava dichiarò con rabbia che ci fu «una piroetta semantica delle macchine di propaganda di guerra». Un anno dopo, un tribunale delle Nazioni Unite sulla Jugoslavia svelò il conteggio finale dei morti: 2.788, cioè i combattenti su entrambi i lati, nonché i serbi e i rom uccisi dallUck. «Non c’era stato alcun genocidio. L’“olocausto” era una menzogna».L’attacco Nato era stato fraudolento, insiste Pilger, spiegando che «dietro la menzogna, c’era una seria motivazione: la Jugoslavia era un’indipendente federazione multietnica, unica nel suo genere, che fungeva da ponte politico ed economico durante la guerra fredda». Attenzione: «La maggior parte dei suoi servizi e della sua grande produzione era di proprietà pubblica. Questo non era accettabile in una Comunità Europea in piena espansione, in particolare per la nuova Germania unita, che aveva iniziato a spingersi ad est per accaparrarsi il suo “mercato naturale” nelle province jugoslave di Croazia e Slovenia». Sicché, «prima che gli europei si riunissero a Maastricht nel 1991 a presentare i loro piani per la disastrosa Eurozona, un accordo segreto era stato approvato: la Germania avrebbe riconosciuto la Croazia». Quindi, «il destino della Jugoslavia era segnato». La solita macchina stritolatrice: «A Washington, gli Stati Uniti si assicurarono che alla sofferente economia jugoslava fossero negati prestiti dalla Banca Mondiale, mentre la Nato, allora una quasi defunta reliquia della guerra fredda, fu reinventata come tutore dell’ordine imperiale».Nel 1999, durante una conferenza sulla “pace” in Kosovo a Rambouillet, in Francia, i serbi furono sottoposti alle tattiche ipocrite dei sopracitati tutori. «L’accordo di Rambouillet comprendeva un allegato B segreto, che la delegazione statunitense inserì all’ultimo momento». La clausola esigeva che tutta la Jugoslavia – un paese con ricordi amari dell’occupazione nazista – fosse messa sotto occupazione militare, e che fosse attuata una “economia di libero mercato” con la privatizzazione di tutti i beni appartenenti al governo. «Nessuno Stato sovrano avrebbe potuto firmare una cosa del genere», osserva Pilger. «La punizione fu rapida; le bombe della Nato caddero su di un paese indifeso. La pietra miliare delle catastrofi era stata posata. Seguirono le catastrofi dell’Afghanistan, poi dell’Iraq, della Libia, della Siria, e adesso dell’Ucraina. Dal 1945, più di un terzo dei membri delle Nazioni Unite – 69 paesi – hanno subito alcune o tutte le seguenti situazioni per mano del moderno fascismo americano. Sono stati invasi, i loro governi rovesciati, i loro movimenti popolari soppressi, i risultati delle elezioni sovvertiti, la loro gente bombardata e le loro economie spogliate di ogni protezione, le loro società sottoposte a un assedio paralizzante noto come “sanzioni”. Lo storico britannico Mark Curtis stima il numero di morti in milioni. «Come giustificazione, in ogni singolo caso una grande menzogna è stata raccontata».Guai se la denuncia del nazifascismo, risuonata nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, serve a depistare l’opinione pubblica dall’altro fascismo, il “nostro”, fondato sulla menzogna che giustifica le peggiori, sistematiche aggressioni. Per esempio la Libia di Gheddafi, travolta dopo la decisione di costituire una banca africana e una moneta alternativa al dollaro. E la Jugoslavia, rasa al suolo dopo la decisione della Germania di riconoscere i separatisti: inaccettabile, per la nascente Eurozona, la sopravvivenza di un grande Stato multientico con l’economia interamente in mani pubbliche. E avanti così, dalla Siria all’Ucraina, fino alle contorsioni terrificanti del cosiddetto Isis, fondato sulle unità di guerriglia addestrate dall’Occidente in Libia contro Gheddafi, poi smistate in Siria contro Assad e quindi dirottate in Iraq. Possiamo chiamarlo come vogliamo, dice John Pilger, ma è sempre fascismo. E’ il “nostro” fascismo quotidiano. «Iniziare una guerra di aggressione», dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, «non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo». Se i nazisti non avessero invaso l’Europa, Auschwitz e l’Olocausto non sarebbero accaduti.
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Asse Londra-Pechino: ciao Usa e Ue, godetevi la Merkel
Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.«Com’è noto – scrive Sapelli sul “Sussidiario” – queste tre istituzioni sono dominate dagli Usa e dal Giappone, unitamente a un ruolo secondario, ma importante, degli europei». In una sua relazione del 2010, la Banca Asiatica di Sviluppo sosteneva che, per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area euro-asiatica, si sarebbero dovuti come minimo investire 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. «Finora nulla è stato fatto, ed è per questo che la nuova istituzione, promossa dalla Cina, nel lasso di tempo dal 2013 al 2014, aumentava il suo capitale da 50 a 100 miliardi con l’intervento decisivo dell’India nella cofondazione della stessa banca». In breve, racconta Sapelli, nel 2014 a Pechino si svolse una cerimonia di insediamento della nuova banca a cui parteciparono, oltre alla Cina e all’India, paesi come Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Pakistan, Bangladesh e Brunei, insieme a Cambogia, Laos, Birmania, Nepal, Sri Lanka, e persino Uzbekistan e Mongolia. «Significative anche le firme del Kuwait, dell’Oman e del Qatar, a cui si aggiunsero nel 2015 anche quella della Giordania e dell’Arabia Saudita, nonché del Tagikistan e infine del Vietnam». Ma attenzione: nel 2015 hanno aderito anche Nuova Zelanda e Inghilterra.Sapelli considera «straordinaria» già la notizia dell’adesione della Nuova Zelanda, «che aspira sempre più manifestamente a una politica differenziata rispetto all’Australia», che non a caso nel contesto del “Trans-Pacific Pact” ha firmato con gli Stati Uniti un accordo militare in funzione anti-cinese e dichiaratamente pro-giapponese. «Ma la notizia bomba – sottolinea Sapelli – è quella dell’adesione dell’Inghilterra». Cameron e Osborne, primo ministro e titolare degli esteri, sono stati chiari fin da subito, anche sul “Telegraph”, dichiarando che «il Regno Unito, in primo luogo, ha di mira i suoi interessi nazionali». Il problema, avverte Sapelli, ha gà avuto i suoi risvolti nel contesto della Nato, in cui «il Regno Unito ha diminuito i suoi investimenti in armamenti portandoli sotto il tetto del 2%, soprattutto in armi convenzionali, mentre invece, di contro, aumentava la sua spesa difensiva sul fronte nucleare missilistico, in terra, in cielo, in mare». Il Regno Unito? Non si sta affatto “isolando”. Al contrario: «Si sta sempre più allontanando dall’Europa», e quindi «guarda sempre più al mondo e in primo luogo all’Asia e, con atteggiamento più incerto, all’Africa».Quello a cui Londra sta voltando le spalle è «l’Europa deflazionistica, germanico-teutonica, antirussa». Per Sapelli, questo è «il trionfo postumo della Thatcher, che fu costretta a dimettersi dal suo stesso partito perché non credeva nell’accrocchio di un euro costruito a immagine del marco». Secondo l’analista, questa decisione inglese «avrà conseguenze devastanti in Europa, perché la Francia, da sola, non osa opporsi alla Germania». Quanto all’Europa del Sud, «è profondamente infetta dall’ideologia blairista e neoliberista, che altro non è che l’altra faccia dell’ordoliberalismus tedesco». Di fatto, «il Regno Unito abbandona l’Europa per ritornare a essere una potenza mondiale intracontinentale». E per far questo, «sceglie di allearsi con la Cina in una prospettiva di lungo periodo», ampliando così il solco apertosi con la crisi di Suez del ‘56, quando gli Usa (e l’Urss) si opposero all’invasione inglese dell’Egitto non-allineato di Nasser, mettendo fine al monopolio britannico sul Mediterraneo. Alla nascita del clamoroso asse Londra-Pechino, gli Stati Uniti hanno reagito «in modo convulso, come al solito nervoso, indispettito e privo di lungimiranza strategica». In ogni caso, continua Sapelli, è indubbio che «la ferita è profonda». E l’incapacità egemonica degli Usa «in quest’occasione è apparsa in modo preclaro e drammatico». Infatti, «tutte le famiglie politiche degli Usa sono in preda al caos».La divisione tra Stati Uniti e Gran Bretagna «non potrà che rafforzare la Cina e, di fatto, anche la Russia, con conseguenze inaspettate anche nel Mediterraneo». Nella nuova super-banca cinese, infatti, sono presenti anche Giordania, Arabia Saudita, Oman e Qatar: «Una chiara dichiarazione di guerra diplomatica agli Usa, impegnati in trattative sul nucleare con l’Iran». Inutile aggiungere, conclude Sapelli, che le conseguenze saranno «drammatiche» anche per l’Italia, «paese a sovranità limitata e verso cui il Regno Unito aveva avuto dagli Usa la delega di occuparsi dei suoi esiti governativi e oltre, com’era stato reso manifesto dalla non lontana visita privata della Regina Elisabetta e del suo consorte all’allora presidente Giorgio Napolitano», evento che Sapelli definisce «caso unico al mondo di visita privata di un monarca a un presidente della Repubblica». Tra le ombre che gravano sul nostro paese, anche l’influenza israeliana nell’eventuale dopo-Netanyahu e i rivolgimenti in Libia per mano dell’Isis. Tutto questo, anche alla luce della svolta inglese: chi condizionerà le decisioni strategiche italiane nel Mediterraneo?Sullo sfondo, naturalmente, l’impressionante iniziativa della Cina di Xi Jingping, che «ha iniziato a costruire una possente rete di istituzioni alternative al potere dominante del mondo di oggi, ossia agli Usa». In particolare, Pechino «sta costruendo una rete di istituzioni finanziarie alternative a quelle egemonizzate dagli Usa e dai suoi alleati europei». Si è iniziato con la Brics Bank, che oltre ai cinesi raccoglie Brasile, Russia e India, e si è continuato con la “New Silk Road”, «che unisce in un progetto infrastrutturale e finanziario i paesi che, dalla Mongolia all’Afghanistan, sino alla Turchia, costituiscono il cuore dell’Eurasia, o meglio dell’Heartland, sulla rotta che fu di Alessandro Magno, al quale Xi Jinping si dice spesso idealmente si accomuni». Dinanzi a queste iniziative, «l’Occidente è rimasto muto, sprofondando nel suo autismo germanico in Europa e nella sua dissociazione schizofrenica negli Usa», dove «l’isterico ometto» Netanyahu, invitato dai repubblicani, ha potuto parlare al Congresso sfidando «l’inconsapevole povero Obama». Insomma, «il disordine sta diventando caos». E in questo caos, la Cina avanza. Reclutando addittura l’Inghilterra.Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.
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L’Europa dei nuovi fascismi, il piano dell’élite tecnocratica
«I nazisti tecnocratici ora al potere in Europa hanno dato ufficialmente il via al “piano B”». Ovvero: nuovi fascismi, innescati dall’esasperazione contro l’euro-regime, in apparenza “fallimentare” sul piano economico, ma in realtà perfettamente funzionale al disegno: una inaudita restaurazione del potere reazionario, aristocratico, verticistico, neo-feudale. Secondo Francesco Maria Toscano, co-fondatore con Gioele Magaldi del “Movimento Roosevelt”, la drammatica oppressione del popolo greco usato come cavia e l’inflessibile persistenza delle politiche di rigore mirano a distruggere l’unità sociale europea, facendo esplodere nazionalismi aggressivi e pericolosi. Sul “banco degli imputati” siedono Draghi, Schaeuble, la Merkel. «Qual è l’obiettivo teleologico perseguito in maniera dissimulata e scientifica dai masnadieri testé citati? E’ quello di aumentare a dismisura le diseguaglianze, distruggere il ceto medio e imporre in Europa un modello di tipo cinese in grado di conciliare economia di mercato e autoritarismo politico».Toscano li definisce “contro-iniziati”, alludendo all’interpretazione distorta della loro militanza massonica, denunciata da Magaldi nel libro “Massoni”, edito da “Chiarelettere”: anche la Merkel farebbe parte del circuito esclusivo delle Ur-Lodges, le superlogge internazionali segrete, mentre il suo ministro delle finanze e lo stesso presidente della Bce ne sarebbero “venerabili maestri”. Quale artifizio retorico, si domanda Toscano, hanno finora utilizzato «per incoraggiare lo svuotamento della democrazia sostanziale e diffondere miseria e disperazione?». Ovvio: «Quello concernente la presunta intangibilità dell’unione monetaria, naturalmente prodromica e necessitata in previsione della futuribile costruzione degli Stati Uniti d’Europa». Abbracciando una simile premessa, conclude Toscano, «dobbiamo riconoscere come il primo obiettivo inseguito dai padroni risulti essere fondamentalmente quello di riuscire ad alimentare l’equivoco il più a lungo possibile, brandendo cioè un europeismo di maniera per realizzare in realtà una occulta torsione di tipo oligarchico in grado di riportare i cittadini nella meschina condizione di meri sudditi».Come nel poker, «il bluff funziona solo fino a quando nessuno dei giocatori trovi il coraggio di rischiare la posta pur di guardare le carte», scrive Toscano sul blog “Il Moralista”. A quel punto, la recita non serve più: vince chi ha in mano il punto migliore. Vale anche per la pubblica contesa tra la Grecia di Tsipras e l’Eurogruppo a trazione tedesca: «Da un lato abbiamo un premier democraticamente eletto, dichiaratamente europeista e nemico delle politiche dell’austerity; dall’altro scorgiamo un gruppo di burocrati, selezionati all’interno delle Ur-Lodges più reazionarie del pianeta, che tirano la corda di continuo nella speranza che si spezzi». Contestualmente, «Mario Draghi, ovvero il capo dei nuovi barbari in versione tecnocratica, punta una pistola alla tempia del popolo greco al fine di sfiancarlo sotto la continua minaccia dell’interruzione della liquidità». Domanda: «Secondo voi, chi desidera per davvero l’estromissione della Grecia dal consesso europeo? L’accoppiata Tsipras-Varoufakis o quella composta da Draghi-Schaeuble?». Evidente: mister Bce e il super-falco della Merkel.«E perché mai due finti campioni dell’europeismo pret à porter come Schaeuble e Draghi dovrebbero desiderare così ardentemente la rottura del “sogno europeo”? Forse perché a lor signori del “sogno europeo” non gliene è mai importato un fico secco?». Secondo Toscano, «l’élite europea si trova oggi di fronte a un bivio: o proseguire sul percorso di integrazione politica rivedendo radicalmente le politiche economiche, o gettare nel cestino paesi ormai spremuti come un limone e perciò inservibili». Attenzione: «I nazisti tecnocratici, come era ovvio e scontato, hanno scelto di percorrere la seconda strada». Sul tappeto resta però un problema: come faranno i vari Merkel e Draghi a invitare i greci ad andarsene dopo aver predicato per anni il mito della indissolubilità dell’Eurozona? «Così facendo, i nostri europeisti d’accatto finirebbero per perdere definitivamente la faccia». E allora, «pur di salvare capra e cavoli, al “maestro venerabile” Mario Draghi non resta che alzare il livello dello scontro sperando in un passo falso dell’avversario». Ovvero: se il governo greco decidesse di uscire unilateralmente dall’euro, leverebbe tutti d’ impaccio.Toscano richiama l’attenzione sull’atteggiamento dei media mainstream. Per esempio, l’ultima iintervista di Danilo Taino a Varoufakis sul “Corriere della Sera”. Toscano definisce Taino «menestrello di regime degno dei vari Eugenio Scalfari, Tonia Mastrobuoni, Stefano Feltri e Federico Fubini». L’intervista? «Manipolata al fine di attribuire falsamente a Varoufakis l’idea di indire un referendum sulla permanenza o meno della Grecia nell’euro». Curiosamente, “Der Spiegel” ha appena invitato anche l’Italia ad uscire dall’euro. «Le stesse ragioni – aggiunge Toscano – consigliano ai nostri giornalisti di punta di garantire a Matteo Salvini una continua sovraesposizione mediatica». Il co-fondatore del “Movimento Roosevelt” propone la seguente spiegazione: «I massoni reazionari al potere hanno deciso: sulle ceneri dell’Europa proveranno ad implementare nuovi fascismi. Uomini senza memoria sono pronti a ripercorrere temerariamente una strada già battuta nella prima metà del Novecento, quando un manipolo di apprendisti stregoni progettò in vitro la nascita del fascismo e del nazismo. Tranquilli, finirà esattamente come l’altra volta».«I nazisti tecnocratici ora al potere in Europa hanno dato ufficialmente il via al “piano B”». Ovvero: nuovi fascismi, innescati dall’esasperazione contro l’euro-regime, in apparenza “fallimentare” sul piano economico, ma in realtà perfettamente funzionale al disegno: una inaudita restaurazione del potere reazionario, aristocratico, verticistico, neo-feudale. Secondo Francesco Maria Toscano, co-fondatore con Gioele Magaldi del “Movimento Roosevelt”, la drammatica oppressione del popolo greco usato come cavia e l’inflessibile persistenza delle politiche di rigore mirano a distruggere l’unità sociale europea, facendo esplodere nazionalismi aggressivi e pericolosi. Sul “banco degli imputati” siedono Draghi, Schaeuble, la Merkel. «Qual è l’obiettivo teleologico perseguito in maniera dissimulata e scientifica dai masnadieri testé citati? E’ quello di aumentare a dismisura le diseguaglianze, distruggere il ceto medio e imporre in Europa un modello di tipo cinese in grado di conciliare economia di mercato e autoritarismo politico».
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Saba Sardi: il potere corrompe anche le migliori intenzioni
Sono un seguace di uno studioso di costume, letteratura e popoli, Francesco Saba Sardi, triestino d’origine, nipote del poeta Umberto Saba. E’ stato candidato quattro volte al Premio Nobel per la Letteratura, prima di morire è stato insignito da Napolitano tra le 50 autorità culturali e morali del paese. E’ stato il biografo ufficiale di Picasso, l’unico autorizzato da Picasso, nonché l’unico autorizzato da Simenon a tradurre il Commissario Maigret. E’ stato il traduttore di Borges, di Pessoa, di Garcia Marquez, nonché colui che scrisse la “Storia delle religioni” pubblicata da Mondadori nel 1974, che è tutt’ora la “storia delle religioni” più venduta – solo che gli hanno tolto la firma, e sapete perché? Perché nel ‘58 eta stato scomunicato. Aveva scritto un libro, “Natale ha 5.000 anni”, nel quale svelava qualche piccola cosa che non gli quadrava nella costruzione mitico-narrativa del Natale della Chiesa cristiana, ma soprattutto pubblicava una serie di dipinti che il Vaticano aveva nascosto. Il libro è stato messo all’indice, e da quel momento la Mondadori pose come condizione che non ci fosse la sua firma sulla “Storia delle religioni”. Ha subito pesanti conseguenze. Quando è morto, l’unico giornale che gli abbia dedicato due pagine è stata “L’Unità”. Nessun altro giornale ne ha parlato: capito, lo stato dell’informazione in Italia?In un libro fondamentale, “Dominio”, Francesco Saba Sardi spiega la logica del potere. Vi consiglio di leggerlo, è un libro davvero importante. “Dominio” dice che l’uomo era libero quando era cacciatore nomade, e quindi non si faceva carico di dover gestire in qualche modo una comunità. Nel momento in cui l’uomo diventa agricoltore, e quindi deve gestire le risorse umane, è costretto a farlo in maniera ideologica. Cioè, se tu devi gestire più persone, devi avere un’idea di come gestirle – che può essere più o meno condivisibile, e qui entriamo nel campo delle opinioni. Qual è il problema? E’ che tu quest’idea ce l’hai, poi crei una struttura che metta in pratica questa idea. E, nel momento in cui crei la struttura, muore l’idea. La struttura assume un’autonomia sua come meccanismo, per cui l’idea “sbianca”, ma “sbianca” anche la figura di riferimento del capo. E questa è la storia di tutte le strutture. Nel momento in cui Costantino ha preteso che la Chiesa cristiana diventasse una struttura, è impallidito il Cristianesimo. E’ assolutamente automatico, ma non è una colpa del Cristianesimo. E’ successo anche alla massoneria: nel momento in cui è diventata una struttura unica, mondiale, e ha eliminato la libertà individuale delle realtà locali, è scomparsa l’ideologia massonica.Questo succede anche sul piano del male, nel campo della criminalità. La mafia nasce come reazione alle mancanze dello Stato col cosiddetto brigantaggio – una reazione della gente a uno Stato che non era proprio dalla parte della ragione. Il brigantaggio poi sparisce, ma resta la mafia. La caratteristica delle strutture è che tagliar loro la testa è irrilevante. Alla mafia potete arrestare Liggio, Totò Riina, Provenzano; si riuniscono una notte e ne nominano uno nuovo. Chi la comanda è irrilevante, perché è la struttura che è autoconservativa, auto-assertiva. E l’Italia è andata avanti nello stesso modo. Tutte le colpe erano di Gelli? L’hanno messo in galera, ma non è cambiato niente. Poi le colpe sono diventate di Andreotti e Craxi. Li hanno archiviati, e l’Italia è rimasta uguale. Sapete perché? Perché la struttra funziona così. Ormai non ha più l’ideologia, la parte progettuale – qualunque ideologia, non è questione di colore, perché poi tutte le ideologie hanno del buono e del cattivo. Ma qualunque ideologia è il progetto: ti dico come voglio che tu stia fra trent’anni. Se mi togli l’ideologia, anch’io vivo alla giornata. Come si vincono le elezioni oggi? Ti prometto che domani ti tolgo le tasse. Qualcuno riesce a fare promesse decennali, venetennali? Non si permette più nessuno, perché non essendoci più l’ideologia non c’è più il progetto, la progettualità.La massoneria ha fatto questa fine qui. Come nasce, la massoneria? L’Europa proveniva da un mondo classico pagano, per cui il lavoro era sacro. Tutti quelli che facevano un determinato lavoro – non solo quello dei costruttori: quello dei fabbri, dei tessitori, dei sarti – erano radunati nelle corporazioni delle arti e dei mestieri, che avevano acquisito una sacralità nell’assimilare le conoscenze legate a quel lavoro; conoscenze sacre anch’esse, e a volte molto profonde: più c’era arte nel fare quel lavoro in quel luogo, e più quelle conoscenze erano profonde. Quindi c’erano le logge, non solo di massoni – massone viene dal francese “maçon”, costruttore. C’erano le logge dei tessitori, degli scalpellini, dei fabbri, dei carpentieri di barche. Di tutte queste logge, assolutamente nessun’altra è sopravvissuta all’alto e al basso medioevo. E’ sopravvissuta solo la loggia dei massoni, costruttori di cattedrali: perché i massoni viaggiavano, erano diventati delle piccole multinazionali, facevano una riunione annuale di tutti i costruttori di cattedrali a Colonia, si scambiavano le conoscenze – cosa che gli altri non facevano, perché il loro lavoro era più localizzato e parcellizzato. Ma se tu dovevi fare la cattedrale di Chartres, non potevi pensare di farla solo con gli scalpellini francesi.Morendo la sacralità del lavoro e morendo le persone che ne fanno quasi un centro di ricerca, di quel lavoro, dopo l’umanesimo e il Rinascimento muoiono queste tradizioni, mentre quella massonica non muore, anzi si trasforma: dopo il ‘600, quando non si costruiscono più le cattedrali, i massoni decidono di conservare quelle conoscenze, quelle ritualità, quella sacralità, e di trasformarle in discorso filosofico-simbolico, dove la squadra e il compasso, che hanno sempre avuto un significato simbolico, mantengono solo quello simbolico. I simboli della massoneria sono squadra e compasso: sono una cosa elementare, rappresentano la parte razionale e la parte animistica della persona umana. Noi siamo composti di mente ma anche di anima, che non necessariamente coincide con la mente, perché l’anima è il soffio della vita, le emozioni, cose che con la ragione c’entrano poco. Pascal le chiamava “le ragioni del cuore e le ragioni della geometria”. Il problema è che la massoneria, diventando speculativa anziché operativa, non costruisce più le cattedrali ma conserva le sue tradizioni a scopo simbolico, conoscitivo, evolutivo-spirituale.Prima, tutte le massonerie erano autonome: collegate tra loro, sì, ma non secondo un ordine gerarchico. Invece nel 1717, e più avanti nel 1810, nascono i Grandi Orienti, che sono un modo di creare una massoneria fintamente universale. La massoneria anglosassone, che ha asservito anche la massoneria americana, voleva che la massoneria diventasse uno strumento di potere: a questo serviva una struttura come quella dei Grandi Orienti. Al di là di poche realtà, come l’obbedienza di Palazzo Vitelleschi, la massoneria è diventata uno strumento del potere politico, del potere economico e del potere in generale, come lo è diventata la religione, la Chiesa. Le strutture si mettono sempre al servizio del potere, e perdono il loro riferimento iniziale.(Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).Sono un seguace di uno studioso di costume, letteratura e popoli, Francesco Saba Sardi, triestino d’origine, nipote del poeta Umberto Saba. E’ stato candidato quattro volte al Premio Nobel per la Letteratura, prima di morire è stato insignito da Napolitano tra le 50 autorità culturali e morali del paese. E’ stato il biografo ufficiale di Picasso, l’unico autorizzato da Picasso, nonché l’unico autorizzato da Simenon a tradurre il Commissario Maigret. E’ stato il traduttore di Borges, di Pessoa, di Garcia Marquez, nonché colui che scrisse la “Storia delle religioni” pubblicata da Mondadori nel 1974, che è tutt’ora la “storia delle religioni” più venduta – solo che gli hanno tolto la firma, e sapete perché? Perché nel ‘58 eta stato scomunicato. Aveva scritto un libro, “Natale ha 5.000 anni”, nel quale svelava qualche piccola cosa che non gli quadrava nella costruzione mitico-narrativa del Natale della Chiesa cristiana, ma soprattutto pubblicava una serie di dipinti che il Vaticano aveva nascosto. Il libro è stato messo all’indice, e da quel momento la Mondadori pose come condizione che non ci fosse la sua firma sulla “Storia delle religioni”. Ha subito pesanti conseguenze. Quando è morto, l’unico giornale che gli abbia dedicato due pagine è stata “L’Unità”. Nessun altro giornale ne ha parlato: capito, lo stato dell’informazione in Italia?
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Acqua, luce e gas: la fregatura è servita (firmata Renzi)
L’importante, spesso, non è spiegare, ma non far capire. Molte riforme fondamentali passano tra le pieghe di un provvedimento come se fossero marginali. I parlamentari approvano senza nemmeno sapere cosa votano, seguendo le indicazioni del capogruppo mentre i giornalisti ne scrivono senza capire o, ancora meglio, non ne scrivono affatto. Prendiamo la recente riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi. I giornali si sono concentrati sugli aspetti più eclatanti come l’abolizione di fatto del Senato e l’aumento delle firme per referendum e iniziative popolari; pochi hanno parlato dell’articolo V della Costituzione, che solo a nominarlo… bah, che noia! Tutti, la settimana scorsa, hanno pubblicato un vademecum sulle riforme. Ecco cosa scrive ad esempio “La Stampa”: «Titolo V. Sono riportate in capo allo Stato alcune competenze come energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto. Su proposta del governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”».Caro lettore, cosa hai capito? Nulla, scommetto. Però se riascolti un bel servizio televisivo de “La Gabbia”, mandato in onda il 26 settembre 2013 e ripreso in questi giorni su Twitter da Alessandro Greco, la riforma dell’articolo V assume un altro significativo. Guardalo, ne vale la pena, dura appena 3 minuti. In questo servizio il dirigente generale Lorenzo Codogno, a capo della direzione I analisi economico-finanziaria del dipartimento del Tesoro, del ministero dell’economia e delle finanze, intervistato sulla vendita di partecipazioni Eni, Finmeccanica ed Enel, dichiarò: «Il problema è che non prendi tantissimo perché – ho fatto il calcolo un po’ di tempo fa – sono 12 miliardi, non è una gran cifra, meno di un punto di Pil. La vera risorsa sono le utilities a livello locale. Lì sono veramente tanti, tanti miliardi. Il problema è che non sono nostri, dello Stato, sono dei Comuni, delle Regioni, e quindi bisogna cambiare il titolo V della Costituzione. Ed espropriare i Comuni e le Regioni».Il deputato Simonetta Rubinato del Pd depositò un’interrogazione alla Camera chiedendo spiegazioni al primo ministro. A quanto mi risulta, nessuno ha risposto. E ora, guarda un po’, il Titolo V è stato riformato e prevede, cito il “Sole 24 Ore”, quanto segue: «Il nuovo articolo 117 si caratterizza per l’eliminazione della legislazione concorrente con riattribuzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato di diverse materie, quali quelle relative alla regolamentazione del procedimento amministrativo, della disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, della previdenza complementare e integrativa, del commercio con l’estero, della valorizzazione (oltrechè tutela) dei beni culturali e paesaggistici, dell’ordinamento delle professioni e della comunicazione, della produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia, delle infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; dei porti ed aeroporti di interesse nazionale ed internazionale».Come sempre le leggi italiane sono pasticciate e pare che la norma non si applichi alle Regioni a statuto speciale; però il senso mi sembra inequivocabile: quando sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, il nuovo Titolo V permetterà a quel galantuomo di Renzi, che tanto ha a cuore i destini del suo paese, di fare un immenso regalo ai colossi stranieri dell’energia privatizzando i servizi di acqua, luce e gas. Io sono un liberale e, se le privatizzazioni servissero a portare vera concorrenza e servizi e tariffe migliori per tutti, sarei il primo a rallegrarmene, tanto più che le utilities pubbliche non sono certo un modello di gestione e di efficienza. Ma il rimedio rischia di essere peggiore del male. Purtroppo l’esperienza dimostra che, in questo settore, come avvenuto per le autostrade, le privatizzazioni si risolvono nella sostituzione di un monopolio pubblico con uno privato. E a rimetterci sono gli utenti, costretti a far fronte a un’esplosione dei prezzi delle bollette. Insomma, una fregatura su tutta la linea. Prendetene nota e al momento opportuno ricordatevi chi ringraziare.(Marcello Foa, “Acqua luce e gas, la fregatura è servita, firmata Matteo Renzi”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 12 marzo 2015).L’importante, spesso, non è spiegare, ma non far capire. Molte riforme fondamentali passano tra le pieghe di un provvedimento come se fossero marginali. I parlamentari approvano senza nemmeno sapere cosa votano, seguendo le indicazioni del capogruppo mentre i giornalisti ne scrivono senza capire o, ancora meglio, non ne scrivono affatto. Prendiamo la recente riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi. I giornali si sono concentrati sugli aspetti più eclatanti come l’abolizione di fatto del Senato e l’aumento delle firme per referendum e iniziative popolari; pochi hanno parlato dell’articolo V della Costituzione, che solo a nominarlo… bah, che noia! Tutti, la settimana scorsa, hanno pubblicato un vademecum sulle riforme. Ecco cosa scrive ad esempio “La Stampa”: «Titolo V. Sono riportate in capo allo Stato alcune competenze come energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto. Su proposta del governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”».
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Comprereste un’auto usata da quest’uomo? Sì, purtroppo
Su Facebook sta furoreggiando un video di Matteo Renzi, colto in palese contraddizione sulle pensioni d’oro dalla trasmissione “Presa Diretta”, che ha trasmesso un’intervista rilasciata a Bruno Vespa un anno e mezzo fa quando Renzi era in corsa per la leadership del Partito democratico e poi, sempre a Vespa, qualche tempo fa, nelle vesti di premier. La contraddizione è palese: il Renzi del dicembre 2013 cavalca l’onda dell’antipolitica e proclama la necessità di tagliare senza pietà le pensioni sopra i 3.500 euro netti. Il Renzi premier, nemmeno un anno dopo, nel settembre 2014, afferma esattamente il contrario, ovvero che pensioni oltre i 2.800 euro non sono d’oro e non vanno assolutamente tagliate. Cambia anche l’entità della manovra. Prima Renzi assicurava che tagliando le pensioni d’oro si potevano risparmiare addirittura dai 4 ai 12 miliardi di euro, poi il beneficio per le casse pubbliche si riduce ad appena 100 milioni di euro.Renzi è stato giustamente massacrato dal popolo di Internet. Sono fioriti gruppi su Facebook che grondano indignazione per quella che viene considerata una presa per i fondelli. Ma a interessarmi non è tanto la sua giravolta, che può sorprendere solo chi ancora non ha capito la natura del personaggio e la sua inconsistenza politica, quanto le sue tecniche di comunicazione. Ascoltatelo bene. Renzi parte sempre evocando un luogo comune, un sentore comune, scandendo bene le parole, come se stesse parlando al bar. Conquistato l’assenso implicito dell’ascoltatore, lancia il suo proclama presentandolo sempre come la cosa più ovvia del mondo, o meglio la cosa giusta da fare per chi – ovviamente come lui – persegue il bene del paese. E lasciando intendere che lui è di quella idea da sempre. Renzi è un parlatore innato ma ha evidentemente affinato la propria oratoria con tecniche di persuasione tipiche degli spin doctor. Sa che la gente ha la memoria cortissima e che da sempre, anche in Italia, si lascia incantare da chi parla bene; anzi da chi la vende bene. La bufala, ben inteso.In America a lungo i candidati presidenziali per screditare i propri rivali hanno chiesto agli elettori: comprereste un’auto usata da quest’uomo? Aggiorno lo slogan. E voi, di Renzi? E’ superfluo che indichi la mia risposta. Ma gli italiani? Se non fosse stato per il servizio di Riccardo Iacona e della sua squadra, il clamoroso dietrofront di Renzi sarebbe passato inosservato. In realtà è passato comunque inosservato, perché gli altri media non hanno ripreso il servizio di “Presa Diretta”, che ha avuto eco solo su Facebook, raggiungendo alcune centinaia di migliaia di persone. Troppo poco per cambiare il percepito degli elettori. E allora la risposa è: sì, gli italiani ancora gli credono. E continueranno fino a quando non scopriranno che l’auto comprata con tanto entusiasmo da quel simpatico venditore toscano che assomiglia a Mister Bean e fa le smorfie mentre parla, li avrà lasciati a piedi. Ma a quel punto sarà troppo tardi per recriminare. E il danno ormai compiuto.(Marcello Foa, “Tagli pensioni d’oro: Renzi rinnega Renzi, ma gli italiani se ne accorgono?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 27 febbraio 2015).Su Facebook sta furoreggiando un video di Matteo Renzi, colto in palese contraddizione sulle pensioni d’oro dalla trasmissione “Presa Diretta”, che ha trasmesso un’intervista rilasciata a Bruno Vespa un anno e mezzo fa quando Renzi era in corsa per la leadership del Partito democratico e poi, sempre a Vespa, qualche tempo fa, nelle vesti di premier. La contraddizione è palese: il Renzi del dicembre 2013 cavalca l’onda dell’antipolitica e proclama la necessità di tagliare senza pietà le pensioni sopra i 3.500 euro netti. Il Renzi premier, nemmeno un anno dopo, nel settembre 2014, afferma esattamente il contrario, ovvero che pensioni oltre i 2.800 euro non sono d’oro e non vanno assolutamente tagliate. Cambia anche l’entità della manovra. Prima Renzi assicurava che tagliando le pensioni d’oro si potevano risparmiare addirittura dai 4 ai 12 miliardi di euro, poi il beneficio per le casse pubbliche si riduce ad appena 100 milioni di euro.