Archivio del Tag ‘elettori’
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Vietato volare, l’Ue presenta già il conto a Salvini e Di Maio
Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».Le scadenze europee sono molteplici e tutte ravvicinate, annota Cingolani: di qui al Consiglio Europeo di giugno c’è il completamento dell’Unione Bancaria istituendo la garanzia depositi, poi il futuro Fondo Monetario Europeo, la riforma della Convenzione di Dublino sugli immigrati, il bilancio pluriennale dopo il 2020 che porta con sé i fondi strutturali che il Sud ha utilizzato solo per il 4%. «Nei prossimi 18 mesi, il nuovo governo dovrà mercanteggiare le seguenti nomine: presidente della Bce dopo l’uscita di Mario Draghi nell’autunno 2019, due terzi del consiglio esecutivo della Bce (ci sarà un rappresentante italiano, e chi?); il presidente della Commissione Ue; il presidente del Consiglio Europeo e, dulcis in fundo, il commissario italiano dopo l’uscita di Federica Mogherini». Domanda: «Che cosa potrà ottenere un paese che non crede più nell’euro, rifiuta il bail-in, i parametri di Maastricht e la responsabilità di bilancio o che vuole respingere gli immigrati non solo verso l’Africa, ma verso il nord e l’est dell’Europa?».Secondo Cingolani, né Di Maio né Salvini sono in grado di colmare il fossato tra Roma e Bruxelles: «La loro linea è sempre stata accusare l’austerità per i mali italiani, sfuggendo alla verifica dei fatti: dal 2013 al 2017 il saldo primario tra entrate e spese pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico in Spagna è passato dall’1,2% del Pil a meno 0,6%, quello dell’Italia dal 4,3% a sotto il 2%. La politica fiscale, dunque, è stata relativamente espansiva, ma nello stesso periodo la Spagna è cresciuta complessivamente dell’11,2%, l’Italia del 3,5%. Su queste basi sarà difficile trovare una solidarietà latina». E’ vero che l’Ue ha concesso a Renzi più flessibilità, e anche adesso sembra disposta a dare all’Italia un margine di tempo, visto che la Germania ha impiegato cinque mesi prima di formare una nuova grande coalizione. «Tuttavia la situazione politica italiana è molto più simile a quella spagnola». In più, il rischio di nuove elezioni (anch’esse inconcludenti, se resta la staessa legge elettorale) è molto forte. E Mario Draghi ha già acceso i riflettori sui rischi di una prolungata instabilità politica.«Sarà davvero difficile, insomma, incidere subito sulla qualità della vita degli italiani, come promette Di Maio con evidente immaginazione». Il Def rischia di essere un appuntamento impossibile per saggiare la nuova politica economica, «anche perché dovrà tener conto della stretta, sia pur prudente e progressiva, della politica monetaria, già annunciata da Draghi». Oggi, continua Cingolani, non è possibile sapere quanto costerà il debito pubblico alla fine di quest’anno e soprattutto nel prossimo, perché non conosciamo di quanto saliranno i tassi d’interesse. «Dal 2012, quando Draghi ha impresso la svolta espansiva, il servizio del debito è sceso da 83 a 60 miliardi di euro l’anno, una cifra che è comunque superiore a quanto si è speso per la scuola. In 20 anni sono stati pagati per interessi 1.700 miliardi di euro (cifra superiore all’intero prodotto lordo annuo); 760 miliardi negli ultimi dieci anni in cui i tassi sono scesi. Quasi un euro su venti di ricchezza annua prodotta serve a pagare i creditori italiani o esteri, riducendo le risorse pubbliche per consumi e investimenti». Più il tempo passa, aggiunge Cingolani, più crescono le aspettative (e con esse le eventuali delusioni). Facile profezia: «L’onda che prima ha spazzato gli equilibri della Seconda Repubblica è destinata a spostarsi dalla politica all’economia, alle imprese, alle banche, ai manager pubblici e privati, ai patron, verso quel 10% che possiede metà della ricchezza».Non è un caso che tanti esponenti del mondo industriale e finanziario si siano lanciati sui carri dei vincitori (sul Carroccio soprattutto al Nord e sul carro dei 5 Stelle nel Mezzogiorno). «Dovremo attenderci un innalzamento della conflittualità sociale, non governata dai sindacati confederali», ormai indeboliti. Sono centinaia le vertenze industriali già aperte al ministero dello sviluppo, e altre ne arriveranno. «Ma le promesse talvolta mirabolanti distribuite a man bassa durante la campagna elettorale hanno suscitato attese che in qualche modo andranno soddisfatte, almeno in parte. Non si può cavalcare la frustrazione dei precari senza poi trovare nuovi posti di lavoro. Il M5S li vuole pagati da tutti i contribuenti, la Lega spera nella ricaduta del taglio fiscale, solo che lo Stato non ha mezzi sufficienti e le imprese possono espandersi (segnali chiari già ci sono nel Nord-Est) solo quando avranno recuperato produttività, altrimenti la riduzione delle tasse si trasformerà in aumento dei risparmi, ma non in investimenti espansivi creatori di occupazione». Se poi quest’anno passerà tra manovre politiche includenti, «rinviando tutto alla primavera 2019, magari con un “election day” insieme con le elezioni europee, lo tsunami dello scontento continuerà a crescere». L’incertezza economica e il malcontento sociale daranno a Salvini e Di Maio il tempo di cui hanno bisogno, per dare la spallata decisiva?Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».
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Addio Pd, la finta sinistra può solo scegliere come suicidarsi
Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.Ma queste cose (campagna elettorale sbagliata e legge elettorale demenziale ed autolesionistica), che pure ci sono, sono solo una piccolissima parte delle ragioni del tracollo; quantomeno ci sarebbe da considerare la sconfitta del 4 dicembre 2016 sulla indecente riforma costituzionale, e poi ancora i 4 anni obbrobriosi di governo di Renzi. Ma anche questo non è sufficiente a spiegare il tutto. E’ una sconfitta che viene da lontano, da molto lontano, quantomeno da Occhetto. A volte per capire un quadro bisogna allontanarsi per vederlo nella sua interezza, e spesso le cause di una dinamica risalgono a molto tempo prima, perché i processi a volte sono molto lunghi nel loro svolgimento. In fondo la storia serve a questo (permettetemi di difendere l’utilità della mia disciplina contro lo scemenzaio recentista tipico del tempo del neoliberismo). Il Pci fu un partito popolare a trazione burocratica: la base era robustamente operaia, con fasce di piccolissima borghesia, guidata da un ceto funzionariale autoritario ma che sapeva aver cura del suo seguito. Dopo, a partire dalla metà anni settanta, iniziò una metamorfosi grazie all’espansione della sua base elettorale verso i ceti medi e medio-alti. Ma la svolta decisiva venne negli anni Ottanta e un ruolo decisivo lo ebbe “Repubblica”, la cui cultura politica era quella della destra azionista (La Malfa, Cianca, Tarchiani) ed il cui obiettivo era quello di una sorta di Pri di massa.L’operazione in gran parte riuscì e il risultato venne conclamato con Occhetto. Il Pds fu un partito sempre a base popolare (per quanto più ridotta) ma a trainarlo non era più l’apparato dei funzionari, quanto una certa borghesia professionale, accademica, giornalistica, manageriale. Fu il tempo della sinistra da salotto e da terrazza romana, che celebrò i suoi fasti al tempo di Veltroni. Si trattava di uno strato sociale di carrieristi, faccendieri, affaristi e, al bisogno, anche di tangentari grandi e piccoli. Gente priva di una sostanziale cultura politica, che non poteva sentir parlare di lotta di classe e che non aveva nessun senso della politica, ma che era in sintonia con lo spirito del tempo neoliberista. Pretendevano di essere loro la sinistra, anzi la nuova sinistra degli anni duemila, i blairiani d’Italia. Innamorati della finanza e allergici al lavoro, spinsero il partito a diventare il principale interlocutore del capitale finanziario in Italia.E anche questo era nello spirito dei tempi e rifletteva il nuovo compromesso socialdemocratico fra l’internazionale socialista e l’iper-capitalismo finanziario. La cosa ha funzionato per un quindicennio, poi… è venuta la crisi. Il modello si è incarognito e ha tagliato tutti gli spazi di mediazione riformistica, obbligando i partiti socialisti al governo (vale anche per Tsipras) a politiche apertamente antipopolari. E il meccanismo non ha più funzionato, come dimostrano i risultati ad una cifra di quasi tutti i partiti socialisti europei, dalla Spagna all’Austria, dalla Francia alla Grecia, dal Belgio alla Repubblica Ceca. La loro base popolare è risucchiata dall’ondata populista. Quel modello è fallito, in Europa e ora anche in Italia, nella quale la stagione renziana è stata solo una bizzarra anomalia subito normalizzata. E questa è la sorte odierna del Pd, destinato rapidamente a scendere a un risultato ad una cifra e all’assoluta irrilevanza politica: capolinea, signori si scende!(Aldo Giannuli, “Pd, la fine di un mondo”, dal blog di Giannuli del 9 marzo 2018).Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.
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Verso il “governicchio di scopo” che non cambierà niente
«Hanno imparato a fatica che devono fare politica, ora impareranno a fatica che devono trovare alleati». Per il politologo bolognese Gianfranco Pasquino, i 5 Stelle dovranno rassegnarsi alla soluzione per la quale lavorerebbe Mattarella: un “governo di scopo” destinato a durare al massino un anno e mezzo, giusto il tempo di licenziare il Def e tamponare la disoccupazione, ma senza toccare la legge Fornero né altre misure su cui si fonda il rigore imposto dall’Unione Europea. Ai vincitori l’onere del governo, avverte il Pd, con Maurizio Martina nei panni di ventriloquo di Renzi: stare alla finestra, sperando in una futura rivincita dopo aver fatto deragliare i vincitori relativi del 4 marzo, grillini e Lega. «E’ così», ammette Pasquino: il Pd «non produce la soluzione, ma impedisce di trovarne una: e Mattarella lo sa». Dal Quirinale, due appelli alla “responsabilità”. «Verrà anche il terzo appello, poi ci saranno le consultazioni: e su quella base Mattarella cercherà di individuare una soluzione praticabile». Grande coalizione? No, troppo indigesta e con aritmetica risicatissima: Renzi e Berlusconi, insieme, non avrebbero i numeri. Un asse tra Pd e M5S per tagliare fuori la Lega? «Ormai Salvini ha superato Berlusconi sia come seggi, sia come statura politica. Secondo me l’ex Cavaliere è fuori gioco definitivamente», dice Pasquino a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Unica possibilità: un governo “istituzionale”, con i 5 Stelle come baricentro.E il centrodestra? Il cartello si romperà? «Meloni e Salvini parlano la stessa lingua su controllo dell’immigrazione e sovranismo, più e meglio di quanto abbiano in comune con Berlusconi». Ma se il Cavaliere vuole sopravvivere politicamente, aggiunge Pasquino, deve stare con loro. Finora il Movimento 5 Stelle ha “recitato” da solo: è stato il suo punto di forza. Ora però si trova a dover fare politica, a stringere accordi. Ci riuscirà? Secondo Pasquino sì, «però non possono limitarsi a dire “facciamo delle cose insieme”, devono fare loro stessi delle offerte, dire quali punti sono trattabili e quali irrinunciabili. Stanno diventando possibilisti. Bene: è una delle regole cruciali delle democrazie parlamentari, dove i governi sono governi di coalizione e si fanno in Parlamento». Possibile un governo M5S-Lega? No: avrebbe troppo pochi seggi, e quindi «sarebbe troppo esposto al dissenso o al veto di pochi leghisti o pentastellati». Pasquino vede un “governo di scopo”, ovvero: «Si trova un accordo di programma su alcuni punti rilevanti, si cerca una squadra di governo sufficientemente preparata e su questa base si prova di trovare una maggioranza in Parlamento. Io credo che si possa fare».Piano-B: «Un governo di minoranza, basato sulla non-sfiducia dell’aula. In questo caso – sostiene Pasquino – l’esecutivo non potrebbe però essere fatto solo da ministri a 5 Stelle e dovrebbe essere guidato da una personalità di rilievo; qualcuno più importante di Di Maio, che dovrebbe fare un passo di lato». Nel programma ci sarebbe anche la legge elettorale, per rimediare all’orrido Rosatellum? «No, altrimenti non se ne esce più». Aggiune Pasquino, sarcastico: «I nuovi eletti si tranquillizzino, non si torna a votare in tempi brevi. Ci sono cose importanti da fare e cose da non fare». Tra le prime, affrontare il Def e le misure contro la disoccupazione. E comunque: meglio evitare di toccare l’oscena legge Fornero, «altrimenti si apre il vaso di Pandora». In pratica, un governo con le mani legate. Potrebbe prevalere la tentazione di tornare alle urne? La Lega punterebbe a conquistare altri elettori di Forza Italia, mentre i 5 Stelle finirebbero di spolpare il Pd. Pasquino però è scettico: «La Lega può pensare così, ma M5S deve fare attenzione, perché gli elettori lo hanno votato per mandarlo al governo. Se la prima cosa che fa è accettare lo scioglimento del Parlamento, il 32,8% se lo scorda. Insomma, non agiterei l’arma delle urne: anche per rispetto degli elettori». Meglio il “governicchio”, dunque? Pasquino non lo chiama così. Mattarella, dice, «vuole un governo sufficientemente autorevole, che duri per un po’ di tempo, il tempo classico dei governi italiani, 15-16 mesi, ma che sia serio». Serio: cioè ancora una volta sottomesso all’Ue, senza poter contestare la camicia di forza dell’austerity?«Hanno imparato a fatica che devono fare politica, ora impareranno a fatica che devono trovare alleati». Per il politologo bolognese Gianfranco Pasquino, i 5 Stelle dovranno rassegnarsi alla soluzione per la quale lavorerebbe Mattarella: un “governo di scopo” destinato a durare al massino un anno e mezzo, giusto il tempo di licenziare il Def e tamponare la disoccupazione, ma senza toccare la legge Fornero né altre misure su cui si fonda il rigore imposto dall’Unione Europea. Ai vincitori l’onere del governo, avverte il Pd, con Maurizio Martina nei panni di ventriloquo di Renzi: stare alla finestra, sperando in una futura rivincita dopo aver fatto deragliare i vincitori relativi del 4 marzo, grillini e Lega. «E’ così», ammette Pasquino: il Pd «non produce la soluzione, ma impedisce di trovarne una: e Mattarella lo sa». Dal Quirinale, due appelli alla “responsabilità”. «Verrà anche il terzo appello, poi ci saranno le consultazioni: e su quella base Mattarella cercherà di individuare una soluzione praticabile». Grande coalizione? No, troppo indigesta e con aritmetica risicatissima: Renzi e Berlusconi, insieme, non avrebbero i numeri. Un asse tra Pd e M5S per tagliare fuori la Lega? «Ormai Salvini ha superato Berlusconi sia come seggi, sia come statura politica. Secondo me l’ex Cavaliere è fuori gioco definitivamente», dice Pasquino a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Unica possibilità: un governo “istituzionale”, con i 5 Stelle come baricentro.
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L’Italia frana e il Pd le ha offerto solo la mistica del Jobs Act
«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.La cifra del tenore politico in casa Pd, dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, la offrono le meste esternazioni dei renziani Orfini, Lotti, Martina, «non a caso incolori e privi di qualsiasi carisma, come tutti quelli del Giglio Magico», assolutamente anonimi, fatta eccezione per la Boschi (che si fa notare per «la notevole avvenenza e l’astuzia nella cura del suo “particulare”») e per il misterioso Carrai, «personaggio scaltro, che appare e scompare». Sconfitti, i renziani ripetono: «Lasciateci perdere, per il governo vedetevela voi. Noi abbiamo perso, non vogliamo governare: lo faccia chi ha vinto, cioè 5 Stelle e Lega, con o senza Forza Italia al seguito». Peccato, si rammarica Magaldi: «E’ una posizione formalistica», sterile, ma certo non inaspettata. «In tutta questa storia del renzismo prevale sempre il lato formale», rileva Magaldi. «Hanno prevalso gli slogan, le propagande, le affermazioni altisonanti che dovevano sostituire la realtà: la mistica del Jobs Act, la mistica della crescita del paese. Ho ascoltato esterrefatto Alessandra Moretti, l’ex “lady like”, dire che loro pensavano che la ripresa avrebbe premiato il Pd, invece il paese reale ha una percezione diversa».«Non è questione di percezione», obietta Magaldi: «E’ che sono stronzate quelle che vengono dichiarate a reti unificate sulla ripresa: gli indicatori economici utilizzati sono fasulli (ma finiscono per convincere anche i loro propagatori), mentre il paese continua a essere in ginocchio da troppi anni, la disoccupazione galoppa e l’economia gira poco e male». E anziché aprire gli occhi e ammettere i suoi errori (evidentissimi agli elettori) il Pd «continua la sua triste narrativa renziana, dove quello che conta non è la sostanza». Ben diverso, aggiunge Magaldi, se Renzi dicesse: «Ho capito dove ho sbagliato, quindi offro un supporto al governo 5 Stelle (o a un altro governo) sulla base di alcuni progetti, che sono nostri. Non li vogliono? Pazienza, ma noi facciamo politica perché vogliamo fare delle cose, abbiamo questi progetti che avremmo attuato se avessimo vinto, e quindi se qualcuno li vuole sostenere andiamo avanti insieme». Questo, conclude Magaldi, «sarebbe un ragionamento di sostanzialità politica, e cioè: tu testimoni quello che è il tuo progetto politico – sia che perdi, sia che vinci. E invece siamo al tatticismo. Si dice: abbiamo perso, ci lecchiamo le ferite».In più, aggiunge, dopo la Caporetto del 4 marzo, «nel Pd prevale ancora un’identificazione fortissima con il sentire personale di Renzi», l’ex rottamatore arrivato al capolinea. In realtà, secondo Magaldi, dovrebbe essere rottamato l’intero centrosinistra italiano: di fatto, ha consegnato l’Italia a poteri oligarchici privati, coronando il sogno antidemocratico dell’ultimo Kalergi, adottato da Jean Monnet e dagli altri padrini storici di quest’Europa “antieuropeista”, che rema contro i propri popoli mettendoli l’uno contro l’altro a colpi di mercantilismo e culto del rigore. Finisce nei guai un paese come l’Italia, che oggi – tra le altre cose – si ritrova senza una politica all’altezza della situazione «e senza uno straccio di ideologia, tranne l’unica rimasta in piedi: quella neoliberista». Tatticismi, appunto: «Compreso il peggiore in assoluto, ipotesi di cui nessuno parla: la possibilità teorica che il centrodestra, in silenzio, possa “pescare” seggi tra i tanti grillini neo-eletti, come auspicato dallo stesso Berlusconi». Niente male, come inizio, per l’ipotetica Terza Repubblica fondata sugli equivoci, mentre il paese continua a crollare.«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.
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Carpeoro: avremo la solita merda, perché votiamo con odio
Nessuno si faccia illusioni: alla fine delle procedure istituzionali di rito, lente e macchinose, al governo ci sarà il solito schifo, fatto di politici “dimezzati” e proni ai diktat dell’élite finanziaria. Detto in francese: «Avremo la solita merda». Motivo? «Abbiamo votato come sempre: contro qualcuno, anziché per qualcosa. Ha vinto l’odio, ancora una volta. Inevitabile, quindi, che il risultato finale sia il nulla, il vuoto assoluto». Gianfranco Carpeoro non ha dubbi: nascerà comunque un governo, perché la “sovragestione” dei poteri forti teme un unico scenario, quello di nuove elezioni. Quale governo? Dipende dalla formula che alla fine prevarrà, dopo aver in ogni caso rottamato Matteo Renzi: l’ex premier «verrà “garrotato” lentamente, in modo che si tolga di mezzo e cessi di ostacolare l’unica soluzione percorribile, cioè quella di un esecutivo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Pd», opportunamente de-renzizzato. La sortita di Emiliano, che tifa per la convergenza verso i grillini? «Una candidatura personale, nel caso nel Pd prevalga la tentazione di un’alleanza aperta coi pentastellati». La discesa in campo di Calenda? Solo una variazione sul tema: «Sarebbe lo scivolo perfetto per riproporre la candidatura di Gentiloni, come capo di un “governo del presidente”, in ogni caso sempre sostenuto dai 5 Stelle e dal Pd senza più Renzi», ridotto al ruolo di semplice senatore e di fatto isolato, anche se a capo di una nutrita pattuglia di parlamentari a lui fedeli.
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Sapelli: dalle macerie italiane risorge il popolo degli abissi
No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».Il terzo male, per Sapelli, è l’inerzia delle parti sociali, «che vedono spogliare questa nazione delle sue risorse e nulla fanno come le borghesie commerciali “sudamericane”». E i sindacati, pur essendo «l’ultima istituzione che tiene», di fatto «rinunciano alle battaglie sui punti fondamentali». E questo, ovviamente, implica il fatto di «correre il pericolo del nazionalismo della povera gente e della classe media in discesa, con i fantasmi fascisti che ritornano». Proprio le fasce più deboli sono quelle più esposte al “quarto male” a cui gli elettori avrebbero detto basta, cioè «l’immigrazione incontrollata e non gestita con l’intelligenza della sicurezza e del rispetto della persona, non solo dei migranti, ma anche dei poveri e degli anziani che si trascinano una vita di stenti e non ne possono più di forti giovanotti con cellulare e venti euro in saccoccia: gli esempi australiani e tedeschi di accoglienza sono lì, ma noi nulla facciamo». Per l’economista, letteralmente, «si è disgregato lo Stato». Ed è quindi inevitabile che forze come i 5 Stelle e la Lega di Salvini si presentino come alternative al sistema.Da anni, Sapelli rileva l’inversione della tradizionale rappresentanza partitica: «I ricchi votano la loro sinistra, ossia Pd, Pisapia, Bonino, eccetera, mentre i poveri votano a destra, come sta accadendo in tutto il vecchio mondo neo-industriale. Non c’è bisogno di scomodare Trump, basta guardare alla Germania e alla Francia. Lì non votano e Macron viene eletto dal 23% degli aventi diritto». In Italia la partecipazione elettorale è ancora alta, ma travolge il vecchio schema destra-sinistra. Beninteso: «Sinistra, destra e centro sono ben presenti nel sociale e nell’universo simbolico del “popolo degli abissi”, ma quel popolo ha già compreso che le vecchie casacche vestono i morti: “Le mort saisit le vif”, diceva il filosofo di Treviri». A parte Marx, secondo Sapelli non bisogna «perdere la speranza che i nuovi universi simbolici siano educati dalle istituzioni e da una rinascita del ruolo degli intellettuali, che ora pasolinianamente al popolo si avvicinino senza più tradirlo». Quello del 4 marzo, insomma, «è un voto di speranza e di trasformazione».No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».
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Pino Cabras: coraggio, ognuno di noi può cambiare il mondo
Ringrazio di cuore gli 80.510 elettori del collegio Sardegna 03 che hanno votato il Movimento Cinque Stelle e mi hanno eletto alla Camera dei Deputati. Così come ringrazio altri che, pur votando altro e altrove, mi hanno manifestato commoventi dichiarazioni di stima e incoraggiamento. Ho sempre considerato l’impegno politico una parte importante del mio legame con la società. Perciò adesso sono contento di poter fare quel che faccio da una vita misurandolo meglio dentro le istituzioni, sebbene l’occasione si presenti in un momento davvero molto complicato (come potete ben vedere nel rebus che ci lascia in eredità la legge elettorale). Il contesto politico attuale è sì difficile, ma sono fiducioso. Mi viene in mente una frase dell’antropologa Margaret Mead: «Mai dubitare che un piccolo gruppo di cittadini pensanti e impegnati possano cambiare il mondo. In effetti è l’unico modo in cui sempre è stato cambiato». Non è una frase elitaria, anche se a prima vista potrebbe sembrare così. È semmai un modo per dire che l’esempio può essere trascinante: una fermezza morale, l’abnegazione, il coraggio, contagiano positivamente anche le moltitudini, e le azioni che si intrecciano provocano reazioni positive che si riproducono.Se penso a quel che è già diventato il Movimento Cinque Stelle nella storia della Repubblica italiana, vedo il successo di un impegno che ha incoraggiato grandi masse popolari a partire da una grande intransigenza che ha spazzato via mille ipocrisie, denudando il progressismo che non muoveva un sasso e castigando gli abusi di potere perpetrati da figuranti che si credevano indispensabili e irremovibili. Li vediamo ora coperti dai fumi delle loro macerie, consegnati al passato. Solo Renzi resiste, con la sua nuova invenzione: le dimissioni post-datate. Un pensiero particolare lo merita perciò l’esito elettorale della Sardegna. Percentuali del 42,5% non si vedevano dai tempi della Prima Repubblica. Quello del Movimento Cinque Stelle è un risultato che esprime una volontà collettiva potente, che risalta tanto di più nel momento in cui le forze che sostengono la giunta Pigliaru hanno preso un miserrimo 17,7%. Ai colonnelli del renzismo, a partire proprio da Pigliaru, non è bastato schierare in modo militare gli organi di informazione più grossi che li hanno fiancheggiati in ogni loro indecente promessa elettoralistica. La loro sconfitta è stata catastrofica a dispetto di ogni trucco e clientela. Fecero la stessa cosa in occasione del referendum costituzionale del 2016 e furono puniti dal risultato più severo di tutta la Repubblica italiana.È proprio vero: a quelli che vogliono rovinare, le divinità tolgono per prima cosa la ragione. Solo che con i renziani hanno esagerato. Tanto che in vista delle urne hanno ripetuto nel 2018 lo schema già usato nel 2016 (arroganza più promesse milionarie più clientele più occupazione dei media) con gli stessi inevitabili esiti disastrosi. Si sono comportati con il popolo sardo come i plenipotenziari di una colonia e lo hanno voluto prendere in giro con un ulteriore giro di strafottenza. Ai miei occhi, in vista delle elezioni regionali ormai vicine, la scelta del popolo sardo di questo splendido marzo significa una cosa semplice e grandiosa, una cosa che si presenta con questa nettezza per la prima volta: davvero possiamo cambiare la storia della Sardegna. Il che non significa solo cambiare persone, ma cambiare metodo, selezionare anche un’altra idea di Sardegna, ripensare insieme il ruolo della nostra isola nel mondo, trasformare istituzioni e programmi grazie alle energie straordinarie che libereremo in seno alla società sarda. Ognuno di noi può fare la sua parte, ne vale la pena.(Pino Cabras, “Ognuno di noi può fare la sua parte, ne vale la pena”, messaggio con cui Cabras ha ringraziato pubblicamente i suoi elettori, ripreso da “Megachip” il 6 marzo 2018).Ringrazio di cuore gli 80.510 elettori del collegio Sardegna 03 che hanno votato il Movimento Cinque Stelle e mi hanno eletto alla Camera dei Deputati. Così come ringrazio altri che, pur votando altro e altrove, mi hanno manifestato commoventi dichiarazioni di stima e incoraggiamento. Ho sempre considerato l’impegno politico una parte importante del mio legame con la società. Perciò adesso sono contento di poter fare quel che faccio da una vita misurandolo meglio dentro le istituzioni, sebbene l’occasione si presenti in un momento davvero molto complicato (come potete ben vedere nel rebus che ci lascia in eredità la legge elettorale). Il contesto politico attuale è sì difficile, ma sono fiducioso. Mi viene in mente una frase dell’antropologa Margaret Mead: «Mai dubitare che un piccolo gruppo di cittadini pensanti e impegnati possano cambiare il mondo. In effetti è l’unico modo in cui sempre è stato cambiato». Non è una frase elitaria, anche se a prima vista potrebbe sembrare così. È semmai un modo per dire che l’esempio può essere trascinante: una fermezza morale, l’abnegazione, il coraggio, contagiano positivamente anche le moltitudini, e le azioni che si intrecciano provocano reazioni positive che si riproducono.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Che succede dopo le elezioni? Niente, e riderà la solita élite
Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.La necessità di formare alleanze improbabili è stata quindi da sempre la caratteristica della politica italiana. Le cose non cambiarono neanche con il passaggio dalla prima alla seconda repubblica; nonostante fosse stato riformato il sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, la verità è che la riforma elettorale servì unicamente a rendere meno ancorati al territorio i vari candidati, e a restringere le possibilità di scelta dell’elettore. Per il resto, la composizione politica del Parlamento rimase più o meno identica alla precedente, nell’impossibilità di formare una vera maggioranza, e quindi con alleanze che costringevano poi a non portare a termine nessuna vera riforma (eclatante fu la rottura del primo governo Berlusconi, ove quest’ultimo dichiarò che mai più avrebbe voluto avere a che fare con Bossi, mentre Bossi dal canto suo dichiarò “mai più con la porcilaia fascista”; e puntualmente dopo pochi mesi si riallearono di nuovo, nell’impossibilità di formare una maggioranza di governo).Le ultime riforme elettorali, dal Porcellum o al Rosatellum, non hanno avuto altri effetti se non di impedire agli elettori di scegliere i propri candidati, e complicare il meccanismo elettorale in modo da rendere possibili brogli e impedire ai partiti di minoranza di avere una loro rappresentanza, sia pure minima (questo fenomeno però non è nuovo; la prima legge elettorale per taroccare i risultati, infatti, fu approvata dalla Dc ai tempi della prima legislatura, tanto che tale legge fu denominata, appunto “legge-truffa”). Ma la più grossa assurdità di queste elezioni è che il Parlamento attuale, sorto a seguito di una legge dichiarata incostituzionale dalla stessa Corte Costituzionale, è da considerarsi giuridicamente illegittimo. Questo Parlamento illegittimo ha modificato a sua volta la legge elettorale (che quindi, per la proprietà transitiva, è da considerarsi anch’essa illegittima, come qualsiasi legge sia stata votata da questo Parlamento) e quindi avremo un Parlamento, quale che esso sia, a sua volta illegittimo. Un Parlamento instabile è infatti ciò che è necessario a chi detiene veramente il potere (cioè le élite economico-finanziarie internazionali) per garantirsi quell’instabilità politica, necessaria per continuare a perpetuare il proprio piano internazionale di globalizzazione del mondo e di accentramento di tutti i poteri politici e finanziari in un vertice unico.(Paolo Franceschetti, “Cosa succederà dopo le prossime elezioni?”, dal blog “Petali di Loto” del 28 febbraio 2018).Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.
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Giannini: il reddito di cittadinanza può far gola alla mafia
Premetto per motivi di opportunità che sono consapevole che questo pezzo andrà ad interessare la sensibilità di molte persone, tuttavia è compito di ogni serio articolista non avere timore di esporre le proprie perplessità sugli aspetti carenti di una proposta. Sarò al solito diretto come lo sono stato in passato con la retorica di FdI sui “Marò”, sulla posizione della Lega sulle “Quote Latte”, sulla “Buona Scuola” di Renzi, e sulla distruzione del Pil operata da Mario Monti. Spero per una volta che i grillini prendano esempio dagli elettori di queste forze politiche riguardo l’opportunità di non polemizzare in modo scomposto su un tema di questo tipo, evitando le solite strategie di aggressione personale (insulti, derisione, insinuazioni, ecc) per il mio passato da pentastellato. Se trattasi di passione politica non esiste accanimento, altrimenti è indice di impegno non disinteressato e bramosia di posto pubblico. Lo stesso Di Maio finirebbe per esser percepito come lo specchietto per le allodole che maschera una indole poco equilibrata di tutto un movimento. Nunzia Catalfo è senatrice del Movimento ed il Ddl del 2013 (cui contribuii) porta il suo nome: è siciliana ed è persona equilibrata ed onesta.Di Maio il candidato premier, Ruocco, Sibilia e Fico sono stati 4 dei 5 membri del vecchio direttorio e sono tutti campani. Mi chiedo come possa essere stato possibile che da questi rappresentanti non siano state previste delle “clausole di salvaguardia” per l’erogazione del RdC nelle aree del paese a forte infiltrazione mafiosa; mi domando se questa gravissima lacuna sia stata frutto di incompetenza o di distrazione (a causa della campagna elettorale). Non critico l’opportunità di un Reddito Minimo Garantito Workfare quale è il RdC (di cui sono promotore dal 2011) ma parte dei 29 miliardi del RdC non possono diventare un business per la criminalità organizzata. Potevano essere previsti diversi tipi di contrappeso: la possibilità per il prefetto di sospendere l’erogazione a tempo indeterminato nelle aree infiltrate; un tetto massimo di prelievo giornaliero e settimanale; l’utilizzo di una carta di credito apposita con cui si possano spendere i 780 euro ma non ritirare banconote. Comprendo che quando tocchiamo grossi interessi della malavita ci si espone a un pericolo ma ho nel cuore le parole della vedova Caponnetto: «Hai i 5 valori di mio marito, non ti far cambiare e mantieni il tuo coraggio»; non esiste una equazione Sud = malavita, ma in molti Comuni del meridione esiste una mentalità “anti Stato” in cui la malavita è vista come lo Stato (io ho vissuto alcuni periodi della mia vita in province campane pur essendo da sempre residente in Toscana).Lo “Stato Camorra” è percepito come la “comunità locale”, come colei che “provvede”, in antitesi ad uno Stato italiano “canaglia”, descritto come invasore, oppressore, responsabile della “depressione” delle aree del Sud. «E’ Stato la Mafia», direbbe Travaglio. Da questa forma di Stato-AntiStato parallelo vengono “forniti” lavori saltuari, a volte derrate alimentari sotto traccia, sostegno economico e “protezione”. Ad essere tagliaggiate sono le imprese; non dubito che sarà così anche per gli aventi diritto al reddito: saranno avvicinate persone che altrimenti sarebbero fuori dal raggio di azione concreto dei gangli mafiosi. La mafia esiste e, in quanto tale, impone ai cittadini la propria sopravvivenza, motivandola come la sopravvivenza di tutti: chiaramente è falso, chiaramente ancora oggi vive di rancori storici verso lo Stato unitario italiano. Esiste una zona grigia sociale da cui nessuno è immune: può accadere a chiunque, perfino durante un singolo pomeriggio, di essere malavitoso per un quarto d’ora per poi tornare a non esserlo: ad esempio fingendo di non sapere con chi si sta prendendo un caffè (obtorto collo) perché magari presente nel gruppo di un amico, ecc. Le persone in queste realtà si conoscono tutte, ed è certo come lo sono “il giorno e la notte” che in questi contesti la frase sarebbe del tipo: «Sei disoccupato? Quanto ti dà lo Stato? 780 euro? Sai che noi siamo lo Stato. Noi dobbiamo proteggere tutti, proteggiamo anche te, tua moglie, ecc. Devi dare una mano anche tu alla Comunità perché noi siamo la tua famiglia, non lo Stato».Possiamo speculare, ipotizzare possano essere 100 euro, 50, 200 euro al mese, ma la mia sensazione è che ciò puntualmente accadrà. Chi si fa promotore della proposta del Reddito di Cittadinanza è il M5S, che nelle regioni del Sud non viene votato granché quando si tengono elezioni locali (dal comunale, al regionale fino al voto europeo) mentre in vista del Reddito di Cittadinanza alle elezioni nazionali (da quello che scrivono su Facebook e dai sondaggi) pare fare il pieno. Temo che solo in parte ciò sia dovuto all’elevato tasso di disoccupazione presente al Sud; credo che la mafia stia favorendo un consenso in questa direzione agendo nella società e che sempre la malavita stia pregustando l’erogazione del Reddito di Cittadinanza. Senza voler creare allarmismo potrebbe accadere, addirittura, che le Regioni che contribuiscono in modo massiccio alle entrate dello Stato, se emergessero i primi scandali, chiederanno a gran voce l’autonomia, mettendo in discussione l’integrità territoriale italiana prevista dalla Costituzione e lasciando il Sud in mano proprio alla peggior forma di Parastato, proprio ai carnefici di Falcone e Borsellino sulla cui fine ancora oggi dubito sia stata fatta pienamente luce.(Marco Giannini, riflessione su “Il potenziale legame tra Reddito di Cittadinanza e Mafie”, pubblicato sa “Libreidee” il 3 marzo 2018. Già attivista del Movimento 5 Stelle, Giannini è autore del saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, sottotitolo “Corso di sopravvivenza per chi non sa niente di economia”, edito da Andromeda nel 2015, presentato anche alla Camera. Nel gennaio 2017 Giannini si è distanziato dal movimento fondato da Grillo dopo la tentata adesione del M5S al gruppo ultra-europeista dell’Alde in seno al Parlamento Europeo).Premetto per motivi di opportunità che sono consapevole che questo pezzo andrà ad interessare la sensibilità di molte persone, tuttavia è compito di ogni serio articolista non avere timore di esporre le proprie perplessità sugli aspetti carenti di una proposta. Sarò al solito diretto come lo sono stato in passato con la retorica di FdI sui “Marò”, sulla posizione della Lega sulle “Quote Latte”, sulla “Buona Scuola” di Renzi, e sulla distruzione del Pil operata da Mario Monti. Spero per una volta che i grillini prendano esempio dagli elettori di queste forze politiche riguardo l’opportunità di non polemizzare in modo scomposto su un tema di questo tipo, evitando le solite strategie di aggressione personale (insulti, derisione, insinuazioni, ecc) per il mio passato da pentastellato. Se trattasi di passione politica non esiste accanimento, altrimenti è indice di impegno non disinteressato e bramosia di posto pubblico. Lo stesso Di Maio finirebbe per esser percepito come lo specchietto per le allodole che maschera una indole poco equilibrata di tutto un movimento. Nunzia Catalfo è senatrice del Movimento ed il Ddl del 2013 (cui contribuii) porta il suo nome: è siciliana ed è persona equilibrata ed onesta.
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Crisi bancaria, ricatto Bce: il prossimo governo nasce morto
Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».Dato l’alto livello di sofferenze già emerse (e che emergeranno nel sistema bancario italiano, soprattutto nel Monte dei Paschi di Siena), «queste nuove regole in prospettiva scateneranno una crisi bancaria generale, perché molte banche semplicemente non hanno i soldi per coprire le perdite e salteranno». Va anche considerato che «molte banche, da tempo, stanno concedendo crediti in modo piuttosto spensierato, allo scopo di raggiungere budget elevati». Le nuove regole annunciate per la primavera «indurranno le banche a restringere il credito, e ciò strozzerà l’economia». Secondo Della Luna, «nessun governo reggerebbe a un tale disastro, quindi il prossimo governo italiano dovrà inginocchiarsi ai grandi banchieri per impetrare rinvii dell’applicazione delle nuove regole e aiuti per adeguarsi ad esse nel tempo». Ma gli “aiuti”, si sa, «sono condizionati all’obbedienza politica, cioè a che il governo faccia le riforme, le cessioni di sovranità e le privatizzazioni che richiedono i grandi banchieri. E’ già avvenuto nel 2011».Sempre secondo Della Luna, quindi, «il prossimo governo dovrà dimenticare e far dimenticare alla gente tutte le promesse elettorali di farsi sentire in Europa, di sforare il 3%, di varare la Flat Tax, di fare grandi investimenti, di sostenere i poveri». I programmi elettorali sono stati bollati come velleitari, perché non indicano concretamente le coperture? Certo: «Sono velleitari, anzi illusori, soprattutto perché non tengono conto del fatto che l’Italia, come la Grecia, è sottoposta gerarchicamente al comando e al bastone di interessi esterni ad essa, che si stanno prendendo i suoi migliori assets aziendali». Da diversi decenni, «e ancor più con l’imposizione della guerra alla Libia e con il colpo di stato del 2011», l’Italia è stata «completamente sottomessa a quegli interessi». Peggio: «I suoi vertici istituzionali collaborano con essi». In più, «la ribellione a tutela dell’interesse nazionale, anche solo parziale, non è tollerata e viene repressa attraverso la Bce, l’Ecofin, il Fmi». Volete un governo che faccia gli interessi del vostro paese, per cui pagate le tasse? «Allora cambiate paese», taglia corto Della Luna.Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».
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Luciani: astensionismo, contro le larghe intese degli ipocriti
L’ombra delle larghe intese alimenta il voto antisistema? ‘è un grande disagio tra gli elettori, e le forze politiche non sembrano farsene carico. Il punto però mi pare un altro. L’elettore non ha mai torto, anche quando sceglie nel modo che non ci piace. Perché decide sulla base dell’offerta politica che gli viene proposta: se questa è inadeguata l’elettore la punisce. La prima cosa di cui i partiti dovrebbero preoccuparsi sono i milioni di italiani che non andranno a votare. E chissà quanti voteranno scheda bianca o nulla. Il sistema politico non è mai delegittimato, perché otterrebbe la sua legittimazione dai votanti. Ma se il tasso di partecipazione fosse davvero basso, saremmo davanti a un evidente rifiuto del sistema. E questo porrebbe dei problemi di tenuta democratica. Quand’è che l’elettore sceglie di non votare? Quando non c’è un patrimonio ideale chiaro che si confronta con un altro, quando si accorge che le differenze sono di facciata. Ma soprattutto, vedo un grande sconcerto per l’aumento insostenibile della diseguaglianza sociale ed economica, alla quale nessuno sembra voler rispondere. La Costituzione non voleva questo, certamente nei primi 40 anni della repubblica non è accaduto questo, e sul punto il silenzio dei partiti è assordante.