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Mishra: l’età della rabbia, nell’Occidente senza più futuro
Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.Alla fine il vincitore nella Storia è uno sterile concetto di bonario Illuminismo. Nella norma, avrebbero dovuto prevalere il razionalismo, l’umanesimo, l’universalismo e la democrazia liberale. Ma sarebbe stato «chiaramente troppo sconcertante», scrive Mishra, «riconoscere che la politica totalitaria abbia cristallizzato le correnti ideologiche (razzismo scientifico, razionalismo sciovinista, imperialismo, tecnicismo, politica estetizzata, ingegnerie sociali)» che già scuotevano l’Europa alla fine del 19 ° secolo. Quindi, evocando T.S. Eliot, per poter inquadrare «quel mezzo sguardo all’indietro, sopra la spalla, verso il terrore primivito» che alla fine ha condotto all’Ovest contro il Resto del Mondo, dobbiamo tornare ai precursori. “Distruggi il palazzo di cristallo”. Prendete Pushkin, “Eugene Onegin”, «il primo di molti ‘uomini superflui’ della narrativa russa», con il suo cappello Bolivar, che tiene stretti a sé una statua di Napoleone e un ritratto di Byron, come la Russia, che tenta di recuperare il suo ritardo con l’Occidente, «gioventù senza radici, prodotto di massa con una concezione quasi “byroniana” di libertà, gonfiata ulteriormente dal romanticismo tedesco».I migliori critici dell’Illuminismo dovevano per forza essere tedeschi o russi, in ritardo nella modernità politico-economica. Dostoevsky: la società dominata dalla guerra di tutti contro tutti, dove la maggioranza era condannata a perdere. Due anni prima di pubblicare il sorprendente “Memorie dal Sottosuolo” Dostoevskij, durante il suo viaggio in Europa occidentale, aveva già osservato una società dominata da una guerra di tutti contro tutti, dove la maggior parte era condannata a perdere. A Londra, nel 1862, al Salone Internazionale al Crystal Palace, Dostoevskij ebbe un’illuminazione («E ti arriva un’idea colossale…che il trionfo e la vittoria erano lì. Quasi inizi a temere qualcosa»). Per quanto stupito, Dostoevskij fu molto acuto nell’osservare quanto la civiltà materialista si nutrisse non solo del suo proprio fascino, ma anche della sua potenza militare e marittima.La letteratura russa finì con il cristallizzare il crimine casuale come il paradigma dell’individualità che assapora l’identità e afferma la propria volontà (che poi ritroviamo nel 20° secolo nell’icona beat William Burroughs, il quale sosteneva che sparare a caso sulla folla fosse per lui il massimo del brivido). La pista era aperta: le orde di “mendicanti dissoluti” (Beggars Banquet) potevano iniziare a bombardare il Crystal Palace – anche se, ci ricorda Mishra, «gli intellettuali al Cairo, a Calcutta, a Tokyo e a Shanghai leggevano Jeremy Bentham, Adam Smith, Thomas Paine, Herbert Spencer e John Stuart Mill», per comprendere il segreto in eterna espansione della borghesia capitalistica. E questo dopo che Rousseau, nel 1749, aveva posto la prima pietra della rivolta moderna contro la modernità, ora ridotta in mille schegge, in un deserto di echi contrastanti, mentre ritroviamo il Crystal Palace riflesso in mille ghetti luccicanti in tutto il mondo.“Illuminato: sei morto”. Mishra attribuisce l’idea del suo libro a Nietzsche che commentava l’epica querelle tra l’invidioso plebeo Rousseau e il sereno aristocratico Voltaire – il quale salutò la London Stock Exchange, quando divenne pienamente operativa, come una realizzazione secolare dell’armonia sociale. Ma alla fine fu Nietzsche che si oppose in maniera esemplare, come feroce detrattore sia del capitalismo liberale che del socialismo, rendendo l’allettante promessa di Zarathustra un magnetico Santo Graal agli occhi dei bolscevichi (Lenin, tuttavia, lo detestava), della sinistra di Lu Xun in Cina, dei fascisti, degli anarchici, delle femministe e delle orde di esteti scontenti. Mishra ci ricorda anche come «gli antimperialisti asiatici e i baroni ladroni americani hanno attinto a piene mani da Herbert Spencer, il primo pensatore veramente globale», che dopo aver letto Darwin coniò il mantra della “sopravvivenza del più adatto”. Nietzsche fu l’ultimo cartografo del Risentimento. Max Weber inquadrò profeticamente il mondo moderno come una “gabbia di ferro” da cui può sfuggire solo un leader carismatico. E l’icona anarchica Michail Bakunin, da parte sua, nel 1869 aveva già concettualizzato il “rivoluzionario” come colui che recide «ogni legame con l’ordine sociale e con l’intero mondo civilizzato… Lui è il suo nemico più spietato e continua ad esistere per un unico scopo: distruggerlo».Sfuggendo all’Incubo della Storia del Modernista Supremo James Joyce – dalla gabbia di ferro della modernità, appunto – è scoppiata in modo incontrollato e ben al di fuori dei confini dell’Europa una secessione militante viscerale, «da una civiltà fondata sul progresso graduale controllato da fiduciari liberal-democratici». Ideologie anche radicalmente contrarie sono comunque sorte in simbiosi dal vortice culturale del tardo 19° secolo, dal fondamentalismo islamico al sionismo, dal nazionalismo indù al bolscevismo, dal nazismo al fascismo e al rinnovato imperialismo. Non solo la seconda guerra mondiale, ma anche l’attuale finale di partita è stato brillantemente visualizzato nel 1930 dal tragico Walter Benjamin, quando già metteva in guardia contro l’auto-alienazione del genere umano, finalmente in grado di «provare nella propria distruzione il massimo piacere estetico possibile». Gli jihadisti di oggi in streaming fai-da-te non sono altro che la sua versione pop, mentre l’Isis tenta di proporsi come negazione estrema delle miserie della modernità (neo-liberale).“L’era del Risentimento”. Tessendo flussi coloriti di politica e di impollinazioni incrociate letterarie, Mishra si prende il suo tempo per impostare la scena del Grande Dibattito tra quelle masse del mondo in via di sviluppo – la cui esistenza è stata etichettata dall’Occidente Atlantista («storie di violenza ancora largamente riconosciuta») e dalle élite della modernità liquida (Bauman) che hanno ceduto alla quella selezionata parte del mondo a cui si attribuiscono, dopo l’Illuminismo, le più grandi scoperte e innovazioni scientifiche, filosofiche, artistiche e letterarie. Questo va ben al di là di un semplice dibattito tra Est e Ovest. Non riusciremo a comprendere l’attuale guerra civile globale, questo «mix intenso di invidia e senso di umiliazione ed impotenza» post-modernista, e post-verità, se non tentiamo di «smantellare l’architettura concettuale e intellettuale dell’Occidente vincitore nella storia», che deriva dalla storia ipertrionfalista dei successi americani. Anche al culmine della guerra fredda, il teologo statunitense Reinhold Niebuhr si beffava dei «tiepidi fanatici della civiltà occidentale» e della loro fede cieca nel fatto che ogni società è destinata ad evolversi come hanno fatto, a volte, una manciata di paesi occidentali. E questo – ironia! – mentre il culto liberale internazionalista del progresso scimmiottava platealmente il sogno marxista della rivoluzione internazionale.(Pepe Escobar, “L’erà della rabbia”, da “Asia Times” del 4 febbraio 2017, tradotto da “Skoncertata63” per “Come Don Chisciotte”).Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.
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Oliver Stone: prego che questa America non attacchi Mosca
«Non avrei mai pensato che mi sarei trovato a pregare per il livello ragionevolezza di un Donald Trump. Ricordate “L’Iliade”? Secondo Omero gli dèi si libravano sopra le battaglie di ogni giorno e ne decidevano il risultato. Chi sarebbe morto e chi sarebbe vissuto. Gli dèi sono ancora in ascolto?». Così il regista Oliver Stone, letteralmente terrorizzato dall’escalation militare in corso contro la Russia, «un paese che crede che in questo momento gli Stati Uniti, con il più grande schieramento della Nato ai suoi confini dalla Seconda Guerra Mondiale di Hitler, siano abbastanza folli da preparare un attacco preventivo». Nessuno ne parla, sui grandi media, ma è così: pur già con le valigie in mano, Obama ha dato il via libera alla colossale operazione “Atlantic Resolve”, con oltre 5.000 mezzi corazzati in azione per 9 mesi sul confine russo-lituano. Silenzio assoluto anche in Italia: se Mentana denuncia Grillo per l’accusa di alimentare “fake news”, Giulietto Chiesa li rimbecca, su “Megachip”: «Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. Tacciono invece entrambi».Dagli Usa, Oliver Stone riversa su Facebook la sua angoscia: l’ormai decadente “New York Times” degenera nell’impostazione del “Washington Post” «con la sua ristagnante visione da Guerra Fredda di un mondo degli anni ’50 dove ai russsi viene data la colpa di tutto – la sconfitta di Hillary, la maggior parte delle aggressioni e dei disordini nel mondo, la volontà di destabilizzare l’Europa». In più, il “Times” «ha aggiunto la questione delle “fake news” per riaffermare il suo discutibile ruolo di voce dominante dell’establishment di Washington», cavalcando la polemica sull’ipotetico hackeraggio da parte della Russia nelle elezioni presidenziali vinte da Trump. Nel post, tradotto da “Come Don Chisciotte”, il regista cita la Cia e l’Fbi, la Nsa e il direttore della National Intelligence, James Clapper, un uomo che «come si sa, mentì al Congresso a riguardo dell’affare Snowden». Tutti in coro: Obama e la Dnc, Hillary Clinton e il Parlamento: colpa di Putin. E a fianco di questi «patrioti», aggiunge Stone, spicca in particolare il senatore John McCain, «psicotico, amante della guerra», che definisce Putin come «un delinquente, un bullo e un assassino», finendo sulla prima pagina del “Times”.«Non ricordo che i presidenti Eisenhower, Nixon o Reagan, nei periodi più neri degli anni 50/80, si siano mai riferiti ad un presidente russo in questo modo», scrive Stone. «Le invettive venivano rivolte al regime sovietico ma non erano mai Khrushchev o Brezhnev il bersaglio della loro bile. La mia ipotesi è che questa sia una nuova forma di diplomazia da parte dell’America. Se un giovane nero viene ucciso nelle nostre città od i partecipanti ad un banchetto di nozze in Pakistan vengono sterminati dai nostri droni Obama viene additato come assassino, bullo, delinquente?». I grandi giornali che ora crocifiggono Putin sono gli stessi che hanno taciuto sulle scandalose irregolarità emerse sulla Clinton, grazie all’ex ambasciatore Craig Murray, ora portavoce di Wikileaks. «Se su questo si fosse indagato correttamente si sarebbe benissimo potuti arrivare a scoprire che per Hillary Clinton questo era il “Nixon moment”». Sembra di essere tornati negli anni ‘50, «quando si supponeva che i russi fossero nelle nostre scuole, al Congresso, al Dipartimento di Stato – in sintonia con molti supporter di Eisenower/Nixon – per impadronirsi del nostro paese senza incontrare una seria opposizione». Salvo poi «sostenere la nostra necessità di andare in Vietnam per difendere la nostra libertà contro i comunisti, a 10.000 chilometri di distanza».E dopo che il Terrore Rosso finalmente se ne fu andato una volta per tutte nel 1991, continua Stone, vediamo che non è mai finita: «Il Terrore è diventato Saddam Hussein in Iraq con i suoi missili di distruzione di massa, il “fungo atomico”. E’ diventato il Demone, reale tanto quanto ogni Processo alle Streghe di Salem. E’ stato Gheddafi in Libia e poi è stato Assad in Siria. In altre parole, come in una profezia orwelliana, non è mai finita. E vi posso garantire che non si riderà mai loro in faccia – a meno che noi cittadini, ancora capaci di un pensiero autonomo nelle faccende esistenziali, diciamo “basta” a questo agire demoniaco: “Ne abbiamo abbastanza, fuori dai piedi”». Inutile sperare nel riveglio dei media. «Mio Dio, il fantasma di Izzy Stone è tornato dagli anni ’50! D’altronde lo è anche Tom Clancy dagli anni ’80. Falsi thriller verranno scritti sull’hackeraggio dei russi nelle elezioni americane. Si faranno soldi e serial Tv. Non avevo mai letto simile spazzatura isterica sul “New York Times” (chiamiamola per quello che è, “fake news”) in cui gli editoriali sono diventati diatribe oltraggiose sui presunti crimini da parte della Russia, la maggior parte dei quali presumibilmente scritti da Serge Schmemann, uno di quegli ideologi che ancora la notte guarda se ci sono russi sotto il suo letto; erano chiamati ai vecchi tempi “russi bianchi” e, come i cubani di destra a Miami, non sono capaci di accantonare il passato».Questo tipo di pensiero, agiunge Stone, ha chiaramente influenzato il Pentagono e molte delle affermazioni di generali Usa, e ha pervaso i report di quello che che il regista chiama “Msm”, sistema del mainstream media. «Quando un gruppo di pensiero controlla la nostra comunicazione nazionale, diventa veramente pericoloso. In questo spirito, io sto linkando numerosi saggi cruciali della nuova annata, sottolineando la vergogna che è diventato il Msm». Oliver Stone non ama Trump e vede che è bersaglio numero uno, insieme a Putin, del sistema mainstream. E teme che lo resterà «fino a quando non salterà sul binario anti-Cremlino grazie a qualche tipo di falsa informazione o incomprensione cucinate dalla Cia». A quel punto, «col suo modo impulsivo di fare, inizierà a combattere con i russi, e non passerà molto tempo prima che venga dichiarato lo stato di guerra contro la Russia». Basterebbe leggere Robert Parry, secondo cui i neocon hanno fabbricato il nuovo “nemico” a partire dal 1980, con lo spettro del terrorismo “islamico” attribuito all’Iran. «Come questo abbia portato al nostro disordine attuale è una brillante analisi che è sconosciuta al pubblico americano». A parte gli dèi dell’Olimpo, per trovare appigli, Oliver Stone non ha che il Dalai Lama: «Ognuno di noi, anche attraverso le nostre preghiere, può contribuire al miglioramento di questo mondo». Troppi missili, in giro: non ci resta che pregare?«Non avrei mai pensato che mi sarei trovato a pregare per il livello ragionevolezza di un Donald Trump. Ricordate “L’Iliade”? Secondo Omero gli dèi si libravano sopra le battaglie di ogni giorno e ne decidevano il risultato. Chi sarebbe morto e chi sarebbe vissuto. Gli dèi sono ancora in ascolto?». Così il regista Oliver Stone, letteralmente terrorizzato dall’escalation militare in corso contro la Russia, «un paese che crede che in questo momento gli Stati Uniti, con il più grande schieramento della Nato ai suoi confini dalla Seconda Guerra Mondiale di Hitler, siano abbastanza folli da preparare un attacco preventivo». Nessuno ne parla, sui grandi media, ma è così: pur già con le valigie in mano, Obama ha dato il via libera alla colossale operazione “Atlantic Resolve”, con oltre 5.000 mezzi corazzati in azione per 9 mesi sul confine russo-lituano. Silenzio assoluto anche in Italia: se Mentana denuncia Grillo per l’accusa di alimentare “fake news”, Giulietto Chiesa li rimbecca, su “Megachip”: «Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. Tacciono invece entrambi».
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Hayek, il profeta dell’élite che ha rottamato la democrazia
Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».La sua pubblicazione nel 1960 segnò la transizione da una filosofia rispettabile, anche se estrema, ad un caos totale, scrive Monbiot, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Quella filosofia era chiamata neoliberalismo. «Considerava la competizione come la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Il mercato avrebbe trovato la sua naturale gerarchia di vincitori e perdenti, e ne sarebbe risultato un sistema più efficiente di quanto sarebbe stato possibile attraverso la programmazione o la progettazione». Attenzione: «Qualsiasi cosa impedisse tale processo, come tasse sostanziose, regole, attività sindacali o incentivi statali, era controproducente. L’imprenditorialità senza restrizioni avrebbe prodotto una ricchezza con effetti positivi a cascata su tutti». Quando Hayek iniziò a scrivere “The Constitution of Liberty”, «la rete di lobbisti e pensatori che aveva creato stava ricevendo generosi finanziamenti da parte di multi-milionari che vedevano questa dottrina come un modo per difendere se stessi dalla democrazia». Hayek inizia il libro suggerendo la concezione più semplice possibile di libertà: l’assenza di coercizione. Rifiuta nozioni come libertà politica, diritti universali, uguaglianza degli esseri umani e distribuzione equa della ricchezza.Tutti concetti che, limitando il campo d’azione di ricchi e potenti, si interpongono tra loro e l’assoluta libertà dai vincoli a cui ambiscono. La democrazia, al contrario, «non è un valore supremo o gradito a tutti». Infatti, la libertà consiste nell’impedire che la maggioranza abbia potere decisionale sulla direzione che la politica e la società decidono di prendere. Hayek «giustifica questa visione delineando una narrativa epica di estrema prosperità», e identifica l’élite economica «con un gruppo di pionieri della filosofia e della scienza che spenderanno il loro denaro in modi nuovi». Così come il filosofo politico dovrebbe essere libero di “pensare l’impensabile”, allo stesso modo «chi è molto ricco dovrebbe essere libero di tentare l’infattibile, senza vincoli posti dall’interesse collettivo o dall’opinione pubblica». E allora i super-ricchi diventano «esploratori» che «sperimentano nuovi stili di vita», tracciando la strada che il resto della società seguirà. Il progresso della società «dipende dalla libertà di questi “indipendenti” di guadagnare tutto il denaro che vogliono e di spenderlo come meglio credono. Tutto ciò che è buono e utile, quindi, deriva dall’ineguaglianza». Non ci dovrebbe essere connessione tra merito e ricompensa, nessuna distinzione tra guadagni giusti e immeritati e alcun limite agli affitti che possono far pagare.Inoltre, la ricchezza ereditata è socialmente più utile di quella guadagnata: «Il ricco indolente», che non deve lavorare per denaro, può dedicarsi a influenzare «aree di pensiero e opinione, gusti e idee». Anche quando sembra che spenda soldi solo per uno «sfoggio senza senso», sta in realtà agendo da avanguardia della società. Tutto ciò che il ricco fa è, per definizione, positivo. Hayek ammorbidì l’opposizione ai monopoli e irrigidì quella verso i sindacati. Criticò la tassazione progressiva e ogni tentativo da parte dello Stato di elevare il benessere generale dei cittadini. Insistette che ci fossero «argomentazioni schiaccianti contro la sanità pubblica gratuita per tutti» e respinse l’idea della salvaguardia delle risorse naturali (non stupisce che abbiano dato il Nobel per l’economia). Sicché, «quando la signora Thatcher sbatté il suo libro sul tavolo, si era già formata su entrambe le rive dell’Atlantico una vivace rete di think tank, lobbisti e accademici che promuovevano la dottrina di Hayek, abbondantemente finanziata da alcune delle persone e compagnie più ricche del pianeta, compresi DuPont, General Electric, la società di birrificazione Coors, Charles Koch, Richard Mellon Scaife, Lawrence Fertig, il William Volcker Fund e la Earhart Foundation».Usando in modo geniale la psicologia e la linguistica, continua Monbiot, i pensatori sponsorizzati da queste persone trovarono le parole e le argomentazioni necessarie per trasformare l’inno all’élite di Hayek in un programma politico plausibile. Il Thatcherismo e il Reaganismo? Due facce del medesimo neoliberismo: «L’imponente taglio alle tasse per i ricchi, l’attacco ai sindacati, la riduzione degli alloggi popolari, la liberalizzazione, privatizzazione, delocalizzazione e la concorrenza nei servizi pubblici erano già stati teorizzati da Hayek e dai suoi discepoli». Ma il vero trionfo di questo network, sottolinea Monbiot, non fu la sua “innovativa” concezione del diritto, bensì «la conquista di partiti che un tempo erano schierati a favore di tutto ciò che Hayek detestava», cioè le formazioni politiche “di sinistra”, che furono completamente “colonizzate”. Bill Clinton e Tony Blair «estrapolarono alcuni elementi di ciò che un tempo i loro partiti avevano creduto, lo combinarono con idee prese in prestito dai loro oppositori, e da questa improbabile combinazione diedero vita alla “terza via”. Era inevitabile che lo sfavillante e rivoluzionario entusiasmo del neoliberalismo avrebbe esercitato una forza di attrazione più potente della stella morente della democrazia sociale».Dovunque, allora, si poteva assistere al trionfo di Hayek: dall’ampliamento della Private Finance Initiative di Blair alla revoca da parte di Clinton del Glass-Steagal Act, che regolava il settore finanziario. «Nonostante le sue lodevoli intenzioni, nemmeno Barack Obama aveva una narrativa politica ben definita (eccetto la “speranza”), e lentamente è stato cooptato da coloro che detenevano migliori mezzi di persuasione». Il risultato di tutto ciò è stato «prima l’indebolimento del potere e poi la privazione dei diritti civili». Se l’ideologia dominante consiglia ai governi di non garantire più la giustizia sociale, «essi non possono più rispondere ai bisogni dell’elettorato», e così «la politica diventa irrilevante per le vite dei cittadini». Al che, il cittadino defraudato dei propri diritti «si rivolge verso un’astiosa anti-politica, dove fatti e ragionamenti vengono sostituiti da slogan». Il risultato di oggi è paradossale, dice Monbiot: proprio la sollevazione popolare contro la “dittatura” del neoliberismo «ha portato al successo proprio quel tipo di uomo che Hayek mitizzava», cioè Donald Trump, ovvero un uomo «che non ha una visione politica coerente, non è un neoliberale classico, ma è la perfetta rappresentazione dell’“indipendente” di Hayek: è il beneficiario di una fortuna ereditata, non assoggettato ai comuni limiti della moralità, le cui rozze inclinazioni aprono nuove strade che altri potrebbero seguire».I pensatori neoliberali adesso «brulicano intorno a questo uomo vacuo, a questo vaso vuoto che aspetta di essere riempito da coloro che sanno bene cosa vogliono». Il probabile risultato «sarà la demolizione di tutto ciò che ancora ci fa onore, a cominciare dall’accordo sulla limitazione del riscaldamento globale». Conclude Monbiot: «Coloro che raccontano storie governano il mondo. La politica è fallita a causa della mancanza di narrative valide. La sfida principale adesso è raccontare una storia nuova, quella di cosa significhi “umanità” nel ventunesimo secolo». Un nuovo “racconto”, dunque, che «deve essere tanto seducente per coloro che hanno votato Trump e lo Ukip, quanto per i sostenitori di Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jeremy Corbyn». La psicologia e le neuroscienze riconoscono che gli esseri umani, rispetto ad altri animali, sono al tempo stesso fortemente sociali e fortemente egoisti? Certo, e «l’atomizzazione e il comportamento cinico che il neoliberalismo promuove va contro quasi tutto ciò che caratterizza la natura umana. Hayek ci ha detto chi siamo, e si sbagliava. Il primo passo da compiere è riappropriarci della nostra umanità».Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».
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Carpeoro: siate consapevoli, e aprirete una falla nel sistema
Qual è lo schema della manipolazione? E’ anch’esso uno schema rituale. Io ho sempre pensato che il potere, quello che Saba Sardi chiama “dominio”, agisca sulle persone in cinque fasi, che sono quasi un rito. Queste cinque fasi sono sempre le stesse, e si chiamano: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Sono azioni, per questo hanno tutte la stessa desinenza. Perché astrazione? Perché bisogna creare il vuoto. E quindi, il primo schema della manipolazione è quello di togliere l’individuo da una realtà che può capire, può farlo pensare, può renderlo autonomo nei confronti del pensiero. Quindi la prima cosa che devo fare è: fargli il vuoto intorno, e possibilmente anche il vuoto dentro. E questo lo faccio astraendolo dalla realtà, cioè facendo delle operazioni di astrazione. Fatto questo, poi c’è l’estrazione: dopo che l’ho messo in un mondo finto, di plastica, devo comunque estrarlo da un contesto dove lui possa tornare; devo creargli una finta casa: dopo che gli tolto la casa vera, devo costruirgliene attorno una finta, datta di fondali cinematografici, di effetti speciali. E questa è l’estrazione.Questa casa, che gli ho costruito attorno, piena di cose posticce, poi devo rendergliela unica e invalicabile: e quindi devo fare un’operazione di ostruzione, cioè devo rendere impossibile tornare indietro. Poi devo trasformare questa persona, adattarla al meccanismo-ingranaggio generale che ho creato, e questa operazione si chiama istruzione. E poi, dopo, c’è la fase finale, che si chiama distruzione, e si può considerare a livello individuale ma anche non individuale. Un grande iniziato, che si chiamava Isaac Newton, fece 5 pagine di previsioni, tra l’altro ripubblicate recentemente dalla fondazione a lui dedicata, che ha pubblicato tutto i suoi atti inediti in un sito Internet. Newton era anche un matematico, scopritore del cosiddetto calcolo infinitesimale. Facendo conteggi, Isaac Newton ha collocato la possibilità della fine del mondo nel 2060: quanto è lontano il 2060? Una stima del ministero americano dell’ambiente, basata sull’elevazione dell’area priva di ossigeno degli oceani – si chiama “area della morte”, è la fase più profonda e completamente priva di ossigeno, di luce, di possibilità di vita – rivela che questa fascia, nell’ultimo secolo, si è elevata del 400%. Provate a pensare a cosa succede se muoiono completamente gli oceani. E, se questo work in progress va avanti così, questa stima degli americani porta all’incirca al 2060. Il che vuol dire che Newton con la matematica ci sapeva fare.Tutte le operazioni dei millenni di vita dell’uomo che conosciamo sono dominati dal pensiero magico. Della nostra avventura conosciuta, rispetto ai 22 milioni di anni di storia scientifica della vita e dell’universo, quanti anni conosciamo, analiticamente? Cinquemila? Settemila? Diecimila? Nella storia generale dell’universo, i diecimila anni di cammino dell’uomo che conosciamo cosa sono? Un pulviscolo. Noi, siccome abbiamo l’epos, li dilatiamo, pensiamo che chissà che storia sia. Ma non è mica tutta questa grande storia. Né sarebbe un esempio di vita lunga di una civiltà, se morisse dopo diecimila anni (credo che la dominazione dei dinosauri sulla Terra sua mille volte tanto, centomila volte tanto). Queste migliaia di anni che conosciamo, della nostra vita, sono anni di implemento delle conseguenze del pensiero magico. Gradualmente, abbiamo trasferito tutte le nostre risorse, tutto il nostro cammino evolutivo e tutta la nostra creatività dalla possibilità di un pensiero simbolico alla scelta del pensiero magico. Se una persona è malata di cancro, tra un medico e una cartomante preferisce il medico. Ma se non è ancora malata di cancro, sceglie la cartomante. Il nostro problema è che, quando eravamo sani, abbiamo scelto la magia. Adesso che malati lo siamo, chissà, forse… Però è molto difficile.Gesù Cristo nel Vangelo dice che bisogna scegliere la via stretta, ma noi non scegliamo sepre la via stretta. E’ talmente difficile imparare a considerare le nostre possibilità di espansione individuale come collegate alle nostre capacità, alla nostra vita, alle opportunità reali che abbiamo, che gli ultimi anni che stiamo vivendo sono il record dei superenalotti, delle lotterie. Non siamo più abituati a mettere in concatenazione la nostra felicità – il nostro lavoro, la nostra creatività – al merito. Se uno pensa ad arricchirsi, questo è il prodotto di un pensiero magico: perché, prima di pensare a come arricchirsi, dovrebbe valutare perché arricchirsi. Non siamo più abituati a collegare nemmeno l’arricchimento al merito, ad un valore, a una differenza: basta andare dal tabaccaio. Noi oggi abbiamo queste altre ritualità. Abbiamo distaccato, trasformato il sacro.Noi oggi siamo schiavi di idoli diversi. Sempre di idolatria si tratta, ma abbiamo sostituito il sacro come ricerca con il sacro come autoasserzione. Abbiamo cioè trasformato il sacro in qualcosa che si definisce da sé, non in qualcosa che definiamo noi. E questa operazione di idolatria è abilmente descritta nella Bibbia quando gli ebrei si ritrovano ad adorare il Vitello d’Oro, mentre Mosè gli porta giù dalla montagna delle leggi. La differenza è tra adorare il Vitello d’Oro e proseguire in un percorso per cui il tuo capo spirituale ti porta giù delle leggi. Sapete, le leggi non sono una cosa qualunque: sono lì per regolare la nostra vita. Certo, non sempre ci sono delle buone leggi: è per questo che Mosè se le fa dare da Dio. Non voglio entrare nella polemica su Jahvè-Dio sollevata da Biglino, col quale peraltro sono in buonissimi rapporti. Qui interpreto Dio come simbolo: una entità suprema che dà la legge, sottolinea quanto sia importante, una legge. E quando Mosè scende con le leggi, quelli sono già passati al Vitello d’Oro. Questo non descrive forse il pensiero magico e il pensiero simbolico? Non me la sono inventata io, questa scelta tra il Magus e il Magister: nell’antichità, la troviate enne volte. Si è trasferita in tutto. Si è trasferita nella nostra vita sociale.Noi oggi continuiamo a inseguire un politico che ci risolva dei problemi, che ci attribuisca dei diritti. Ma io non voglio un politico che mi risolva i problemi. Voglio un politico che metta me in condizione di risolverli. Non è pensiero magico? Qui c’è una politica che vi ha tolto i vostri diritti, cioè la possibilità di risolvere da voi i vostri problemi. E qualunque tipo di politico viene e dice: non ti preoccupare, te li risolvo io. Nessuno ti dice: non ti preoccupare, perché creeremo condizioni perché te li risolva tu. E’ lì che poi falliscono le democrazie. Perché uno non mi può spacciare una democrazia sostitutiva per una democrazia rappresentativa. Sono due cose diverse. Qui, le nostre vite sono state delegate per procura notarile, irevocabile. Ma io non voglio delegare la mia vita, io voglio avere da te il diritto di farmela da solo, la mia vita. E questo diritto tu non me lo dai. E sembra quasi che sia giusto, scontato, che tu non me lo dia. Nessuno si chiede: ma perché nessun politico mi dice come sarò in condizione, io, di fare le cose? Sulla base di una nostra pigrizia, di una nostra graduale astrazione dalla vita concreta e dalle regole democratiche, ci danno ormai per scontato che i problemi ce li deve risolvere qualcun altro. In pari con un’altra cosa: che la colpa è sempre di qualcun altro.E’ in parallelo: da un lato ti dicono che i problemi te li risolvono loro, dall’altro ti spiegano che, comunque, la colpa è sempre di tizio – Gelli, Sindona, Craxi, Totò Riina, è sempre colpa degli altri. Dobbiamo entrare nella logica che il cambiamento è nostro: siamo noi che dobbiamo diventare dei soggetti rivoluzionari. Il che non significa che non saremo più propensi a sacralizzare, ritualizzare e simboleggiare delle cose; significa che, quando lo facciamo, lo dobbiamo fare consapevolmente. Il margine è tutto lì, tra consapevolezza e inconsapevolezza. In quante ore della nostra giornata facciamo cose di cui siamo pienamente consapevoli? Numeriamo le azioni di una nostra giornata, e verifichiamo alla fine che conto ne esce. Secondo me si farebbero delle belle scoperte, ma questa non è una funzione che Facebook ha previsto; quindi non ve ne accorgerete mai, perché un diario non lo tenete più. Immaginate che su Facebook ci sia una funzione “verifica consapevolezza” – ma Facebook quella funzione non la metterà mai, perché fa parte dell’altro meccanismo, dell’altro versante. E se scopriste che il 90% della vostra vita è fatto di atti inconsapevoli? La consapevolezza comporta automaticamente una falla nel sistema di potere. Questo è un potere che vive sull’inconsapevolezza. E’ questa è l’unica vera rivoluzione, l’unica chiave rivoluzionaria della nostra vita.(Gianfranco Carpeoro, estratto della conferenza “Riti, rituali e quotidianità, il vero e il falso”, tenuta a Curtarolo, Padova, il 17 maggio 2016).Qual è lo schema della manipolazione? E’ anch’esso uno schema rituale. Io ho sempre pensato che il potere, quello che Saba Sardi chiama “dominio”, agisca sulle persone in cinque fasi, che sono quasi un rito. Queste cinque fasi sono sempre le stesse, e si chiamano: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Sono azioni, per questo hanno tutte la stessa desinenza. Perché astrazione? Perché bisogna creare il vuoto. E quindi, il primo schema della manipolazione è quello di togliere l’individuo da una realtà che può capire, può farlo pensare, può renderlo autonomo nei confronti del pensiero. Quindi la prima cosa che devo fare è: fargli il vuoto intorno, e possibilmente anche il vuoto dentro. E questo lo faccio astraendolo dalla realtà, cioè facendo delle operazioni di astrazione. Fatto questo, poi c’è l’estrazione: dopo che l’ho messo in un mondo finto, di plastica, devo comunque estrarlo da un contesto dove lui possa tornare; devo creargli una finta casa: dopo che gli tolto la casa vera, devo costruirgliene attorno una finta, fatta di fondali cinematografici, di effetti speciali. E questa è l’estrazione.
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Sulla Luna con Alì, ogni giorno un miracolo di giustizia epica
Forse bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all’America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l’amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro. Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.Lo zio lo chiamava ancora Cassius Clay perché non gli riconosceva il valore simbolico, ma lui mica votava comunista come papà. Invece, papà aveva capito bene il senso di quel ciclope furioso e gentile: il signor campione Muhammad Alì aveva mandato a quel paese la guerra del Vietnam e il presidente degli Stati Uniti, e per questo bisognava tifare solo per i suoi guantoni. Erano un segno di libertà per tutti, anche per gli operai di Settimo Torinese e Crotone, Scampia e Taranto, non soltanto per i neri americani e africani. Alì combatteva per tutti gli oppressi: dunque, per una volta si poteva restare alzati la notte e vederlo fare a pugni in tivù contro il nero venduto al potere, cioè Foreman. La prima veglia era stata per lo sbarco sulla Luna. La seconda per Italia-Germania. La terza, per quella battaglia nella giungla. Ecco, per capire davvero chi è morto l’altra notte (morto? ma figuriamoci) bisogna proprio tener conto dello spessore assoluto della storia che si andava vivendo, e raccontando allora.C’erano, in quel tempo memorabile, solo personaggi epici: il comandante Neil Armstrong, Gigi Riva, Pelè e Muhammad Alì. Per forza, poi, da grande ti avrebbero mandato al liceo classico. Altro che Odisseo e Socrate, i grandi della storia noi li vivevamo tutti i giorni, Omero metteva solo le didascalie. Prese un sacco di pugni per cinque round. Il venduto Foreman lo stava gonfiando come una zampogna. Ma lui niente, lui sempre in piedi a pigliare in giro quell’altro. Mi deludi, George. Non sai fare di meglio? Sei diventato debole, amico. Sei stanco? E Foreman picchiava come un pazzo, sprecando così ogni energia. Lo zio però pensava che al prossimo cazzotto ben dato, Alì sarebbe finito al tappeto. Invece papà era sicuro del contrario, i suoi occhi dicevano “stai tranquillo, figlio mio, alla fine i giusti vincono sempre”. All’ottava ripresa, infatti, Mohammad tirò un cartone dell’altro mondo al venduto che vacillò e andò a terra come morto. E Alì lo guardava cadere, stava per colpire ancora Foreman ma non lo fece, trattenne il guantone, sapeva che non ci sarebbe stato bisogno di niente di più, forse non voleva sfigurare il volto del nemico. Con quel pugno fantastico lo aveva già umiliato abbastanza, e si stava riprendendo tutto: il titolo mondiale, la gloria, l’orgoglio, un pezzo del suo passato e l’amore del mondo intero e dell’umanità: tutta, senza eccezioni. A parte lo zio.E poi ci fu quell’altra sera. Aspettavamo l’ultimo tedoforo nello stadio di Atlanta e quando comparve Alì, quando realizzammo che non era una visione mistica ma era invece tutto vero, ci sentimmo esattamente dentro la storia, quella da raccontare più ai nipoti che ai lettori. La torcia tremante nel pugno stretto di Muhammad Alì: eppure nulla era stato più fermo e più nitido, più esatto e definitivo, mai. La mano era la stessa dell’autografo, cinque anni prima. Alì a Torino per una manifestazione dell’Uisp, l’enorme silenzio quando lui entrò nella Reggia di Venaria. Barcollava e taceva. Poi gli misero sotto il naso dei cartoncini da firmare e Alì sedette assorto come un bimbo delle elementari: la mano guidava lentissimamente la penna che solcava la carta come un aratro. Veniva voglia di dirgli “scusi Alì, veramente, ci perdoni, siamo dei coglioni a farle fare questo sforzo immane, è lo stesso, lasci stare, non importa” e invece niente, il trofeo d’inchiostro si andava componendo sul foglio e sta ancora lì, appeso al muro, solo un po’ sbiadito.E poi i libri, certamente. Gli articoli, alcuni bellissimi. Gianni Minà, Emanuela Audisio. E poi “The fight” di Norman Mailer, tradotto chissà perché “La sfida” da Einaudi, un romanzo e non solo un reportage: la penna era la stessa che aveva raccontato il Vietnam e l’epopea dei primi astronauti. Ai ragazzi delle scuole di giornalismo forse basterebbe dare da leggere Mailer. Ecco perché Muhammad Alì è stato, semplicemente, il più grande atleta di tutti i tempi. Non solo per le vittorie, quelle le hanno ottenute anche Coppi e Carl Lewis, Federer e Michael Jordan, Maradona e Nuvolari. Alì è stato il più grande nel rapporto tra immenso ingombro sportivo e gigantesca valenza sociale, umana, culturale e politica. Nessuno come lui, in questo. Ovunque sia lo zio, ora sarà d’accordo pure lui.(Maurizio Crosetti, “Muhammad Ali, quel ciclope furioso e gentile che faceva finta di essere cattivo”, da “La Repubblica” del 4 giugno 2016).Forse bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all’America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l’amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro. Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.
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Quando nel mondo c’era ancora posto per Muhammad Alì
Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.«Un uomo che a 50 anni la pensa come a 20 ha sprecato 30 anni della sua vita» amava ripetere Muhammad Ali, il campione di pugilato nato in Kentucky in una famiglia afroamericana con antenati bianchi, scrive Gianni Riotta su “La Stampa”, in morte del campione. «Nella sua vita Ali cambiò nome, religione per tre volte, prima cristiano, poi aderente alla setta estremista Nazione dell’Islam che considerava i bianchi “diavoli”». Poi «si unì all’Islam sunnita ortodosso, ma con alcune pratiche della filosofia Sufi». Alì, continua Riotta, «aveva cambiato il codice del boxeur, mai schivare i colpi ma testa indietro a eluderli, irridendo gli uppercut, guardia bassa contro ogni regola, ad invitare i pugni senza paura». Dopo di lui, l’espressione “messo alle corde” ha cambiato significato: «Alì si sdraiava al limite del ring e assorbiva i colpi dell’avversario, trasformando il proprio corpo in punching ball da allenamento. La sua capacità di assorbire la sofferenza commosse i tifosi, nella sconfitta al vecchio Madison Square Garden di New York contro Frazier, 15 round di massacro con lo scrittore Norman Mailer a fare il cronista e Frank Sinatra a scattare foto».Stessa tattica nel 1974 a Kinshasa, in Zaire, contro Foreman, «la folla a gridare “Ali Bòmaye”», Alì uccidilo! «Per 8 round Ali si sacrifica incassando colpi che avrebbero ucciso tanti altri pugili, poi atterra Foreman». L’anno dopo, a Manila, Alì soffre contro Frazier, vince e confessa: è stato come morire. «Ora sappiamo che era davvero “morire”», scrie Riotta. «L’Ali tremante che accende il braciere olimpico ad Atlanta 1996 soffriva di un morbo di Parkinson che molti medici credono accelerato dai colpi subiti. Aveva fatto in tempo a liberare alcuni ostaggi americani, sequestrati da Saddam alla vigilia della I Guerra del Golfo, 1990, e la Casa Bianca di Bush padre lo criticò, “showman”. Durante la missione a Baghdad gli finirono le medicine contro il Parkinson, faticava a parlare, alzarsi dal letto, e si diffuse la voce che fosse incapace, invalido, poco lucido. E l’11 settembre 2001, il cronista di “Selezione” dal “Reader’s Digest” andò a trovarlo nella sua tenuta di Berrien Springs, in Michigan, 88 acri di campagna, e gli chiese cosa pensasse davanti al blitz dei fondamentalisti islamici. Ali ripeté, con la parlata strascicata che botte e malattia gli aveva inflitto, la sua fede, Islam è religione di pace, uccidere donne, uomini e bambini innocenti non è da musulmani credenti nel Corano».«La boxe è l’imitazione di una lotta per la vita o per la morte, perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento – le loro vite, accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti. La vita sul ring è ingrata, brutale e corta», scrive Joyce Carol Oates nella perfezione del suo saggio “Sulla Boxe”. «Di questa mattanza – conclude Riotta – Alì fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore». L’ultima uscita pubblica è stata contro il proclama di Donald Trump sul divieto di ingresso dei musulmani in America: una discriminazione anche contro i cittadini Usa, misura che l’avrebbe riguardato di persona. Alì era stato in rapporti amichevoli con l’impresario Trump, ma ora era «impaurito per l’odio che vedeva montare nel suo paese e nel mondo». Al congedo da Kinshasa, nel memorabile docu-film “Quando eravamo re”, di Lion Gast, all’aeroporto il trionfatore Alì accarezza i bambini congolesi che lo festeggiano: «Voi siete buoni, non avete idea di come sia il posto da cui vengo io». Ed era solo il 1974: un mondo in cui c’era ancora posto per un eroe come Muhammad Alì.Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.
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Lo straordinario coraggio del popolo siriano parla a tutti noi
Giorno e notte, per anni, una forza travolgente s’è abbattuta su questa nazione tranquilla, una delle culle della civiltà umana. Centinaia di migliaia sono morti, e milioni sono stati costretti a fuggire all’estero o sono stati sfollati. In molte città e villaggi non una casa è rimasta intatta. Ma la Siria è, contro ogni previsione, ancora in piedi. Negli ultimi 3 anni ho lavorato in quasi tutti gli angoli della Siria, denunciando la nascita dell’Isil nei campi gestiti dalla Nato costruiti in Turchia e Giordania. Ho lavorato nella alture occupate del Golan, e in Iraq. Ho lavorato anche in Libano, un paese ora costretto ad ospitare più di 2 milioni (per lo più siriani) di rifugiati. L’unico motivo per cui l’Occidente ha iniziato la sua orribile campagna di destabilizzazione, era perché “non poteva tollerare” la disobbedienza della Siria e la natura socialista del suo Stato. In breve, il modo in cui la dirigenza siriana metteva il benessere del suo popolo al di sopra degli interessi delle multinazionali.Più di due anni fa, la mia ex-videoredattrice indonesiana pretese una risposta in tono alterato: «Così tante persone muoiono in Siria! Ne vale davvero la pena? Non sarebbe più semplice e migliore per i siriani mollare e lasciare che gli Stati Uniti abbiano ciò che esigono?». Cronicamente pietrificata, questa giovane donna era sempre alla ricerca di soluzioni facili per mantenersi al sicuro, e con significativi vantaggi personali. Come tanti altri oggi, di questi tempi, per sopravvivere e andare aventi, hanno sviluppato un sistema contorto che poggia su tradimenti, autodifese e inganni. Come rispondere a una domanda del genere? Era legittima, dopo tutto. Eduardo Galeano mi disse: «La gente sa quando è il momento di combattere. Non abbiamo il diritto di dirglielo… e quando lo decide, è nostro obbligo sostenerla, anche guidandola se ci avvicina». In questo caso, il popolo siriano ha deciso. Alcun governo o forza politica potrebbe imporre a un’intera nazione tale enorme eroismo e sacrificio.I russi l’hanno fatto durante la Seconda Guerra Mondiale, e i siriani lo fanno ora. Due anni fa risposi così: «Ho assistito al crollo totale del Medio Oriente. Non c’era più niente in piedi. I paesi che hanno optato per la propria strada sono stati letteralmente rasi al suolo. I paesi che hanno ceduto ai dettami occidentali hanno perso anima, cultura ed essenza, trasformandosi alcuni nei luoghi più miseri della terra. E i siriani lo sapevano: se si arrendevano, sarebbero divenuti un altro Iraq, Yemen o Libia, perfino Afghanistan». E così la Siria si oppose. Decise di combattere, per sé e per la sua parte nel mondo. Ancora una volta, elesse il suo governo e si appoggiò al suo esercito. Qualunque cosa gli occidentali dicessero, qualsiasi tradimento le Ong scrivessero, la semplice logica lo dimostrava. Questa nazione modesta non ha media così potenti da condividere i propri coraggio e agonia col mondo. Sono sempre gli altri che ne commentano la lotta, spesso in modo del tutto dannoso. Ma è innegabile che, mentre le forze sovietiche fermarono l’avanzata dei nazisti a Stalingrado, i siriani sono riusciti a fermare le forze fasciste alleate degli occidentali nella sua parte del mondo.Naturalmente la Russia ne è direttamente coinvolta. Naturalmente la Cina osserva, anche se spesso nell’ombra. E l’Iran ha dato aiuto. Ed Hezbollah del Libano ha fatto ciò che descrivo spesso, una lotta epica assieme a Damasco contro i mostri estremisti inventati e armati da Occidente, Turchia e Arabia Saudita. Ma il merito principale deve andare al popolo siriano. Sì, ora non c’è più nulla del Medio Oriente. Ora sono più le lacrime che le gocce di pioggia a scendere su questa terra antica. Ma la Siria è in piedi. Bruciata, ferita, ma in piedi. E come è stato ampiamente riportato, dopo che le forze armate russe sono giunte in soccorso della nazione siriana, oltre 1 milione di siriani è potuto reintrare a casa… spesso trovando solo cenere e devastazione, ma a casa. Come le persone tornarono a Stalingrado, oltre 70 anni fa.Quindi quale sarebbe la mia risposta a tale domanda ora: “sarebbe più facile il contrario”, arrendersi all’Impero? Credo qualcosa del genere: «La vita ha un senso, è degna di essere vissuta solo se possono essere soddisfatte certe condizioni di base. Non si tradisce un grande amore, sia esso per un’altra persona o per un paese, l’umanità o gli ideali. Se non lo si fa, sarebbe meglio non nascere affatto. Allora dico: la sopravvivenza del genere umano è l’obiettivo più sacro. Non qualche effimero vantaggio o ‘sicurezza’ personale, ma la sopravvivenza di tutti noi, persone, nonché della sicurezza di tutti noi, esseri umani». Quando la vita stessa è minacciata, la gente tende a opporsi e a combattere, istintivamente. In quei momenti, alcuni dei capitoli più monumentali della storia umana sono stati scritti. Purtroppo, in quei momenti, milioni morirono. Ma la devastazione non è a causata da coloro che difendono la nostra razza umana. E’ causata dai mostri imperialisti e dai loro succubi.La maggior parte di noi sogna un mondo senza guerre, senza violenza. Vogliamo che la vera bontà prevalga sulla Terra. Molti di noi lavorano senza sosta per tale società. Ma fino a quando non sarà costruita, fino a quando ogni egoismo estremo, avidità e brutalità sarà sconfitto, dobbiamo lottare per qualcosa di molto più “modesto”, per la sopravvivenza dei popoli e dell’umanesimo. Il prezzo è spesso orribile. Ma l’alternativa è un grande vuoto. Semplicemente il nulla, alla fine, e nient’altro! A Stalingrado, milioni morirono per farci vivere. Nulla rimase della città, tranne che acciaio fuso, mattoni sparsi e un oceano di cadaveri. Il nazismo fu fermato. L’espansionismo occidentale iniziava la ritirata, all’epoca verso Berlino. Ora la Siria, con calma ma stoicamente ed eroicamente, si oppone ai piani sauditi, qatarioti, israeliani, turchi e occidentali per distruggere il Medio Oriente. E il popolo siriano ha vinto. Per quanto tempo, non lo so. Ma ha dimostrato che un paese arabo può ancora sconfiggere potenti orde assassine.(Andre Vltchek, “La Siria è la Stalingrado del Medio Oriente”, dalla rivista oline “New Eastern Outlook” del 2 gennaio 2016, ripreso dal newsmagazine “Aurora”. Andre Vltchek è un filosofo e scrittore russo, anche regista e giornalista investigativo, ideatore di “World Vltchek”, applicazione per Twitter).Giorno e notte, per anni, una forza travolgente s’è abbattuta su questa nazione tranquilla, una delle culle della civiltà umana. Centinaia di migliaia sono morti, e milioni sono stati costretti a fuggire all’estero o sono stati sfollati. In molte città e villaggi non una casa è rimasta intatta. Ma la Siria è, contro ogni previsione, ancora in piedi. Negli ultimi 3 anni ho lavorato in quasi tutti gli angoli della Siria, denunciando la nascita dell’Isil nei campi gestiti dalla Nato costruiti in Turchia e Giordania. Ho lavorato nella alture occupate del Golan, e in Iraq. Ho lavorato anche in Libano, un paese ora costretto ad ospitare più di 2 milioni (per lo più siriani) di rifugiati. L’unico motivo per cui l’Occidente ha iniziato la sua orribile campagna di destabilizzazione, era perché “non poteva tollerare” la disobbedienza della Siria e la natura socialista del suo Stato. In breve, il modo in cui la dirigenza siriana metteva il benessere del suo popolo al di sopra degli interessi delle multinazionali.
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Ex avvocato, ora lavapiatti. E chiudono 50 aziende al giorno
Renzi ha appena ieri fatto una dichiarazione delle sue, una di quelle trovate geniali che lo caratterizzano (come quella famosa, secondo cui l’Italia è più ricca perché sono aumentati i risparmi dei depositi in banca, trascurando il non lieve particolare che sono aumentati i depositi, sì, ma di coloro che guadagnano cifre sopra al milione di reddito, e in questi “depositi a risparmio” devono essere considerati anche i depositi effettuati dai multimilionari). La notiziona è che ci sono 415.000 posti di lavoro in più; un’impresa epica, perché è pari alla metà di quel milione di posti di lavoro che promise Berlusconi, e per cui costui fu criticato e preso in giro da tutti. Pensate un po’ che meraviglia. Berlusconi promise un milione di posti di lavoro, senza mantenere la promessa. Renzi, senza aver fatto analoghe promesse, ha realizzato la metà del risultato, senza particolare sforzo.Che ci siano 415.000 lavoratori in più è senz’altro vero. Infatti, considerato che dai dati forniti da “Il Sole 24 Ore”, e di quelli che ci danno le varie categorie professionali, risulta che il reddito medio delle categorie dei professionisti (avvocati, notai, ingegneri, geometri, consulenti del lavoro e commercialisti, psicologi) è diminuito del 50% dal 2008 ad oggi.Nel 2012 sono 9.000 i professionisti che si sono cancellati dall’albo ed erano 6.000 i cassaintegrati dipendenti di studi professionali; nel 2013 e 2014 sono aumentati ancora, e nel 2015 i dati non sono definitivi ma, solo nella categoria professionale degli avvocati, a giugno 2015 se ne erano cancellati 4.000 (quindi presumibilmente ad oggi saranno circa il doppio). Va ancora peggio il settore imprenditoriale; nel Veneto si registrano migliaia di chiusure all’anno, in tutta Italia falliscono circa 50 imprese al giorno, quindi a fine anno saranno circa 30.000 le aziende che avranno chiuso i battenti.In altre parole. Si, è vero che ci sono 415.000 posti di lavoro in più. Ma perchè, tra imprese fallite e professionisti che hanno chiuso l’attività, molti si sono ridotti a fare gli impiegati nei call center, o a diventare rappresentanti di prodotti con pagamento a percentuale, o perchè hanno stipulato contratti di lavoro determinato per 15/20 giorni. Considerando che nel numero dei nuovi occupati ci sono anche i contratti a tempo, voglio fare un esempio personale: mi sono cancellato dall’albo degli avvocati nel 2014, quindi rientro in quei 9.000 professionisti in meno; in compenso quest’estate ho lavorato 15 giorni come lavapiatti nel ristorante di una mia amica, che mi ha fatto un regolare contratto di assunzione. Quindi risulto tra i 415.000 nuovi posti di lavoro del 2015, per quei quindici di lavoro nel ristorante. E se fossi stato assunto per due volte in due posti diversi risulterei ben due volte nella statistica.A me questa cosa non sembra proprio corretta e mi piacerebbe essere tirato fuori dal numero dei nuovi contratti di lavoro. Idem per quel mio amico che, invece, è stato assunto per 15 giorni come guardia privata presso un’abitazione. E un altro ha fatto ben due giorni di lavoro come falegname ad una festa di paese per montare il palco, anche lui con regolare contratto di due giorni. Un altro mio collega, anche lui cancellato dall’albo degli avvocati, prenderà invece la somma di 50 euro al giorno per fare il Babbo Natale in un centro commerciale, anche lui con regolare contratto di lavoro. Invece un mio compagno dei tempi dell’università, detto Black and Decker, che non si è mai laureato, fa il gigolò e guadagna molto di più di quanto guadagnavo io ai tempi d’oro della mia professione. Ah, ma mentre scrivo rifletto che purtroppo lui non fa statistica, perché il suo è tutto guadagno in nero.Ecco… mettiamola così: il calcolo esatto io non so farlo, però direi che da una sommaria statistica in mio possesso i posti di lavoro non sono proprio 415.000 ma al massimo 414.996.Al di là di questo piccolo aggiustamento alla statistica, che certamente non inficia il dato positivo delineato da Renzi, il quadro è comunque positivo (è infatti sempre Renzi che ha detto: «Ma non preoccupiamoci troppo dei dati… 0.8, 0.7, 0.6, non è tanto quello che conta… l’importante è che il segnale positivo c’è»). Direi che saremo però vicini ai tempi di una ripresa definitiva, appena gli evasori totali, come il mio amico Black and Decker, verranno scovati e consegnati finalmente alla giustizia. Qualche giorno fa, uscendo di casa, sono andato prima in lavanderia e poi a comprare una bombola di gas; la lavanderia aveva chiuso, e il consorzio agrario pure (pare con un fallimento di qualche milione di euro); andando a lavorare ad Ancona, quest’anno, come tutti gli anni mi sono recato nella pizzeria dove andavo a mangiare di solito: chiusa. Idem per il negozio di kebab che era l’altro mio luogo preferito: chiuso anche lui. Ieri Stefania è uscita di casa e ha trovato il cartello “chiuso” sul bar storico del paese in cui vive; un bar aperto da decenni. State sereni. L’Italia riparte e avanti tutta!!!(Paolo Franceschetti, “I nuovi posti di lavoro non sono 415.000 ma 414.996”, dal blog di Franceschetti del 12 dicembre 2015).Renzi ha appena ieri fatto una dichiarazione delle sue, una di quelle trovate geniali che lo caratterizzano (come quella famosa, secondo cui l’Italia è più ricca perché sono aumentati i risparmi dei depositi in banca, trascurando il non lieve particolare che sono aumentati i depositi, sì, ma di coloro che guadagnano cifre sopra al milione di reddito, e in questi “depositi a risparmio” devono essere considerati anche i depositi effettuati dai multimilionari). La notiziona è che ci sono 415.000 posti di lavoro in più; un’impresa epica, perché è pari alla metà di quel milione di posti di lavoro che promise Berlusconi, e per cui costui fu criticato e preso in giro da tutti. Pensate un po’ che meraviglia. Berlusconi promise un milione di posti di lavoro, senza mantenere la promessa. Renzi, senza aver fatto analoghe promesse, ha realizzato la metà del risultato, senza particolare sforzo.
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Ancora menzogne sulla Grande Guerra, odissea nell’orrore
Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione istituzionale.Nel suo intervento Veneziani rispolvera tutto l’armamentario ideologico che a proposito della Grande Guerra è stato usato nell’ultimo secolo, riadattato ovviamente ad una sensibilità meno incline di una volta a celebrare l’ardimento e l’eroismo, la guerra e l’annientamento del “nemico”. E infatti Veneziani precisa subito che «ricordando l’entrata in guerra dell’Italia non si vuole certo celebrare l’amore per la guerra». E però, insiste, «col 24 maggio si vuole commemorare la nascita di una nazione con una mobilitazione popolare senza precedenti e un rito di sangue che fu un’ecatombe. Ricordare quel centenario significa ripensare l’Italia, riproporre il tema dell’identità nazionale nello scenario presente e proiettarsi a pensare il futuro senza cancellare o smantellare le storie e le culture nazionali. L’intervento nella Prima Guerra Mondiale portò a compimento, come allora si disse, il Risorgimento, non solo perché ricondusse all’Italia Trento e Trieste, quanto perché coinvolse per la prima volta il paese intero, da nord a sud, popolo e borghesia, e lo indusse a sentirsi nazione e comunità di destino, fino a donare alla patria la propria vita».«Quella conquista unitaria, dovuta nel secolo precedente a una minoranza, diventò con la mobilitazione totale e la leva obbligatoria, patrimonio sofferto di un popolo intero. Non mancarono episodi di valore, un’epica popolare che coinvolse le famiglie italiane, i nostri nonni». Ecco, questo è il senso comune che viene ancora una volta dispensato alle nuove come alle vecchie generazioni, condannate a non avere accesso, sui mezzi di comunicazione mainstream, a strumenti che gli consentano di riflettere in maniera critica sulle vicende che hanno caratterizzato, in maniera spesso drammatica, la storia individuale come quella collettiva. Pochi i testi che tentano di contrastare la retorica mistificatoria del “mito” della Grande Guerra, seppure edulcorato e reso più adatto al contesto di generale, quanto spesso ipocrita, esaltazione della pace, che viene sparso a piene mani; e che trova la sua sintesi forse più brillante nelle drammatiche poesie dal fronte di Ungaretti, lette dal poeta stesso in età avanzata e riproposte in questi giorni dalla Rai col sottofondo della marcetta della “Canzone del Piave”.Tra i testi di fresca pubblicazione che possono costituire uno strumento utile per demistificare in maniera documentata e puntuale tale retorica, ce n’è uno particolarmente interessante. Si tratta del libro scritto di recente da Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella, insegnati e redattori dell’agenzia di stampa Adista i primi due, storico del cristianesimo ed ex deputato nelle file degli indipendenti di sinistra il secondo. “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale” (Dissensi editore) non è certo l’unico volume attualmente in circolazione ad avere un taglio “critico” di assoluto rigore rispetto agli eventi considerati. Esso ha però il pregio di essere specificamente destinato ad un pubblico di non specialisti, cui gli autori propongono una serie di brevi ma documentati saggi (completi di riferimenti storico-critici, bibliografici, documenti e foto) che cercano di indagare aspetti che della Prima Guerra Mondiale sono certamente noti a cultori, specialisti e studiosi di storia contemporanea ma non al grande pubblico. Fatti che sono però di fondamentale rilievo se si vuole restituire alla Grande Guerra il suo volto più tragico e vero.Gli autori spiegano le ragioni dell’incredibile percorso che in pochi mesi porta forze politiche, grandi giornali ed intellettuali a schierarsi dal neutralismo più convinto all’interventismo più acceso. Il ruolo giocato dalle forze industriali e dai poteri finanziari nel periodo che va dalla fine del 1914 al maggio del 1915. Raccontano l’uso di armi terribili durante i combattimenti, quali l’iprite, uno dei gas impiegati nella guerra chimica, o le mazze ferrate utilizzate dai fanti per finire i nemici agonizzanti, in genere proprio in seguito a un attacco con quel gas. Viene inoltre descritta la capillare organizzazione della prostituzione che lo Stato Maggiore dell’esercito offriva ai fanti ed agli ufficiali – in maniera ovviamente diversa, dal momento che tutta la guerra, come ben emerge da questo lavoro, viene combattuta secondo una rigida concezione classista della vita militare. Una sorta di “sfogo risarcitorio” nei confronti della disumanizzante esperienza del fronte, con il conseguente, brutale sfruttamento delle donne e dei loro corpi, sistematicamente ed istituzionalmente perpetrato.Gli autori svelano poi i casi di patologie mentali diffusi nelle trincee, l’uso sistematico della repressione per impedire che si diffondesse tra i soldati il rifiuto o il dissenso nei confronti della prosecuzione della guerra: il francescano padre Agostino Gemelli, medico e psicologo, collaborò con lo Stato Maggiore nell’individuare le strategie più efficaci per mantenere il consenso e la disciplina tra i soldati. E proprio dal punto di vista del ruolo della Chiesa cattolica nel grande massacro, il libro analizza come – al di là della posizione (sostanzialmente isolata e comunque neutralizzata da parte della gerarchia ecclesiastica) di Benedetto XV – sia stato fondamentale il ruolo dei cappellani militari. Quest’ultimi distribuivano nelle trincee materiale devozionale (di cui nel libro vengono pubblicati alcuni esempi) teso ad esaltare l’eroismo di coloro che si erano immolati per la patria, rappresentavano Gesù nell’atto di accogliere in paradiso i caduti o di incitare i soldati ad andare all’assalto; benedicevano i gagliardetti militari e le truppe lanciate contro il nemico, intonando Te Deum di ringraziamento per le stragi compiute.Eppure, anche dentro questo desolante quadro e nel contesto di una martellante ideologia mistificatoria, si faceva largo una coscienza delle reali ragioni della guerra: ecco allora i capitoli dedicati alle lettere (censurate) dei soldati al fronte; gli appelli di donne ed uomini al re affinché fermasse la strage; le canzoni che raccontavano la realtà di classe della guerra, il cinema che già prima della pace di Versailles aveva cominciato a raccontare cosa quella guerra fosse realmente. Come fa questo libro che, scrivono gli autori nella loro introduzione, intende creare “una solida coscienza critica del perché fu orrore quella guerra, come e più di altre guerre. E suscitare ugualmente orrore nei confronti della ‘grande menzogna’ attraverso la quale ancora oggi molti vorrebbero continuare a ricordarla, nonostante devastazioni, lutti, torture, prigionie, ruberie, deportazioni”.(Giovanni Avena, “Oltre la retorica, l’orrore della Grande Guerra”, da “Micromega” del 22 maggio 2015. Il libro: Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella, “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale”, Dissensi editore, 170 pagiene, euro 13,90).Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione istituzionale.
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La Bibbia alla lettera: dal cielo nessun Dio, solo guerrieri
“Quelli là”. Li chiama proprio così, Mauro Biglino, gli dei che i libri antichi hanno tramandato fino a noi. Nei testi vedici, nell’epica mesopotamica, nella poesia greca, nella Bibbia, riconosce gli stessi protagonisti: individui arrivati da un altro mondo, per dominare il nostro. Esseri assai avanzati dal punto di vista tecnologico, ma per nulla spirituali. Anzi. Fin troppo materiali, iracondi, vendicativi, passionali, gelosi. Tutto, fuorché entità trascendenti. Biglino ha espresso queste sue teorie nei vari saggi che ha scritto fino ad oggi: “Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia”, “Il Dio alieno della Bibbia”, “Non c’è creazione nella Bibbia”, e l’ultimo, “La Bibbia non è un libro sacro”. Teorie che ripete nelle sue conferenze, in giro per l’Italia, sempre affollatissime. Le ha elaborate traducendo il Codice di Leningrado, scritto in ebraico masoretico: da questa pergamena, risalente all’XI secolo, derivano tutte le Bibbie che noi abbiamo in casa. Scartando le interpretazioni teologiche, metaforiche, allegoriche, simboliche e concentrandosi solo su quella letterale, lo studioso è arrivato ad una conclusione scioccante: nell’Antico Testamento di Dio non c’è traccia.«Sì, esattamente. Tra i tanti dubbi che ho, questa è una delle mie poche certezze: la Bibbia non parla di Dio. Quando parla di Jahwè, intende un individuo che fa parte di un gruppo di individui chiamati Elohìm, guidati da uno che chiamava Eliòn. Questi individui hanno avuto un rapporto con l’umanità, ma un rapporto speciale, nel senso che se la sono un po’ fabbricata. Jahwè era uno di questi, tra l’altro anche uno dei meno importanti. Emerge insomma una realtà che è confermata dai libri sacri degli altri popoli, di tutti i continenti della Terra, che nella sostanza ci raccontano esattamente le stesse cose: ovviamente con una terminologia diversa perché sono lingue diverse, culture diverse, ma la realtà è sempre quella». Una visione sconcertante e destabilizzante, come ho avuto modo di dire più volte allo stesso autore. In sostanza, in quelle pagine che abbiamo letto e studiato più o meno tutti a catechismo, sarebbe raccontata una storia ben diversa da quella che ci hanno spiegato.A partire dalla stessa Genesi, racconto simbolico – ci hanno insegnato – di come dal nulla Dio abbia generato l’intero creato, umanità inclusa. Ma Biglino dissente in toto, in virtù dell’etimologia del verbo ebraico utilizzato per descrivere la nascita dell’Universo. «Creazione è un termine improprio, perché il termine “barà” non ha quel significato, non soltanto nell’Antico Testamento, ma proprio come radice semitica: non significa mai creare né tantomeno creare dal nulla. Significa intervenire su una situazione già esistente per modificarla, che è esattamente quello che hanno fatto questi signori. Cioè hanno introdotto un pezzettino del loro Dna all’interno di esseri che hanno trovato già su questo pianeta per modificarli e per renderli, per loro, utilizzabili. Ci hanno reso capaci, diciamo così, di capire ed eseguire degli ordini», dice il ricercatore, condividendo di fatto l’idea che noi uomini – così come siamo ora – saremmo il prodotto di un intervento di ingegneria genetica. Una affermazione già sostenuta nei suoi libri da Zecharia Sitchin, sulla base di quanto descritto dai testi mesopotamici: basta sostituire il termine Annunna (o Annunaki) con Elohìm, e tutto corrisponderebbe.Sarebbero vari i passi “incriminati” dai quali emergerebbe una realtà tutt’altro che divina di queste entità – “quelli là”, direbbe Mauro Biglino. Ad esempio, vengono citati i mezzi sui quali si spostavano nel cielo, con precise caratteristiche materiali: sono pesanti, metallici, lucenti e pure pericolosi. Descrizioni – al di là delle traduzioni teologiche – che sembrano coincidere con i moderni “Ovni”, oggetti volanti non identificati. «Certo – conferma lo studioso delle religioni – oltre alla Genesi ci sono altri libri dell’Antico Testamento che danno indicazioni completamente diverse: penso al Libro di Ezechiele, piuttosto che al Libro di Zaccaria, in genere interpretati come allegorie e metafore, ma che al contrario sono di una chiarezza evidente. Questi libri in particolare ci raccontano degli strumenti sui quali questi signori si muovevano». Tutto molto inquietante. E assurdo. Ma a voler credere all’interpretazione – letterale – del testo ebraico così come lo traduce Biglino, allora quelli lì, gli Elohìm, chi erano? Se davvero si trattava di creature in carne ed ossa, da dove erano arrivate? E cosa volevano?«Purtroppo la Bibbia non ce lo dice, ma erano sicuramente individui dotati di tecnologia superiore, inarrivabile per i tempi, forse in parte inarrivabile anche per noi. Si sono spartiti la Terra, come afferma il Libro del Deuteronomio, come ci racconta Platone nel “Crizia”, come ci tramandano i popoli di tutti i continenti della Terra. Insomma, si sono suddivisi il pianeta e l’hanno governato comportandosi come normali colonizzatori. Jahwè era uno di questi. Tra l’altro, Jahwè è definito dalla Bibbia “uomo di guerre”, quindi combatteva». Uno dei libri più noti di Mauro Biglino, non a caso, ha un titolo emblematico: “Il Dio alieno della Bibbia”. Fino a poco tempo fa, a tutti coloro che gli domandavano quale ne fosse il pianeta d’origine, lo scrittore rispondeva sempre di ignorarlo e di voler parlare solo delle cose che conosceva, ovvero quelle scritte dagli autori veterotestamentari. Ma proprio da quel testo e da analogie scoperte in altre culture antiche, adesso è giunto quanto meno ad una ipotesi, per spiegare la provenienza di questa presunta stirpe di dominatori extraterrestri.«C’è un’indicazione del termine Nephilim, un termine plurale, che indica però una razza diversa rispetto a quella degli Elohìm. Il termine Nephilà al singolare, in aramaico, indica la costellazione di Orione. Questo mi fa venire in mente quello che c’è scritto nei testi vedici, dove si parla di una possibile provenienza di questi qui da una zona vicino alla stella Betelgeuse, che corrisponde alla spalla destra della costellazione di Orione, una zona che veniva chiamata Mrigashira – ovvero, testa d’antilope – perché il cacciatore Orione se la portava sulla spalla destra. Quindi ci sarebbe una corrispondenza tra dei possibili Orioniani, diciamo così, o comunque provenienti da quella parte del cielo, indicati dal termine Nephilìm, e almeno una parte di quegli altri che in Oriente dicevano provenire dalla stessa porzione di cielo. È solo un’ipotesi, ovviamente. Tra l’altro Betelgeuse – ed è una cosa molto curiosa – deriva dall’arabo Ibn al-Jawzā. Ma Beth El significa Casa di El, cioè Casa dell’Elohim. Chissà…».(Sabrina Pieragostini, “Mauro Bigliono e gli Elohim venuti dallo spazio”, da “Panorama” del 4 luglio 2014).“Quelli là”. Li chiama proprio così, Mauro Biglino, gli dei che i libri antichi hanno tramandato fino a noi. Nei testi vedici, nell’epica mesopotamica, nella poesia greca, nella Bibbia, riconosce gli stessi protagonisti: individui arrivati da un altro mondo, per dominare il nostro. Esseri assai avanzati dal punto di vista tecnologico, ma per nulla spirituali. Anzi. Fin troppo materiali, iracondi, vendicativi, passionali, gelosi. Tutto, fuorché entità trascendenti. Biglino ha espresso queste sue teorie nei vari saggi che ha scritto fino ad oggi: “Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia”, “Il Dio alieno della Bibbia”, “Non c’è creazione nella Bibbia”, e l’ultimo, “La Bibbia non è un libro sacro”. Teorie che ripete nelle sue conferenze, in giro per l’Italia, sempre affollatissime. Le ha elaborate traducendo il Codice di Leningrado, scritto in ebraico masoretico: da questa pergamena, risalente all’XI secolo, derivano tutte le Bibbie che noi abbiamo in casa. Scartando le interpretazioni teologiche, metaforiche, allegoriche, simboliche e concentrandosi solo su quella letterale, lo studioso è arrivato ad una conclusione scioccante: nell’Antico Testamento di Dio non c’è traccia.
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Attkisson, star della Cbs: è il potere a dettarci i telegiornali
C’era una volta la stampa americana. E in parte esiste ancora, ma soprattutto nei film di Hollywood che continuano ad esaltare il coraggio delle grandi testate o di singoli giornalisti con toni romantici e a volte epici. Che fanno cassetta, ma non rispecchiano la realtà. Dai tempi del Watergate i media americani hanno visto erodere buona parte della propria credibilità, sotto i colpi di una serie di inefficienze e talvolta di scandali. Dai giornalisti pluripremiati che inventavano storie di sana pianta, all’incapacità cronica e talvolta compiacente di contrastare le tecniche degli spin doctor per orientare i media, l’elenco è lungo e tutt’altro che lusinghiero. Ora la Attkisson, grande della star Cbs, lancia un j’accuse pesante nel suo ultimo libro “Stonewall”. In parte non sorprendente: che la maggior parte dei giornalisti americani siano liberal, ovvero di sinistra, e che riservino a Obama un atteggiamento privilegiato, fazioso quasi fino al servilismo, era già stato denunciato da alcuni studiosi. Dove invece la Attkisson squarcia davvero un velo è sulla parte invisibile della gestione dei grandi media americani, sulle connessioni invisibili con l’establishment.
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Pilger: è tutto falso e disumano, ma chi se n’è accorto?
Geopolitica, massacri e guerre promosse dall’Occidente? «Si è realizzato nel modo più soffice il totalitarismo orwelliano, dietro l’illusione dell’“era dell’informazione” e del multiculturalismo». S’impone un’unica visione del mondo, e nessuno protesta: «Figure capaci di esprimere efficacemente un’alternativa radicale» mancano del tutto, oppure «sono sommerse dal frastuono» del mainstream, rileva John Pilger. A teatro, un’opera profetica come “1984” di Orwell viene liquidata come «un pezzo storico: remoto, innocuo, quasi rassicurante». Dunque, «come se Snowden non avesse rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale, se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”». Mentre le società avanzate vengono de-politicizzate, i cambiamenti sono sottili e spettacolari. «Nei discorsi di tutti i giorni il linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in “1984”».Lessico reinterpretato: la parola “democrazia” è ormai «una figura retorica», la pace è diventata «guerra perpetua», “globale” significa «imperiale». E il concetto di “riforma”, «un tempo foriero di speranze», nella neo-lingua del 2014 «significa aggressione, perfino distruzione», più o meno come “austerità”, che è «l’imposizione del capitalismo estremo ai poveri e il dono del socialismo ai ricchi: un sistema ingegnoso in cui la maggioranza paga il debito dei pochi». Nelle arti, scrive Pilger in un post ripreso da “Controinformazione”, l’ostilità verso la verità politica è un articolo di fede borghese, come dimostra l’“Observer” che se la prende col “periodo rosso” di Picasso. Suona strano, detto da «un giornale che ha promosso il bagno di sangue in Iraq presentandolo come una crociata liberale». Sicché, «l’opposizione di Picasso al fascismo durante tutta la sua vita è una nota a margine, così come il radicalismo di Orwell». Terry Eagleton, già professore di letteratura inglese all’università di Manchester, considerava che «per la prima volta negli ultimi 200 anni non c’è un eminente poeta, drammaturgo o romanziere britannico pronto a mettere in questione le fondamenta del modo di vita occidentale».Nessuna Mary Shelley che parli dei poveri, nessun William Blake che sforni sogni utopici, nessun Byron che condanni la corruzione della classe dominante, né un Thomas Carlyle o un John Ruskin che rivelino «il disastro morale del capitalismo». William Morris, Oscar Wilde e George Bernard Shaw «non hanno equivalenti al giorno d’oggi». Per Pilger, Harold Pinter fu l’ultimo a far sentire la sua voce. Non c’è più nessuna Virginia Woolf, che descrisse «l’arte di dominare altre persone, di governare, uccidere, acquisire terre e capitali». Sempre a teatro, lo spettacolo “Gran Bretagna” fa satira sullo scandalo delle intercettazioni telefoniche che ha visto alcuni giornalisti processati e condannati, compreso un ex redattore di “News of the World” di Rupert Murdoch. Descritto come «una farsa mordente che inchioda l’intera cultura dei media incestuosi e la ridicolizza senza pietà», ha come bersagli i «beatamente divertenti» personaggi della stampa scandalistica britannica. Ok, ma che dire dei media non scandalistici, «che si considerano rispettabili e credibili e invece svolgono il ruolo parallelo di braccio dello Stato e del potere aziendale, come nella promozione di guerre illegali?».L’inchiesta sulle intercettazioni telefoniche ha fornito uno scorcio su questo argomento tabù: Tony Blair si stava lamentando delle molestie dei tabloid su sua moglie, quando il regista David Lawley-Wakelin chiese che lo stesso Blair fosse arrestato e perseguito per crimini di guerra. «Ci fu una lunga pausa: lo shock della verità». Secondo copione, fu ordinato di cacciare «colui che diceva la verità», con mille scuse al «criminale di guerra». I complici di lunga data di Blair sono più rispettabili di chi intercetta le telefonate, scrive Pilger. Quando la presentatrice artistica della Bbc, Kirsty Wark, lo intervistò riguardo al decennale della sua invasione dell’Iraq, gli regalò un momento che poteva solo sognare: gli permise di angosciarsi della sua «difficile» decisione presa sull’Iraq, «anziché chiamarlo a rispondere del suo crimine epico». Nel nel 2003, la Bbc dichiarò che Blair poteva sentirsi «discolpato», e programmò l’influente serie televisiva “Gli anni di Blair”, per la quale David Aaronovitch fu scelto come scrittore, presentatore e intervistatore. «Quale valletto di Murdoch che aveva promosso gli attacchi militari in Iraq, Libia e Siria, Aaronovitch adulò da esperto». L’accusatore del Processo di Norimberga, Robert Jackson, definì l’invasione dell’Iraq «il crimine internazionale supremo»? Niente paura: «A Blair e al suo portavoce e complice principale, Alastair Campbell, è stato concesso ampio spazio sul “Guardian” per riabilitare la loro reputazione», anche se Blair manovra tuttora in Medio Oriente e lo stesso Campbell è consulente della dittatura militare egiziana.Mentre l’Iraq viene smembrato in conseguenza dell’invasione di Blair e Bush, il “Guardian” titola: “Rovesciare Saddam era giusto, ma ce ne siamo andati troppo presto”. Autore del pezzo: un ex funzionario di Blair, John McTernan, che aveva lavorato anche per il dittatore Iyad Allawi, installato dalla Cia. «Invocando una seconda invasione del paese che il suo ex padrone aveva contribuito a distruggere, non menzionava la morte di almeno 700.000 persone, la fuga di 4 milioni di rifugiati e i conflitti settari in una nazione un tempo fiera della sua tolleranza comunitaria». Per “bilanciare” politicamente il profilo del “Guardian”, Seumas Milne scrisse: «Blair rappresenta la corruzione e la guerra». Peccato che il giorno successivo lo stesso giornale abbia pubblicato a tutta pagina un maxi-annuncio sul caccia stealth F-35, prodotto dalla Lockeed Martin – la stessa azienda, ricorda Pilger, che fabbrica le bombe “di precisione” da 250 chili sganciate sulla popolazione civile in Afghanistan.A un’altra star del mainstream politico, Hillary Clinton, aspirante presidente degli Stati Uniti, il programma “Women’s Hour” della Bbc ha concesso di presentarsi come «un’icona di successo femminile», evitando accuratamente di interrogarla sulla «campagna di terrore della sua amministrazione che usava droni per uccidere donne, uomini e bambini». In effetti, ironizza Pilger, la conduttrice Jenni Murray una «domanda scottante» l’ha posta: la Clinton aveva perdonato Monica Lewinsky per aver avuto una storia con suo marito? Proprio lui, Bill Clinton, che all’epoca del sexgate «stava invadendo Haiti e bombardando i Balcani, l’Africa e l’Iraq». Per inciso, «stava anche distruggendo le vite di bambini iracheni: l’Unicef riportò la morte di mezzo milione di bimbi iracheni al di sotto dei 5 anni, in conseguenza di un embargo guidato da Usa e Gran Bretagna». Tutto normale: «I bambini per i media non erano persone, così come le vittime di Hillary Clinton nelle invasioni che ha supportato e promosso: Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia».In politica, così come nel giornalismo e nelle arti, sembra che il dissenso un tempo tollerato nei media “mainstream” sia regredito a dissidenza, osserva Pilger: negli anni ‘60, era perfettamente accettabile criticare il potere occidentale. Basta leggere i celebri resoconti di James Cameron sull’esplosione della bomba H nell’atollo di Bikini, la guerra barbarica in Corea e il bombardamento americano del Vietnam del Nord. «La grandiosa illusione di oggi è di essere in un’era dell’informazione mentre, in verità, viviamo in un’era dei media in cui l’incessante propaganda delle multinazionali mediatiche è insidiosa, contagiosa, efficace e liberal». Nel suo saggio del 1859, “Sulla libertà”, a cui i moderni liberali porgono omaggio, John Stuart Mill scrisse: «Il dispotismo è una forma di governo legittima nel trattare con i barbari, purché il fine sia il loro miglioramento e i mezzi siano giustificati dall’effettivo ottenere quel fine».I “barbari” erano vaste porzioni di umanità da cui era richiesta “obbedienza implicita”. «E’ un mito simpatico e conveniente che i liberali siano pacifisti e i conservatori guerrafondai», scrisse lo storico Hywel Williams nel 2001. Forse aveva in mente un discorso di Blair in cui l’allora primo ministro prometteva di «riordinare il mondo intorno a noi» secondo i suoi «valori morali». Richard Falk, rispettata autorità in campo di diritto internazionale e inviato speciale Onu in Palestina, una volta ha parlato di «uno scudo legale-morale autoreferenziale e unilaterale, con immagini positive di valori occidentali e di innocenza presentata in pericolo, che giustifica una campagna di sfrenata violenza politica, così largamente accettata da essere praticamente incontrastabile». Su Bbc Radio 4, Razia Iqbal ha intervistato Toni Morrison, la premio Nobel afro-americana: la Morrison si chiedeva come mai la gente fosse «così arrabbiata» con Barack Obama, che era «figo» e desiderava costruire «una forte economia e sanità». Aggiunge Pilger: «La Morrison era fiera di aver parlato al telefono con il suo eroe, che aveva letto uno dei suoi libri e l’aveva invitata alla sua inaugurazione».Né lei né la sua intervistatrice, scrive Pilger, hanno menzionato le 7 guerre di Obama, compresa la sua campagna del terrore con i droni, nella quale sono state assassinate intere famiglie, i loro soccorritori e chi li piangeva. «Quello che sembrava importare era che una uomo di colore “che parlava in modo raffinato” fosse salito ai livelli massimi di potere». In “The Wretched of the Earth” (Gli abietti della Terra) Frantz Fanon scrisse che la «missione storica» dei colonizzati era di fungere da «cinghia di trasmissione» per coloro che governavano e opprimevano. «Ai nostri giorni – aggiunge Pilger – l’impiego delle differenze etniche nei sistemi di potere e propaganda occidentali è visto come essenziale. Obama ne è l’epitomo, sebbene il gabinetto di George W. Bush – la sua banda di guerrafondai – fosse il più multirazziale nella storia presidenziale». Ieri, mentre la città irachena di Mosul veniva presa dai jihadisti dell’Isis, Obama ha affermato: «Il popolo americano ha fatto investimenti e sacrifici enormi per dare agli iracheni l’opportunità di forgiare un destino migliore».Quanto è “figa” questa bugia? E com’era “raffinato” il discorso di Obama all’accademia militare di West Point il 28 maggio sullo «stato del mondo», indirizzato a quanti «assumeranno la leadership americana» in tutto il pianeta. «Gli Stati Uniti – ha detto Obama – useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, quando lo richiedono i nostri interessi cruciali. L’opinione internazionale ha importanza, ma l’America non chiederà mai il permesso». Ripudiando il diritto internazionale e i quelli delle nazioni, il presidente americano si presenta come una divinità basata sulla superpotenza della sua nazione. Inequivocabile: «E’ un messaggio famigliare di impunità imperiale». Evocando l’ascesa del fascismo negli anni ‘30, Obama ha aggiunto: «Credo nell’eccezionalismo americano con ogni fibra del mio essere». Lo rimbecca lo storico Norman Pollack: «A chi faceva il passo dell’oca sostituiamo l’apparentemente più innocua militarizzazione della cultura totale. E al posto del leader magniloquente abbiamo il riformatore mancato, allegramente al lavoro, che pianifica ed esegue assassinii mentre sorride tutto il tempo».A febbraio, gli Usa hanno montato uno dei loro golpe “colorati” in Ucraina, con la regia di Victoria Nuland, consigliera alla sicurezza nazionale di Obama, seguita dal vicepresidente Joe Biden e dal direttore della Cia John Brennan, giunti a Kiev per pilotare «le truppe d’assalto per il loro putsch», ovvero «fascisti ucraini». Così, «per la prima volta dal 1945, un partito neonazista apertamente antisemita controlla aree-chiave del potere statale in una capitale europea», senza che nessun leader occidentale abbia aperto bocca. «Dal collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno circondato la Russia con basi militari, bombardieri nucleari e missili come parte del loro progetto di allargamento della Nato». Rinnegando una promessa fatta a Gorbaciov nel 1990, secondo cui la Nato non si sarebbe espansa «un centimetro ad est», di fatto la Nato ha occupato militarmente l’Europa orientale, costituendo – a partire dal Caucaso – «il più grande accumulo militare dalla seconda guerra mondiale». Nel mirino l’adesione di Kiev, e sullo sfondo due operazioni, “Tridente rapido”, con truppe americane e britanniche sul confine russo dell’Ucraina, e “Brezza di mare”, con navi da guerra statunitensi a distanza di avvistamento dai porti russi. «Immaginate la reazione se questi atti di provocazione, o intimidazione, venissero compiuti ai confini americani?».Nel reclamare la russa Crimea, “regalata” all’Ucraina da Nikita Krushev nel 1954 – Mosca si è semplicemente difesa, come sempre: più del 90% della popolazione ha votato per tornare con la Russia, inoltre la Crimea è sede della flotta del Mar Nero, vitale per la marina russa. Putin ha spiazzato «i partiti guerrafondai a Washington e Kiev» esortando i russi di Ucraina ad abbandonare il separatismo? «In modo orwelliano, in Occidente ciò è stato invertito nella “minaccia russa”», e Hillary Clinton «ha paragonato Putin a Hitler». Altro problema: «Senza ironia, commentatori della destra tedesca hanno fatto altrettanto». Peggio ancora: «Nei media, i neonazisti ucraini vengono definiti eufemisticamente “nazionalisti” o “ultra-nazionalisti”». Quello che temono, continua Pilger, è che Putin stia abilmente cercando una soluzione diplomatica, che potrebbe avere successo. Il presidente russo ha chiesto al Parlamento di togliergli i poteri speciali di intervento in Ucraina? Puntuale l’ultimatum di John Kerry: la Russia doveva «agire entro le prossime ore, letteralmente» per far terminare la rivolta nell’est dell’Ucraina.«Nonostante Kerry sia ampiamente riconosciuto come un pagliaccio – sostiene Pilger – il vero scopo di questi “avvertimenti” è di attribuire alla Russia lo stato di paria e di sopprimere le notizie sulla guerra del regime di Kiev al proprio popolo». Un terzo della popolazione dell’Ucraina è russofona e bilingue. «Da tempo desiderano una federazione democratica che rifletta la diversità etnica ucraina e sia autonoma e indipendente da Mosca. La maggior parte non è né “separatista” né “ribelle”, ma composta da cittadini che vogliono vivere in sicurezza nella loro patria». Il separatismo? «E’ una reazione agli attacchi della giunta di Kiev contro di loro, che hanno causato la fuga di 110.000 rifugiati (stima Onu) verso la Russia. Generalmente, donne e bambini traumatizzati. Come i bambini iracheni vittime dell’embargo, e le donne e ragazze “liberate” dell’Afghanistan, terrorizzate dai signori della guerra della Cia, queste popolazioni dell’Ucraina per i media occidentali non sono persone: la loro sofferenza e le atrocità commesse contro di loro vengono minimizzate o taciute».I media mainstream occidentali non fanno percepire la dimensione della tragedia. L’ultimo libro di Phillip Knightley, “La prima vittima: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e creatore di miti”, ricorda la figura di Morgan Philips Price del “Manchester Guardian”, «l’unico reporter occidentale a restare in Russia durante la rivoluzione del 1917 e a riportare la verità di una disastrosa invasione degli alleati occidentali». Imparziale e coraggioso, Price «da solo disturbò quello che Knightley chiama un “oscuro silenzio” anti-russo in Occidente». I russi restano carne da macello: come i 41 manifestanti bruciati vivi a Odessa nella sede dei sindacati, mentre la polizia ucraina stava a guardare. Il leader di “Settore Destro”, Dmytro Yarosh, salutò il massacro come «un altro giorno luminoso nella nostra storia nazionale». Ma nei media americani e britannici, l’eccidio venne riportato come «una tragedia opaca», conseguenza di «scontri» tra «nazionalisti» (neonazisti) e «separatisti», cioè le persone che raccoglievano le firme per il referendum sull’Ucraina federale.Il “New York Times” lo seppellì, liquidando come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi agenti di Washington, mentre il “Wall Street Journal” condannò le vittime: “Mortale incendio ucraino probabilmente innescato dai ribelli, dice il governo”. E Obama si congratulò con la giunta golpista di Kiev – i carnefici – per la «moderazione» dimostrata. Il 28 giugno, il “Guardian” dedicò quasi una pagina alle dichiarazioni del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Poroshenko. «Di nuovo venne applicata la regola dell’inversione orwelliana». Non c’era alcun colpo di Stato, nessuna guerra contro la minoranza ucraina, la colpa di tutto era dei russi. «Vogliamo modernizzare il mio paese», disse Poroshenko. «Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno non piaciamo per questo». Non una parola, dal reporter del “Guardian”, Luke Harding, sulla strage di Odessa, i bombardamenti sui quartieri, l’uccisione e il rapimento di giornalisti, l’incendio di un giornale di opposizione e la minaccia di Poroshenko di «liberare l’Ucraina dalla feccia e dai parassiti».Il nemico sono i «ribelli», i «militanti», gli «insorti», i «terroristi» e gli agenti del Cremlino. «Ripensate ai fantasmi del Vietnam, del Cile, di Timor Est, dell’Africa meridionale, dell’Iraq: notate le stesse etichette», avverte Pilger. «La Palestina è la calamita di questo immutevole inganno. L’11 luglio, in seguito all’ultimo massacro israeliano a Gaza – 80 persone, compresi 6 bambini in una famiglia – equipaggiato dagli americani, un generale israeliano scrive sul “Guardian”, titolando: “Una necessaria dimostrazione di forza”». Negli anni ‘70 Pilger incontrò Leni Riefenstahl, l’autrice dei film di propaganda che glorificavano il nazismo: usando «in modo rivoluzionario» la cinepresa e le tecniche di illuminazione, la Riefenstahl aveva prodotto «una forma di documentario che aveva ipnotizzato i tedeschi». Un “trionfo della volontà” che ha presumibilmente agevolato il maleficio di Hitler. Domanda: come funziona la propaganda nelle società che si ritengono “superiori”? La replica: i «messaggi» nei suoi film non dipendevano da «ordini dall’alto», ma dal «vuoto sottomesso» della popolazione tedesca. Compresa la borghesia liberale e istruita?, Ma certo: «Chiunque, e naturalmente anche gli intellettuali».Geopolitica, massacri e guerre promosse dall’Occidente? «Si è realizzato nel modo più soffice il totalitarismo orwelliano, dietro l’illusione dell’“era dell’informazione” e del multiculturalismo». S’impone un’unica visione del mondo, e nessuno protesta: «Figure capaci di esprimere efficacemente un’alternativa radicale» mancano del tutto, oppure «sono sommerse dal frastuono» del mainstream, rileva John Pilger. A teatro, un’opera profetica come “1984” di Orwell viene liquidata come «un pezzo storico: remoto, innocuo, quasi rassicurante». Dunque, «come se Snowden non avesse rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale, se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”». Mentre le società avanzate vengono de-politicizzate, i cambiamenti sono sottili e spettacolari. «Nei discorsi di tutti i giorni il linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in “1984”».