Archivio del Tag ‘Divisione Acqui’
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Moro, storia da riscrivere: prigioniero in una casa dello Ior
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».L’ombra del Vaticano spunta «a cominciare dall’individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), da prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus», scrive Maria Antonietta Calabrò. Nello stabile aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell’Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. «Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato – si legge nel documento – per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». La relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che per alcuni mesi, nell’autunno del 1978, in quello stabile si sarebbe nascosto Prospero Gallinari (il britagatista carceriere di Moro) insieme alle armi usate dal commando che in via Fani sterminò la scorta di Moro. L’alloggio di via Massimi 91 è stato anche il covo-prigione in cui fu detenuto il presidente della Dc? E’ un’ipotesi che la commissione non scarta.Soprattutto, sottolinea l’“Huffington”, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, «la commissione ha accertato che la “narrativa” ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una “versione ufficiale e di Stato” del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga». In altre parole, «l’unica verità “dicibile” per chiudere l’epoca del terrorismo». Una verità di comodo, «messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore: citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell’ordine e naturalmente dai brigatisti». Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, il servizio segreto interno di allora. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Adriana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia «del più importante agente del Kgb in Italia», come l’ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro “L’Archivio Mitrokhin”), per la commissione «è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l’arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato».Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, «il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale». Ancora: «Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse». Al riguardo, Fioroni parla di «martirio laico» di Moro, sacrificato sull’altare della guerra fredda: gli americani preoccupati dall’apertura al Pci, che avrebbe avvicinato l’Italia alla Jugoslavia di Tito, e i sovietici allarmati dall’eurocomunismo di Berlinguer, polemico con Mosca e virtualmente contagioso per gli altri partiti comunisti europei, a partire da quello francese.Un capitolo particolare, aggiunge Maria Antonietta Calabrò, è dedicato alle “protezioni” che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. «La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l’estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani». Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano, riconobbe Casimirri, già latitante, per strada, «Corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo», racconta Vero Grassi, vicepresidente della commissione Fioroni. Il cantante toscano ha raccontato a “Vanity Fair” di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ‘70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, dove Alessio (provetto sub) gli mostrava i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario: sopravvissuto allo sterminio nazista della Divisione Acqui a Cefalonia dopo l’8 settembre del ‘43 (come il protagonista del film “Il mandolino del capitano Corelli”, con Nichoals Cage e Penelope Cruz), era poi stato responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quello che rivolse lo storico appello agli “uomini delle Brigate Rosse” per la liberazione di Moro – sequestrato e trattenuto, si apprende ora, in un palazzo di proprietà del Vaticano.Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».
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Carpeoro: un massone tradì Mussolini, che voleva arrendersi
Mussolini organizzò personalmente l’auto-golpe del 25 luglio, per evitare all’Italia di essere invasa dai nazisti? Archivi massonici finora rimasti top secret potrebbero gettare luce su un clamoroso retroscena della storia italiana. Figura chiave, un esponente di vertice della “libera muratoria” dell’epoca, vicino al Duce, che all’ultimo minuto avrebbe svelato al Vaticano le vere intenzioni del dittatore: simulare la sua deposizione e assegnare a Galeazzo Ciano la guida della futura Rsi, Repubblica Sociale Italiana, con l’incarico di sfilarsi dalla guerra ormai perduta e cercare di far dimenticare il fascismo, abbracciando elementi di socialismo. Una prospettiva allarmante per la Santa Sede, che avrebbe fatto fallire il piano, provocando il precipitare degli eventi – fino alla fucilazione di Ciano – dopo aver tempestivamente riferito ai tedeschi le reali intenzioni dell’entourage mussoliniano. E’ l’ipotesi alla quale sta lavorando Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzioni), già a capo della massoneria italiana di rito scozzese, quella di Piazza del Gesù, custode di archivi riservati come quello del duca-conte Carlo Alberto Di Tullio, dirigente fascista lombardo.Capo dell’Ovra di Pavia sotto la Rsi, Di Tullio fu poi “graziato” dal tribunale partigiano presiediuto da Oscar Luigi Scalfaro: con l’aiuto della Croce Rossa – utilizzando la sua carica – il futuro “gran maestro” Di Tullio aveva messo in salvo decine di ebrei, dopo l’8 settembre 1943. Lo studio di Carpeoro, probabilmente destinato a essere condensato in un volume di prossima pubblicazione, potrebbe comprovare – documenti alla mano (nomi, date, eventi circostanziati) – quella che suona come la possibile “vera storia” del 25 luglio, con il Gran Consiglio del Fascismo al quale, a quel punto, non restò che deporre – davvero – Mussolini, il quale poi sarà confinato sul Gran Sasso e, di lì e poco, “liberato” (suo malgrado?) dai paracadutisti del Führer guidati da Otto Skorzeny. Ammesso che l’ipotetico piano di Mussolini per tentare di passare al post-fascismo fosse autentico e realistico, quanto sarebbe cambiata la storia italiana se fosse andato in porto? Il futuro governo Ciano sarebbe stato protetto dalla longa manus degli inglesi, dai quali il giovane Mussolini era stato a lungo stipendiato come loro agente?Domande che restano nel mondo delle ipotesi, di fronte alla drammatica realtà dell’8 settembre 1943, con l’Italia in balia degli eventi dopo il proclama Badoglio, che lasciava l’esercito allo sbando, senza ordini precisi, e quindi nelle mani degli ex alleati tedeschi, prontamente trasformatisi in invasori. Sullo choc dell’8 Settembre l’Italia ha prodotto un vastissimo patrimonio di testimonianze. Tra le meno note quella di Nuto Revelli, lo scrittore del “Mondo dei vinti”. Militare di carriera (tenente degli alpini) era un fascista convinto, fino alla tragedia della ritirata di Russia, che concluderà a modo suo: spedendo a casa, a Cuneo, tre fucili mitragliatori, in vista della resa dei conti con fascisti e nazisti. Nel memorabile “La guerra dei poveri” (Einaudi), il giovane Nuto – a cui la guerra fascista ha aperto gli occhi, mostrandogli la brutalità e la corruzione del regime – descrive con sgomento, in pagine memorabili, il disfascimento della Quarta Armata, tornata precipiosamente in Italia, attraverso le Alpi, dopo aver abbandonato il Sud della Francia.Anche la “Guerra dei poveri” rivela come, in fondo, la realtà storica è fatta anche di chiaroscuri: lo stato maggiore della Quarta Armata, pur fascista, aveva al seguito centinaia di ebrei, sottratti alla Gestapo. La loro storia, sempre Nuto Revelli la racconterà in una delle sue ultime opere, “Il prete giusto”, che dà la parola a un umile e coraggioso sacerdote, don Raimondo Viale (poi “sospeso a divinis” dalle autorità vaticane), che riuscì a mettere in salvo le famiglie ebree giunte in Italia insieme ai soldati in fuga dalla Provenza. Regione francese che poi lo stesso Revelli contribuì a liberare – altra pagina di storia poco nota – esportando oltralpe la guerra partigiana dopo aver contrastato duramente le colonne corazzate tedesche in valle Stura, sulle montagne cuneesi. La liberazione mise fine a 20 mesi di spaventosa violenza, inaugurati dall’eroico sacrificio della Divisione Aqui che, sull’isola greca di Cefalonia, rifiutò di arrendersi ai tedeschi. Un bilancio di sangue, quello della Resistenza, che secondo gli storici ammonta a decine di migliaia di vittime. Davvero le si sarebbe potute risparmiare, se non fosse stato sabotato (come ipotizza Carpoero) il piano mussoliniano per uscire in sordina dal conflitto mondiale, abbandonando la Germania ed evitando gli orrori della guerra civile?Mussolini organizzò personalmente l’auto-golpe del 25 luglio, per evitare all’Italia di essere invasa dai nazisti? Archivi massonici finora rimasti top secret potrebbero gettare luce su un clamoroso retroscena della storia italiana. Figura chiave, un esponente di vertice della “libera muratoria” dell’epoca, vicino al Duce, che all’ultimo minuto avrebbe svelato al Vaticano le vere intenzioni del dittatore: simulare la sua deposizione e assegnare a Galeazzo Ciano la guida della futura Rsi, Repubblica Sociale Italiana, con l’incarico di sfilarsi dalla guerra ormai perduta e cercare di far dimenticare il fascismo, abbracciando elementi di socialismo. Una prospettiva allarmante per la Santa Sede, che avrebbe fatto fallire il piano, provocando il precipitare degli eventi – fino alla fucilazione di Ciano – dopo aver tempestivamente riferito ai tedeschi le reali intenzioni dell’entourage mussoliniano. E’ l’ipotesi alla quale sta lavorando Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzioni), già a capo della massoneria italiana di rito scozzese, quella di Piazza del Gesù, custode di archivi riservati come quello del duca-conte Carlo Alberto Di Tullio, dirigente fascista lombardo.