Archivio del Tag ‘disintermediazione’
-
Sapelli: Italia senza via d’uscita, hanno svenduto il paese
Cosa sta succedendo in Europa? Che cosa cambia dopo il voto europeo e l’avanzare della trasformazione del sistema delle relazioni tra Stati in Europa e nel mondo? La struttura di questa relazione – scrive lo storico dell’economia Giulio Sapelli – in Europa è costituita da una forma di “superfetazione” tecnocratica, che rende faticosissimo e quasi impossibile l’emergere di un involucro istituzionale che sia idoneo sul piano funzionale a garantire l’unificazione del processo decisionale in atto nella sfera economica con quello in atto nella sfera politica. Com’è noto, aggiunge Sapelli sul “Sussuidiario”, nella storia secolare e ineguale della circolazione delle élite politiche emerse con il capitalismo, «la democrazia rappresenta un risultato assai recente e instabile, nella sua forma dettata dal suffragio universale». Le dittature tra le due guerre e il franchismo, il salazarismo e i colonnelli greci stanno lì a ricordarcelo, fino agli anni Settanta. «La forma politica in cui l’incompiuto impero europeo giunge nel secondo millennio – continua il professore – è quanto di più instabile e meno statico si sia potuto creare, nel rapporto tra economia e politica».Aggiunge Sapelli: «Mentre infatti i profeti dell’impero invocano la centralizzazione poliarchica per affrontare le sfide di una competizione globale che intravedono tra blocchi continentali (tra potenze di mare e di terra), nulla di tale centralizzazione si è realizzata nei decenni che sono seguiti al fatidico 1957 dopo la firma del Trattato di Messina tra Scilla e Cariddi». Lì si è rimasti, secondo Sapelli, «invocando la centralizzazione politica e perpetuando invece la divisione militare, economica e politica di un incompiuto impero», quello europeo, «unificato solo dall’alto con una ragnatela tecnocratica» che è «preda di lobbismo e giurisprudenzialismo», visto che manca «una Carta costituzionale europea» nonché «partiti politici europei», ma anche «grandi gruppi industriali e finanziari europei». E’ assente pure «una disciplina, tanto della politica» (un con Parlamento Europeo che è privo di poteri) «quanto dell’economia», cioè con «regole antitrust pro-consumatori e contro i produttori». Sempre secondo Sapelli, «questa incompiutezza volge al disfacimento, alla disgregazione».Lo dimostrano la Brexit e le recenti elezioni europee, «con la vittoria liberale ed ecologista che proprio queste non omeostaticità amplificheranno sino all’esaurimento». La continuità dell’ordoliberismo, per Sapelli, ormai non è più frenabile (continuità che le forze vincitrici «esaltano, sugli altari della lotta al debito come peccato». E questo «non potrà che rafforzare le spinte centrifughe, con conseguenze che saranno devastanti». Riflessione geopolitica: «L’emergere della Cina come potenza marittima eversiva dell’ordine internazionale non farà che aumentare le spinte centrifughe, attirando a sé le periferie più deboli», cioè il Portogallo e la Grecia, ma anche Italia, «che sta perdendo rapidamente la sua strategica posizione di ultima dei primi e prima degli ultimi». Secondo Sapelli, «è il frutto di un lavorio della borghesia “vendidora” italiana, che inizia nel fatidico 1981 con il cosiddetto divorzio tra Bankitalia e Tesoro e culmina con il Fiscal Compact», approvato dal governo Monti insieme all’inserimento del micidiale pareggio di bilancio nella Costituzione, abbattendo così «ogni possibilità reale e concreta di resistere, per un insediamento stabile a Stato debole come l’Italia».Ormai, sempre per Sapelli, è diventato impossibile «resistere ai venti della disintermediazione finanziaria internazionale», affermatasi negli anni Novanta «con il primitivo volto della lotta alla corruzione», maschera perfetta per coprire il vero obiettivo di un’operazione che avrebbe azzoppato quel che restava della sovranità economica nazionale. «Tutte le aspettative cresciute sull’italico suolo negli ultimi due anni – aggiunge Sapelli – si sono rivelate tradite da parte delle classi politiche peristaltiche elette dai variegati “popoli degli abissi”, mentre quelle che ancora impersonificano le aspettative di ciò che rimane della borghesia nazionale industriale e dei servizi faticano a cogliere il senso della battaglia epocale in corso». Stanno facendo a pezzi l’Italia, e nessuno se ne accorge. Così, conclude Sapelli, «ci si avvia, come i ciechi di Bruegel, verso il baratro di una lotta europea che sarà senza quartiere». Obiettivo della guerra indicata dal professore: «Abbattere le borghesie nazionali italiche, privandole di ogni capacità di resistenza dinanzi alle formule predatorie di una divisione internazionale del lavoro più spietata che mai». Una sorta di totalitarismo neoliberista che, secondo Sapelli, «non potrà che condurre all’italica desertificazione: amen».Cosa sta succedendo in Europa? Che cosa cambia dopo il voto europeo e l’avanzare della trasformazione del sistema delle relazioni tra Stati in Europa e nel mondo? La struttura di questa relazione – scrive lo storico dell’economia Giulio Sapelli – in Europa è costituita da una forma di “superfetazione” tecnocratica, che rende faticosissimo e quasi impossibile l’emergere di un involucro istituzionale che sia idoneo sul piano funzionale a garantire l’unificazione del processo decisionale in atto nella sfera economica con quello in atto nella sfera politica. Com’è noto, aggiunge Sapelli sul “Sussuidiario”, nella storia secolare e ineguale della circolazione delle élite politiche emerse con il capitalismo, «la democrazia rappresenta un risultato assai recente e instabile, nella sua forma dettata dal suffragio universale». Le dittature tra le due guerre e il franchismo, il salazarismo e i colonnelli greci stanno lì a ricordarcelo, fino agli anni Settanta. «La forma politica in cui l’incompiuto impero europeo giunge nel secondo millennio – continua il professore – è quanto di più instabile e meno statico si sia potuto creare, nel rapporto tra economia e politica».
-
Robecchi: e bravo Renzi, che ora privatizza pure le elezioni
Fate la prova renzino. Non è difficile e non serve nemmeno un laboratorio, basta il tavolino di un bar. Procuratevi soltanto una mezz’oretta e un devoto seguace del premier, di quelli acritici e ultramoderni, di quelli che sono per la “disintermediazione”, parola difficile che serve a descrivere, senza dirla, una gran voglia di discorsi dal balcone, o da Twitter, davanti a folle osannanti. Fatto? Ecco. Ora chiedetegli se Matteo Renzi, nel suo anno di governo, ha cambiato le cose, se ha fatto le riforme. Ne avrete in cambio un profluvio di argomenti entusiasti. Certo che sì! Matteo (lo chiamano così, è un vezzo moderno) ha fatto in un anno quello che lui (lui il renzino) aspettava da trent’anni (sentito dire anche da chi ne ha venticinque). Le Province, il Jobs Act, la pubblica amministrazione, il Senato… Insomma, avrete, in risposta alla vostra domanda, la granitica certezza dell’interlocutore: Renzi sta cambiando il paese. Ora passate alla seconda domanda: perché serve una legge elettorale come l’Italicum?La risposta sarà altrettanto convinta ed entusiasta: perché con l’attuale legge elettorale si è costretti a barcamenarsi e non si fanno le riforme. Ecco fatto: possiamo fermarci qui, a queste due risposte che sono la sostanza del problema. Punto uno: si fanno finalmente le riforme. Punto due: serve una legge elettorale che permetta di fare le riforme perché così non si riesce. È una contraddizione così palese che non meriterebbe commenti. Se Renzi è così bravo da fare tutte queste riforme anche con il risultato ottenuto da Bersani alle ultime elezioni – che tutti definiscono insufficiente, una “non vittoria” – perché vuole una legge elettorale che premi ancora di più l’esecutivo? Una legge che i migliori costituzionalisti descrivono come “pericolosa”? Il refrain non è nuovo e ha illustri precedenti. Bettino Craxi, da capo del governo, lamentava gli scarsi poteri del capo del governo. Berlusconi uguale. E ora Renzi dice lo stesso.Il disegno, insomma, è sempre quello: dare più poteri all’esecutivo a scapito della democrazia parlamentare o del voto dei cittadini (non si vota più per le Province, non si voterà più per il Senato…). E la motivazione è anche quella più o meno uguale: questo “eccesso di democrazia”, di pesi e contrappesi, impedisce di fare le riforme, cosa che si grida a gran voce proprio mentre si grida forte anche: “Ehi, stiamo facendo le riforme!”. Per corroborare questa tesi si descrive il paese come una palude immobile e putrescente, da cui ci salverà finalmente una nuova legge elettorale che annichilisca ogni opposizione. Insomma, mani libere, più potere e meno contrappesi. È l’identico meccanismo del capitalismo italiano, che per tradizione strepita che ci sono, a fermarne la luminosa marcia, troppi “lacci e lacciuoli”, mentre se avesse le mani totalmente libere, sai la cuccagna!Una filosofia che ha le sue varianti con la cosa pubblica: la si indebolisce con clientelismi e gestioni demenziali, si buttano i soldi dalla finestra, la si rende ingiusta e impresentabile, e poi – ultima e conseguente mossa – si chiede che venga privatizzata, un classico. Ecco, l’Italicum è questo: una privatizzazione. Poi uno pensa alle grandi riforme italiane, quelle vere, tipo il Servizio Sanitario Nazionale, e vede che si facevano, eccome, pure con il bicameralismo perfetto, pure con il proporzionale, con governi che cadevano ogni sei mesi e decine di partiti in Parlamento. Senza Italicum, insomma, e senza rischi per la democrazia.(Alessandro Robecchi, “Renzi ha fatto le riforme! E l’Italicum? Serve per le riforme”, da “Micromega” del 2 aprile 2015).Fate la prova renzino. Non è difficile e non serve nemmeno un laboratorio, basta il tavolino di un bar. Procuratevi soltanto una mezz’oretta e un devoto seguace del premier, di quelli acritici e ultramoderni, di quelli che sono per la “disintermediazione”, parola difficile che serve a descrivere, senza dirla, una gran voglia di discorsi dal balcone, o da Twitter, davanti a folle osannanti. Fatto? Ecco. Ora chiedetegli se Matteo Renzi, nel suo anno di governo, ha cambiato le cose, se ha fatto le riforme. Ne avrete in cambio un profluvio di argomenti entusiasti. Certo che sì! Matteo (lo chiamano così, è un vezzo moderno) ha fatto in un anno quello che lui (lui il renzino) aspettava da trent’anni (sentito dire anche da chi ne ha venticinque). Le Province, il Jobs Act, la pubblica amministrazione, il Senato… Insomma, avrete, in risposta alla vostra domanda, la granitica certezza dell’interlocutore: Renzi sta cambiando il paese. Ora passate alla seconda domanda: perché serve una legge elettorale come l’Italicum?