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Il fantasma Edoardo Agnelli, le non-indagini sulla sua fine
Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.Il primo a non credere alla versione ufficiale è un cronista di razza come Gigi Moncalvo, per un semplice motivo: nessuno svolse vere indagini. E ha dell’incredibile la trascuratezza di chi avrebbe dovuto ricostruire le ultime ore di Edoardo Agnelli. Un ragazzone di 46 anni, a lungo celebrato dall’Iran come “martire dell’Islam”. «Sulla sua morte, il governo di Teheran ci ha pedalato parecchio», dice Moncalvo, autore del saggio “Agnelli segreti”, che alla tragica fine di Edoardo dedica 8 capitoli, fondati sul fascicolo della Procura di Mondovì. La tesi degli ayatollah: Edoardo, che aveva aderito all’Islam, sarebbe stato ucciso da un complotto sionista, ordito per mettere le mani sulla Fiat manipolando l’ebreo John Philip Jacob Elkann, allora giovanissimo. Obiettivo: scongiurare il rischio che ci finisse “un musulmano”, a controllare i conti della Fiat. A far paura era la caratura di Edoardo, che aveva dichiarato guerra alla produzione di armamenti, «come le mine antiuomo che la Fiat metteva sul mercato, tramite la consociata Valsella».Moncalvo è un veterano dell’informazione italiana: profetico innocentista sul caso Tortora, redattore al “Giorno” e al “Corriere”, fautore dei primi Tg berlusconiani, infine dirigente Rai. E autore prolifico di saggi coraggiosi (e subito scomparsi dalle librerie) come quelli dedicati alle dinastie Agnelli e Caracciolo. «Non dico che Edoardo non si sia ucciso, né che sia stato suicidato», ribadisce a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Dico solo che, a 19 anni dal decesso, non sappiamo come sia morto: se si è tolto la vita, se è stato ucciso. Se è uscito di casa da solo, oppure no. Se è stato deposto già cadavere ai piedi di quel viadotto. L’unica verità è che non lo sappiamo». Riparlare della sua morte, osserva il giornalista, sembra sempre una cosa sgradevole, «come se si volesse rivangare il passato e non lasciare in pace un signore che è morto a 46 anni, in circostanze che sono ancora oggi misteriose, anzi misteriosissime». Stranezze: «Dopo 19 anni, il fascicolo presso il tribunale di Mondovì è ancora secretato, nonostante ci siano state inchieste, e nonostante io e alcuni avvocati abbiamo inviato alla Procura di Mondovì il mio libro “Agnelli segreti”, dove sono indicati 48 punti che rivelano come NON sono state fatte le indagini, come si è voluto nascondere una serie di responsabilità notevoli».Niente complottismi: solo fatti documentati. «Una massiccia campagna di stampa orchestrata dall’ufficio pubbliche relazioni della Fiat, quindi per ordine della famiglia, ha sempre voluto far credere che Edoardo si fosse suicidato». Chiariamoci, premette Moncalvo: «Tutte queste voci attorno alla sua morte si sono diffuse proprio a causa della mancata chiarezza fatta da chi aveva il potere e il dovere di intervenire: il primis il procuratore capo di Mondovì, Riccardo Bausone, ora in pensione». Edoardo «poteva dare fastidio, pur nella sua irrequietudine», nonostante «le trappole in cui era caduto». Per esempio, nel ‘90, l’incidente di Malindi, in Kenya: fermato dalla polizia per possesso di stupefacenti. «Un arresto avvenuto con accompagnamento di telecamere, cioè in una maniera che destava molti sospetti sulle modalità e sugli scopi di quella vicenda». La storia poi accelera di colpo nel ‘97, quando si spegne (a soli 33 anni) il cugino Giovannino, cioè Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, dipinto dai giornali, erroneamente, come ipotetico delfino dell’Avvocato. Al suo posto, nel Cda Fiat, anziché Edoardo viene inserito stranamente l’imberbe John. Per protestare, il primogenito chiama Paolo Griseri, affidando al “Manifesto” la più clamorosa delle interviste: non creda, mio padre, di sbarazzarsi di me.Attenzione: «Edoardo era considerato una sorta di lebbroso, un ragazzo da evitare. Per offenderlo, screditarlo e diffamarlo, si diceva: Edoardo è matto, drogato e sbalestrato, impregnato di teorie e filosofie confuse, piene di astrattismi e di utopie». Obiettivo: isolarlo. Griseri, oggi redattore di “Repubblica”, violò l’embargo. Incontrò il giovane Agnelli al convento dei cappuccini di Torino, una sera di nebbia. Ne uscirono frasi lapidarie. Un avvertimento: come erede, mi spetterà un terzo dalla Fiat, della Exor, dell’Accomandita Giovanni Agnelli e soprattutto della Dicembre, la società strategica che domina tutto. «Una dichiarazione che a qualcuno fa tremare i polsi: non si illuda, mio padre – precisa Edoardo – di scrivere o di disporre che quel terzo di diritto che mi spetta, delle azioni, mi venga liquidato convertendolo in denaro. No: io voglio le azioni, come mio diritto. Voglio verificare i bilanci della società, controllare i prodotti della Fiat». Edoardo lo mette proprio in chiaro: non accetterà di essere messo alla porta con una buonuscita zeppa di milioni. Vuole poter pesare, dire la sua. Per questo, esigerà un terzo della partecipazione azionaria.Prende anche le distanze da John Elkann: mi meraviglia, dice, che mio padre lo abbia nominato. E’ stato un grosso errore: la nomina di “Yaki” è stata decisa contro le perplessità di mio padre, che infatti all’inizio non voleva dare il suo assenso. «Come se (e qui fa una rivelazione importante) Gianni Agnelli fosse stato in qualche modo convinto, forzato, costretto a nominare John nel Cda?». Edoardo dice che “qualcuno” ha spinto il padre ad agire in quel modo. Moncalvo pensa a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, «i due “consiglieri della corona”, i due Richelieu della real casa torinese». Quasi ci fosse la seguente configurazione: intanto prepariamo il terreno a ciò che accadrà dopo la morte dell’Avvocato, all’epoca in precarie condizioni, reduce da 6 operazioni al cuore e tormentato da un tumore alla prostata (si spegnerà quasi 5 anni dopo, il 24 gennaio 2003). Quindi, “qualcuno” – per mantenere il potere – manovrò perché venisse fatto fuori, sul piano azionario, il figlio di Agnelli, per mettere al suo posto un soggetto come il ragazzino John, molto più controllabile, addomesticabile, condizionabile?La domanda di Moncalvo resta in sospeso, fino alle deduzioni più recenti, dopo la guerra familiare scatenata dalla sorella di Edoardo, Margherita Agnelli, sull’eredità dell’Avvocato. E se Edoardo fosse stato ancora vivo, alla morte di suo padre nel 2003? «La vedova, Marella, ha donato tutto a suo nipote John Elkann irritando la figlia, Margherita. Vivo Edoardo, alleato con sua sorella, la madre non avrebbe potuto fare quello che ha fatto, a favore di John». Quindi, ragiona Moncalvo, «la scomparsa di Edoardo ha facilitato il disegno di coloro che volevano mettere le mani sulla Fiat, o ufficialmente o dietro le quinte, o comandando attraverso un giovanotto pallido, imberbe e inesperto». Costoro, aggiunge sempre Moncalvo, se si fossero trovati sulla loro strada Edoardo Agnelli, come avrebbero potuto convincere “donna Marella” a donare la sua parte? «Come avrebbero potuto convincere John ad accoltellare sua madre, Margherita, portandole via la Dicembre e il controllo della società? E come avrebbe potuto, la stessa “donna Marella”, accoltellare alla schiena sua figlia Margherita, rompendo l’unità familiare e mettendole contro il primogenito, John? Pensate che cosa avrebbe determinato, la sola presenza di Edoardo».Solo ipotesi, naturalmente, perché Edoardo Agnelli è diventato ufficialmente un fantasma due anni e sette mesi dopo la famosa intervista al “Manifesto”. E qui Moncalvo, autorizzato da Margherita Agnelli a consultare le carte giudiziarie, spalanca il libro della vergogna. Il 15 novembre 2000, la famosa Fiat Croma viene avvistata da un addetto alla sicurezza autostradale, in sosta sul ponte che sovrasta il fiume Stura di Demonte, nel territorio di Fossano. Il corpo di Edoardo è rinvenuto, quasi intatto, 78 metri più in basso, ai piedi del viadotto. L’esame necroscopico è sommario, grossolanamente superficiale: il medico legale (non quello di turno, ma un medico chiamato apposta dal procuratore) sbaglia il peso e l’altezza del cadavere, togliendoli 20 chili e 20 centimetri. Dieci anni dopo, a “La storia siamo noi”, Giovanni Minoli farà una sua ricostruzione, “L’ultimo volo”, che cita le versioni alternative ma poi accredita la tesi del suicidio. Gli esperti in studio, si esaspera Moncalvo, «arriveranno a dire che è normale, se uno cade in piedi, che possa accorciarsi e diventare quasi nano».Gigi Moncalvo insiste sui primi istanti del ritrovamento. La polizia stradale di Cuneo, subito sul posto, viene rimpiazzata dalla polizia torinese, accorsa in forze. Il questore, Nicola Cavaliere, ha accompagnato personalmente il padre, Gianni Agnelli, a riconoscere quel che resta di suo figlio. Il procuratore Bausone fa due annunci, a caldo. Primo: non si esclude nessuna ipotesi. Secondo: sarà fondamentale l’esito dell’autopsia. Peccato però che l’autopsia non verrà mai eseguita, e che l’unica ipotesi in campo sarà quella del suicidio. L’esame autoptico, chiarisce Moncalvo, sulla carta era rischioso: se per caso nel corpo di Edoardo fossero emerse tracce di stupefacenti, sarebbe scattata d’ufficio una imbarazzante indagine parallela, a Torino, sul mondo dello spaccio eventualmente frequentato dalla vittima. Ma l’autopsia mancata, secondo Moncalvo, è solo uno degli aspetti, neppure il peggiore, della clamorosa non-indagine. La Croma era parcheggiata in modo perfetto, allineata al guard-rail, e Edoardo Agnelli non sapeva posteggiare in retromarcia. Pesava 119 chili, ed era claudicante: si aiutava col bastone, per i postumi di una caduta. In quelle condizioni, con un fisico come il suo (un metro e novanta di statura) sarebbe sgusciato dall’auto e si sarebbe arrampicato sul parapetto, alto un metro e mezzo, per poi lanciarsi sotto. E senza essere visto da nessuno, lungo un’autostrada percorsa da quasi 70 veicoli al minuto.Per la Procura di Mondovì, la prova regina dell’ipotetico suicidio è rappresentata dal Telepass a bordo della Croma, che registra ogni spostamento. Quella mattina: l’ingresso a Torino in direzione Savona, l’uscita a Marene, il rientro in autostrada fino al viadotto di Fossano. Coincide coi percorsi dei tre giorni precedenti: segno, per gli inquirenti, che Edoardo Agnelli vagasse in cerca di un ponte da cui gettarsi. Peccato, dice Moncalvo, che la vettura su cui era installato il Telepass viaggiasse a 150 all’ora: non certo la velocità ideale, per chi si sta guardando attorno in cerca del punto adatto in cui farla finita. Non solo: il Telepass non prova che Edoardo fosse alla guida della Croma. E non essendo collegato alla targa, non dimostra nemmeno che fosse installato su quella berlina: l’aggeggio infatti può essere benissimo trasferito da una vettura all’altra. Per giunta, la Croma disponeva di un navigatore Gps: quello sì, avrebbe rivelato con certezza i movimenti della vettura. «Ma il Gps non è stato controllato. Invece il Telepass, incredibilmente, è diventato l’unica prova su cui fondare l’ipotesi del suicidio». Del resto, meglio non dire: si stenta a credere che ci si sia davvero rifiutati di indagare.Eppure, visitata Villa Sole, la casa di Edoardo sulla collina torinese, la Digos – dice Moncalvo – evita di sequestrare i filmati delle telecamere di sorveglianza: sarebbe stato il primo passo, elementare. Avrebbe svelato a che ora Edoardo era uscito di casa, se era solo o accompagnato, se era ancora vivo. E se indossava già – come poi si è accertato, sotto il tragico viadotto – il suo pigiama a righe, sotto l’abito blu. E non è tutto: in casa ci sono quattro telefoni, ma nessuno chiederà alla Telecom i tabulati. Resteranno muti anche i due computer. «Erano protetti da password, dissero gli inquirenti. Per superare l’ostacolo, bastava un hacker di vent’anni». E la scorta di Edoardo? Se c’era, dormiva: «Dissero che si era allontanato senza che ne accorgessero, nonostante avessero avuto l’ordine di sorvegliarlo ovunque: la famiglia sperava che la presenza della scorta lo tenesse lontano dalla droga o da incontri con persone particolari». Cade dalle nuvole, il personale di sicurezza: dice che Edoardo se n’era andato a spasso, con la sua Croma, anche nei tre giorni precedenti. La cosa strana, osserva Moncalvo, è che la polizia non fa altre domande: anzi, si accontenta di un memoriale consegnato loro dai vigilantes, evidentemente preparato dalla società, la Orione, che gestisce la security del mondo Fiat.Secondo Moncalvo, a rendere gli agenti della Digos così accondiscendenti possono aver giocato tanti aspetti: il potere immenso della famiglia Agnelli, i rapporti personali del questore con l’Avvocato, e forse anche il miraggio di lasciare un giorno la divisa per un posto tra le guardie dell’Orione, dove si rischia meno e si guadagna il doppio? Ma quello che lascia maggiormente stupefatti, dice Moncalvo, è innanzitutto il comportamento della magistratura. «Dieci giorni dopo il ritrovamento – racconta il giornalista – al procuratore di Mondovì arriva una lettera anonima, proveniente da un carcere di massima sicurezza del Nord Italia». Si parla apertamente di omicidio, riguardo alla fine di Edoardo. La lettera l’ha scritta probabilmente un detenuto condannato per reati di mafia, dato che (in altre sue parti) contiene riferimenti precisi a una vicenda criminale molto grave. «Nella lettera vengono accusati alcuni magistrati». Nel momento in cui Bausone riceve la missiva, per dovere d’ufficio la trasmette alla Procura generale di Torino, allora retta da Giancarlo Caselli. «Bausone allega un proprio appunto, in cui dice: è arrivata questa lettera, anonima, che formula ipotesi sui mandanti e sul modo in cui è morto Edoardo Agnelli. Ma posso assicurare che si tratta di un evidente caso di “precipitazione”».Quindi, sintetizza Moncalvo, «a soli 10 giorni dalla morte, senza aver svolto indagini, Bausone ha già deciso che Edoardo Agnelli si è suicidato». E questo, nonostante il minuzioso rapporto della Polstrada di Cuneo: Edoardo Agnelli avrebbe guidato la sua auto fino a Fossano, ma come un fantasma, senza lasciare tracce. «Sulle superfici lisce della Croma non ci sono impronte. Volante, cambio, autoradio, radiotelefono, sedili, portiere, maniglie. E Edoardo non portava guanti». Senza impronte anche gli oggetti a bordo: una bottiglia d’acqua bevuta a metà, 11 scatole di fiammiferi, 8 confezioni di filtri David Ross, 11 confezioni di panni per la pulitura delle lenti. Non un’impronta neppure sui 5 bloc notes con fogli manoscritti: con scritto cosa, poi? Non lo si sa. Niente tracce sulle 5 cartine geografiche, sulle 2 mappe fotocopiate, sui 4 blocchetti di prelievo materiale. Nessuna impronta digitale sui 2 telecomandi, sulla lampada di emergenza, sullo spolverino, sulle 5 audiocassette. Su quell’auto, Edoardo non aveva mai lasciato un’orma, nemmeno nei giorni precedenti?L’assenza di impronte lascia sbalorditi, dice Moncalvo: «Morire che ci sia un poliziotto, un questore, un capo della Digos – ma soprattutto un magistrato – che non rimanga stupefatto come lo siamo rimasti noi». Logica deduzione: «Solo un’organizzazione criminale di altissimo livello arriva a “ripulire” perfettamente da ogni tipo di impronte ogni superficie, interna ed esterna, di un’automobile». Mafia? Servizi segreti? E chi lo sa. Nessuno ha incalzato la scorta, per capire come mai Edoardo fosse stato lasciato libero di allontanarsi. Nessuno ha mai chiesto nemmeno all’autogrill sull’autostrada, dice Moncalvo, se per caso, quel maledetto 15 novembre, qualche automobilista di passaggio non avesse intravisto un uomo alto quasi due metri, praticamente zoppo, arrampicarsi sul parapetto. «Di fronte a un sospetto suicidio – ricorda il giornalista – si indaga per induzione al suicidio: qualcuno potrebbe aver spinto il malcapitato alla disperazione, per qualsiasi motivo (di salute, finanziario, sentimentale), magari comunicandogli notizie false. Si tratta ovviamente di un reato gravissimo».Quella fatidica mattina, risulta che Edoardo Agnelli abbia chiamato suo padre, per il quale nutriva una sorta di venerazione, restando però in linea solo per dieci secondi. Poi ha chiamato lo zio, Carlo Caracciolo, con cui era sempre stato in ottimi rapporti. Cosa si dissero? Non si sa, dice Moncalvo: nessuno gliel’ha chiesto. «Normalmente, si interrogano le ultime persone con cui la vittima ha parlato, per appurare se trasparisse un suo eventuale stato di angoscia». Invece, in questo caso, «il procuratore Bausone non ha sentito né il padre, né la madre, né lo zio, né la sorella». Alberto Bini, il procuratore di Edoardo, ha detto che quella mattina il figlio dell’Avvocato aveva chiamato il dentista, per disdire un appuntamento: per che motivo? «La polizia – aggiunge Moncalvo – non ha sentito nemmeno il centralinista di casa Agnelli, giusto per verificare se ci fosse stata davvero, quella telefonata al padre. Né sono stati sentiti Gabetti e Grande Stevens». Ufficialmente, infatti, Edoardo lavorava all’Ifi, Istituto Finanziaro Italiano, e quindi era un dipendente di Gabetti, «che avrebbe potuto dire se c’erano preoccupazioni, se Edoardo si trovava bene, o se magari creava problemi».In compenso, Margherita Agnelli rivela che, quella stessa mattina, Edoardo aveva telefonato a suo marito, Serge De Pahlen. A suo cognato, Edorado disse: so che sei a Torino, vediamoci più tardi e andiamo a pranzo insieme. «Strano, per uno che sta per suicidarsi». A meno che, appunto, sul viadotto di Fossano non sia mai salito Edoardo Agnelli, ma solo il suo fantasma: un uomo invisibile, capace di guidare senza lasciare impronte. Zoppicante, ma agile come un gatto: lesto ad arrampicarsi – non visto da nessuno – sul parapetto. Per poi finire 78 metri più in basso, coi mocassini ai piedi e gli occhiali ancora al loro posto. Insiste Moncalvo: restiamo ai fatti, tralasciando i complottismi (fioriti inevitabilmente a causa delle troppe reticenze). «L’unica vertà accertata è che Edoardo è morto. Ma parlare ancora di suicidio, dopo 19 anni, è una vergogna». Curiosità: il tragico viadotto di Fossano è dedicato al generale dei carabinieri Franco Romano, morto due anni prima di Edoardo. Cadde in elicottero, «un incidente strano». Dopo una prima tappa in val d’Aosta, sarebbe volato fino al Sestriere per commemorare Giovannino Agnelli. Il generale sfortunato e il figlio dell’Avvocato: due destini di morte, in qualche modo collegati a quel viadotto. E un’unica simbologia, la “precipitazione”: la caduta dall’alto, a troncare la vita di chi contava molto.Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.
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A chi obbediscono le docili istituzioni del Protettorato Italia
Finalmente anche all’opinione pubblica è arrivato il problema della condizione internazionale dell’Italia come paese dominato da altri paesi – Francia e Germania – che sono in grado di imporre, anche con l’aiuto della Ue e della Bce che stringono o allargano la borsa all’Italia secondo le convenienze di Parigi e Berlino, politiche e governi contro l’interesse e la volontà nazionale. Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del Presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale – è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive. Affinché possa svolgere cotale ruolo contrario al bene della nazione, il Presidente, nella struttura costituzionale, è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche. Grazie a ciò può metter su governi che sa benissimo non avere il consenso del popolo, bensì quello di potentati stranieri portatori di interessi contrapposti a quelli italiani e ammantati di falso europeismo. Sia pure con differenziazioni tra loro, i sociologi della scuola italiana (Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Robert Michels) ravvisano una costante, ossia una legge empirica, nella strutturazione sociale: ogni società è dominata da una élite od oligarchia e non si governa da sé.
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De Magistris, giustizia militante: un politico del medioevo
L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».Da Rold polemizza col nostro sistema giudiziario: i Pm: sono rimasti gli ultimi, negli ordinamenti democratici occidentali, a essere ancora parificati ai giudici. E in più «si rifiutano di seguire la grande separazione di tutti i poteri che, sin dal Settecento, si teorizzava anche nella distinzione tra giudice e pubblica accusa». È vero che va di moda Jean-Jacques Rousseau, il filosofo radicale “adottato” da Casaleggio, «ma Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, appunto noto come Montesquieu, precisava con forza che se il giudice facesse lo stesso mestiere del pubblico accusatore sarebbe un abuso». La prova del nove? «Le democrazie di quasi tutto il mondo seguono Montesquieu». Famosi nemici della separazione tra magistratura inquirente e giudicante, due personaggi non proprio democratici: il leader fascista Dino Grandi e il dittatore portoghese António de Oliveira Salazar, «anche lui appassionato dell’unicità di vedute tra accusa e chi formula il giudizio». I tempi cambiano, ma non per tutti: «Ora anche il Portogallo ci ha ripensato; l’Italia invece difende combattiva la non-separazione».Tornando alla cronaca: la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Salerno che dichiarava prescritti i reati contestati all’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Salvatore Murone, e all’avvocato generale Dolcino Favi, che avevano avocato i fascicoli sottraendoli all’attuale sindaco di Napoli. Resta dunque valida la sentenza di primo grado del tribunale di Salerno, che aveva assolto i due magistrati di Catanzaro. E l’assoluzione riguarda anche l’ex senatore e avvocato Giancarlo Pittelli, il procuratore Mariano Lombardi (nel frattempo deceduto) e l’imprenditore Antonio Saladino, assolti «per insussistenza del fatto, così come avvenuto in primo grado». A parole, de Magistris (due volte sconfitto) non si arrende: «Continuerà probabilmente a parlare di complotti», avverte Da Rold. «Ma tutta la sua vicenda – aggiunge – è degna di un libro (che infatti è in gestazione) per dimostrare lo strapotere, o forse l’unico potere forte, che è rimasto oggi in Italia: quello della magistratura, gestita principalmente – per un lungo periodo – proprio dai Pm alla de Magistris».Per rendersi conto di quanto capitato, continua Da Rold, vale la pena di vedere quale autogol de Magistris ha fatto in Cassazione e leggere la dichiarazione rilasciata dall’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Murone: «La Cassazione ha finalmente e definitivamente chiuso a mio favore la vicenda “Why not”. Tutte le mistificazioni, le bugie, le cattiverie sono finite. L’assoluzione di primo grado è stata ribadita, a dimostrazione che le vicende successe al signor de Magistris non sono il frutto di congiure e complotti, di poteri forti a livelli superiori, ma solo il suo modo di fare il pubblico ministero, già stigmatizzato dai provvedimenti di carriera che lo hanno colpito, portandolo fuori dalla magistratura». Insomma: per Da Rold, «Luigi de Magistris, tonitruante sindaco di Napoli, non rispettava neppure le regole della pubblica accusa su un impianto procedurale discutibile, come più volte hanno ricordato tanti uomini politici». Marco Pannella fece addirittura della battaglia per la separazione delle carriere una missione della sua vita e portò Enzo Tortora al Parlamento Europeo. «Ma la vocazione inquisitoria della tradizione italiana resiste», anche se «tutti sanno quanto è causa di autentici drammi umani».“Why not” è durata dodici anni. L’imprenditore Tonino Saladino ha visto sua moglie ammalarsi e i suoi figli storditi dalla sua vicenda umana, annota Da Rold. «Ogni tanto si ricorda sbigottito e sgomento il 12 marzo 2007, quando alle sette di mattina gli piombarono in casa i carabinieri per un’ispezione alla ricerca di carte che neppure sapevano che cosa fossero o rappresentassero». Tutta quella storia di “Why not” fu «uno scontro durissimo che coinvolse il governo dell’epoca, quello di Romano Prodi, che alla fine andò in crisi», travolgendo il ministro della giustizia, Clemente Mastella, e sua moglie. «Per placare le acque all’interno della magistratura e nel perenne scontro tra magistratura e politica dovette intervenire nel 2008 anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano». Non era una novità, in quegli anni della già affermata Seconda Repubblica: l’Italia, ricorda Da Rold, era un paese «destabilizzato da svendite di grandi aziende pubbliche, da una cronica mancanza di crescita e da una confusione demenziale della classe dirigente, politica e imprenditoriale», con i magistrati inquirenti spessissimo sopra le righe.Una fenomenologia cominciata in realtà nel 1992, quando la magistratura italiana, «risvegliatasi dal suo torpore, aveva “scoperto” le tangenti politiche, che esistevano dal 1946». Senza contare i circa 1.000 miliardi di lire (secondo Stéphane Courtois) che affluivano al Pci dall’Urss, «potenza ufficialmente nemica». E tutto poi «amnistiato, naturalmente». In fondo, continua Da Rold, la vicenda di “Why not” era il seguito inevitabile delle apparizioni televisive, in gruppo, del pool Mani Pulite: giornate scandite dalle “sensazionali rivelazioni” che qualche talpa del Palagiustizia passava sottobanco ai giornali. «È stata una lunga cavalcata non molto edificante, con alla fine un Francesco Saverio Borrelli che confessa i suoi dubbi a Marco Damilano; con la sempre cacofonica parlata giurisprudenziale italiana del “grande manettaro” Antonio Di Pietro; con la visione del “geniale” Pier Camillo Davigo che pensa di trovarsi di fronte a 60 milioni di italiani potenzialmente colpevoli, che naturalmente devono giustificare la loro condotta». Per non parlare della battaglia delle “correnti” all’interno della magistratura, fino alla pagina nera del Csm con il clamoroso “caso Palamara”, l’inciucio col Pd, di cui si cerca di parlare il meno possibile, sui media.Teoricamante il nostro è uno Stato di diritto, eppure «la giustizia segue tempi scoraggianti, dove gli aspetti inquisitori sono sempre prevalenti». E il peggio è, scrive Da Rold, che non si ha il coraggio di riconoscere che in Italia «questa amministrazione giudiziaria è gestita da una casta feudale, dove le procure rappresentano i feudi superstiti o dei nuovi feudi, che ogni tanto si fanno pure la guerra l’uno contro l’altro, spesso in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale o secondo interpretazioni delle norme che farebbero inorridire un filosofo del diritto come Hans Kelsen». Ogni speranza di riforma finisce per naufragare, grazie anche alle “intemerate” del fedelissimo Marco Travaglio, «che spesso anticipa i tempi persino delle sentenze». Buio pesto anche dal ministro Alfonso Bonafede, devoto a Giuseppe Conte, «quindi un visconte per tradizione feudale».«E pensare che la riforma della giustizia, in agenda del nuovissimo governo, ora che i grillini sono diventati europeisti con Ursula von der Leyen, dovrebbe rispettare, o almeno tenere in considerazione, la risoluzione numero 112/97 approvata dal Parlamento Europeo il 4 luglio 1997», chiosa Da Rold. In questo si dice: «È anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati – i cosiddetti “examining magistrates” – e quella del giudice, al fine di assicurare un processo giusto». Sentenze autorevolmente emesse, al termine di processi in cui si condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ha voglia di scherzare, Da Rold: «Perché non si organizza su questo tema un bel convegno tra de Magistris, Davigo, Di Pietro e Travaglio come moderatore?». In questo caso, aggiunge, «lo spettacolo sarebbe assicurato, e poi si potrebbe emigrare tranquillamente».L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».
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La vera storia della fine di Craxi e l’euro-rovina dell’Italia
L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.Tutto questo costo dove viene trasferito? Nel finanziamento illecito. Che invece di essere un fenomeno sopportabile perché residuale al grosso del finanziamento della politica, diventa un dramma, perché tutto costa il triplo. E come reagisce il sistema italiano a tutto questo? Non reagendo. Cioè, invece di capire che deve correre ai ripari, si fa cogliere di sorpresa. Da che cosa? Da una casta, che era stata toccata nei suoi interessi, e reagiva: era la casta dei magistrati. Dopo il caso Tortora, e dopo aver cercato più volte di prendere il sopravvento sulla politica – ma non ci riusciva, perché allora c’erano delle garanzie come l’immuità parlamentare, dei limiti al suo potere – i magistrati sferrano l’attacco di Tangentopoli avendo diversi obiettivi. Il primo, la reazione di casta al referendum che Craxi gli aveva fatto, sulla responsabilità dei magistrati – referendum vinto ma non eseguito, perché in quel rederendum si aboliva il fatto che i magistrati non rispondessero nei loro errori. E i magistrati allora hanno preteso, tramite i due maggiori partiti e mettendo in minoranza Craxi, che invece, pur riconosciuti responsabili dei loro errori, non li pagassero – né sul piano della carriera, né sul piano economico.L’attacco sferrato con Tangentopoli aveva un primo obiettivo: far cadere l’immunità parlamentare, che aveva sempre frenato l’attacco della magistratura. Bisognava poterli arrestare, i politici. Bisognava poter adoperare la carcerazione preventiva, in quella maniera, per poi stabilire il predominio, l’abuso. La carcerazione preventiva (obbligatoria per reati come omicidio e rapina) è prevista se c’è pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Viceversa, la carcerazione preventiva non si può applicare, perché “nulla pena sine condanna”, niente pena senza prima una condanna, non del pubblico ministero ma del giudice. Pensate che nel 1994 la Cassazione, per salvare tre mandati di cattura assolutamente illegittimi di Di Pietro, fece una sentenza di questo tipo, a sezioni unite: la custodia cautelare è sempre giustificata se l’imputato non confessa. E’ come il famoso comma 22 del codice militare tedesco nazista, che diceva: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dal servizio militare, ma chi chiede di essere esentato non è pazzo. E’ la legge perfetta, perché il cerchio si deve chiudere.La custodia cautelare sempre giustificata se l’imputato non confessa? Di fronte a una sentenza di questo tipo, uno si deve chiedere qual è l’utilità del processo. In Italia, la custodia cautelare viene adoperata per scopi istruttori o per anticipare la pena. Ormai, il reato del politico che ruba è diventato odioso, agli italiani. Tant’è vero che gli italiani, da decenni, accettano dei politici incapaci, purché non rubino. Pensate a quanto stareste meglio se aveste dei politici capaci, che rubano. Il problema di uno che fa un lavoro è che sia bravo, non che sia onesto. Onesto è una conseguenza dell’essere bravo. Scipione l’Africano fu condannato per corruzione. In ogni posto del mondo vedo politici che vanno sotto processo: è giusto che vengano condannati, è giusto che vadano in galera. Quello che non è giusto è che vengano utilizzati dalla comunicazione per far passare sotto silenzio delle altre cose. Il problema di uno Stato che non funziona non è la corruzione. Non è il politico disonesto: è l’incapacità. Perché una persona anche onesta, ma incapace, lo Stato lo fa andare a rotoli lo stesso. Oggi pretendono che non ci siano pregiudicati. Io la metterei in altri termini: non devono esserci persone condannate che non hanno scontato la pena.In uno Stato laico, una volta che hai scontato la pena, tu il debito con la società l’hai pagato. Devi scindere il piano etico, pure importante, dal piano pratico: la giustizia deve funzionare. E la giustizia non va avanti sulla verità, va avanti su un fatto convenzionale che si chiama verità processuale, che non è necessariamente la verità. Ma l’azione di Mani Pulite aveva un bersaglio principale, che era Craxi, perché Craxi aveva detto di voler fare parecchie cose. Per esempio, nazionalizzare la Banca d’Italia. E di chi è la Banca d’Italia? E’ delle banche. E le banche di chi sono? Finanza massonica e finanza cattolica. Ma c’è un altro problema: la Banca d’Italia, all’epoca, era il controllore delle porcate che facevano questi, che erano controllati e controllori: erano i proprietari della Banca d’Italia, che avrebbe dovuto controllarli. Quindi, Craxi si mette contro un bel po’ di nemici. Si mette contro il potere bancario, forse il potere tout-court. Si mette contro i preti, perché vuole riformare pure i Patti Lateranensi – sapete come sono i preti: finché uno gli bestemmia davanti, gli danno 25.000 pater noster, ma gli vuoi far pagare le tasse s’incazzano.Dopodiché si scopre, tramite il caso Gelli, che Craxi finanziava Arafat. Perché i famosi 2 miliardi che Craxi dice a Martelli di prendere da Gelli e di versare sul “Conto Protezione”, cosa che non vi dicono, un minuto dopo sono stati presi da Craxi per darli ad Arafat, cioè ai palestinesi. E’ sottile il confine tra terrorismo e insurrezione: Pietro Micca che fa saltare mezza Torino mettendo le bombe nei sotterranei per noi è un patriota, mentre un terrorista palestinese è un terrorista. Pietro Micca lottava per la sua terra, perché l’Italia fosse unita; i palestinesi perché esista una Palestina: uno ha messo le bombe ed è un eroe, quegli altri mettono le bombe e per noi sono dei mascalzoni. Ricordiamoci dell’Achille Lauro, e qui c’è un’altra cosa che non vi dicono: l’operazione Achille Lauro era mirata a colpire il Mossad decapitando il “B’nai Brit”, la massoneria ebraica, che ha le caratteristiche di tutte le massonerie: come la massoneria americana funziona in stretta alleanza con la Cia, il “B’nai Brit” è la parte segreta dei servizi israeliani, cioè del Mossad. Il capo dei “B’nai Brit” – e questo è quello che non vi dicono – era quel signore sulla sedia a rotelle che i palestinesi buttarono giù dalla nave. Si chiamava Leon Klinghoffer. I giornali scrissero che la vittima era un povero paralitico, ma non dissero chi era veramente.Tornando a Craxi: fin qui si è inimicato le banche, i cattolici, gli ebrei; poi dà parere negativo al riconoscimento dei comunisti nell’Internazionale Socialista; poi Reagan gliela giura, perché a Sigonella ha mandato i carabinieri a puntare le armi sui marines (per proteggere il commando palestinese dell’Achille Lauro), quindi ha contro anche gli americani, e parte della massoneria: perché Spadolini, che era uno dei capi della massoneria italiana, era dell’opinione che bisognasse aiutare Reagan, e quando chiese alla massoneria ufficiale di prendere posizione, e la massoneria non lo fece, Spadolini si mise “in sonno”, e trasformò Craxi in un problema anche per la massoneria. A quel punto, Craxi era uno che non poteva attraversare la strada neanche sulle strisce pedonali. Per cui, nel momento in cui la magistratura fa sapere che sta per fottere Craxi – e qui trovate traccia di quei famosi incontri dei servizi segreti con Di Pietro e gli americani – ognuno ci mette del suo per darle una mano. Così, Craxi finisce ad Hammamet.Ad Hammamet, Craxi ci finisce anche per un uleriore motivo: era antipatico. La sua principale sconfitta? Non essere riuscito a superare il 15%. Alla gente stava sulle palle. Qui non c’erano complotti: Craxi non sfondava sul piano del consenso popolare – poi bisognerebbe interrogarsi sulla qualità di un popolo che vota Berlusconi e non Craxi. In ogni caso, visto che più del 12-13% non otteneva, Craxi ha perso anche per colpa sua: se fosse stato più forte, questa facilità nel farlo fuori non ci sarebbe stata. Resta però un fatto: c’era stata una riunione su una bellissima barca inglese parcheggiata vicino a Roma, ad Anzio, in cui si erano incontrate dieci, quindici, venti persone, e avevano deciso che l’Italia stava diventando troppo forte, con Craxi. L’Italia era arrivata tra i primi 5 soggetti economici del mondo. Aveva fatto la richiesta ufficiale per fare il G5; esisteva il G7 e adesso c’è il G4, fatto apposta per escludere l’Italia che voleva il G5. Soprattutto, siccome era stata decisa dalla finanza internazionale l’operazione euro, in Italia serviva una persona che avesse un’ampia disponibilità a “mettersi a 90 gradi”, e questa persona non era Craxi.Un minuto dopo che hanno fatto l’euro, Craxi ha dichiarato alle telecamere che l’euro sarebbe stato una sciagura. Lo sapeva anche prima. Ma lo sapevano anche loro, che se andava Craxi – e non Prodi – a rappresentare l’Italia, non sarebbe mai passato quel tasso di cambio euro-lira. Non ce l’avrebbero mai fatta, a imporcelo. Mai. Dunque il problema era questo, e l’operazione è andata a buon fine. E, facendo l’operazione Craxi, sono stati regolati anche altri conti: i vecchi conti Sindona, Gelli, Calvi. Soprattutto, tutti quei paraculi della Dc che pensavano che facessero fuori solo Craxi e non anche loro, hanno dovuto pagare dazio. Chi non ha pagato? I comunisti, che hanno fatto passare la teoria che Greganti fosse un ladro, e loro non c’entrassero niente. Sapete chi l’ha fatta, quell’operazione? Un magistrato che è morto, Gerardo D’Ambrosio, che poi è diventato senatore dell’ex Pci. Siccome un altro giudice, Tiziana Parenti, voleva mettere in galera mezzo Partito Comunista, come vice-procuratore generale D’Ambrosio ha avocato a sé l’indagine e l’ha chiusa così, con Greganti unico colpevole. Poi è diventato senatore del Pd.Perché Craxi si è lasciato distruggere senza difendersi, cioè senza svelare all’opinione pubblica italiana tutti questi retroscena? All’inizio a dire il vero ha provato a difendersi, in Parlamento. Disse: «Chi di voi può dire di non aver fatto tutto quello che ho fatto io, si alzi in piedi». E non si è alzato nessuno, neanche i leghisti. Poi, però, a Craxi sono stati minacciati i figli. Craxi aveva già deciso di andare in televisione e di tirar fuori tutta una serie di carte. Tra queste c’era un famoso “Dossier Di Pietro”, che riteneva la carta vincente finale, perché dimostrava che Di Pietro era il prodotto di quel tipo di organizzazione. Per fare questa operazione chiamò Mentana, al Tg5, ma lo chiamò direttamente, senza passare per Berlusconi, perché Mentana tempo prima era stato collocato a Rai2 da Craxi. Poi chiamò Paolo Mieli per fare un’intervista di due pagine sul “Corriere della Sera”. Dopodiché chiamò la Rai per un’intervista che avrebbe dovuto fare prima con Giancarlo Santalmassi, poi con Minoli, e che poi invece non fece. Perché quella notte successero tre cose.A casa della figlia Stefania si introdussero delle persone che bruciarono tutti i suoi vestiti. A casa di suo figlio Bobo si recarono delle persone che razziarono tutto quello che c’era. E nella sua casella della posta trovò un messaggio con scritto che, se avesse fatto quelle interviste, avrebbero pagato i suoi figli. Una delle cose che nessuno vi dice, che non sono mai state pubblicate e che vi dico io, è che era lo stesso messaggio che avevano ricevuto altri personaggi di Tangentopoli, che avevano deciso di parlare e si sono suicidati. A quel punto, Craxi decise di telefonare a Cossiga, il quale aveva un grosso complesso di colpa nei suoi confronti, perché sapeva cosa stava accadendo, tant’è vero che si era precipitato a fare senatori a vita Giulio Andreotti e Gianni Agnelli, per evitare che in Tangentopoli ci finissero dentro anche loro, ma non si era premurato di avvisare Craxi. Cossiga a sua volta contattò il capo della polizia dell’epoca, che si chiamava Vincenzo Parisi, il quale fece un’abile opera di mediazione tra Di Pietro, il pool di Mani Pulite e Craxi, per concordare la latitanza: Craxi se ne sarebbe andato ad Hammamet normalmente, non avrebbe parlato, e solo tre mesi dopo ci sarebbe stato l’ordine di carcerazione.I magistrati sapevano benissimo che Craxi sarebbe andato ad Hammamet col suo passaporto, e il ministero degli esteri concordò con Ben Alì – che era il dittatore della Tunisia – che l’Italia non avrebbe mai avviato una richiestra di estradizione. Craxi si tenne la libertà di parlare una volta ad Hammamet, ma in Italia no: la minaccia verso i figli l’aveva ritenuta concreta. Molta gente si era ammazzata, attorno a Mani Pulite. O forse era stata ammazzata. Io ero coinvolto nel processo a Raul Gardini e, come avvocato, avevo accesso a documenti non pubblicati. Era la prima volta che vedevo qualcuno che si suicida sparandosi due proiettili mortali alla tempia. Due, capite? Non possono essere entrambi mortali. Se uno si spara un colpo in testa, come può spararsi anche un secondo colpo? Forse Gardini stava per rivelare il nome di chi portò il famoso miliardo a Botteghe Oscure? Chi lo sa.Il potere è astratto, è automatico. Ci sono meccanismi nei quali entri e magari ti ammazza il nemico che meno ti aspetti: tu non sai che calli stai pestando, di chi sono, perché, da dove vengono quei soldi, chi è in affari con chi. Magari pensi di fare uno sgarbo a Tizio, e s’incazza Caio, che non sapevi fosse in affari con quello. I meccanismi del potere sono di una complessità inaudita. Non è una vita facile, quella di chi sceglie di stare nel potere. Certo, sai sempre come pagare le bollette, però non sai mai da dove ti arrivano le coltellate. Quando Craxi ha accettato di deporre al processo Cusani, quando già l’accordo l’avevano fatto, Di Pietro è stato criticato perché l’interrogatorio era mite, era troppo rispettoso. In realtà era il segnale che aveva chiesto Craxi a Parisi per non fare le interviste. Disse: «Io le interviste non le faccio. Ma, a parte il fatto che lasciate in pace i miei figli, non voglio finire in galera. Perché se finisco in galera, e so come sono fatto, poi m’incazzo, parlo, e m’ammazzano i figli. O ammazzano me». Una tazzina di caffè: com’è morto Sindona? Com’è morto Papa Giovanni Paolo I? Ti portano una camomilla le monache: è perfetto.Con Craxi, è stato eliminato chi era capace. La disonestà? Bettino Craxi non era ricco. Il famoso tesoro di Craxi non l’hanno trovato perché non è mai esistito. I 13 miliardi che gli hanno trovato sul famoso conto svizzero erano i soldi del partito. Mentre i grandi partiti i conti del finanziamento illecito li intestavano ai segretari amministrativi, i piccoli partiti li intestavano ai segretari politici – il conto del Pri era intestato a Giorgio La Malfa, che ha avuto i suoi guai, come Renato Altissimo del Pli. Craxi, quando passò le consegne a Del Turco, cercò di passargli anche i conti; ma Del Turco, che era un po’ fifone, disse “no, non li voglio”, non scordandosi che un conto simile l’aveva quand’era segretario generale della Uil, perché anche i sindacati facevano i finanziamenti illeciti.Siamo un paese strano: ci colpevolizzano col debito pubblico, senza tenere conto del fatto che abbiamo il massimo risparmio privato europeo e il più alto numero di proprietari di case. Questo dovrebbe contare, per la solidità del sistema, e invece quando vanno a trattare in sede Ue si calano le brache, compreso l’ultimo, Renzi, che sembra un pretino, un seminarista di trent’anni fa. Un leader forte, l’Italia non se lo può permettere, perché una delle caste italiane se lo sbrana. Questi pretini spretati hanno paura di fare la fine dei Craxi. Meglio calarsi le brache e tirare a campare, poi si vedrà. C’è questo cortocircuito, in cui il nostro sistema non difende più l’istituzione. Quando hanno scoperto un sacco di magagne su Kohl, i tedeschi l’hanno mandato a casa, non in galera: perché era Kohl. E quando sono state scoperte un sacco di magagne su Mitterrand, i francesi – compresa l’opposizione – non l’hanno mandato in galera, l’hanno mandato a casa.Da noi, Craxi è stato mandato ad Hammamet, senza tener conto che aveva rappresentato un’istituzione. E lo stesso sta succedendo a Berlusconi – che a me non è simpatico, non l’ho mai votato, però non posso immaginare che uno, quando fa il presidente del Consiglio, abbia i carabinieri appostati alla porta per vedere con chi scopa, perché non c’è rispetto – non verso ciò che uno è, che sono fatti suoi – ma ciò che uno rappresenta, che sono anche fatti miei. E se uno mi rappresenta indegnamente io lo mando a casa, non in galera, perché mandandolo in galera sputtano anche me, indebolisco la mia economia, il mio sistema. Invece qui, pur di prenderne il posto e farsi la guerra (non vale solo per Berlusconi, l’ha fatto anche lui agli altri) vige questa mentalità, per cui oggi magari l’idea è quella di fottere Renzi per mettersi al posto suo, e per fottere Renzi o Berlusconi o D’Alema ci si allea con i nemici dell’Italia, con la stampa estera per sputtanarli, con i parlamentari europei per attaccarli. Ma che logica è? Che popolo siamo?(Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.