Archivio del Tag ‘economicismo’
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Mes e virus, Guzzi: orrore, questa umanità deve insorgere
Il sistema globalizzato, il sistema neoliberista dei poteri che di fatto controlla il mondo (a livello finanziario, economico, sociale, editoriale, di comunicazione di massa) è sostanzialmente suicidario, come dice il grande sociologo Ulrich Beck. E’ una struttura suicidaria, di cui questa Unione Europea sembra solo un’espressione, l’espressione di questo sistema. Per cui credo che opporsi al Mes, pretendere una discussione pubblica, democratica, su questo provvedimento, voglia dire porre uno stop alla direzione suicidaria di questo sistema globale. Come pianeta, come umanità, siamo evidentemente in un punto cruciale e decisivo della storia che conosciamo: un punto che potremmo dire tra crollo e risveglio, oppure se volete tra catastrofe e conversione. Che poi sono due parole che dicono la stessa cosa: catastrofe e conversione indicano semplicemente questo, dobbiamo cambiare rotta, dobbiamo rovesciare la direzione che finora è stata seguita, perché non è percorribile. Ora, il sistema suicidario – e lo vediamo continuamente – si sta compattando, si sta irrigidendo. Si sta militarizzando, perché più si evidenzia – agli occhi di tutti – che è una follia suicida, più questo sistema ha bisogno di limitare l’informazione (direi: di limitare la riflessione).Guardate che la comunicazione di massa entro la quale siamo immersi 24 ore su 24, questo misto orribile di allarmi apocalittici e pubblicità, che viene data per scontata, a mio parere è uno degli strumenti più pericolosi, per la destrutturazione della coscienza democratica. Quindi credo che dobbiamo renderci conto di questo, e animare un risveglio – umano, popolare, culturale e direi anche spirituale – perché altrimenti non avremo proprio gli strumenti per affrontare queste sfide, incalzanti e pericolose, nelle quali ci troviamo a vivere. Direi che questo risveglio – delle anime oppresse, non solo degli esclusi – è certamente un risveglio sociale ed economico, e dobbiamo giustamente utilizzare il linguaggio economico, sociale e politico; ma io credo che non basti, questo linguaggio. Cioè: la prova che ci troviamo a vivere richiede, direi, uno sguardo e delle parole più vaste. Si tratta veramente di parlare di una nuova umanità, che non vuole farsi distruggere.Una nuova umanità deve trovare il suo linguaggio, deve imporre un cambiamento radicale nel monolinguismo nichilistico, economicistico, materialistico e scientistico, che i poteri di questo mondo – “the masters of the universe” (i padroni del mondo, come li chiamano i grandi economisti mondiali) – utilizzano per renderci impotenti. Questo monolinguismo serve a indebolirci, a intimidirci, a farci sentire deboli e depressi – polli d’allevamento, diceva Gaber. Ecco: l’insurrezione di questa nostra umanità dev’essere un’insurrezione poetica, spirituale, ma molto tecnicamente informata, poi, sul piano economico e dei saperi specifici. Questi due livelli devono agire insieme, perché la sfida è troppo grande. Se ci limitiamo a un linguaggio solo economico, alla fine facciamo il gioco della cultura neoliberista, che vuole ridurre tutto a un discorso economico. Ma non ci riuscirà. Auguri.(Marco Guzzi, intervento nella diretta web-streaming “Mes, fermare il contagio” trasmessa su “ByoBlu” e “Pandora Tv” il 7 marzo 2020, registrata su YouTube. Filosofo, poeta e conduttore radiofonico, dal 1999 Guzzi ha avviato l’esperienza dei gruppi “Darsi pace”, una ricerca sperimentale di liberazione interiore nell’orizzonte di una riconiugazione tra fede cristiana e modernità. Dal 2004 dirige la collana “Crocevia” presso le Edizioni Paoline. Dal 2005 tiene corsi presso il “Claretianum”, Istituto di Teologia della Vita Consacrata dell’Università Lateranense. Dal 2008 è professore invitato nella facoltà di scienze dell’educazione dell’Università Pontificia Salesiana. Nel 2009 Benedetto XVI lo ha nominato membro della Pontificia Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Dal 2012 scrive sul blog collettivo Vinonuovo).Il sistema globalizzato, il sistema neoliberista dei poteri che di fatto controlla il mondo (a livello finanziario, economico, sociale, editoriale, di comunicazione di massa) è sostanzialmente suicidario, come dice il grande sociologo Ulrich Beck. E’ una struttura suicidaria, di cui questa Unione Europea sembra solo un’espressione, l’espressione di questo sistema. Per cui credo che opporsi al Mes, pretendere una discussione pubblica, democratica, su questo provvedimento, voglia dire porre uno stop alla direzione suicidaria di questo sistema globale. Come pianeta, come umanità, siamo evidentemente in un punto cruciale e decisivo della storia che conosciamo: un punto che potremmo dire tra crollo e risveglio, oppure se volete tra catastrofe e conversione. Che poi sono due parole che dicono la stessa cosa: catastrofe e conversione indicano semplicemente questo, dobbiamo cambiare rotta, dobbiamo rovesciare la direzione che finora è stata seguita, perché non è percorribile. Ora, il sistema suicidario – e lo vediamo continuamente – si sta compattando, si sta irrigidendo. Si sta militarizzando, perché più si evidenzia – agli occhi di tutti – che è una follia suicida, più questo sistema ha bisogno di limitare l’informazione (direi: di limitare la riflessione).
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Magaldi: “Liberiamo l’Italia” non sa che tutto sta cambiando
Che senso ha invocare il rispetto di una Costituzione brutalmente amputata da Monti nel 2012 con l’obbligo del mostruoso pareggio di bilancio? E che senso ha farlo oggi, proprio mentre i vertici della Bce – l’uscente Draghi e l’entrante Lagarde – ammettono, in modo clamoroso, che bisogna gettare nella spazzatura decenni di austerity, da loro stessi imposta, per “restituire la moneta al popolo” e varare gli eurobond destinati a sostenere i debiti pubblici azzerando il fantasma dello spread? Se lo domanda Gioele Magaldi di fronte a quello che definisce «il velleitarismo rossobruno» dei promotori della manifestazione “Liberiamo l’Italia”, in programma a Roma il 12 ottobre. Bocciatura secca, per qualsiasi generico “sovranismo” gridato: serve solo a rendere impresentabili certe proposte (uscire dall’euro e dall’Ue) che i media si incaricano prontamente di presentare come pittoresche, dunque inoffensive. «A Roma si svolgerà l’ennesima parata malinconica e inutile, come tutte quelle finora promosse da chi, in questi anni, ha compiuto una sorta di idolatria della Costituzione, limitandosi ad auspicarne la piena attuazione, senza mai portare a casa nessun risultato».
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Nasce il Psai: basta rigore, la rivoluzione che serve all’Italia
La Commissione Europea? Abolita. E allora chi governa l’Europa? Un esecutivo finalmente normale, votato dal Parlamento Europeo, democraticamente eletto. E la Bce? Deve cambiare il suo mandato: dovrà creare lavoro, sotto la direzione della politica, e non badare più soltanto alla stabilità dei prezzi per contenere l’inflazione. E il pareggio di bilancio imposto da Monti? Va eliminato subito dalla Costituzione italiana. Di più: bisogna creare la piena occupazione, grazie a un’agenzia speciale per il lavoro, in ogni caso limitato a 35 ore settimanali e remunerato con salari dignitosi. E ancora: ci spetta un reddito universale (per tutti, anche per chi un lavoro ce l’ha già). Cos’è, uno scherzo? No: è la bozza programmatica del Psai, cioè il “Partito che serve all’Italia”. L’aggettivo “rivoluzionario” suona persino eufemistico. Siamo di fronte all’eresia pura, all’utopia. Letteralmente: non esiste, oggi, un posto così. Sarebbe un paradiso. E noi siamo ormai abituati all’inferno ordinario nel quale siamo stati sprofondati poco alla volta, a colpi di austerity e neoliberismo selvaggio spacciato per legge divina (“ce lo chiede l’Europa”, quella del “pilota automatico” che privilegia i soliti super-poteri finanziari, che usano i loro burattini all’Ue per trasformare in legge il loro business privato).Cos’è, allora, questa specie di Rivoluzione della Felicità? Un diversivo letterario? Ma no, dicono i fautori del Psai: si può fare. “The impossible, made possible”. Parola di Nino Galloni, uno dei cervelli dell’esperimento. Cos’è mancato, finora? Una sola qualità, fondamentale: il coraggio politico. Ecco perché nasce, il Psai. Riassunto delle puntate precedenti: fino all’altro ieri (Berlusconi & Prodi, poi Monti e il pallido Letta, quindi l’illusione Renzi e l’avatar Gentiloni) sarebbe stato “lunare” mettere in discussione il predominio della finanza speculativa, mascherato dietro l’oligarchia Ue. Le ostilità le hanno aperte un anno fa i gialloverdi, i 5 Stelle e soprattutto la Lega. Poi però il governo Conte – frenato da Mattarella, Bankitalia e tutto l’eterno establishment italiano telecomandato dall’estero – ha ridotto l’esecutivo alla caricatura di se stesso, almeno stando alle promesse della vigilia. In mano a Di Maio (e Tria), lo sbandierato “reddito di cittadinanza” è diventato una barzelletta, mentre Salvini si costringe ad alzare la voce contro la “capitana” di turno, nella speranza di far dimenticare la pietosa figura rimediata a Bruxelles: prima il “niet” all’espansione del deficit, poi la minaccia della procedura d’infrazione per far ingoiare all’Italia la sua ennesima esclusione dal bunker-Europa, presidiato da Merkel e Macron e ora affidato alle due maschere di turno del Trattato di Aquisgrana, la francese Christine Lagarde e la tedesca Ursula Von del Leyen.Passi avanti, da parte dell’Italia? Uno: la consapevolezza, ormai acquisita, che questa Unione Europea – fatta così – è un clamoroso imbroglio. Non si spiega altrimenti, alle elezioni e nei sondaggi, il successo della Lega: un voto sulla fiducia, nella speranza che un giorno possa fare davvero qualcosa, per il paese, l’unico partito che ha avuto il fegato di spedire in Parlamento Bagnai e Borghi, e a Strasburgo Antonio Maria Rinaldi. In altre parole: s’è capito che è ora di sfrattare Friedman, von Hajek e gli altri cantori del totalitarismo neoliberista, recuperando la lezione di Keynes. O lo Stato torna a investire a deficit, o dell’Italia – senza soldi – non resterà più nulla. Parola d’ordine: inversione radicale della rotta, cestinando quarant’anni di falsi dogmi – il peggiore, la famosa “austerity espansiva” coniata a Harvard (più tagli, più cresci), ha fatto ridere il mondo: i conti di Kenneth Rogoff, sommo sacerdote del rigore, erano vergognosamente errati, sbagliatissimi. E’ vero il contrario: più spendi, più cresci. Si chiama: moltiplicatore della spesa pubblica. Se spendi 100 in termini di deficit strategico, puoi arrivare a produrre anche 300, in termini di Pil. Lo sanno tutti, da Draghi alla Commissione Ue, ma fingono di non saperlo. E obbligano l’Italia a restare in una situazione tragica di “avanzo primario”, ovvero: da decenni, lo Stato incassa (con le tasse) più di quanto spenda per i cittadini. Il che equivale al suicidio dell’economia nazionale.Lo sa anche Salvini, naturalmente, così come Borghi, Bagnai e Rinaldi. Il problema? Finora la Lega ha abbaiato, ma senza mordere. Attenuanti? Svariate: appena i leghisti si muovono, qualche magistrato li blocca. E Armando Siri, l’ideologo della Flat Tax, è stato rottamato per via giudiziaria (pur essendo solo indagato) col benservito dei 5 Stelle, ormai nel panico per aver disatteso qualsiasi promessa elettorale. E dunque, che fare? Elementare: un nuovo partito. Un altro? Ebbene sì, ma diverso: generato dal basso, da gruppi e associazioni. Il primo e unico partito capace di sviluppare una piattaforma democratica di tipo rivoluzionario, in grado di rovesciare – in modo strutturale – tutte le premesse (bugiarde) su cui si fonda il rigore europeo. Galloni, coraggioso economista post-keynesiano, è fra i cervelli dell’operazione. Era consulente del governo quando l’Italia tentava di limitare i danni dell’imminente Trattato di Maastricht, prima che Mani Pulite spazzasse via Craxi e Andreotti. Il cancelliere Kohl arrivò a reclamarne l’allontanamento. Che c’entrava, la Germania? Aveva preteso lo scalpo industriale dell’Italia, sua maggiore concorrente, in cambio della rinuncia al marco, richiesta dalla Francia come viatico per il via libera di Parigi alla riunificazione tedesca. Da allora, l’inevitabile: crisi su crisi. Ma ora basta, dice Galloni, insieme agli altri promotori del Psai (assemblea costituente a Roma il 14 luglio: data non casuale, anniversario della Rivoluzione Francese).E la rivoluzione del “Partito che serve all’Italia”? Altrettanto eversiva: si tratta di abbattere il nuovo Ancien Régime fondato a Bruxelles, che ha instaurato l’attuale “nuovo feudalesimo”, col risultato di deprimere più di mezza Europa, Grecia e Italia in testa. Il traguardo numero uno dei nuovi aspiranti rivoluzionari? Ovvio: abbattere l’austerity europea per salvare l’Italia dalla crisi (e ridare dignità all’Europa, su base finalmente democratica). Centrali i temi economici. Prima bomba: creare una banca interamente pubblica, per introdurre «una moneta parallela sovrana e non a debito, non convertibile fino al 3% del Pil, con l’obiettivo di rilanciare l’economia senza generare debito». Proprio grazie alla leva monetaria, sostiene il Psai, potrà agire in modo incisivo «un Alto Istituto per la Piena Occupazione, incaricato di dare lavoro ai disoccupati». Altra bomba: se fosse al governo, il Psai introdurrebbe un “reddito universale”, destinato a tutti, da adattare annualmente in base all’andamento dell’economia. Reddito vero, «da aggiungersi al normale salario già percepito». Altro che il reddito-burletta elemosinato da Di Maio. Premessa imprescindibile : «Eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione». E poi, creare un’agenzia di rating indipendente da Wall Street, «che renda noti e credibili i criteri di giudizio riguardo gli asset patrimoniali e il debito pubblico e privato», sottraendo l’Italia alle consuete pressioni da parte della grande speculazione.L’affondo, rispetto al mondo finanziario, è frontale: «Vogliamo riformare il sistema bancario e introdurre in Italia una legge simile al Glass-Steagall Act», si legge nella bozza programmatica del Psai. Obiettivo: «Separare l’attività delle banche commerciali e quella delle banche d’affari», mettendo al sicuro i risparmi degli italiani e il credito destinato alle aziende. Fu Roosevelt a imporre il Glass-Steagall Act, per salvare l’America dalla Grande Depressione innescata dalle bolle finanziarie. E fu Bill Clinton ad abolirlo, dopo mezzo secolo (e lo scandalo Lewinsky), per la gioia di Wall Street. Non ha nessuna timidezza, il nascente “Partito che serve all’Italia”, neppure di fronte ai maggiori simboli del potere economico mondiale: vorrebbe «obbligare le multinazionali a replicare a livello nazionale le strutture organizzative globali», per mettere fine alla piaga dello sfruttamento, dei licenziamenti facili e delle delocalizzazioni. Programma folle? Certo, in giro non s’era mai sentito niente di simile: roba da far cadere dalla sedia qualsiasi conduttore televisivo. Il piglio, “garibaldino”, ricorda epoche lontane come gli anni ruggenti, sfrontati e coraggiosi dell’Italia di Enrico Mattei, che infatti poi riuscì a stupire il mondo.Eppure, ragiona Galloni, non c’è altro da fare: cambia tutto, se l’Italia trova finalmente la forza di rigettare l’austerity, recuperando sovranità e capacità di spesa. Ridiventa un mercato appetibile per gli investimenti produttivi, ma soprattutto rianima la domanda interna, l’occupazione, i consumi. In alre parole: riaccende il futuro. Si può fare, dunque? La risposta è sì, per il Psai. Il motore? La moneta parallela: basta a garantire lavoro e investimenti, restituendo agli italiani i loro diritti. Per esempio: età pensionabile non superiore ai 65 anni, orario lavorativo di sole 35 ore settimanali, salario minimo garantito e drastica riduzione delle tasse, anche per i pensionati. L’Iva? Ridotta al minimo per i beni essenziali. Già, ma l’Europa? Ecco, appunto: il Psai propone «un radicale ripensamento dell’attuale Disunione Europea». Come? Restituendo sovranità ai popoli europei: «Occorre attribuire al Parlamento Europeo il potere legislativo, abolendo la Commissione Europea». Il Psai parla anche di «promozione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio Europeo, per renderlo indipendente dall’influenza di singoli paesi, o gruppi di paesi». Non è tutto: oltre a eleggere un nuovo governo europeo, finalmente sovrano e legittimato dal voto, il Parlamento di Strasburgo dovrebbe ottenere «la competenza sulle politiche monetarie», attualmente appannaggio della Bce.La stessa banca centrale – almeno, nel libro dei sogni che il Psai sembra prendere molto sul serio – dovrebbe essere sottoposta a una revisione completa del suo mandato: la Bce «va legata al potere politico, cambiando la sua “mission”: dovrà preoccuparsi di creare piena occupazione». Quanto all’euro, la valuta comune «è da convertire in una moneta contabilmente trasparente, sovrana e in grado di rilanciare l’economia senza generare debito». In altre parole, il Psai chiede di ridiscutere integralmente i trattati europei, ritenendoli «lesivi del diritto di autodeterminazione dei popoli e della dignità della persona umana». Insomma, robetta da niente. Illusioni? Miraggi? Non per i promotori del “Partito che serve all’Italia”, la cui scommessa è palese: creare la prima piattaforma rivoluzionaria che si sia mai vista, dalla nascita dell’Unione Europea, per tentare di dire finalmente le cose come stanno, proponendo inoltre soluzioni pratiche (estremamente sensate) per uscire dal tunnel. Una road map, destinata al giudizio degli elettori. Di più: un nuovo alfabeto, per demifisticare l’economicismo miserabile che ha oscurato la politica, riducendola al piccolo derby tra avversari apparenti, destinati – comunque si voti – a eseguire gli ordini dell’eterno “pilota automatico”, in realtà manovrato dall’oligarchia del denaro che sta impoverendo l’intero continente.La Commissione Europea? Va abolita. E allora chi governa l’Europa? Un esecutivo finalmente normale, votato dal Parlamento Europeo, democraticamente eletto. E la Bce? Deve cambiare il suo mandato: dovrà creare lavoro, sotto la direzione della politica, e non badare più soltanto alla stabilità dei prezzi per contenere l’inflazione. E il pareggio di bilancio imposto da Monti? Va eliminato subito dalla Costituzione italiana. Di più: bisogna raggiungere la piena occupazione, grazie a un’agenzia speciale per il lavoro, in ogni caso limitato a 35 ore settimanali e remunerato con salari dignitosi. E ancora: ci spetta un reddito universale (per tutti, anche per chi un lavoro ce l’ha già). Cos’è, uno scherzo? No: è la bozza programmatica del Psai, cioè il “Partito che serve all’Italia”. L’aggettivo “rivoluzionario” suona persino eufemistico. Siamo di fronte all’eresia pura, all’utopia. Letteralmente: non esiste, oggi, un posto così. Sarebbe un paradiso. E noi siamo ormai abituati all’inferno ordinario nel quale siamo stati sprofondati poco alla volta, a colpi di austerity e neoliberismo selvaggio spacciato per legge divina (“ce lo chiede l’Europa”, quella del “pilota automatico” che privilegia i soliti super-poteri finanziari, che usano i burattini dell’Ue per trasformare in legge il loro business privato).
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Arriva il gigante Putin, e l’Europa dei nani non ha un leader
Arriva a Roma un gigante, Vladmir Putin, che guida la Russia con mano sicura dall’inizio del terzo millennio. Accantoniamo i giudizi di valore, piuttosto controversi, sullo zar venuto dal comunismo e dalla tradizione russa. Parliamo di statura politica: è un grande statista che passerà nel bene e nel male alla storia. Anche Donald Trump e Xi Jinping sono due leader giganti, qualunque cosa positiva o negativa si pensi di loro. E il giapponese Shinzo Abe e l’indiano Narendra Modi sono due statisti che con salda mano guidano i loro paesi, confermati dai loro popoli. A suo modo perfino un autocrate come Erdogan è destinato a passare alla storia. Sarà un mezzo dittatore ma stranamente ha indetto elezioni regolari a Istanbul, le ha perse e lo ha riconosciuto. E l’Europa, invece? L’Europa è governata dai sette nani più la biancaneve tedesca. Juncker, Tusk, o se volete Macron, Sanchez e ora le due signore dell’asse franco-tedesco, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde.In urbe caecorum la Merkel grandeggia sugli altri anche perché ha guidato il paese più grande e grosso dell’Unione; ma è incomparabile per lungimiranza, forza e consenso ai leader extraeuropei prima citati. Oltretutto è una leader sconfitta, sfiduciata, che non rappresenta più nemmeno la Germania. Tra i sette nani, perfino il nostro premier, Giuseppe Conte, pur scaturito artificiosamente, non venuto dalla politica né dall’establishment, appare non certo peggiore, più inadeguato o meno legittimato degli altri partner europei. Pensatela come volete ma se l’Europa oggi conta poco nel mondo, non piace agli europei, è un mezzo fallimento nelle relazioni interne prima che esterne, non sa farsi valere negli scenari internazionali, una quota importante del suo insuccesso lo deve proprio all’assenza di grandi capi. Mezze calzette che fanno eleggere ai posti chiave mezze cartucce. E nei loro paesi sono tutti leader di forte minoranza, con governi precari di coalizioni fragili e assai eterogenee: da Sanchez alla Merkel, passando per tutti gli altri.Si deve arrivare ai paesi più piccoli per trovare leadership salde e governi più omogenei, riconfermati dal voto popolare. Non è per dire, ma il più votato è Viktor Orban, in Ungheria. Ma il suo paese non è tra i grandi e lui nei popolari è a bagnomaria, mezzo sospeso. Non dico leader carismatici o statisti che passeranno alla storia, non dico Adenauer e Schumann, De Gaulle e forse De Gasperi, per restare all’Europa del dopoguerra; ma non c’è nemmeno l’ombra di qualcuno che somigli a Helmut Kohl, François Mitterrand, Margareth Thatcher… Tra i socialisti non c’è nessuno che vagamente somigli a Brandt, Gonzales, a Craxi, a Blair del passato. Non c’è un leader europeo di livello storico manco a pagarlo, non c’è un padre nobile, non c’è un leader naturale o in pectore al di sopra degli altri. Da che dipende? Facile dire che i grandi nascono una tantum e in modo imprevedibile. Sarà pure così ma c’è una spiegazione più forte e articolata che spiega la penuria di leader europei.L’Unione Europea è nata male, intorno a una moneta e a una banca centrale, non è scaturita dalla politica, non è cresciuta intorno alla politica, è un processo dispersivo, policentrico e anonimo, senza un conducente, con un pilota automatico e sotto tutela della Troika, dunque dei potentati economico-tecnocratici-finanziari euro-globali. L’Europa che ripudia la storia elegge leader bonsai. In queste condizioni non poteva avere leader forti, ma solo frutti mediocri del compromesso, zelanti esecutori e funzionari di piccolo cabotaggio. Dacché l’Europa si è unificata con l’euro non è emerso neanche un leader europeo; né dalla Commissione Europea e dalle assemblee parlamentari europee né dai governi e dai Parlamenti nazionali. E la politica di austerità dell’Europa, il gioco in difensiva mostra l’assenza di disegni politici e progetti storici e l’asservimento agli assetti contabili e ai loro funzionari di tutta l’Unione. Per questo trovo un po’ ridicolo parlare di “Più Europa”, come fanno la Bonino e Mattarella: l’Europa è il regno del meno, non del più, vince il low profile, la cordata, il compromesso di medio-basso profilo, la conventio ad excludendum.Viene premiato chi si fa tappetino, chi china la testa e si adegua all’apparato e ai suoi parametri; viene punito chi alza la testa. È una continua selezione a rovescio, dei più deboli, dei più meschini. Mediocri leadership si avvicendano negli Stati e nelle Commissioni Europee. Forse un presidente dell’Europa eletto direttamente dal popolo europeo, pur piena di insidie e controindicazioni, sarebbe una via per favorire un clima favorevole alla nascita e alla crescita di veri leader. Non è il capriccio di un’indole autoritaria ma quando hai di fronte Putin, o anche Trump e Xi Jinping, non puoi pensare di mandarci mezzi leader sfiduciati in casa propria, che non sanno mai parlare a nome dell’Europa ma riescono a malapena a curare gli interessi di bottega nazionali o del Fondo Mondiale. Gli altri hanno i leader, noi abbiamo le foto di gruppo, i cori e le comitive a sovranità limitata. Ci rendiamo poco credibili e soprattutto incapaci di trattare alla pari. Alla Grande Politica rispondiamo coi micro-leader. Europa mignon guidata dalla nano-tecnocrazia…(Marcello Veneziani, “Arriva Putin, e all’Europa manca un leader”, da “La Verità” del 4 luglio 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Arriva a Roma un gigante, Vladmir Putin, che guida la Russia con mano sicura dall’inizio del terzo millennio. Accantoniamo i giudizi di valore, piuttosto controversi, sullo zar venuto dal comunismo e dalla tradizione russa. Parliamo di statura politica: è un grande statista che passerà nel bene e nel male alla storia. Anche Donald Trump e Xi Jinping sono due leader giganti, qualunque cosa positiva o negativa si pensi di loro. E il giapponese Shinzo Abe e l’indiano Narendra Modi sono due statisti che con salda mano guidano i loro paesi, confermati dai loro popoli. A suo modo perfino un autocrate come Erdogan è destinato a passare alla storia. Sarà un mezzo dittatore ma stranamente ha indetto elezioni regolari a Istanbul, le ha perse e lo ha riconosciuto. E l’Europa, invece? L’Europa è governata dai sette nani più la biancaneve tedesca. Juncker, Tusk, o se volete Macron, Sanchez e ora le due signore dell’asse franco-tedesco, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde.
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Magaldi: il coraggio di una vera rivoluzione per il XXI secolo
Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.Coraggio che manca ai nostri politicanti di oggi, tutti preoccupati di abbaiare e di litigare per avere qualche percentuale irrisoria in più alle elezioni europee. Ma poi – una volta al potere – si limitano a vegetare, facendo i propri affari, dimenticandosi di quello che avevano promesso per raccogliere il consenso elettorale. Palme e Sankara sono stati assassinati quando il neoliberismo non voleva ostacoli davanti a sé, nemmeno ideologici, e men che meno da parte di statisti influenti e capaci di bloccare quello che doveva accadere all’inizio degli anni ‘90. Oggi, soffiare sul fuoco della violenza per fermare una rivoluzione anti-neoliberista non appare più una soluzione percorribile, per tante ragioni. C’è ormai una platea di cittadini, in Italia e nel mondo, che vedono ormai con chiarezza quello che non funziona. Tutti i politici che parlano di cambiamento, e poi si dimostrano essere dei bluff, ci mettono poco a essere sbugiardati dal corpo elettorale.Paolo Becchi, già ideologo dei 5 Stelle, oggi – con il libro “Italia sovrana” – si presenta come ideologo di un nuovo sovranismo, interessante nella sua declinazione intellettuale: la contrapposizione tra globalismo e sovranismo. Ma una volta scelto il sistema, globale o nazionale, poi tutto cambia se viene gestito con presupposti neoliberisti o keynesiani, post-democratici o democratici, liberal-conservatori o social-liberali. Di quale ideologia e cultura politica vogliamo nutrire il nostro futuro, nel XXI secolo? Quella dell’inganno neoliberista, secondo cui socialismo e liberalismo sono antitetici, e quella dell’inganno neoaristocratico, secondo cui basta servire su un piatto ai cittadini la ritualità della democrazia, dimenticando la sostanza? Oppure vogliamo richiedere un’idea equilibrata di gestione delle nostre società, nella quale il libero mercato e lo stesso capitalismo non siano demonizzati, ma trovino una complementarità nelle istanze sociali, cioè in un socialismo che è fatto di integrazioni, contrappesi e di una ritrovata autorevolezza di ciò che è pubblico?Pubblico e privato non sono antitetici. La narrazione neoliberista è stata all’insegna della svalutazione di ciò che è pubblico e statuale, della lentezza dei processi democratici rispetto all’esigenza di trattare la cosa pubblica come un’azienda che produce efficienza e profitti. Il mondo della libera impresa, che è storicamente collegato all’affermarsi delle democrazie, è un mondo diverso da quello della sfera pubblica, dove il core business non è la produttività in senso economicistico, bensì quella rete di servizi sociali, civili e materiali, infrastrutturali, che consente lo sviluppo di una vita felice, equilibrata. Le istituzioni pubbliche sono adatte a offrire un’uguaglianza delle opportunità, distinguendosi così dalle (giuste) leggi competitive del libero mercato. Le istituzioni pubbliche parlano di cooperazione, non di competitività.Il Movimento Roosevelt intende offrire un orizzonte ideologico nuovo, da abitare, per i cittadini del XXI secolo. Serve una rivoluzione culturale, perché non basta una semplice riforma dell’esistente. C’è bisogno di affrontare, pacificamente ma in modo deciso e forte, tutta una serie di poteri che non gradiscono questa conversione verso la democrazia sostanziale. La globalizzazione in atto è un processo che offre, piano piano, una disabitudine alla democrazia. E le contrapposizioni violente – su scala locale e internazionale – servono proprio a impedire un approccio di pace e armonia sociale. Quelli come noi vogliono costruire un orizzonte di eliminazione del conflitto sociale, attraverso una compesazione per le diseguaglianze prodotte dal mercato: va bene la disparità generata dal merito individuale, ma in cambio bisogna offrire a tutti i cittadini del globo gli elementi di base che consentono di avere un progetto di vita dignitoso. E’ una cosa che sembra semplice, ma in realtà oggi è rivoluzionaria. Esiste una nuova ideologia, il socialismo liberale, declinabile anche da angolazioni politiche diverse. E l’Italia può fare con orgoglio quello che ha già fatto nei secoli passati: offrire per prima una pietanza politico-culturale e ideologica agli altri popoli, agli altri paesi.Dall’Italia sono sempre partite le primizie – buone e cattive – che poi hanno influenzato il resto del mondo: la civiltà giuridica promana da Roma, l’universalismo giuridico viene dall’Italia romanizzata. E non dimentichiamo la lezione del Rinascimento, una sorta di manifesto ideologico-culturale che diventò poi storia concreta, trasformando le istituzioni e il modo stesso di concepire la realtà. Quel grande italiano che fu Giovanni Pico della Mirandola, con la “Oratio de hominis dignitate” costruì una nuova antropologia: l’antropologia dell’uomo artista, mago e scienziato, che non si limita a chinare il capo come creatura peccaminosa, bisognosa di redenzione, che quindi non ardisce conoscere e mettersi in rapporto dialettico con la natura. Da lì nasce l’idea dell’uomo che può trasformare le cose – la società, la natura stessa. Poi c’è il Risorgimento: i nostri eroi risorgimentali erano presi a modello in tutto il mondo, da popoli che anelavano all’autodeterminazione.C’è stato anche il fascismo, naturalmente: altra primizia italiana. Una dottrina post-democratica e di fatto neoaristocratica, tuttavia affascinante per i tanti che si lasciarono influenzare da quella che – per me, che sono fieramente democratico – non è che una perversione. Siamo orogliosi di essere italiani, senza che questo ci spinga a pensare che abbia davvero un futuro la contrapposizione tra sovranismo e globalismo. Sto molto apprezzando il libro di Paolo Becchi, “Italia sovrana”, e il senso in cui lui parla di sovranismo. Però credo che la sfida vera sia quella di “glocalizzare” la democrazia, uscendo da questo film che contrappone i nazionalismi alle oligarchie globali, come se globalizzare i rapporti fosse per ciò stesso sinonimo di diminuzione della democrazia. Io credo piuttosto che si possano globalizzare anche i diritti universali. Ma come fare, se non si ha una visione globale di questi diritti, e se ciascuno si preoccupa soltanto di recuperare la sovranità del proprio Stato e del proprio popolo?Alla fine, questo è un nazionalismo non aggressivo, teso a sottrarre alle oligarchie apolidi il controllo della moneta, dell’economia, della società e delle istituzioni. Ma come possiamo però immaginare un XXI secolo in cui non ci curiamo di tanti territori, dove le popolazioni non sono mai nemmeno passate per processi democratici?In fondo, anche il processo risorgimentale italiano metteva insieme più Stati e staterelli coi propri usi, tradizioni, dialetti e lingue. Eppure c’era un sentimento di italianità che univa tutti. Ma la lingua italiana era quasi artificiale, creata per unire popoli che parlavano lingue diverse, e si è affermata definitivamente solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie alla Rai. Il Movimento Roosevelt è convinto che l’Italia possa insegnare molto a molti, e che l’orgoglio patriottico (non nazionalistico) del nostro paese possa essere un fattore coesivo, per una proposta politico-culturale convincente.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella video-chat su YouTube del 6 maggio 2019. Presidente del Movimento Roosevelt, Magaldi ripercorre le tappe di quella che chiama “rivoluzione rooseveltiana”: dopo il convegno a Londra il 30 marzo sul New Deal keynesiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, è seguita l’assise milanese del 3 maggio sul socialismo liberale, in omaggio a Rosselli, Palme e Sankara. Il 14 luglio, a Roma, lo stesso Magaldi sarà tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, cantiere politico per offrire un’alternativa agli elettori, superando le timidezze del governo gialloverde, incapace di opporsi al paradigma neoliberista del rigore Ue).Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.
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Gilet Gialloverdi, ora gli italiani si aspettano risposte vere
In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?Salvini è abile, si dice. Ha osato rompere il tabù dell’accoglienza obbligatoria a costo di fare la faccia feroce coi più deboli, anche per smascherare l’ipocrisia egoistica dell’Ue e quella di chi – sui migranti – ha costruito carriere milionarie. Poi però è arrivato il decreto sicurezza, con limitazioni allarmanti alle libertà personali, specie quelle di chi ha motivo di esprimere la propria sofferenza sociale e quindi potrebbe protestare: pesantissime sanzioni per il blocco stradale e l’occupazione di terreni. Poi Salvini ha difeso a oltranza il topo morto che sta marcendo nella pancia del Piemonte, cioè un progetto-vergogna come il Tav Torino-Lione, notoriamente utile solo a chi costruisse tunnel e ferrovia. Infine, dopo aver chiesto mandato “a 60 milioni di italiani” per trattare con l’Ue, ha proposto alla Germania “un asse Roma-Berlino” (alla Germania, cioè al paese che più di ogni altro ha danneggiato l’Italia da quando esiste l’Eurozona). Poco dopo s’è involato verso Israele per la più classica delle genuflessioni diplomatiche, sperando di ottenere l’agognato sdoganamento come leader credibilmente moderato. Solo che si è fatto fotografare “alla Salvini”, tra soldati sorridenti e Stelle di David. Una foto lo ritrae mentre, addirittura, impugna una mitragliatrice. Non pago, il neoleghista post-padano s’è sbilanciato sul terreno della politica estera, definendo “terrorista” il network libanese Hezbollah, impegnato in Siria contro i terroristi veri, quelli dell’Isis.Baravano fin dall’inizio, i gialloverdi? Hanno preso in giro gli elettori italiani fin dal primo giorno di vita del “governo del cambiamento” o si sono semplicemente accorti di aver catastroficamente sottovalutato l’avversario? La flessione ingloriosa di fronte ai ragionieri finto-europeisti della Commissione Europea è un ultimo tentativo (tattico) per prendere tempo in attesa di una prossima controffensiva pro-Italia o è solo il classico inizio della fine, con la sepoltura delle illusioni e la rassegnazione alla consueta chemio-economia del rigore ammazza-Stati? Domande sospese ma ormai ridondanti, vista la rapida evoluzione dello scenario: i francesi nelle strade fanno tremare l’ex onnipotente Macron costringendolo alla resa, mentre il governo italiano (“populismo” in carica, regolarmente insediato) anziché rilanciare sull’onda dei Gilet Gialli si lascia prendere a sberle dal primo Moscovici di passaggio. Era sbagliato sbilanciarsi in campagna elettorale per un’espansione del deficit? Niente affatto. Però poi bisognava tenere il punto, a tutti i costi, pena la perdita della propria reputazione pubblica, italiana e internazionale. Era così assurdo, dare credito ai gialloverdi? No, perché l’espansione del deficit è esattamente la direzione appropriata – necessariamente eretica – per sconfessare il pretestuoso economicismo delle oligarchie finanziarie che utilizzano per i loro scopi la tecnocrazia di Bruxelles.Chi sono, in realtà, i due politici che avrebbero dovuto condurre una storica vertenza “sindacale” a favore dell’Italia? Di Maio è sbucato quasi dal nulla, attraverso il videogame elettorale interno messo in piedi da Grillo e Casaleggio, e prima delle elezioni vagava tra gli Usa e Londra in cerca di endorsement nei palazzi del massimo potere, quello che ha organizzato la globalizzazione unilaterale che ha messo in ginocchio anche l’Italia. Fino ad allora, sull’euro e l’Europa, i 5 Stelle erano riusciti a dire tutto e il contrario di tutto, senza mai delineare né un’analisi chiara né una linea politica definita, fino alla clamorosa pagliacciata del trasloco (tentato, ma non riuscito) tra gli ultra-euristi dell’Alde al Parlamento Europeo. La nuova Lega salviniana, per converso, è partita da posizioni radicalmente euroscettiche, arrivando a portare in Parlamento un economista keynesiano come Bagnai, salvo poi cominciare progressivamente a cedere ai soliti diktat di Bruxelles – spettacolo triste, solo in parte occultato dal quotidiano agitarsi di Salvini, nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti governativi. Al di là dei limiti strutturali di un’alleanza debole – i grillini “anticasta” e i leghisti “anti-migranti” – restano oscuri i piani della sovragestione da parte del vero potere, vista la confusione che regna sovrana dalle parti dell’esecutivo.Ancora non è dato sapere quanto durerà la coabitazione gialloverde, e se per caso i suoi sponsor dietro le quinte non abbiano già mollato Di Maio per puntare sul solo Salvini, a patto che scenda a più miti consigli – cosa che ha tutta l’aria di fare, a giudicare dalle recenti sterzate verso l’elettorato più tradizionalmente cauto. C’è un disegno di più lungo respiro, non ancora visibile? L’unica vera certezza riguarda la crisi dell’assetto europeo: la Francia in panne, la Germania in affanno, la Gran Bretagna ancora alle prese con l’irrisolta Brexit, l’Est Europa che scalpita per ritagliarsi spazi di autonomia. Salvini e Di Maio avevano illuso moltissimi spettatori, lasciando credere che l’Italia potesse diventare il motore di un cambiamento capace di smontare i dogmi dell’Ue, che hanno rapidamente impoverito il continente. Se non altro, i due esponenti gialloverdi hanno costretto gli italiani (e gli europei) a prendere atto, almeno, della necessità di una diversa narrazione: non è più possibile continuare ad accettare passivamente le politiche di rigore, che l’élite finanziaria neoliberista somministra alle nazioni attraverso i tecnocrati dell’Unione. Il funesto “ce lo chiede l’Europa” non è più proponibile, anche grazie a Salvini e Di Maio. Troppo poco, certo.Persino il tormentato governo Conte, comunque, potrebbe rivelare a posteriori una sua effettiva utilità, se domani – dopo le europee – prendesse corpo un vasto movimento politico, trasversale, disposto a rivendicare per l’Europa il diritto alla sovranità democratica, cominciando da una Costituzione Europea che insedi finalmente a Bruxelles un vero governo federale, regolarmente votato dal Parlamento Europeo eletto dai cittadini. Sogni, speranze e grandi incognite, a cominciare dalla paventata grande recessione in arrivo, che potrebbe far precipitare tutte le crisi politiche in atto. E gli italiani come reagirebbero, se dovessero arrendersi all’evidenza di una vera e propria resa? Che fine farebbe Di Maio, se non riuscisse a varare neppure l’ombra dello sbandieratissimo reddito di cittadinanza? E dove finirebbero i tatticismi del disinvolto Salvini, di fronte alla porta che l’Ue pare stia per sbattere il faccia all’Italia? Da più parti si osserva come manchi, tuttora, una classe dirigente all’altezza della situazione politica. Grazie al governo gialloverde sono caduti alcuni tabù e un bel po’ di leggende, per esempio sull’intoccabilità dei deficit. Ma resta, a monte, il macigno di un’Europa non democratica, non alleata, non amica. Anche grazie alla Lega e ai 5 Stelle, oggi gli italiani il problema lo vedono benissimo. A farsi attendere, ancora, è la soluzione.(Giorgio Cattaneo, “Bravi i gialloverdi a denunciare il rigore Ue, ma ora gli italiani si aspettano i fatti”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 dicembre 2018).In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?
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Magaldi: coraggio, e l’Italia non sarà più preda di stranieri
Vietato farsi intimorire dagli spaventapasseri a guardia del bunker europeo, ormai assediato da più parti: un po’ di fegato, e gli ometti del racket finanziario smetteranno di abbaiare. Juncker, Dombrovkis, Moscovici, Oettinger: «I frontman di queste istituzioni europee sono personaggi molto friabili e molto deboli: per fronteggiarli basta avere un po’ di forza, un po’ di dignità e un po’ di schiena diritta». Gioele Magaldi incoraggia il governo Conte: non si lasci intimidire dalle minacce di questi personaggi, peraltro «in scadenza», e per giunta di caratura modesta: «Non è che abbiano grande autorevolezza e prestigio per potersi imporre». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna rompere il loro paradigma: occorre avere un po’ di coraggio, e poi si scopre, come nella vicenda del Mago di Oz, che la grande magia in realtà è fatta di cartapesta». Soltanto illusionismo, «giocato più sulla paura di chi è soggetto al timore di questa magia che non sulla forza reale di chi, questa magia, la costruisce». Forza e coraggio, dunque, di fronte ai ventilati sfracelli finanziari per il deficit al 2,4%, peraltro già smentiti da Standard & Poor’s, segno di «probabili ripensamenti in corso» nella cabina di regia del potere neoliberista, non più così granitico. «Si tratta di restare sereni e tranquilli», visto che in palio c’è l’Italia: finora, il nostro paese è stato regolarmente depredato, in modo programmatico. Ecco il punto: questo film deve finire.«Bisogna abbandonare lo stile consueto dell’Italia», sottolinea Magaldi nella diretta web-streaming “Magaldi Racconta”, su YouTube, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «L’Italia – dichiara Magaldi – ha ricevuto un ruolo: quello di essere una preda, pur essendo un paese forte e importante sul piano politico ed economico». Una preda: bottino da saccheggiare. Temi e rivelazioni che lo stesso Magaldi, massone progressista, ha concentrato nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere), che svela ad esempio il ruolo della P2 di Gelli come terminale locale della potente superloggia sovranazionale “Three Eyes”, espressione della supermassoneria neo-feudale più reazionaria, incubatrice della globalizzazione universale fondata sulle privatizzazioni, sulla confisca dei diritti democratici e sulla precarizzazione del lavoro. L’Italia? Azzoppata dalla strategia della tensione affidata a operatori come Gladio, poi assaltata con la tabula rasa di Tangentopoli che aprì la strada al superpotere eurocratico. Risultato: declino industriale e svendita dei gioielli di famiglia. «La verità è che è stato disegnato per l’Italia un ruolo subalterno. Nessun altro grande paese sarebbe mai stato trattato così, e questo – aggiunge Magaldi – è stato fatto con la complicità delle classi dirigenti, centrodestra e centrosinistra, di questi ultimi decenni».Adesso, ribadisce il presidente del Movimento Roosevelt, «si tratta di cambiare passo». E naturalmente, aggiunge, «i media e tutta la filiera di cortigiani politici e burocratici continuano a muoversi come se l’Italia fosse ancora un’espressione geografica, più che un’entità statuale democratica e repubblicana, dotata di una sua dignità». Ringhia, l’establishment spiazzato dal governo gialloverde: «Tutti quelli che sono abituati a fare i proconsoli di poteri apolidi e predatori masticano amaro, e tutti i giorni propinano a reti unificate questa canzone stonata sull’Italia, sul governo populista e cialtrone che non vuole rispettare i patti. Ma è una menzogna: i patti verso la democrazia e verso la dignità del popolo – scandisce Magaldi – li hanno violati quelli che hanno spacciato questa pessima costruzione europea per il grande sogno di Altiero Spinelli e di altri illustri europeisti, da Victor Hugo a Mazzini e Garibaldi». Loro, gli usurpatori dell’ipotesi-Europa (in realtà mai nata), oggi prendono nota: persino le grandi testate, ovvero «il mondo finanziario che conta», iniziano a fare dei distinguo, sull’Italia. Dicono: ma chi l’ha detto che questa manovra è inaccettabile? Chi l’ha detto che quelle del governo Conte sono le proposte di una “cicala” che vuole mettere in crisi il risparmio, la tenuta dei conti, il futuro delle nuove generazioni?«E’ un segnale importante – rileva Magaldi – il fatto che queste voci inizino a venire da mondi che si sono troppo spesso allineati al coro globale, intonato al contenimento e quindi anche alla devastazione dell’economia italiana». Wall Street non è unanime nel suo giudizio sull’Italia, il governo Usa si mostra indulgente verso Conte, lo stesso Steve Mnuchin (il ministro del Tesoro di Trump) dichiara che la strada del “deficit spending” è la via maestra, intrapresa anche dagli States. Cattive notizie, insomma, per gli euro-tecnocrati che vorrebbero spegnere sul nascere il timido tentativo dei gialloverdi, la loro piccola insubordinazione sul rigore di bilancio. Peccato, aggiunge Magaldi, che Lega e 5 Stelle si limitino al piccolo cabotaggio sul deficit, rinunciando a fare da battistrada – come Italia – nel chiedere una drastica riforma dell’Unione, basata sulla richiesta di una vera Costituzione Europea, finalmente democratica. Non mancano gli ultra-pessimisti, che ritengono irriformabile l’Ue: «Sono frange comunque minoritarie, a livello di consenso: la maggioranza dei cittadini è delusa dal modo in cui l’Unione è gestita, ma certo resta favorevole all’idea di una integrazione europea». E quelli che vorrebbero farla finita, con Bruxelles? «Secondo me sbagliano, magari in buona fede», dice Magaldi: «Senza accorgersene, fanno il gioco degli avversari: gli uni dicono che l’Ue non può cambiare, gli altri sostengono che non deve cambiare. Risultato: ragionando così, niente cambierà».Magaldi propone un altro approccio: «Andiamo oltre la moderazione del governo Conte, in questa fase». Lo dice «agli amici del governo, alla maggioranza gialloverde» che nel futuro prossimo, alle europee e poi in Italia, dovrà affrontare un quadro politico mutevole. «Io dico: facciamo partire dall’Italia una radicale trasformazione del progetto europeo. Cioè: andiamo verso una Costituzione politica, a fondamento dello stare insieme in Europa. E’ un dogma di fede, l’irriformabilità di un’Unione nata male? Sembra speculare al dogma del potere, che oggi ci ripete che non si può cambiare nulla». L’Europa, Magaldi la ritiene «riformabilissima», gettando a mare «lo spirito compromesso con cui è stata costruita questa Ue, economicistica e tecnocratica». Storia: «I padri di questa costruzione post-democratica sono Jean Monnet e Richard Coudenhove-Kalergi. Monnet era un ex massone progressista, Kalergi un uomo ambivalente che prima ancora della Seconda Guerra Mondiale aveva radunato attorno al progetto paneuropeo personalità anche progressiste, non chiarendo però quale fosse la sua idea di Europa». E poi invece, di concerto con Monnet, proprio Kalergi «ideò e diede avvio a un progetto neo-feudale, quasi una sorta di nuovo Sacro Romano Impero».Un dominio pre-democratico, «dove il potere imperiale fosse nelle mani di alcune oligarchie apolidi, coi loro terminali (come vassalli e valvassori) incarnati in burocrati chiamati a occupare posti non elettivi di gestione della governance». E tutto, a partire dalla costituzione della Ceca (la comunità dell’acciaio e del carbone) è stato svolto in modo unilaterare, economicistico. Spinelli e gli europeisti, invece, volevano «qualcosa di armonioso, da costruire insieme ai cittadini, non al di sopra dei cittadini». Una Costituzione da scrivere insieme, «coinvolgendo la popolazione in consultazioni e referendum su ciascuno degli articoli». Di Costituzione Europea si era parlato ma poi non si è fatto nulla: «Ci sono solo dei trattati, in quella che è una posticcia costruzione continentale dove, mai come adesso, le nazioni sono una contro l’altra armate. E’ veramente una gabbia, dis-utile per l’interesse popolare ma utile per gli oligarchi globali». Rinunciare all’Europa e distruggere tutto per tornare alle nazioni? Falso problema, secondo Magadi: «Che sia globale, europea, nazionale, regionale o locale, la governance non cambia se il paradigma che la ispira non è democratico». Un esempio? I nostri Comuni: «Sono strangolati dal Patto di Stabilità, voluto in sede europea ma discendente da una visione neoliberista che pervade tutte le istituzioni politiche e economiche internazionali più importanti».Proprio il Patto di Stabilità «strangola le possibilità di intervento dei Comuni su un livello che è quello locale». In un mondo «ormai globalizzato perché interconnesso», si può scegliere «che tipo di globalizzazione si vuole». Disconettersi? Impossibile: le economie sono collegate, ogni decisione ha ripercussioni ovunque. «Puoi scegliere però come governarle, queste dinamiche: in nome della finanza e dei mercati, dell’interesse dei pochi a scapito dei moltissimi, oppure con un metodo finalmente democratico». Perché preoccuparsi se la governance è europea, italiana, regionale o cittadina? «Preoccupiamoci che a tutti i livelli vi sia una metodologia democratica», ovvero «che vi sia la primazia della politica sull’economia e sulla finanza, e la primazia della sovranità del popolo su qualunque altra forma di sovranità o di potere privato». Quel che conta, chiosa Magaldi, è che comunque il governo gialloverde abbia almeno manifestato la volontà di invertire la rotta suicida e autolesionistica degli ultimi decenni. Un possibile inizio, si spera, per cominciare a imporre la percezione di un’altra Italia, non più terra di conquista e facile preda, grazie alla complicità del vecchio establishment “collaborazionista”, al servizio di potentati economici stranieri.Vietato farsi intimorire dagli spaventapasseri a guardia dell’euro-bunker, ormai assediato da più parti: un po’ di fegato, e gli ometti del racket finanziario smetteranno di abbaiare. Juncker, Dombrovkis, Moscovici, Oettinger: «I frontman di queste istituzioni europee sono personaggi molto friabili e molto deboli: per fronteggiarli basta avere un po’ di forza, un po’ di dignità e un po’ di schiena diritta». Gioele Magaldi incoraggia il governo Conte: non si lasci intimidire dalle minacce di questi personaggi, peraltro «in scadenza», e per giunta di caratura modesta: «Non è che abbiano grande autorevolezza e prestigio per potersi imporre». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna rompere il loro paradigma: occorre avere un po’ di coraggio, e poi si scopre, come nella vicenda del Mago di Oz, che la grande magia in realtà è fatta di cartapesta». Soltanto illusionismo, «giocato più sulla paura di chi è soggetto al timore di questa magia che non sulla forza reale di chi, questa magia, la costruisce». Forza e coraggio, dunque, di fronte ai ventilati sfracelli finanziari per il deficit al 2,4%, peraltro già smentiti da Standard & Poor’s, segno di «probabili ripensamenti in corso» nella cabina di regia del potere neoliberista, non più così granitico. «Si tratta di restare sereni e tranquilli», visto che in palio c’è l’Italia: finora, il nostro paese è stato regolarmente depredato, in modo programmatico. Ecco il punto: questo film deve finire.
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Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
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Da Usa e Italia un’altra Europa, malgrado Macron (e il Papa)
La stampa mainstream fatica ad ammettere quello che invece Francia e Germania hanno già capito: cominciando dal problema migranti, oggi l’Europa è costretta ad ascoltare l’Italia, il cui governo è chiaramente sorretto, a distanza, dall’amministrazione Trump. Lo sostiene un analista come Giulio Sapelli, storico ed economista, osservando il mini-accordo raggiunto in sede europea a fine giugno. «Gli Stati nazionali continuano a essere rilevanti appena si esce dal recinto della circolazione della moneta per entrare in quello della circolazione delle persone, contraddicendo la filosofia stessa dei sostenitori di una eurofilia che si sta sciogliendo come neve al sole appena incontra il paradigma della diversità», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. Ma il grande protagonista dell’ultimo vertice, aggiunge, è stata poprio l’Italia, rappresentata da Giuseppe Conte: ha dimostrato che ciò che si è raggiunto a Bruxelles, sul controllo dei flussi migratori, lo si sarebbe potuto raggiungere anche prima, «se buona parte della nostra classe politica italiana non parlasse in italiano pensando contemporaneamente in francese o in tedesco». Sapelli accusa i grandi media di essere «controllati dalla borghesia “compradora”, dipendente dalle istituzioni europee e dai due Stati che lottano per controllarle».Giornali e televisioni diranno che l’Italia “esce sconfitta”, perché i cosiddetti centri di accoglienza sono sottoposti alla volontarietà degli Stati componenti l’Unione? «Ma questo non è un fallimento del governo Conte, semmai è la dimostrazione che questo governo ha cominciato a porre un problema politico che non è risolvibile oggi, perché l’unico punto archetipale su cui si fonda il costrutto dell’Ue è economicistico, fondato non su un potere stabile, ma fortemente instabile a seconda che prevalgano interessi francesi o interessi tedeschi». Ma ci sono anche (e soprattutto, ormai) gli interessi degli Usa, preoccupati «per la crescita della potenza tedesca e per il neogaullismo francese». Senza scordare poi i britannici, «attraverso il ruolo che l’Olanda e le città anseatiche della Germania esercitano sulle istituzioni europee». Ciò che conta, insiste Sapelli, è che si è iniziata una discussione sul Trattato di Dublino: «E il fatto che non si sia trovato un accordo sulla sua riforma non deve nascondere che se ne discute, e che il problema è reale ed è cruciale». Non si riesce subito a riformarlo, quel trattato? Un problema che «disvela a tutti quanto sia inesistente la cosiddetta cultura europea e quanto sia inesistente la immaginifica “condivisione di sovranità”, che non esiste per nulla».In questo senso però, si intravede una direzione di marcia nel punto 3 del comunicato finale del vertice: “Tutte le navi operanti nel Mediterraneo – si afferma – devono rispettare le leggi applicabili e non interferire con le operazioni della guardia costiera libica”, aspetto che per Sapelli è un punto essenziale, «che consente di porre sotto controllo le rotti migratorie marittime e inaugura una discussione politica sui porti di attracco e sull’accoglienza, e non solo sui salvataggi in mare». Quindi, sottolinea l’analista, «bisogna valutare il fatto che finalmente l’Italia ha fatto sentire la sua voce». Si tratta ora con determinazione, passo dopo passo, per «conquistare quella condivisione di destino che risiede non solo sui respingimenti ma anche sulla condivisione delle quote di migranti che l’Europa non può ostinarsi a non condividere». In altre parole: «Chi arriva in Italia arriva in Europa, e su questo – per la prima volta, dopo le crisi migratorie – l’Italia ha segnato un punto». Certo, aggiunge Sapelli, «è sconcertante che la retorica europeista non riesca a rassegnarsi a un’operazione di verità e a comprendere che il gioco di specchi ideologico e non solo di potenza in cui è immersa, sta esso stesso — e non le forze euroscettiche — indebolendo il ruolo dell’Europa nel mondo».Il ministro statunitense della difesa, James Mattis, ha appena incontrato Xi Jinping, mentre Putin e lo stesso Trump hanno rivelato che si incontreranno a Helsinki, prossimamente. «E Trump ha annunciato che quando si recherà in Europa per il summit prossimo della Nato si fermerà a Roma per colloqui con il governo italiano». Gli Usa, insomma, secondo Sapelli «stanno uscendo dall’unipolarismo delle tre precedenti presidenze – Clinton, Bush secondo e Obama – e si sforzano di dar vita a un nuovo sistema internazionale, fatto di pesi e contrappesi e della riaffermazione della necessità che questo nuovo sistema internazionale abbia di nuovo per protagonisti gli storici Stati dominanti la storia del vecchio continente, Germania e Francia, e in misura subalterna, ma geostrategicamente decisiva per la sua collocazione mediterranea, l’Italia». Sempre secondo Sapelli, «non è un caso che, come una bomba nella notte in cui si discutevano i passi più delicati del comunicato, con un professor Conte che rispondeva educatamente a un Macron arrogante, in quella notte sia giunta la notizia che la Deutsche Bank non aveva superato la seconda serie di stress test della Federal Reserve nordamericana».In politica estera «bisogna muoversi con un alto rispetto istituzionale, ed è quello che è mancato al presidente Macron poche ora prima che iniziassero i colloqui di Bruxelles». Macron infatti si è recato in visita dal Papa e, «come i re francesi della Francia cattolicissima, è stato insignito di quella onorificenza sacrale di Protocanonico d’onore della Basilica di San Giovanni in Laterano, così come fece Enrico IV, primo protocanonico d’onore». Aggiunge Sapelli: «Dispiace che quest’onorificenza sia stata consegnata al presidente della Repubblica francese senza che questi si sia recato a rendere omaggio al nostro presidente della Repubblica, che oltre a essere il più alto rappresentante delle istituzioni italiane è anche un cattolico praticante. Di questo sfregio istituzionale – chiosa Sapelli – i mass media della borghesia “compradora” non hanno fatto alcun cenno. Anche per questo l’azione del governo Conte merita il plauso di tutti gli uomini di buona volontà».La stampa mainstream fatica ad ammettere quello che invece Francia e Germania hanno già capito: cominciando dal problema migranti, oggi l’Europa è costretta ad ascoltare l’Italia, il cui governo è chiaramente sorretto, a distanza, dall’amministrazione Trump. Lo sostiene un analista come Giulio Sapelli, storico ed economista, osservando il mini-accordo raggiunto in sede europea a fine giugno. «Gli Stati nazionali continuano a essere rilevanti appena si esce dal recinto della circolazione della moneta per entrare in quello della circolazione delle persone, contraddicendo la filosofia stessa dei sostenitori di una eurofilia che si sta sciogliendo come neve al sole appena incontra il paradigma della diversità», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. Ma il grande protagonista dell’ultimo vertice, aggiunge, è stata poprio l’Italia, rappresentata da Giuseppe Conte: ha dimostrato che ciò che si è raggiunto a Bruxelles, sul controllo dei flussi migratori, lo si sarebbe potuto raggiungere anche prima, «se buona parte della nostra classe politica italiana non parlasse in italiano pensando contemporaneamente in francese o in tedesco». Sapelli accusa i grandi media di essere «controllati dalla borghesia “compradora”, dipendente dalle istituzioni europee e dai due Stati che lottano per controllarle».
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Magaldi: Di Maio, i barbagianni e l’utopia del diritto al lavoro
Avrebbe la cortese compiacenza, Luigi Di Maio, di far graziosamente sapere, prima o poi, cosa intenderebbe fare, una volta al governo dell’Italia? I primi che vorrebbero saperlo, probabilmente, sono i suoi elettori – meglio ancora: i votanti che il 4 marzo hanno scelto i pentastellati magari «turandosi il naso», percependo comunque il Movimento 5 Stelle «come qualcosa di nuovo e diverso, rispetto agli altri “barbagianni”». Essere o non essere un’alternativa per il paese? Spieghi, l’amletico grillino, che idea ha in testa (se ce l’ha) per questo paese. Tutte le alleanze e tutte le idee possono essere utili, purché coraggiose e serie: a patto che non si scivoli verso i lidi collaudatissimi del rigore di bilancio, di cui finora è stato custode il Pd per conto dell’oligarchia privatizzatrice che presidia l’Unione Europea. A oltre un mese e mezzo dal voto, Gioele Magaldi avverte: così non si va da nessuna parte. «Non vorrei che poi ci ritrovassimo un programma della cosiddetta pseudo-sinistra più classica, quella che ritiene che tassando e ritassando si garantisce non si sa bene quale equilibrio sociale, mettendosi a pari coi burattinai di Bruxelles e con le altre entità sovranazionali: stiamo attenti, perché non è questa la via per chi voglia dirsi progressista». La strada maestra? Il lavoro, come baluardo della dignità individuale. L’orizzonte di un’utopia necessaria: rendere costituzionale il diritto all’impiego. Il reddito di cittadinanza? Una tappa intermedia e transitoria, nella lunga marcia per cambiare faccia all’Italia e all’Europa.«Giorno per giorno, le cose si sono complicate», premette Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «C’è stato un deterioramento dei toni e un innalzamento delle antipatie, una sottolineatura delle cose che dividono anziché di quelle che possono unire». Serpeggia un pericolo: «Non vorrei che l’ipotesi di un governo con 5 Stelle, Pd e “Leu”, ammesso che i numeri ci siano, si traduca in una sorta di esecuzione delle suggestioni dell’Ocse, del Fmi e di altre entità economicistiche sovranazionali che hanno sbagliato tutto, negli scorsi anni, perché sento parlare troppo di tassazione e patrimoniali, di scetticismo anche rispetto alla utile proposta di Salvini (Flat Tax o qualcosa del genere)». Per Magaldi, la verità è che il Movimento 5 Stelle «deve fare i conti con i limiti della propria traiettoria». Le elezioni regionali molisane, considerate deludenti? «Non ho condiviso i trionfalismi del dopo-voto e non condivido adesso l’analisi secondo cui, avendo avuto il 32% in Molise, il M5S starebbe arretrando», precisa Magaldi: «E’ un dato locale, non traducibile a livello nazionale». Ma Di Maio e colleghi devono capire che il loro 32% a livello nazionale, ottenuto «nonostante la pessima performance nel governo di Roma e nonostante moltri altri dubbi che tanti dei loro stessi votanti nutrono», non è affatto un dato che si possa mettere in cassaforte. Al contrario: gli elettori potrebbero non rinnovare la fiducia accordata il 4 marzo.Lo scenario è confuso: in tanti sono indaffarati, non si capisce se «a cercare di fare un governo o solo a far finta di volerlo fare». A maggior ragione, il Movimento 5 Stelle «farebbe bene a chiarire ai suoi elettori che cosa vuole fare, a prescindere dagli alleati con cui lo farebbe», sottolinea Magadi, secondo cui «nelle ultime settimane si è appannato proprio il senso progettuale: non si è capito bene cosa farebbe, Di Maio, in un governo». Magaldi ripropone la prospettiva per la quale si batte il Movimento Roosevelt, lungo l’orizzonte della migliore tradizione social-liberale: «E’ il lavoro che deve diventare imprescindibile e garantito dalla Costituzione, pur nel rispetto del merito e dei talenti». Va bene anche «la libera economia di mercato del tanto vituperato capitalismo», purché non quello neoliberista: Magaldi pensa al capitalismo sociale rooseveltiano ispirato da Keynes e da John Rawls, l’ideologo del “welfare universale” europeo. Il capitalismo, aggiunge Magaldi, deve restare «la facoltà di investire capitali privati per trarne legittimo profitto, senza monopoli né oligopoli», ma a livello legislativo «occorre che nessuno sia privato del diritto di lavorare, e quindi del diritto di avere un reddito e accompagnare i propri sogni e le proprie aspirazioni, partecipando anche all’economia e rafforzandone i circuiti».Magaldi lo definisce «un orizzonte epocale», benché «sobrio e moderato, rispetto alle istanze palingenetiche e agli incubi del ‘900», neri e rossi. Chi auspicava il comunismo come “il paradiso in terra” oggi è spesso dalla parte dei capitalisti ultra-liberisti, «che credono alla divinità del mercato in termini integralisti e fanatici». Volevano l’abbattimento del capitalismo “borghese” e oggi «si sono trasformati in accompagnatori del dogmatismo di un’idea sola di capitalismo, e anche di una idolatria del mercato in quanto tale, senza più alcuna preoccupazione per i grandi ideali di giustizia sociale che, pure, nel ‘900 sono stati presenti». In parallelo, il “secolo breve” ha archiviato (dolorosamente) altri incubi speculari, fascisti e fascistoidi, che pur con altri presupposti «hanno spesso spacciato per interesse del popolo la loro vocazione oligarchica, alla pari di quella dei comunisti». Magaldi le definisce «distopie finite tragicamente», ricordando che «nel mezzo c’è stata una linea politica e ideologica che ha visto una parziale concretizzazione nei famosi “decenni d’oro”, il boom del dopoguerra in Europa, con le ricette keynesiane e un “welfare system” che ha garantito mobilità e giustizia sociale».Quello degli ‘70, però, «non era ancora l’orizzonte cui dobbiamo approdare», aggiunge Magaldi, che lavora per la sua “utopia moderata”. Ovvero: «Il diritto costituzionale all’occupazione». Una rivoluzione, che «risolverebbe molti problemi e preverrebbe qualunque crisi economica». Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle? Una proposta «annacquata nei ragionamenti politici di questi giorni». Magaldi non lo vedrebbe come «un’alternativa al diritto al lavoro», ma piuttosto «come un accompagnamento, in una fase transitoria». Ovvero: «Dato che per arrivare al diritto al lavoro occorrerà convincere politicamente la maggioranza degli elettori, per avere (in Italia e altrove) maggioranze parlamentari capaci di approvare riforme costituzionali di questa portata, nel frattempo il reddito di cittadinanza può essere un modo per garantire la dignità di coloro che vivono in un contesto occupazionale complesso». E quindi «credo che sia una buona idea», conclude Magaldi, «se vista non come sostitutiva dell’orizzonte che mette il lavoro al centro della dignità delle persone, ma come un elemento di supporto, durante la transizione verso quel modello». Di Maio è in ascolto? Ha un’idea, in proposito? Pensa di riuscire a distinguersi dagli altri “barbagianni” della mala-politica italiana sottomessa al rigore Ue?Avrebbe la cortese compiacenza, Luigi Di Maio, di far graziosamente sapere, prima o poi, cosa intenderebbe fare, una volta al governo dell’Italia? I primi che vorrebbero saperlo, probabilmente, sono i suoi elettori – meglio ancora: i votanti che il 4 marzo hanno scelto i pentastellati magari «turandosi il naso», percependo comunque il Movimento 5 Stelle «come qualcosa di nuovo e diverso, rispetto agli altri “barbagianni”». Essere o non essere un’alternativa per il paese? Spieghi, l’amletico grillino, che idea ha in testa (se ce l’ha) per questo paese. Tutte le alleanze e tutte le idee possono essere utili, purché coraggiose e serie: a patto che non si scivoli verso i lidi collaudatissimi del rigore di bilancio, di cui finora è stato custode il Pd per conto dell’oligarchia privatizzatrice che presidia l’Unione Europea. A oltre un mese e mezzo dal voto, Gioele Magaldi avverte: così non si va da nessuna parte. «Non vorrei che poi ci ritrovassimo un programma della cosiddetta pseudo-sinistra più classica, quella che ritiene che tassando e ritassando si garantisce non si sa bene quale equilibrio sociale, mettendosi a pari coi burattinai di Bruxelles e con le altre entità sovranazionali: stiamo attenti, perché non è questa la via per chi voglia dirsi progressista». La strada maestra? Il lavoro, come baluardo della dignità individuale. L’orizzonte di un’utopia necessaria: rendere costituzionale il diritto all’impiego. Il reddito di cittadinanza? Una tappa intermedia e transitoria, nella lunga marcia per cambiare faccia all’Italia e all’Europa.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Elezioni da medioevo, vince la religione del debito pubblico
“Il debito pubblico è un peso che grava sulle spalle delle future generazioni: stiamo rubando il futuro ai nostri figli”. Da questa singola frase ci si può rendere conto di come, in Italia, i programmi politici di molti partiti siano sostanzialmente simili (fatte salve alcune eccezioni), con nuance “de sinistra” o “de destra”, volte a (far finta di) “differenziare” gli uni dagli altri. Chi sostiene questa idea, sostiene tutto quel coacervo di teorie economiche che fanno riferimento a un paradigma unico, anzi, a una teologia dogmatica. Già, perché la cosa ha da tempo assunto una dimensione religiosa, tale da non poter essere contraddetta in alcun modo nel dibattito pubblico (la scienza economica, invece, l’ha già fatto), pertanto assistiamo alla demonizzazione continua degli “eretici”. Un vero e proprio oscurantismo, in salsa “Medioevo 2.0”, periodo storico in cui stiamo sprofondando. Un’operazione in stile “1984”, allorché il grande Eric Arthur Blair (in arte, George Orwell) mise tutti in guardia dal fatto che chi detiene il potere nel presente, non solo è in grado di cambiare il futuro, bensì anche il passato, riadattandolo a proprio piacimento e creando una memoria collettiva differente, per mezzo della rimozione di tutti quegli aspetti non approvati dal “pensiero unico”.I pricipi sono chiari e anche semplici da comprendere, hanno una loro logica, ma sono fondati su presupposti mistificanti della realtà: “Lo Stato è come una famiglia/azienda, non può spendere più di quello che guadagna”, oppure (soprattutto in Italia): “Avete vissuto al di sopra dei vostri mezzi”, la celebre metafora della cicala e della formica, oppure ancora, la frase che apre questo articolo, riportata urbi et orbi da politicanti, pennivendoli, intellettualoidi vari ed eventuali. Una questione, dunque, religiosa, come precedentemente anticipato: abbiamo il Dio Mercato, la dottrina (che ha assunto una dimensione sacrale) e i suoi sacerdoti, che professano la fede e offrono sull’altare della divinità le (tante) vittime sacrificali, al fine di alimentare il sistema. Questa dinamica, in atto da più di 40 anni, è andata avanti lentamente ed inesorabilmente, con un’accelerazione improvvisa e preoccupante nel corso dell’ultimo decennio (dalla “crisi dei mutui subprime” in poi). Inoltre, il sistema di “Inquisizione 2.0” condanna tutti coloro che si azzardano a proporre politiche economiche “anti-cicliche” di stampo keynesiano, poiché la spesa a deficit “graverà sulle spalle dei nostri figli”.Il tutto ignorando le grandi lezioni della Storia. Ignorando, anzi, cancellando totalmente, la memoria collettiva relativa alla Grande Depressione (o crisi del ‘29) e tutto il periodo post-bellico – definito Liberal Consensus – in cui partiti di destra, moderati e di sinistra condividevano sostanzialmente le ricette ispiratrici del New Deal di rooseveltiana memoria (e del boom economico successivo), cancellando le teorie di politica economica di Keynes, anzi rendendole addirittura anti-costituzionali in Italia (con la recente approvazione dell’articolo 81 della Costituzione, sul pareggio di bilancio), e cancellando anche il concetto di Welfare State teorizzato da William Beveridge. Cancellando, in ultima analisi, la dimensione umana, in favore di una visione economicistica della società, che ignora volutamente il diritto degli individui a vivere una vita dignitosa e li costringe a fare sacrifici per espiare colpe che non hanno. Ci troviamo, dunque, nell’epoca del Neoliberal Consensus, in cui partiti di destra, moderati e di sinistra (con la condivisione, da parte di questi ultimi, della “Third Way” di Anthony Giddens) condividono lo stesso paradigma.Per “Liberal” si intende quell’ideologia democratica, social-liberale, progressista, attenta alle istanze di giustizia sociale e ai diritti civili e politici di tutti: parola usata per la prima volta, in questi termini, da Franklin Delano Roosevelt, in contrapposizione a “Conservative”. Per “Neoliberal”, invece, si intende “neoliberismo” (non “neoliberalismo”, che non significa nulla ed è frutto di un’errata traduzione dall’inglese), ovvero il “lassez-faire” portato alla sua radicalizzazione: in altre parole, il fondamentalismo del mercato, sotto forma di teologia dogmatica. Il Neoliberal Consensus prevede un consenso comune in merito a una serie di ricette, che possiamo riassumere così: privatizzazioni, austerity, deregulation finanziaria, riduzione della spesa pubblica, Stato minimo, concezione dello Stato paragonato a un’azienda, vera e propria isteria sui conti pubblici e sul debito pubblico e conseguente “feticismo” delle coperture economiche. Dunque, in conclusione, mentre un “contatore del debito pubblico” lampeggia sui maxi-led delle stazioni di Milano Centrale, Roma Termini e Roma Tiburtina, iniziativa di terrorismo psico-economico intrapresa dall’Istituto Bruno Leoni – il quale simpaticamente ci informa anche del fatto che abbiamo 40 mila euro di debito a testa – l’invito è quello di riflettere criticamente sui programmi economici presentati dai vari partiti e di riflettere sulle pressioni mediatiche e internazionali su determinati temi. Riflettere e sforzarsi di capire perché siamo in presenza di questa condivisione paradossale, che assottiglia le differenze tra “destra” e “sinistra” e le implicazioni nei rapporti con l’Unione Europea. Qualsiasi partito decidiate di votare.(Rosario Picolla, “Verso il 4 marzo: Orwell, il Neoliberal Consensus e le scemenze elettorali”, dal blog del Movimento Roosevelt del 1° marzo 2018).“Il debito pubblico è un peso che grava sulle spalle delle future generazioni: stiamo rubando il futuro ai nostri figli”. Da questa singola frase ci si può rendere conto di come, in Italia, i programmi politici di molti partiti siano sostanzialmente simili (fatte salve alcune eccezioni), con nuance “de sinistra” o “de destra”, volte a (far finta di) “differenziare” gli uni dagli altri. Chi sostiene questa idea, sostiene tutto quel coacervo di teorie economiche che fanno riferimento a un paradigma unico, anzi, a una teologia dogmatica. Già, perché la cosa ha da tempo assunto una dimensione religiosa, tale da non poter essere contraddetta in alcun modo nel dibattito pubblico (la scienza economica, invece, l’ha già fatto), pertanto assistiamo alla demonizzazione continua degli “eretici”. Un vero e proprio oscurantismo, in salsa “Medioevo 2.0”, periodo storico in cui stiamo sprofondando. Un’operazione in stile “1984”, allorché il grande Eric Arthur Blair (in arte, George Orwell) mise tutti in guardia dal fatto che chi detiene il potere nel presente, non solo è in grado di cambiare il futuro, bensì anche il passato, riadattandolo a proprio piacimento e creando una memoria collettiva differente, per mezzo della rimozione di tutti quegli aspetti non approvati dal “pensiero unico”.