Archivio del Tag ‘disinformazione’
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L’altra verità sui Panama Papers (e non fa onore alla stampa)
I Panama Papers di clamore ne hanno suscitato. Indignazione, anche, com’è inevitabile quando vengono rivelati i conti milionari di centinaia di personalità di caratura mondiale. Ma siamo sicuri che si tratti di giornalismo? La risposta non è affatto scontata. Certo, sarebbe molto facile e comodo unirsi al coro di indignazione e di condanna per le rivelazioni. La stampa internazionale tende ad essere conformista e se un pool di prestigiose testate pubblica i risultati di quella che viene presentata come una straordinaria inchiesta giornalistica la “verità” trasmessa al mondo diventa univoca e incontestabile. I dubbi, in realtà, sono doverosi: ciò a cui assistiamo in queste ore non ha per nulla le stigmate del giornalismo di inchiesta, semmai di qualcos’altro ben più ambiguo e poco onorevole. Di certo rappresenta il bis di un altro scandalo esploso esattamente tre anni fa. Ricordate? Nell’aprile del 2013 l’International Consortium of Investigative Journalism – lo stesso che oggi propizia i Panama Papers – diffuse i nomi di 130.000 conti nei paradisi fiscali e delle fiduciarie di tutto il mondo che avevano aiutato i loro prestigiosi clienti ad aprirli; uno scandalo che lambì anche la Svizzera e naturalmente anche il Ticino con la diffusione dei nomi di alcuni studi.Lo schema mediatico di allora è identico a quello che emerge ora: una fonte passa al Consorzio di giornalismo una quantità enorme di documenti segreti, talmente colossale da indurlo a coinvolgere un certo numero di testate giornalistiche nella lettura e nella selezione di migliaia di documenti, la cui autenticità, però, è assicurata. Da chi? Ma dalla fonte stessa, che però non viene rivelata alle testate. Garantisce il direttore dell’International Consortium of Investigative Journalism. E questo è il punto: giornalismo di inchiesta presuppone un lavoro faticoso, duro, talvolta rischioso, in cui i giornalisti seguono una prima traccia, trovano riscontri, cercano più testimoni incrociando le prove. E’ un esercizio ben diverso sia dall’Offshore leaks che dai Panama Papers, in cui ai giornalisti è stato semplicemente chiesto di setacciare montagne di carte, senza indagare, senza approfondire, senza incrociare, svolgendo una mansione più che da reporter da reporter investigativo, da speleologo dell’informazione.Pochi commentatori, sia allora sia oggi, si sono posti la domanda fondamentale: com’è possibile che una sola fonte abbia potuto avere accesso a segreti custoditi gelosamente da studi professionali iperprotetti, trafugando dossier di dimensioni tali da non poter essere sottratti da un solo impiegato infedele? Parliamo di 11 milioni di documenti, che riguardano 200mila società in un arco di tempo lunghissimo, 40 anni! Chi e per quale ragione ha potuto compiere un’operazione così ampia, così sofisticata e così strumentale nei bersagli finali Non abbiamo una risposta certa ma sappiamo che le guerre moderne si combattono non solo con la forza militare, bensì anche – e talvolta soprattutto – con strumenti asimmetrici come la pirateria informatica, dunque con il trafugamento di informazioni sensibili. E avendo letto attentamente e con angoscia le rivelazioni di Edward Snowden, l’ex analista dei servizi segreti americani, non ci stupiamo più di nulla. Nessun archivio è davvero al sicuro, nulla di quanto scriviamo su un computer è davvero soltanto nostro. C’è chi ha accesso alla vita digitale di ogni uomo e di ogni società, in qualunque parte del mondo e può disporne a piacimento. Anche a Panama, un tranquillo lunedì di aprile, usando i media come straordinario, compiacente e compiaciuto detonatore.(Marcello Foa, “L’altra verità sui Panama Papers, e non fa onore alla stampa”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 4 aprile 2016).I Panama Papers di clamore ne hanno suscitato. Indignazione, anche, com’è inevitabile quando vengono rivelati i conti milionari di centinaia di personalità di caratura mondiale. Ma siamo sicuri che si tratti di giornalismo? La risposta non è affatto scontata. Certo, sarebbe molto facile e comodo unirsi al coro di indignazione e di condanna per le rivelazioni. La stampa internazionale tende ad essere conformista e se un pool di prestigiose testate pubblica i risultati di quella che viene presentata come una straordinaria inchiesta giornalistica la “verità” trasmessa al mondo diventa univoca e incontestabile. I dubbi, in realtà, sono doverosi: ciò a cui assistiamo in queste ore non ha per nulla le stigmate del giornalismo di inchiesta, semmai di qualcos’altro ben più ambiguo e poco onorevole. Di certo rappresenta il bis di un altro scandalo esploso esattamente tre anni fa. Ricordate? Nell’aprile del 2013 l’International Consortium of Investigative Journalism – lo stesso che oggi propizia i Panama Papers – diffuse i nomi di 130.000 conti nei paradisi fiscali e delle fiduciarie di tutto il mondo che avevano aiutato i loro prestigiosi clienti ad aprirli; uno scandalo che lambì anche la Svizzera e naturalmente anche il Ticino con la diffusione dei nomi di alcuni studi.
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Soros e i Putin-Papers, quando il pesce puzza dalla testa
«Quando ho aperto le news, questa mattina, mi è venuto da sorridere: Putin fra coloro che nascondono i propri soldi nei paradisi fiscali. E ti pareva – ho pensato – ora ci manca solo che scoprano che è un pedofilo, e il ritratto del grande babau sarà finalmente completato». Così Massimo Mazzucco liquida immediatamente la super-sparata giornalistica destinata a screditare il leader russo. Ed è in buona compagnia: la stessa Wikileaks, scrive la “Stampa”, accusa gli Stati Uniti e il miliardario americano d’origine ungherese George Soros di essere dietro i “Panama Papers”, e in particolare dietro all’attacco sferrato contro il presidente russo. Lo twitta l’organizzazione di Julian Assange, secondo cui tutto sarebbe passato attraverso l’Occrp (Organized Crime and Corruption Project), finanziato da Usaid, l’agenzia Usa per lo sviluppo. La struttura che fa capo a Soros, si legge sul sito di Wikileaks, oltre che da Usaid è appoggiata dalle Open Society Foundations, nonché da organizzazioni giornalistiche come l’International Consortium of Investigative Journalists, da “Scoop” e dal Cpi, Center for Public Integrity.«La notizia dei Panama Papers, infatti, non avrebbe nulla di sconvolgente, se non fosse per il risalto esagerato che si è voluto dare alla figura del leader russo all’interno di questo presunto nuovo scandalo», scrive Mazzucco su “Luogo Comune”. «Ma quando vedi che tutte le testate occidentali – dal New York Times alla Bbc, dall’Espresso alla Cnn – mettono l’accento su Vladimir Putin, allora ti viene da sorridere: è chiaro che si tratta di una operazione di discredito progettata a tavolino». La cosa più “divertente”? «Tutte queste testate si danno un gran da fare per riempire la prima pagina con le foto dei vari personaggi coinvolti nello scandalo – da Cameron a Montezemolo, da Messi a Jackie Chan – ma il primo in alto a sinistra è quasi sempre lui: Vladimir Putin». Un’altra cosa che salta all’occhio, in una rosa così forbita di grossi personaggi mondiali, è «la totale assenza di un qualunque nome americano di rilievo». È come se il Dipartimento di Stato avesse chiesto alla Cia: avete qualcosa da poter utilizzare contro Putin? Sì, certo. Un bel mazzo di grossi nomi, che nascondono i loro soldi a Panama. Basta aggiungerci quello di Putin e far circolare lo “scoop” sui soliti canali, avendo però cura si “sbianchettare” gli americani.«La predominanza totale della figura di Putin da un lato, e la totale assenza di grossi nomi americani dall’altro, porta automaticamente a sospettare che questa sia la classica operazione telecomandata da Washington, per portare avanti la campagna di discredito contro il leader russo», conclude Mazzucco. «La tragedia è che ora, pur di stare al gioco, i giornalisti di mezzo mondo fanno finta di credere che se davvero un uomo come Putin volesse nascondere i soldi dalle tasse, sarebbe costretto a mettersi nelle mani di una qualunque holding di offshore panamense (pronta a ricattarlo in qualunque momento)». Non è credibile, secondo l’analista italiano, che il capo del Cremlino abbia dovuto far ricorso a simili sistemi di elusione fiscale: «Queste cose le fanno gli industriali e i personaggi pubblici di mezzo mondo, non le fanno gli ex-capi del Kgb».«Quando ho aperto le news, questa mattina, mi è venuto da sorridere: Putin fra coloro che nascondono i propri soldi nei paradisi fiscali. E ti pareva – ho pensato – ora ci manca solo che scoprano che è un pedofilo, e il ritratto del grande babau sarà finalmente completato». Così Massimo Mazzucco liquida immediatamente la super-sparata giornalistica destinata a screditare il leader russo. Ed è in buona compagnia: la stessa Wikileaks, scrive la “Stampa”, accusa gli Stati Uniti e il miliardario americano d’origine ungherese George Soros di essere dietro i “Panama Papers”, e in particolare dietro all’attacco sferrato contro il presidente russo. Lo twitta l’organizzazione di Julian Assange, secondo cui tutto sarebbe passato attraverso l’Occrp (Organized Crime and Corruption Project), finanziato da Usaid, l’agenzia Usa per lo sviluppo. La struttura che fa capo a Soros, si legge sul sito di Wikileaks, oltre che da Usaid è appoggiata dalle Open Society Foundations, nonché da organizzazioni giornalistiche come l’International Consortium of Investigative Journalists, da “Scoop” e dal Cpi, Center for Public Integrity.
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E noi dovremmo combattere per quest’Europa da incubo?
Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione. Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini». A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.Se si fosse realizzata, l’Europa sognata a Ventotene avrebbe certamente emozionato per le tensioni ideali che l’avevano generata, e appassionato per il progetto politico cha avrebbe a sua volta alimentato. Sarebbe stata un’Europa capace di costruire relazioni internazionali fondate sulla pace e il dialogo, di gettare ponti tra culture, di offrire esempi circa lo stare insieme come società. Un’Europa nella quale credere, per la quale combattere con la forza e la determinazione di chi è mosso da valori alti. Purtroppo l’Europa di Bruxelles non ha nulla a che spartire con l’Europa di Ventotene. È un Superstato di polizia economica, che con ottusità e fanatismo impone l’osservanza delle leggi del mercato, pianificando nel loro nome il dominio sulle persone. Non solo: è un Leviatano che sull’altare del principio di concorrenza sacrifica la democrazia, denigrata come feticcio di chi ancora coltiva l’illusione di poter resistere agli imperativi categorici formulati dal mercato. Altrimenti detto, l’Europa di Bruxelles è la prosecuzione dell’incubo che il sogno di Ventotene voleva definitivamente archiviare.Non solo è l’Europa del pareggio di bilancio, dell’austerità, del lavoro precarizzato e svalutato, delle privatizzazioni e liberalizzazioni, della distruzione del welfare, dei debiti pubblici e privati. Ma è anche l’Europa che per realizzare tutto questo deve necessariamente comprimere la democrazia. Le misure appena richiamate producono livelli impressionanti di disoccupazione, sacche di povertà sempre più vaste a fronte di una crescente concentrazione della ricchezza, disagio sociale e scempio ambientale: per imporle occorre disattivare o almeno forzare il circuito democratico. Insomma, il sistema di dominio economico sulle persone presidiato dalla costruzione europea non potrebbe mai essere avallato da un sistema fondato sulla sovranità popolare. Per questo i Trattati europei si sono premurati di spoliticizzare il mercato, di renderlo un luogo messo al riparo dal conflitto democratico, affidato a una tecnocrazia selezionata in quanto depositaria di un sapere scientifico indiscutibile, in virtù del quale provvedere all’efficiente amministrazione dell’esistente. Con ciò mostrando di ritenere, come in epoca fascista, che la democrazia è solamente aritmetica elettoralistica, fiducia mal riposta nella mera consistenza numerica di mutevoli maggioranze che «per loro natura non possono partecipare all’esercizio del potere e all’emanazione di leggi».Si usa dire che le crisi possono avviare circoli virtuosi e dunque rappresentare occasioni di riscatto o rinascita tanto insperate quanto robuste. Nel caso dell’Europa di Bruxelles sono invece il momento in cui il Re si appalesa in tutta la sua imbarazzante nudità, l’opportunità per mostrare al mondo l’esaurimento della propria ragion d’essere. La crisi economica e finanziaria ha mostrato tutti i limiti del dogmatismo tecnocratico, incapace di modificare politiche fiscali pensate per un ciclo economico espansivo: di impedire che divenissero il catalizzatore di un declino di cui non si vede la fine. Con il risultato che la Banca centrale europea sta oramai da tempo tentando di supplire attraverso politiche monetarie che per ora si mostrano semplicemente inefficaci, mentre in futuro potrebbero rivelarsi all’origine di nuove bolle finanziarie e dunque di nuovi disastri. La crisi dei profughi ha sbattuto in faccia a masse di disperati tutta la pochezza e l’isteria di un ceto politico rappresentativo di mezzo miliardo di persone e un terzo circa del prodotto interno lordo mondiale, disposto però ad accogliere solo qualche decina di migliaia di migranti. E per il resto pronto a tutto pur di non vedere la tragedia umanitaria che questo sta provocando e provocherà: occhio non vede e cuore non duole.I profughi che giungeranno dalla Turchia verranno infatti restituiti alle autorità di Ankara, a parole nel rispetto del diritto internazionale, ma nei fatti in violazione dei più elementari diritti di chi fugge dalle guerre. In cambio la Turchia potrà perseverare nella sua politica di annientamento del popolo curdo, oltre che di scempio dei diritti del suo popolo, ottenere ingenti aiuti finanziari di cui non si potrà verificare la destinazione, e tornare a sperare in un ingresso nell’Unione europea. E che dire delle reazioni al terrorismo islamico. Nella migliore delle ipotesi hanno condotto a misure eccezionali rivelatesi efficaci solo nell’intaccare il sistema delle libertà fondamentali: con danni all’ordine democratico ora violato, oltre che dalle politiche austeritarie, anche da quelle securitarie. Ma sono altri e forse più gravi i danni provocati dal terrorismo: se lo stato di eccezione ha una scadenza temporale, lo stesso non può dirsi per il dilagare di discorsi identitari incentrati su valori premoderni.Assistiamo alla riaffermazione di una sorta di orgoglio cattolico, essenza delle mitiche radici cristiane europee, da agitare contro l’islamizzazione del Vecchio continente. Il tutto articolato secondo il consueto rosario fatto di dio, patria e famiglia, invocati con fervore crociato da un crescente stuolo di invasati che propongono cure sempre meno distinguibili dal male contro cui sono dirette. E ovviamente si tratta degli stessi invasati che, al netto delle generiche invettive contro i complotti orditi dalle banche, sono tra i più rigidi sacerdoti del neoliberalismo: l’altra religione che sta soffocando la politica e l’economia e europee. Insomma, è davvero difficile difendere questa Europa, che più è sotto attacco e più si mostra indifendibile. Forse è questa la vera arma dei terroristi, decisamente più micidiale dei loro ordigni, perché niente e nessuno appare al momento capace di disinnescarla.(Alessandro Somma, “Combattere per questa Europa?”, da “Micromega” del 26 marzo 2016).Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione. Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini». A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.
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Quelli che credono che sia tutto falso, gli attentati e i morti
«Dubitare di tutto o credere tutto sono due soluzioni ugualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere» (Jules Henri Poincarè). Hanno iniziato con l’11 Settembre. Dicevano che non era vero niente, che tutto quello che abbiamo visto in televisione era falso, che non c’era nessun aereo che ha colpito le Torri Gemelle, che era tutta una messinscena creata a tavolino con le tecnologie digitali. Lo si capiva – dicevano – perché il “naso” dell’aereo spuntava da una delle due torri, oppure perché in certi fotogrammi televisivi l’ala dell’aereo sembrava momentaneamente scomparire. Poi c’è stata Sandy Hook. Anche questa era tutta una messinscena governativa: i ragazzini morti non erano morti davvero, e i genitori che li piangevano erano soltanto degli attori professionisti, pagati per fingere. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che uno di loro addirittura rideva, mentre raccontava della strage, e lo si capiva dal fatto – dicevano – che le ombre sul terreno non coincidevano con l’orario in cui sarebbe avvenuta la sparatoria.Poi c’è stata la maratona di Boston. Anche quella tutta una messinscena, con morti e feriti che non erano altro che manichini o attori professionisti. Poco importava se addirittura si fosse vista l’esplosione della bomba in diretta Tv. Era chiaramente – dicevano – una finta bomba. Poi c’è stato l’assassinio in diretta tv della giornalista americana. Anche quello era tutto un falso, secondo queste persone, girato in studio davanti ad un greenscreen. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che le assi del pavimento visto dall’alto non combaciavano con quelle viste dalla prospettiva del telecronista. Poi c’è stato Charlie Hebdo. Tutto falso anche quello. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che il poliziotto colpito a terra non perdeva nemmeno una goccia di sangue, mentre gli sparavano in testa. Poi c’è stato il Bataclàn. Anche quello, secondo loro, era tutta una messa in scena. Non si spiegavano altrimenti – dicevano – le scarsissime foto dell’eccidio all’interno del locale parigino.E poi c’è stato Bruxelles, l’altro giorno. Anche quello, tutto falso. Tutto una grandiosa messa in scena. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che c’erano in giro pochissime foto dei morti e dei feriti all’aeroporto, e che il colore della parete del metrò di Bruxelles era diverso da quello delle fotografie. Le argomentazioni, in ciascuno dei casi, sono molto varie e molto articolate. Ma qui non si tratta di metterle in discussione una per una (l’abbiamo già fatto in abbondanza, caso per caso), quanto piuttosto di comprendere il meccanismo stesso che porta certe persone ad immaginare queste complicatissime messinscene, rifiutandosi poi di riconoscere la loro intrinseca assurdità. La prima domanda che bisognerebbe porsi, infatti, di fronte a questo genere di ipotesi, è un semplicissimo “perché”? Perché mai andare a complicarsi la vita con una manipolazione digitale, in un centinaio almeno di video diversi, creando addirittura dei falsi fori di entrata degli aerei (con esplosivi, si presume), quando in realtà sarebbe stato 1000 volte più semplice prendere due aerei e schiantarli veramente contro le torri gemelle? Dove sarebbe la logica, in una scelta del genere?Perché mai andare ad inventarsi un massacro nella scuola di Sandy Hook, che t’impone poi di far scomparire letteralmente dalla circolazione tutti coloro che hai elencato come vittime, quando in realtà è molto più semplice mettere una bomba e farla esplodere davvero? Perché mai raccontare che 130 persone sono morte massacrate, disseminando il pavimento di manichini, di sangue cinematografico e di falsi cadaveri, quando in realtà era molto più semplice ammazzare veramente 130 poveri sventurati? Perché dover ricorrere a degli attori – e stiamo parlando di centinaia di attori, nel caso di Bruxelles – per mettere in scena tutte quelle persone che fuggono sul piazzale dell’aeroporto, oppure che si riversano sui marciapiedi fuori dalla fermata del metrò, quando bastano due semplici bombe, piazzate negli stessi luoghi, per ottenere lo stesso risultato?Si potrebbe andare avanti all’infinito, ad elencare le complicazioni e le difficoltà – e quindi le scarsissime probabilità di riuscita – che incontrerebbe chiunque volesse mettere in piedi una messinscena così complicata, ma forse a questo punto conviene fare un’altra considerazione, e domandarsi perché si arrivi anche solo ad immaginare una tale mancanza di senso pratico, da parte di chi organizza gli attentati. Io ritengo che dopo l’11 Settembre (quello vero, perpetrato con veri aerei scagliati contro le Torri Gemelle) in molti di noi sia completamente crollato il muro delle certezze, al punto di non fidarsi più di nulla e di nessuno. Ci siamo sentiti abbandonati, soli, in balìa del nostro destino. In altre parole, con l’11 Settembre i media ci hanno così profondamente tradito, rispetto alla fiducia che riponevamo il loro, che da quel giorno non crediamo più assolutamente a nulla di quello che i media ci raccontano. Nemmeno al fatto che è esplosa una semplice bomba nella metropolitana di Bruxelles.(Massimo Mazzucco, “Quelli che «è tutto falso»”, da “Luogo Comune” del 28 marzo 2016).«Dubitare di tutto o credere tutto sono due soluzioni ugualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere» (Jules Henri Poincarè). Hanno iniziato con l’11 Settembre. Dicevano che non era vero niente, che tutto quello che abbiamo visto in televisione era falso, che non c’era nessun aereo che ha colpito le Torri Gemelle, che era tutta una messinscena creata a tavolino con le tecnologie digitali. Lo si capiva – dicevano – perché il “naso” dell’aereo spuntava da una delle due torri, oppure perché in certi fotogrammi televisivi l’ala dell’aereo sembrava momentaneamente scomparire. Poi c’è stata Sandy Hook. Anche questa era tutta una messinscena governativa: i ragazzini morti non erano morti davvero, e i genitori che li piangevano erano soltanto degli attori professionisti, pagati per fingere. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che uno di loro addirittura rideva, mentre raccontava della strage, e lo si capiva dal fatto – dicevano – che le ombre sul terreno non coincidevano con l’orario in cui sarebbe avvenuta la sparatoria.
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Carpeoro: l’élite ricorre alle bombe perché adesso ha paura
Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.Questa la sintesi della posizione di Carpeoro, espressa durante un lungo intervento alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 29 marzo, condotta da Fabio Frabetti con la partecipazione di Paolo Franceschetti, indagatore di molti misteri irrisolti della cronaca italiana. Sul tappeto, l’analisi della situazione internazionale all’indomani dell’ultima ondata di attentati terroristici, da Bruxelles al Pakistan. «E’ evidente che il problema non è l’Isis, ma chi lo manovra», premette Carpeoro, che peraltro denuncia come “deliranti” le tante fantasie complottiste che inondano il web: «Assurdo perdere tempo a domandarsi se è autentico o meno il video di un attentato trasmesso in televisione: i morti sono reali, e nessuno si sforza di capire cosa c’è dietro all’organizzazione stragistica». Certo la colpa non è dell’Islam: «Per secoli, i musulmani hanno protetto ogni minoranza perseguitata, compresi gli ebrei». Siamo noi, colonialisti occidentali, che nell’ultimo scorcio storico abbiamo represso e depresso i popoli arabi, “coltivando” deliberatamente la disperazione di massa che oggi può produrre anche il fenomeno dei kamikaze. Ma bisogna sapere che si tratta di dinamiche accuratamente pilotate: non dal Califfo, ma da chi detiene il potere reale, economico e finanziario, in Occidente.Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi denuncia apertamente – per la prima volta – il ruolo criminoso di alcune superlogge segrete del vertice occulto internazionale, come ha “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, cui avrebbero aderito anche personaggi come Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan. Una macchina perfetta per attuare la strategia della tensione a livello geopolitico, dall’11 Settembre fino alla creazione dell’Isis per destabilizzare il Medio Oriente e imporre ovunque la logica della guerra. Dal canto suo, Carpeoro cita spesso un grande intellettuale come Francesco Saba Sardi, che nel saggio “Dominio” condanna la natura oppressiva del potere sorto all’epoca della prima civilizzazione: con la scoperta dell’agricoltura nasce la guerra per il possesso della terra, quindi lo sfruttamento del lavoro e l’istituzione religiosa per la manipolazione psicologica di soldati e lavoratori. Carpeoro segnala il progressivo e fatale deterioramento delle condizioni sociali, imposto da un potere che ricorre ad un pensiero di tipo “magico”: fa’ quello che ti dico e avrai un premio, l’importante è non ti chieda mai il vero perché delle cose.«Per sua natura, il potere tende sempre a degradarsi col passare del tempo: un vecchio boss mafioso non avrebbe mai seppellito scorie tossiche nel prato dove giocano i suoi figli». Un ragionamento che prende in prestito da Noam Chomsky una celebre riflessione sulla comunicazione mainstream, ispirata dal potere: il pubblico viene “astratto” dalla percezione del reale e rinchiuso in un “cerchio magico”, in cui vigono le regole del “mago”, il persuasore di massa, il cui obiettivo è sempre la manipolazione, quindi la neutralizzazione della coscienza critica di chi ascolta. «A questo scopo, viene regolarmente fabbricato un nemico da detestare». Quando questo nemico tramonta – esempio, Al-Qaeda – c’è già pronto il nuovo nemico, l’Isis. «L’importante è che noi odiamo il nemico di turno, senza collegare le cose e senza mai domandarci chi vi sta dietro, a chi serve tutto il male che viene creato a suon di bombe». E’ la legge della paura, per paralizzare la società: strategia della tensione, appunto.«L’intensità del terrorismo sta crescendo – sottolinea Carpeoro – perché, evidentemente, chi lo organizza pensa di non avere più altre chances per dominarci». A preoccupare i registi occulti del terrore, sempre secondo Carpeoro, sono le importanti defezioni che ormai si registrano in tutto l’Occidente, dall’Europa agli Usa, anche nel mondo massonico e finanziario, ma non solo: «Alle primarie americane un “socialista” dichiarato come Bernie Sanders si è imposto nello Stato di Washington: un segnale inequivocabile». Qualcosa si è incrinato, nell’élite di potere, e i vecchi “dominus” non si sentono più così al sicuro: temono di perdere l’attuale onnipotenza, che consente loro – attraverso la finanza – di fare e disfare popoli, guerre, crisi, esodi (e affari colossali, nell’impunità più assoluta). Ed ecco allora il crescere dell’instabilità, il ricorso sistematico al terrore. I grandi assenti? Manco a dirlo, siamo noi: serve una contro-politica, per imporre un nuovo sistema di valori, capace di farci uscire dal delirio crisi-guerra. Se scoppiano più bombe, dice Carpeoro, è perché chi comanda ha paura che si possa arrivare a un rovesciamento dell’attuale governance. Problema: «Ci vorrà molto tempo, e intanto la situazione peggiorerà ancora. Non possiamo restare a guardare, bisognerà pur fare qualcosa». E cioè: spingere la società a risvegliarsi, per rompere l’assedio dell’orrore, ormai sistematico e quotidiano.Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.
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Pilger: Terza Guerra Mondiale, solo Trump non la vuole
Ho filmato nelle Isole Marshall, a nord dell’Australia, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Ogni volta che dico alla gente dove sono stato, mi chiedono: «Dove si trovano?». Se come indizio faccio riferimento a “Bikini”, dicono: «Vuoi dire il costume da bagno». Pochi si rendono conto del fatto che il costume da bagno bikini è stato chiamato così per celebrare le esplosioni nucleari che hanno distrutto l’isola di Bikini. Sessantasei dispositivi nucleari furono fatti brillare dagli Stati Uniti nelle Isole Marshall tra il 1946 e il 1958 – l’equivalente di 1,6 bombe [della potenza di quella che colpì] Hiroshima – ogni giorno, per dodici anni. Oggi Bikini tace, trasformata e contaminata. Le palme crescono in una strana disposizione a griglia. Nulla si muove. Non ci sono uccelli. Le lapidi nel vecchio cimitero sono tuttora radioattive. Le mie scarpe registrano un “pericoloso” sul contatore Geiger. Sulla spiaggia, ho visto il verde smeraldo del Pacifico sprofondare in un grande buco nero. È il cratere causato dalla bomba all’idrogeno che chiamavano “Bravo”. L’esplosione avvelenò la gente e l’ecosistema per centinaia di chilometri, forse per sempre.Al mio ritorno, fermandomi all’aeroporto di Honolulu notai una rivista americana chiamata “Women’s Health”. Sulla copertina c’era una donna sorridente in bikini, e il titolo: “Anche voi, potete avere un corpo da bikini”. Pochi giorni prima, nelle Isole Marshall, avevo intervistato donne che hanno avuto “corpi da bikini” molto diversi; ognuna di loro soffriva di cancro alla tiroide e di altri tumori mortali. A differenza della donna sorridente sulla rivista, tutte erano povere: vittime e cavie umane di una superpotenza rapace che oggi è più pericolosa che mai. Racconto questa mia esperienza come avvertimento e per interrompere una confusione che ha stremato tanti di noi. Il fondatore della propaganda moderna, Edward Bernays, descrisse questo fenomeno come «la manipolazione consapevole e intelligente di abitudini e opinioni» delle società democratiche. Lo chiamò un «governo invisibile». Quante sono le persone consapevoli del fatto che una guerra mondiale è cominciata? Per il momento si tratta di una guerra di propaganda, di menzogne, di distrazione, ma tutto ciò può cambiare istantaneamente con il primo ordine sbagliato, con il primo missile.Nel 2009, il presidente Obama si trovava davanti ad una folla adorante nel centro di Praga, nel cuore dell’Europa. Lì si impegnò a rendere il mondo «libero da armi nucleari». La gente lo applaudì e alcuni piansero. Un torrente di banalità fluì da parte dei media. Successivamente, ad Obama fu assegnato il premio Nobel per la Pace. Era tutto falso. Stava mentendo. L’amministrazione Obama ha costruito più armi nucleari, più testate nucleari, più sistemi di distribuzione nucleari, più fabbriche nucleari. La sola spesa per le testate nucleari è cresciuta di più sotto Obama che sotto ogni altro presidente americano. Spalmato su trent’anni, il costo supera il trilione di dollari. Si sta pianificando la fabbricazione di una mini-bomba nucleare. È conosciuta come la B61 Modello 12. Non c’è mai stato nulla di simile. Il generale James Cartwright, un ex vice presidente del Joint Chiefs of Staff, ha detto: «Facendolo più piccolo [rende l'utilizzo di questo ordigno nucleare] un’arma più plausibile».Negli ultimi diciotto mesi, il più grande accumulo di forze militari dalla Seconda Guerra Mondiale – pianificato dagli Stati Uniti – si sta attuando lungo la frontiera occidentale della Russia. È dai tempi dell’invasione di Hitler all’Unione Sovietica che la Russia non subisce una minaccia tanto evidente da parte di truppe straniere. L’Ucraina – un tempo parte dell’Unione Sovietica – è diventata un parco a tema della Cia. Dopo aver orchestrato un colpo di stato a Kiev, Washington controlla effettivamente un regime che è vicino e ostile alla Russia: un regime letteralmente infestato da nazisti. Parlamentari ucraini di spicco sono i diretti discendenti politici dei famigerati fascisti dell’Oun e dell’Upa. Inneggiano apertamente a Hitler e chiedono l’oppressione e l’espulsione della minoranza di lingua russa. Raramente questo fa notizia in Occidente, o la si inverte per sopprimere la verità. In Lettonia, Lituania ed Estonia – alle porte della Russia – l’esercito americano sta schierando truppe da combattimento, carri armati, armi pesanti. Di questa estrema provocazione alla seconda potenza nucleare del mondo non si parla in Occidente.Quello che rende la prospettiva di una guerra nucleare ancora più pericolosa è una campagna parallela contro la Cina. Sono rari i giorni in cui la Cina non raggiunge il rango di “minaccia”. Secondo l’ammiraglio Harry Harris, comandante della flotta statunitense nel Pacifico, la Cina sta «costruendo un grande muro di sabbia nel Mar Cinese Meridionale». Ciò a cui fa riferimento è che la Cina sta approntando piste di atterraggio nelle Isole Spratly, che sono oggetto di un contenzioso con le Filippine – una controversia senza priorità fino a quando Washington non fece pressioni corrompendo il governo di Manila, mentre il Pentagono ha lanciato una campagna di propaganda chiamata “libertà di navigazione”. Cosa significa tutto ciò, in realtà? Significa che le navi da guerra americane hanno la libertà di pattugliare e dominare le acque costiere della Cina. Provate ad immaginare la reazione americana se navi da guerra cinesi facessero la stessa cosa al largo della costa della California.Ho girato un film intitolato “La Guerra che non vedete”, in cui ho intervistato illustri giornalisti in America e in Gran Bretagna: reporter del calibro di Dan Rather della “Cbs”, Rageh Omaar della “Bbc”, David Rose dell’“Observer”. Tutti hanno detto che se i giornalisti e le emittenti mediatiche avessero fatto il loro dovere e messo in discussione la propaganda che asseriva che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa, e se le bugie di George W. Bush e Tony Blair non fossero state amplificate e riportate dai giornalisti, l’invasione dell’Iraq nel 2003 non sarebbe avvenuta, e centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sarebbero ancora vivi, oggi. In linea di principio la propaganda che sta preparando il terreno per una guerra contro la Russia e/o la Cina non è diversa. Per quanto ne so io, nessun giornalista occidentale tra i più quotati – uno come Dan Rather, per dire – chiede perché la Cina sta costruendo piste di atterraggio nel Mar Cinese Meridionale.La risposta dovrebbe essere palesamente ovvia. Gli Stati Uniti stanno circondando la Cina con una rete di basi con missili balistici, gruppi d’assalto, bombardieri armati di testate nucleari. Questo arco letale si estende dall’Australia alle isole del Pacifico, le Marianne e le Marshall e Guam nelle Filippine, quindi in Thailandia, a Okinawa, in Corea e in tutta l’Eurasia, in Afghanistan e in India. L’America ha appeso un cappio intorno al collo della Cina. Ma questo non fa notizia. Il silenzio dei media è guerra tramite i media. In tutta segretezza, nel 2015, gli Stati Uniti e l’Australia hanno inscenato la più grande esercitazione militare “aria-mare” della storia recente, chiamata “Talisman Sabre”. Lo scopo era quello di collaudare un piano di battaglia “aria-mare”, bloccando arterie marittime, come lo Stretto di Malacca e lo Stretto di Lombok, che tagliano l’accesso della Cina al petrolio, gas e altre materie prime vitali che arrivano dal Medio Oriente e dall’Africa.Nel circo noto come la campagna presidenziale americana, Donald Trump è stato presentato come un pazzo, un fascista. Certamente odioso lo è; ma è anche una figura di odio mediatico. Questo da solo dovrebbe suscitare il nostro scetticismo. Il punto di vista di Trump sulla migrazione è grottesco, ma non più grottesco di quello di David Cameron. Non è Trump il “grande deportatore” dagli Stati Uniti, ma il vincitore del Premio Nobel per la Pace, Barack Obama. Secondo un geniale commentatore liberale, Trump sta «scatenando le forze oscure della violenza» negli Stati Uniti. Sta scatenando? Questo è il paese dove i poco più che lattanti sparano alle loro madri e dove la polizia ha dichiarato una guerra assassina contro i neri americani. Questo è il paese che ha attaccato e cercato di rovesciare più di 50 governi, molti dei quali democrazie, e bombardato dall’Asia al Medio Oriente, causando morte e privazioni a milioni di persone. Nessun paese può uguagliare questo sistematico record di violenza. La maggior parte delle guerre americane (quasi tutte contro paesi indifesi) sono stati lanciate non da presidenti repubblicani, ma da democratici liberali: Truman, Kennedy, Johnson, Carter, Clinton, Obama.Una serie di direttive del Consiglio di Sicurezza Nazionale, nel 1947, determinava che l’obiettivo primario della politica estera americana fosse “un mondo sostanzialmente fatto a propria [dell'America] immagine”. L’ideologia era l’americanismo messianico. Eravamo tutti americani. Altrimenti…. gli eretici sarebbero stati convertiti, sovvertiti, corrotti, macchiati o schiacciati. Donald Trump è un sintomo di tutto ciò, ma è anche un anticonformista. Dice che è stato un crimine invadere l’Iraq; lui non vuole andare in guerra contro la Russia e la Cina. Il pericolo per il resto di noi non è Trump, ma Hillary Clinton. Lei non è anticonformista. Lei incarna la resilienza e la violenza di un sistema il cui decantato “eccezionalismo” è totalitario, con un occasionale volto liberale. Mentre il giorno delle elezioni presidenziali si avvicina, la Clinton sarà salutata come il primo presidente donna, a prescindere dai suoi crimini e menzogne – proprio come Barack Obama è stato osannato come il primo presidente nero e i liberali si bevvero le sue sciocchezze sulla “speranza”. E lo sbavare continua.Descritto dal giornalista del “Guardian” Owen Jones come «divertente, affascinante, con un’impassibilità che sfugge praticamente ad ogni altro politico», l’altro giorno Obama ha inviato droni a macellare 150 persone in Somalia. Di solito lui uccide la gente il martedì, secondo quanto scrive il “New York Times”, quando gli viene consegnato un elenco di candidati per la morte da drone. Molto cool. Nella campagna presidenziale del 2008, Hillary Clinton minacciò di «annientare totalmente» l’Iran con armi nucleari. Come segretario di Stato sotto Obama, ha partecipato al rovesciamento del governo democratico dell’Honduras. Il suo contributo alla distruzione della Libia nel 2011 è stato quasi allegro. Quando il leader libico, il colonnello Gheddafi, fu pubblicamente sodomizzato con un coltello – un omicidio reso possibile dalla logistica americana – la Clinton gongolava per la sua morte: «Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto».Uno dei più stretti alleati della Clinton è Madeleine Albright, l’ex segretario di Stato, che ha attaccato le giovani donne che non sostengono “Hillary”. Questa è la stessa Madeleine Albright, tristemente ricordata per aver detto in tv che la morte di mezzo milione di bambini iracheni era «valsa la pena». Tra i più grandi sostenitori della Clinton troviamo la lobby israeliana e le società di armi che alimentano la violenza in Medio Oriente. Lei e suo marito hanno ricevuto una fortuna da Wall Street, e lei sta per essere nominata come candidato delle donne, per sbarazzarsi del malvagio Trump, il demone ufficiale. I suoi sostenitori includono femministe illustri: gente del calibro di Gloria Steinem negli Stati Uniti e Anne Summers in Australia. Una generazione fa, un culto post-moderno ora conosciuto come “politica dell’identità” ha fatto sì che molte persone intelligenti e dalla mentalità liberale smettessero di esaminare le cause e gli individui che sostenevano – come le falsità di Obama e della Clinton, o come i fasulli movimenti progressisti tipo “Syriza” in Grecia, che hanno tradito il popolo di quel paese e si sono alleati con i loro nemici. L’essere assorbiti da se stessi, una sorta di “me-ismo”, è diventato il nuovo spirito del tempo nelle società occidentali privilegiate ed ha siglato la fine dei grandi movimenti collettivi contro la guerra, l’ingiustizia sociale, la disuguaglianza, il razzismo e il sessismo.Oggi, il lungo sonno potrebbe essere terminato. I giovani si stanno scuotendo di nuovo, gradualmente. Le migliaia in Gran Bretagna che hanno sostenuto Jeremy Corbyn come leader laburista fanno parte di questo risveglio – come lo sono quelli che si sono radunati per sostenere il senatore Bernie Sanders. La settimana scorsa in Gran Bretagna, il più stretto alleato di Jeremy Corbyn, John McDonnell, ha impegnato un prossimo governo laburista a pagare i debiti delle banche piratesche, cioè a continuare di conseguenza, la cosiddetta austerità. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha promesso di sostenere la Clinton se e quando sarà nominata come candidato presidenziale. Anche lui ha votato perché l’America usi la violenza contro altri paesi quando pensa che sia «giusto». Dice che Obama ha fatto «un ottimo lavoro».In Australia, c’è una sorta di politica mortuaria, in cui i noiosi giochi parlamentari vengono riproposti nei media, mentre i rifugiati e gli indigeni sono perseguitati e la disuguaglianza cresce, insieme al pericolo di guerra. Il governo di Malcolm Turnbull ha appena annunciato un cosiddetto bilancio per la difesa di 195 miliardi di dollari che avvicina alla guerra. Non c’è stato alcun dibattito. Silenzio. Dov’è andata a finire la grande tradizione di azione diretta popolare, slegata dai partiti? Dove sono il coraggio, la fantasia e l’impegno necessari per iniziare il lungo viaggio verso un migliore, giusto e pacifico mondo? Dove sono i dissidenti dell’arte, del cinema, del teatro, della letteratura? Dove sono quelli che romperanno il silenzio? O aspettiamo che venga sparato il primo missile nucleare?(John Pilger, riassunto di una recente lezione tenuta all’Università di Sydney, dal titolo “Una Guerra Mondiale è cominciata”; post ripreso dal sito “Counterpunch” del 23 marzo 2016 e tradotto da Gianni Ellena per “Come Don Chisciotte”. Di origine australiana, tra i più noti e prestigiosi giornalisti internazionali, Pilger ha ricevuto numerosi premi e dottorati per le sue battaglie per i diritti umani ed è stato nominato per ben due volte “Giornalista dell’anno” in Inghilterra).Ho filmato nelle Isole Marshall, a nord dell’Australia, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Ogni volta che dico alla gente dove sono stato, mi chiedono: «Dove si trovano?». Se come indizio faccio riferimento a “Bikini”, dicono: «Vuoi dire il costume da bagno». Pochi si rendono conto del fatto che il costume da bagno bikini è stato chiamato così per celebrare le esplosioni nucleari che hanno distrutto l’isola di Bikini. Sessantasei dispositivi nucleari furono fatti brillare dagli Stati Uniti nelle Isole Marshall tra il 1946 e il 1958 – l’equivalente di 1,6 bombe [della potenza di quella che colpì] Hiroshima – ogni giorno, per dodici anni. Oggi Bikini tace, trasformata e contaminata. Le palme crescono in una strana disposizione a griglia. Nulla si muove. Non ci sono uccelli. Le lapidi nel vecchio cimitero sono tuttora radioattive. Le mie scarpe registrano un “pericoloso” sul contatore Geiger. Sulla spiaggia, ho visto il verde smeraldo del Pacifico sprofondare in un grande buco nero. È il cratere causato dalla bomba all’idrogeno che chiamavano “Bravo”. L’esplosione avvelenò la gente e l’ecosistema per centinaia di chilometri, forse per sempre.
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Giannuli: contro l’Isis, in televisione un catalogo di fesserie
Dal paragone (delirante) con le Br e il terrorismo interno degli anni di piombo alle proposte surreali per garantire la sicurezza degli italiani: da Aldo Giannuli, un catalogo delle più incredibili stupidaggini ascoltate in televisione. In questi giorni mi è capitato di partecipare a varie trasmissioni televisive sul tema Isis (ed altre ne ho viste senza parteciparvi) e, pertanto, mi è capitato di sentirne di tutti i colori, da parte di autorevoli esponenti istituzionali e pretesi esperti che hanno dato fondo a tutte le loro risorse intellettuali per fornirci un bestiario di rara ricchezza. Sarebbe un peccato disperdere tali perle di saggezza, per cui ho curato questo primo breve catalogo. I nomi degli autori li lascio perdere per una forma di caritatevole amnesia, metto fra parentesi solo data e rete in cui fu pronunciato il memorabile detto (se poi qualcuno si riconoscesse, mi dia pure querela e non avrò difficoltà a dire a chi mi riferisco in queste righe). Si badi che questo florilegio è stato composto sulla base di sole 3 trasmissioni.1 – L’isis è come le Brigate Rosse e i nostri servizi hanno una grande esperienza in materia (Rai, 23 marzo). Le Brigate Rosse furono un episodio di terrorismo interno, la cui consistenza non superò mai il migliaio di persone nello stesso tempo, quasi esclusivamente di nazionalità italiana; causarono circa un centinaio di morti, non ricorsero mai ad attentati con esplosivo e non fecero mai stragi indiscriminate; non hanno mai fatto attentati suicidi, non ebbero mai un territorio su cui esercitare una sovranità di fatto; ebbero una limitatissima conoscenza dei meccanismi della guerra psicologica; si finanziarono essenzialmente con rapine e sequestri di persona, non fecero mai operazioni finanziarie ed ebbero un bilancio complessivo probabilmente inferiore ai 2 miliardi di lire del tempo, equivalenti a meno di 20 milioni di dollari attuali; ebbero una caratterizzazione ideologica marxista.L’Isis è una organizzazione che ha compiuto attentati e, dunque, ha una rete organizzata in non meno di 13 paesi, ha circa 60.000 combattenti organizzati nel solo territorio del Califfato e almeno altri 20.000 considerando Nigeria, Libia, rete europea ecc; da circa 2 anni ha un territorio su cui esercita un potere statale per una superficie superiore a quella di qualche stato europeo, più cento morti li ha fatti in una sola azione a Parigi (13 novembre), agisce essenzialmente tramite stragi indiscriminate spesso con esplosivo usato in azioni suicide; si finanzia con traffici di petrolio e reperti archeologici, oltre che con rapine e sequestri, riscuotono tasse e, soprattutto, fanno speculazioni finanziarie, per un bilancio complessivo superiore ai 500 milioni di dollari; dimostra una grande capacità comunicativa e conoscenza dei meccanismi della guerra psicologica; ha una ideologia islamista. In cosa si somigliano?2 – I terroristi fanno sempre le stesse cose (Rai 23 marzo). Il che è una banalità o è un’affermazione radicalmente sbagliata. Ovviamente esiste una tipologia di comportamento che noi etichettiamo sotto il nome di terrorismo, la cui essenza è che c’è un soggetto non sovrano, che quindi non ha un territorio e, pertanto non dispone, normalmente, di armi pesanti, che sfida un soggetto sovrano, opponendo l’arma della clandestinità allo strapotere militare dell’avversario. In questo, dai terroristi macedoni dei primi del Novecento alle Br, dall’Ira ad Al-Qaeda. Ma, detto questo, poi il terrorismo (ma sarebbe meglio dire la guerra irregolare) è il regno della fantasia dove le forme di lotta sono le più disparate e variamente combinate. In particolare l’Isis presenta caratteri di assoluta originalità come il suo carattere “anfibio” (di cui dico meglio nel libro) fra semi stato sovrano e organismo occulto. Appiattire tutto sul dejavu è l’esatto contrario di quanto l’analista dovrebbe fare, e preclude la comprensione del nemico che occorre battere. Solo un dilettante può fare una affermazione del genere.3 – L’Isis è come la Germania nazista (Canale 5, 22 marzo). Anche qui la foga spinge a dire sciocchezze. Qui non si tratta di stabilire la gerarchia di chi è più cattivo, ma capire le caratteristiche proprie del soggetto che si vuol combattere. Le differenze ideologiche, politiche, organizzative, di status, ecc, fra Isis e Germania nazista sono tali che non è neppure il caso di elencarle, anche se entrambe hanno caratteri che possiamo sommariamente definire “totalitarie”. Il punto è che il messaggio sottinteso di questa pseudo-analogia è che occorre non ripetere gli errori fatti con la Germania nazista, ad esempio con l’accordo di Monaco del 1938 e quindi sollecitare l’intervento di terra contro l’Isis. Che il Califfato vada tolto di mezzo è fuori discussione, e che questo passi per uno scontro anche di terra è anche evidente, ma questo non significa che tocchi ad europei ed americani farlo. La situazione politico-militare è ben più complessa e richiede una manovra molto articolata.4 – L’Isis è diversa dalle Br perché quelle, pur se in modo bizzarro, avevano una loro razionalità, mentre nel caso dell’Isis prevalgono forti elementi di irrazionalismo (Rai, 23 marzo). Qui almeno ci si accorge che Br ed Isis sono cose diverse, ma solo per ripescare uno dei luoghi comuni più triti ed inservibili: il terrorista come pazzo e, perciò stesso, imprevedibile ed incomprensibile. Mettiamoci in testa che i capi dell’Isis non sono affatto irrazionali, anzi sono estremamente razionali, anche se feroci. La ragione non preserva dalla ferocia. Il guaio è che questo pregiudizio ci impedisce di capire la logica con cui Daesh si muove.5 – E’ giusto far presidiare stazioni ed aeroporti in forze ed in divisa perché la gente deve sentirsi rassicurata (Rai, 23 marzo). Qui uno sprazzo di verità. Mi spiego meglio: presidiare in divisa e con mitra in bella mostra non solo ridice l’efficacia della tutela (perché il terrorista lo vede che il posto è presidiato e studia come agire o scansare quell’obiettivo) ma, indirettamente, indica al terrorista gli obiettivi non protetti. Una legge di comportamento dice che il terrorista colpisce l’obiettivo che gli hai lasciato e, siccome è impossibile tutelare tutto, questo induce ad un attentato in zona non protetta. Al contrario, la forma anonima della protezione metterebbe il terrorista nella condizione di non sarebbe né se un posto e protetto né con quali forze e dispositivi. Ma, questo è il punto, all’autorità politica non interessa tanto che i cittadini siano effettivamente tutelati ma che pensino di esserlo. Certamente questo è molto più redditizio elettoralmente. Congratulazioni.6 – E’ corretto chiudere i siti jhiadisti per evitare che l’Isis possa fare reclutamento (Canale 5, 22 marzo, Rai, 22 marzo e 24 marzo). In verità la censura in qualsiasi forma e verso una propaganda comunque esercitata ha sempre avuto effetti minimi sul reclutamento dei gruppi terroristi; se fosse così facile ostacolare il reclutamento, non si capirebbe perché i terrorismi spesso riescono a durare anche un decennio. Al contrario, tenere aperti i siti servirebbe a ricavare informazioni sui contenuti, sulla cultura politica, sulle eventuali divisioni, sui flussi informativi, ecc, e consentirebbe anche un’azione di contrasto sullo stesso terreno. Morale: nell’ultimo anno, gruppi in genere siglati come “Anonimous” hanno identificato ed oscurato circa 5.000 siti jhiadisti. Oggi i siti ci sono e più numerosi di prima: che sia una fatica inutile?!7 – I siti jhiadisti vanno resi accessibili solo agli studiosi ed alle forze di polizia (Rai 22 marzo). Questa è la trovata più geniale: oscuriamo i siti per tutti, ma lasciamoli accessibili solo a “polizia e studiosi” che così possono studiarne i contenuti. Bellissimo! Solo che, al di là dei problemi tecnici, gli jihadisti si accorgerebbero in un attimo che il loro sito non è raggiungibile, per cui, a meno di pensare che lavorino volontariamente per polizia e “studiosi”, non si capisce perché dovrebbero continuare a scriverci su. Vorrei chiedere al fine intellettuale che ha fatto la proposta: “Ma fai spesso di queste pensate?”. Nella mia città di origine si dice: “La testa non serve a divider le orecchie”. Questa è la raccolta di sole tre trasmissioni, fatevi un po’ i conti. Vi pare realistico battere l’Isis con questi “esperti” e questi politici?(Aldo Giannuli, “Isis, catalogo delle fesserie in libertà”, dal blog di Giannuli del 24 marzo 2016).Dal paragone (delirante) con le Br e il terrorismo interno degli anni di piombo alle proposte surreali per garantire la sicurezza degli italiani: da Aldo Giannuli, un catalogo delle più incredibili stupidaggini ascoltate in televisione. In questi giorni mi è capitato di partecipare a varie trasmissioni televisive sul tema Isis (ed altre ne ho viste senza parteciparvi) e, pertanto, mi è capitato di sentirne di tutti i colori, da parte di autorevoli esponenti istituzionali e pretesi esperti che hanno dato fondo a tutte le loro risorse intellettuali per fornirci un bestiario di rara ricchezza. Sarebbe un peccato disperdere tali perle di saggezza, per cui ho curato questo primo breve catalogo. I nomi degli autori li lascio perdere per una forma di caritatevole amnesia, metto fra parentesi solo data e rete in cui fu pronunciato il memorabile detto (se poi qualcuno si riconoscesse, mi dia pure querela e non avrò difficoltà a dire a chi mi riferisco in queste righe). Si badi che questo florilegio è stato composto sulla base di sole 3 trasmissioni.
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Cremaschi: terrorismo, per puntellare quest’infame Europa
È insopportabile la retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono le città europee, ultima Bruxelles. Il dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai stravolti e sottomessi al dominio ideologico della casa comune europea assediata. Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni. Ricordate l’immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c’era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli. Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale? Quale Europa, quella che con le politiche di austerità sta da anni colpendo le conquiste sociali dei suoi popoli?Quale Europa, quella che nelle periferie delle sue città più ricche accumula il rancore dei suoi cittadini figli di migranti, fascinati dal fanatismo assassino dei kamikaze? Quale Europa, quella che da 25 anni viene trascinata in guerre sempre più vaste che hanno fatto milioni di morti, guerre promosse dai governi di Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, che non sono europei ma comandano? Abbiamo appreso che l’Italia ha soldati persino in Mali solo perché, nelle stesse ore di Bruxelles, sono sfuggiti ad un attentato. Quale Europa ha deciso di mandarceli? La solidarietà verso le vittime del terrorismo è sentimento ben diverso da quello che la propaganda ci vuole imporre. C’è un potere che usa le stragi per convincere i popoli della bontà della costruzione europea e della necessità di difenderla con le armi. Così chi mette in discussione l’euro è anti patriottico, come lo è chi non vuole che si vada a bombardare, o a invadere, la Libia.Bisogna fermare la guerra proprio nel nome delle vittime innocenti delle stragi che si susseguono. La guerra non è la soluzione, è il problema e dopo 25 anni di interventi militari che han solo provocato altri interventi militari e stragi, dovrebbe essere persino scontato. Invece non lo è, perché l’Europa è imprigionata nella spirale guerra-terrorismo e non riesce a muoversi dal vicolo cieco in cui l’hanno portata i suoi governi e il sistema di potere della sua Unione. E il vicolo cieco della guerra è la stessa strada ove la barriera delle politiche di austerità fa dilagare l’ingiustizia sociale e la rottura delle solidarietà. Bisogna uscire da questa costruzione europea e dalle sue guerre prima che sia troppo tardi per tutti i suoi popoli.(Giorgio Cremaschi, “Basta con questa Europa e le sue guerre”, da “Micromega” del 22 marzo 2016).È insopportabile la retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono le città europee, ultima Bruxelles. Il dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai stravolti e sottomessi al dominio ideologico della casa comune europea assediata. Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni. Ricordate l’immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c’era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli. Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale? Quale Europa, quella che con le politiche di austerità sta da anni colpendo le conquiste sociali dei suoi popoli?
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Terrore surrealista, anche a Bruxelles il festival del falso
I morti sono veri, il resto no: a cominciare dalle immagini dell’aeroporto devastato dall’esplosivo, che non è quello di Bruxelles ma quello di Mosca, immagini del 2011 spacciate per attuali da tutte le televisioni. Dopo Charlie Hebdo e la strage del Bataclan, per Roberto Quaglia stiamo ormai viaggiando verso il “terrorismo surrealista”, costruito con una narrazione “impazzita”, senza più alcun legame con la realtà. «Il capo dei servizi segreti ucraini tiene ad informarci che “non si stupirebbe” se dietro agli attentati di Bruxelles ci fosse la Russia», mentre il dittatore turco Ergogan, finanziatore dell’Isis attraverso il traffico di petrolio, si dichiara pronto ad aiutare Bruxelles a combattere il terrorismo, pochi giorni dopo avere dichiarato che «non ci sono motivi perché le bombe esplose ad Ankara non possano esplodere a Bruxelles». Non solo: «Per esclusive ragioni di alto surrealismo dobbiamo anche ricordare che in un’intervista a “Bel-Rrt” del 26 aprile 2013 a proposito dei jihadisti belgi il ministro degli esteri belga Didier Reynders aveva dichiarato: “Forse gli faremo un monumento come eroi di una rivoluzione”. Qualcuno dovrebbe ora chiedergli: quel momento è venuto?».
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Chi comanda il mondo: il potere oscuro esce allo scoperto
Si può definire in tanti modi: governo ombra, stato profondo, squadra segreta. Qualunque sia il nome, l’idea è semplice: dietro la facciata del governo apparente che esercita il potere, c’è un gruppo non eletto, privo di responsabilità, in gran parte sconosciuto, che lavora per il perseguimento di obiettivi a lungo termine, qualsiasi sia il partito politico o il fantoccio in carica. All’interno della temuta comunità dei “teorici della cospirazione”, l’idea è emersa qua e là nel corso degli anni. L’assassinio di Jfk ha dato origine a molti resoconti di tipo confidenziale e a rivelazioni su “The Secret Team”. Lo scandalo Iran-Contra ha portato ad un documentario di Bill Moyers sul governo segreto che dopo 19 anni vale ancora la pena guardare. E’ stato anche apertamente riconosciuto che il 9/11 era stato reso operativo un “governo ombra”. Ma negli ultimi anni ha avuto luogo uno strano fenomeno, che si è intensificato negli ultimi mesi: l’idea di uno “stato profondo” o di un “governo ombra” che controlla la politica, anche negli Stati Uniti, sta diventando mainstream.
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Bombe a Bruxelles, ma noi italiani non possiamo più cascarci
Il nuovo massacro di Bruxelles, con azioni terroristiche tanto ben coordinate quanto sanguinose, cioè con bombe ad alto potenziale non con kamikaze suicidi, ha tutta l’aria di una “prosecuzione” di un piano. Di chi? Contro chi è diretto? Il sancta santorum che guida questa sarabanda non lo conosce nessuno, e dunque tutte le ipotesi sono ugualmente inattendibili. Quelle che subito vaneggiano di “risposta” di Daesh alla cattura dell’ultimo sopravvissuto del 13/11 a Parigi sono però palesemente ridicole. Un piccolo pregiudicato da tempo sotto controllo dei servizi segreti, ex tenutario di un centro di spaccio di droga e di prostitute come la bettola intitolata “La Beguine” nel quartiere di Molenbeek, che riesce a passare indenne attraverso quattro controlli di polizia (francese) prima di rifugiarsi nello stesso quartiere in cui ha sempre vissuto, restandoci per quattro mesi, non poteva essere il “cervello” di niente. Questi attentati erano predisposti da tempo, da qualche centrale di provocazioni in grande stile. Contro chi?Queste bombe sono la prosecuzione di quelle di Parigi del 2015: Charlie Hebdo e il Bataclan. Di Ankara, contro i turisti tedeschi. Sono la prosecuzione della messinscena di Colonia. Sono lo strascico del fiume di profughi. Andiamo con ordine: sono contro di noi. Contro “i popoli d’Europa”. Per ridurre le loro libertà residue e le loro capacità di risposta ai soprusi dei poteri. Infatti il primo risultato, scontato, sarà la sospensione di tutte le garanzie democratiche. È già in corso in Francia, ora sarà la volta del Belgio. Poi, dopo qualche altro attentato, magari in Italia, se per caso non volesse entrare in guerra in Libia, allora sarà la volta del nostro paese. Noi italiani siamo gli ultimi a poter essere ingannati, poiché abbiamo già vissuto la stessa cosa con la strategia della tensione. Questo ci dice che non dobbiamo cadere nella trappola di guardare il dito invece della Luna. Se ci dicono che è Daesh, diffidiamo. Probabilmente è “anche” Daesh. Ma Daesh è lo strumento, e la mano (in parte), ma non la mente.Sono bombe contro “l’Europa dei popoli”, per renderla uno straccio subalterno al potere dell’Impero, per trascinarla in guerra tutta intera, terrorizzata, per mettere la museruola a tutti, anche ai recalcitranti. L’avviso è per tutti non solo per Bruxelles.Chi è la mente non lo possiamo sapere. Ma una cosa che sappiamo è che i servizi segreti europei, tutti, chi più chi meno, sono filiali inquinate e di altri servizi segreti. Più probabilmente di settori, pezzi, frammenti incontrollabili di servizi segreti altrui. Ricordiamo il bellissimo e profetico film di Sydney Pollack, “I tre giorni del Condor”. Per questo non scoprono niente. E non scopriranno niente: perché non sono in condizioni di indagare. Per questo dobbiamo riprendere in mano la nostra sovranità, e cambiarli. Cambiando chi ci governa, e che sgoverna l’Europa, con altro personale, meno vile e più lungimirante. Altrimenti ci faranno arrostire, prima di renderci schiavi.(Giulietto Chiesa, “Bruxelles, al centro della strategia del terrore”, da “Megachip” del 22 marzo 2016).Il nuovo massacro di Bruxelles, con azioni terroristiche tanto ben coordinate quanto sanguinose, cioè con bombe ad alto potenziale non con kamikaze suicidi, ha tutta l’aria di una “prosecuzione” di un piano. Di chi? Contro chi è diretto? Il sancta santorum che guida questa sarabanda non lo conosce nessuno, e dunque tutte le ipotesi sono ugualmente inattendibili. Quelle che subito vaneggiano di “risposta” di Daesh alla cattura dell’ultimo sopravvissuto del 13/11 a Parigi sono però palesemente ridicole. Un piccolo pregiudicato da tempo sotto controllo dei servizi segreti, ex tenutario di un centro di spaccio di droga e di prostitute come la bettola intitolata “La Beguine” nel quartiere di Molenbeek, che riesce a passare indenne attraverso quattro controlli di polizia (francese) prima di rifugiarsi nello stesso quartiere in cui ha sempre vissuto, restandoci per quattro mesi, non poteva essere il “cervello” di niente. Questi attentati erano predisposti da tempo, da qualche centrale di provocazioni in grande stile. Contro chi?
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Guerra in Libia, non sarà certo l’Italia a decidere il da farsi
Stupidamente in questi giorni ci chiediamo se, quando e come l’Italia debba andare a combattere in Libia. Stupidamente, perché, in forza dei trattati di pace con gli Usa e del fatto che i banchieri yankee controllano il sistema bancario italiano, sarà Washington (con al più Londra e Parigi) a decidere che cosa farà l’Italia, anche questa volta, come già ha fatto con Kuwait, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Gheddafi. E lo deciderà senza riguardo agli interessi italiani e alla vita degli Italiani. La storica stabilità della politica estera italiana malgrado la storica mutevolezza dei suoi governi, dipende dal semplice fatto che, a seguito della resa incondizionata agli angloamericani l’8 settembre 1943, sono stati imposti protocolli che stabiliscono che l’Italia obbedisca agli Usa in materia di politica estera (e in altre materie, comprese quella finanziaria), al disopra delle norme costituzionali che proibiscono che l’Italia faccia guerre. Quando personaggi istituzionali italiani e non, preposti alla sicurezza e alla difesa, dicono che si cerca di evitare la guerra e che il problema è in mano all’intelligence, intendono che i servizi segreti militari di paesi Nato, tra cui l’Italia, stanno eseguendo serie di uccisioni mirate di capi “nemici” mediante droni armati, mediante tiratori scelti trasportati con velivoli silenziati o stealth, mediante commandos di Legione Straniera o di corpi simili dei paesi Nato e di Israele.In questi giorni Renzi ha firmato e subito segretato un decreto che estende ai corpi speciali dell’esercito le coperture riservate ai servizi segreti. Il che vuol dire, esplicitamente, che manda le forze armate italiane a uccidere, cioè a fare la guerra, in Libia. Se qualcuno di quei militari sarà catturato dall’Isis, probabilmente sarà torturato e ucciso, oppure scambiato con armi o prigionieri, ma la sua cattura e uccisione (così come lo scambio) sarà tenuta segreta anche ai suoi familiari, non solo alla stampa. Il decreto in questione, essendo in contrasto con l’art. 11 della Costituzione, è illegittimo. La guerra è già in corso, in segreto, non dibattuta, non dichiarata, non autorizzata dal Parlamento, decisa da Washington. E così andava anche con le altre guerre in cui l’Italia ha partecipato: anche i nostri governi mandavano militari sotto copertura a uccidere i capi dei gruppi considerati nemici da Washington. Ma queste pratiche segrete sono da sempre la norma nella politica estera di tutti i paesi. E’ soltanto l’opinione pubblica ignorante, sistematicamente educata dai media a una visione cosmetica della realtà, che si stupisce e scandalizza.Tornando alla Libia, che si dovrebbe fare per stabilizzarla? Il paese chiamato “Libia” comprende 3 regioni storicamente differenti: Fezzan, Tripolitania, Cirenaica, abitate da molte tribù da secoli in competizione o guerra tra loro. Un paese con una popolazione tribale, senza senso civico e democratico, più abituata a combattere che a lavorare, e con un’enorme ricchezza petrolifera che attira gli appetiti armati di potenze occidentali, le quali ricorrono alla guerra per assicurarsi pozzi e porti, e per toglierli agli altri (all’Eni, in particolare – vedi l’assassinio di Mattei). Come stabilizzare un siffatto paese e un siffatto popolo? E’ ovvio: bisogna che Washington, Londra e Parigi si accordino per spartirsi quelle risorse, che distruggano le forze in campo (usando l’Onu e lo pseudo-governo di Tobruk per deresponsabilizzarsi e dando il comando militare alla serva Italia), che mettano al potere un dittatore armato e finanziato da loro, col duplice incarico di reprimere ogni opposizione o disordine col terrore, e di consentire lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Mutatis mutandis, è quello che stanno realizzando in Italia mediante Renzi e le sue riforme elettorale e costituzionale, che concentrano nel premier i tre poteri dello Stato, limitano la rappresentatività del Parlamento e neutralizzano la funzione dell’opposizione.(Marco Della Luna, “Italia, Libia, guerra, intelligence”, dal blog di Della Luna del 4 marzo 2016).Stupidamente in questi giorni ci chiediamo se, quando e come l’Italia debba andare a combattere in Libia. Stupidamente, perché, in forza dei trattati di pace con gli Usa e del fatto che i banchieri yankee controllano il sistema bancario italiano, sarà Washington (con al più Londra e Parigi) a decidere che cosa farà l’Italia, anche questa volta, come già ha fatto con Kuwait, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Gheddafi. E lo deciderà senza riguardo agli interessi italiani e alla vita degli Italiani. La storica stabilità della politica estera italiana malgrado la storica mutevolezza dei suoi governi, dipende dal semplice fatto che, a seguito della resa incondizionata agli angloamericani l’8 settembre 1943, sono stati imposti protocolli che stabiliscono che l’Italia obbedisca agli Usa in materia di politica estera (e in altre materie, comprese quella finanziaria), al disopra delle norme costituzionali che proibiscono che l’Italia faccia guerre. Quando personaggi istituzionali italiani e non, preposti alla sicurezza e alla difesa, dicono che si cerca di evitare la guerra e che il problema è in mano all’intelligence, intendono che i servizi segreti militari di paesi Nato, tra cui l’Italia, stanno eseguendo serie di uccisioni mirate di capi “nemici” mediante droni armati, mediante tiratori scelti trasportati con velivoli silenziati o stealth, mediante commandos di Legione Straniera o di corpi simili dei paesi Nato e di Israele.