Archivio del Tag ‘eredità’
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Pass vaccinale e coprifuoco: la farsa Covid nell’era Draghi
Siamo seri: per quale motivo sarebbe pericoloso circolare, la sera, dopo il tramonto? E per quale ragione vincolare i movimenti delle persone al possesso di un pass sanitario che attesti l’esito di un tampone rinofaringeo (strumento ritenuto fallace anche al 90%) o l’avvenuta somministrazione di uno pseudo-vaccino Covid, che come sappiamo mantiene inalterata la contagiosità del soggetto, oltre a garantirgli una protezione immunologica solo teorica e probabilmente non superiore al 30% dei vaccinati? In che razza di follia collettiva siamo finiti, tutti quanti, se anche il governo Draghi (con incorporata Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale) prospetta l’introduzione di misure che calpestano il dettato costituzionale, cancellando le libertà fondamentali e gli stessi diritti umani? E come non condividere lo sgomento di Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia, di fronte all’inaudita remissività degli italiani, pronti a subire senza fiatare, in tempo di pace, persino una misura di guerra come il coprifuoco?Punto particolarmente dolente: proprio la sottomissione di milioni di cittadini, totalmente passivi, rende possibile ogni virtuale abuso. Chi tace, di fronte alle peggiori imposizioni, compie un atto ostile nei confronti dei concittadini che, invece, ai soprusi si ribellano. Restano in minoranza, grazie al conformismo colposo della maggioranza ignorante, ipocrita, impaurita e sottomessa. All’insipienza si può sempre rimediare, informandosi; l’ignoranza è invece una colpa: chi non vuole sapere, o pensa di sapere tutto (che poi è la stessa cosa) danneggia in modo indiretto chi invece si informa, si documenta, e quindi tende a non rinunciare ai propri diritti democratici, compreso quello – sancito dal Codice di Norimberga – che tutela la libertà di avvalersi o meno di trattamenti sanitari solo sperimentali, non sufficientemente testati, quali sono appunto i “preparati genici” impropriamente ribattezzati “vaccini Covid”, fabbricati in pochi mesi con tecnologie avveniristiche, ma i cui effetti a medio termine – per ammissione delle stesse case farmaceutiche – non sono ancora noti.La sensazione è che si vadano stringendo le maglie di un lager collettivo sempre meno invisibile, fondato su dinamiche coercitive non democratiche, calate dall’alto e giustificate da una serie di notizie palesemente false. La prima: il Covid sarebbe una malattia sostanzialmente incurabile, e solo prevenibile attraverso il vaccino. La seconda: il distanziamento sociale sarebbe l’altra arma di cui disponiamo, per spegnere l’epidemia. Autorevolissimi esperti, tra cui Premi Nobel, sostengono l’esatto contrario. Ovvero: il Covid è pericoloso solo per alcuni soggetti, per lo più anziani e già malati, ma in ogni caso è perfettamente curabile da casa, se affrontato per tempo e con i farmaci giusti, come ormai dimostrano centinaia di medici, anche italiani, sulla scorta di migliaia e migliaia di guarigioni ottenute. E inoltre: il distanziamento serve solo ad allungare la vita a un virus che, se invece fosse lasciato “correre”, si trasformerebbe in un semplice raffreddore. I primi a dirlo – inascoltati – furono i luminari che un anno fa sottoscrissero la Dichiarazione di Great Barrington (tra i maggiori epidemiologi al mondo: quelli che debellarono l’Ebola).Noncuranti di tutto ciò, i governi occidentali – Stati Uniti, Europa, Italia – continuano imperterriti a vivere nella menzogna, lasciando che i cittadini convivano con il terrore: ripetono che il Covid è incurabile se non all’ospedale, dove spesso si giunge quando ormai è troppo tardi. Ribadiscono che se ne uscirà solo con i “vaccini” sperimentali (di dubbia efficacia, e di ancor più dubbia innocuità). E infine insistono – in modo pericoloso – con il delirio del distanziamento, pratica dimostratasi inutile (oltre centomila morti, solo in Italia) e dannosa, sia per l’economia (crollo del Pil) che per la sanità. La gestione mainstream dell’emergenza ha “tenuto vivo” il coronavirus, proprio limitando i contagi; e ora, sono i “vaccini” a rafforzarlo ulteriormente, inducendolo a sviluppare continue varianti. Senza contare i devastanti danni collaterali: la strage silenziosa causata dalle cure negate per le altre malattie, e il disastro psicologico che si è trasformato in patologia per milioni di persone, spaventate e disoccupate, costrette a restare in casa per mesi.E in questo delirio di bugie di Stato, inaugurato in modo storicamente imperdonabile da Giuseppe Conte, mai eletto da nessuno ma in compenso supportato dai 5 Stelle, dal Pd e da Leu, ora ci si mette anche il governo Draghi con la pazzia del prolungamento del coprifuoco alle porte dell’estate, le riaperture dei ristoranti “solo all’aperto” e, dulcis in fundo, il possibile pass vaccinale per transitare da una regione all’altra, se di diverso “colore” (dettaglio che lascia intuire, quindi, l’orientamento sciagurato a mantenere in piedi la farsa dittatoriale delle Regioni “colorate”, nemmeno fossimo in Corea del Nord). Si può comprendere che il governo Draghi non potesse operare una discontinuità netta e drastica, rispetto alla pesantissima eredità dell’esecutivo “cinese” di Conte. Era però lecito aspettarsi un allentamento ben più serio delle restrizioni, una tragica pagliacciata finora sorretta dal circo mediatico, che appare evidentemente a libro paga dei governi, oltre che dei potentissimi inserzionisti pubblicitari di Big Pharma.Se si propende per la buona fede di Mario Draghi, considerandolo in campo per rimediare ai disastri di Conte, ovvero dell’oligarchia mondialista neoliberale in salsa cinese, la sua imbarazzante timidezza rispetto alle riaperture non può che suonare inquietante: significa che persino Draghi, pur volendo riaprire l’Italia, in realtà non può ancora farlo. Il potere che ha imposto la logica suicida dei lockdown è ancora così schiacciante, a quanto pare, da pretendere che si mantenga in vita la grande farsa della narrazione Covid, inclusa la barzelletta dei “vaccini” come unica possibile via d’uscita. In realtà, prende forma quella che sembra essere una trappola, a carattere permanente, se è vero che gli inoculi “genici” dovranno essere ripetuti all’infinito, somministrati ogni anno o addirittura ogni sei mesi, rendendo eterno il business dei signori del coronavirus. Se poi addirittura questi Tso (illegittimi, come lo stesso coprifuoco) venissero davvero imposti come precondizione per poter tornare a circolare liberamente, saremmo di fronte alla morte clinica e definitiva della democrazia, per come l’abbiamo conosciuta.Siamo seri: per quale motivo sarebbe pericoloso circolare, la sera, dopo il tramonto? E per quale ragione vincolare i movimenti delle persone al possesso di un pass sanitario che attesti l’esito di un tampone rinofaringeo (strumento ritenuto fallace anche al 90%) o l’avvenuta somministrazione di uno pseudo-vaccino Covid, che come sappiamo mantiene inalterata la contagiosità del soggetto, oltre a garantirgli una protezione immunologica solo teorica e probabilmente non superiore al 30% dei vaccinati? In che razza di follia collettiva siamo finiti, tutti quanti, se anche il governo Draghi (con incorporata Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale) prospetta l’introduzione di misure che calpestano il dettato costituzionale, cancellando le libertà fondamentali e gli stessi diritti umani? E come non condividere lo sgomento di Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia, di fronte all’inaudita remissività degli italiani, pronti a subire senza fiatare, in tempo di pace, persino una misura di guerra come il coprifuoco?
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Biglino: la Chiesa non ci imponga le sue idee sull’eutanasia
L’Obolo di San Pietro, al centro dell’ennesimo scandalo vaticano finito sui giornali? Esisteva già al tempo degli Atti degli Apostoli: era una donazione obbligatoria, che poteva costare la vita ai trasgressori. Lo rammenta il biblista Mauro Biglino, citando l’uccisione dei discepoli Anania e Saffira, giustiziati proprio da San Pietro (come ricordato dallo stesso Bergoglio) per aver sottratto ai “gesuani” una parte del ricavato della vendita di un terreno di famiglia. Biglino ne prende spunto per commentare il Bollettino Stampa della Santa Sede, numero 476 del 22 settembre 2020, in cui il Vaticano riprende il tema dell’eutanasia. «Liberissimi di pensarla come vogliono, purché non pretendano di imporre il loro credo allo Stato laico, trasformandolo in legge, contro la libertà e i diritti di non la pensa come loro: non solo atei e agnostici, ma anche valdesi, anglicani, buddisti e induisti». Biglino è autore del saggio “La Bibbia non l’ha mai detto” (Mondadori), scritto con la professoressa Lorena Forni, giurista e docente dell’università Milano Bicocca: molte leggi dello Stato traggono ispirazione proprio dalla Bibbia, o meglio da traduzioni erronee dell’Antico Testamento. Nel suo ultimo intervento (di seguito, proposto testualmente), Biglino cita i tantissimi passaggi veterotestamentari da cui risulta proibitivo ricavare l’idea che, per gli autori biblici, la vita fosse un “dono di Dio”, vista l’enorme quantità di stragi e massacri ordinati dallo stesso Yahwè.Oggi devo iniziare chiedendovi il permesso di apportare una piccola variazione ad un proverbio famosissimo, che è quello che dice “il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Ecco, mi viene da dire che talvolta “il lupo non perde né il pelo né il vizio”. E ve lo dico adesso, all’inizio; poi vedremo, in un racconto che vi leggerò dal Nuovo Testamento alla fine di questa chiacchierata, come le cose siano collegate. In questi giorni siamo tutti a conoscenza degli ennesimi scandali che colpiscono, che interessano le finanze del Vaticano, compreso l’Obolo di San Pietro, cioè quella raccolta di denaro che i fedeli conferiscono al Vaticano e che deve (dovrebbe) essere impiegato per aiutare i bisognosi e in parte, al Vaticano che deve essere, dovrebbe essere, impiegato per aiutare i bisognosi. Quello che mi interessa è riprendere ciò che la Chiesa ha pubblicato pochissimi giorni fa nel Bollettino Stampa della Santa Sede, il numero 476 del 22 settembre, dove il Vaticano riprende il tema dell’eutanasia. Il Bollettino è intitolato “Lettera Samaritanus bonus”, e la Chiesa entra nuovamente nel tema dell’assistenza al “fine vita”, ovviamente ivi compresa l’eutanasia.Vi entra però, a mio avviso, a gamba tesa: cioè vi entra con un tono, con una ferocia, con una perentorietà, alle volte mi sembra quasi con un’arroganza che non sono assolutamente giustificabili: non perché la Chiesa non abbia la libertà di esprimere (è un suo diritto) ciò che pensa dell’eutanasia e delle modalità per l’assistenza al “fine vita”, ma per il fatto che il Vaticano si pone come il detentore primo e ultimo di una verità assoluta e non discutibile, arrivando al punto da definire l’eutanasia un crimine: il che significa definire criminali quelli che eventualmente la praticano. Ora, a definire crimine o criminali può essere, in uno Stato laico, la legge – cioè la cosiddetta legge positiva, quella che viene scritta, concordata e accettata, e che da quel momento diventa vigente (e nessun pensiero religioso, nei tempi moderni, può pensare di – o addirittura voler – condizionare la giurisprudenza di uno Stato laico: questo vigeva nei tempi biblici, nel momento in cui non c’era distinzione tra Stato laico e stato religioso; le leggi che sono state pronunciate, i regolamenti che sono stati pronunciati da Yahweh regolamentavano tutta la vita del singolo, quindi non c’era una distinzione tra chi seguiva una corrente religiosa e chi non la seguiva. Quelle erano le leggi e quelle andavano andavano seguite.Ora, io capisco che la Chiesa sia entrata nuovamente in questo tema perché, dopo la vicenda del dj Fabo (accompagnato in Svizzera per avere l’eutanasia), la Corte Costituzionale italiana si è pronunciata e ha sancito la legittimità di quel comportamento, dicendo che tutta una serie di considerazioni possono già essere tratte dalla Costituzione così com’è e dalla giurisprudenza. Ora, è chiaro che questo prelude prima o poi alla formulazione di una legge che lasci quantomeno libertà di scelta, perché non si può accettare che, in uno Stato laico ovviamente, una confessione religiosa imponga la sua morale. E dico una confessione religiosa perché, se la Chiesa cattolica romana si pone contro l’eutanasia, dobbiamo pensare ad esempio che il Sinodo Valdese si è pronunciato a favore della pratica dell’eutanasia. Cosa dobbiamo dire? Che i teologi valdesi che si rifanno allo stesso libro a cui si rifanno i teologi cattolici sono dei religiosi, dei teologi, dei pensatori di seconda categoria? Sono degli amorali o, peggio ancora, sono degli immorali? O, nel momento in cui questo diventasse legge e la praticassero, sarebbero di fatto dei criminali, perché l’eutanasia per la Chiesa cattolica è un crimine? Assolutamente no! Cosa pensiamo delle altre religioni? Per esempio c’è una delle varie pratiche buddiste che accetta il suicidio; così vale per il Giainismo; l’Induismo lascia libertà di coscienza; nella Chiesa anglicana c’è una discussione in atto…Insomma, voglio dire: il pensiero della Chiesa Romana non è il pensiero unico, e non può e non deve essere presentato come pensiero unico; ma soprattutto non deve essere accettato come pensiero unico da uno Stato laico che deve ascoltare tutti, tutti: deve ascoltare gli atei, gli agnostici, e deve ascoltare anche tutte le altre confessioni religiose che, come abbiamo visto per i valdesi, pur partendo dagli stessi libri, pur rifacendosi allo stesso Dio, hanno un pensiero diverso. Quindi, questo è assolutamente importante. E adesso vediamo alcune cose che sono scritte in questo Bollettino: una, per esempio, nel capitolo “Prendersi cura del prossimo”, si dice che non si può praticare l’eutanasia perché «nella sofferenza è contenuta la grandezza di uno specifico mistero che soltanto la rivelazione di Dio può svelare». Bene, questo è il pensiero della Chiesa. Benissimo, direi: nulla da dire, fino a che non si ha la pretesa di farlo diventare il pensiero unico. Perché ad esempio c’erano (ci sono) i pensatori che si rifanno allo stoicismo, che hanno un pensiero completamente diverso: «Bene è ciò che segue il corso della natura e il male consiste nell’andare contro tale corso naturale».Visto che la Chiesa fa appello al diritto naturale, che ovviamente lei fa risalire a Dio (cioè al Dio Padre dell’Antico Testamento) – ma il diritto naturale lo citava anche Aristotele, quando diceva che la schiavitù era un fatto naturale – anche qui ci sarebbe quindi molto da discutere. Cioè: il diritto naturale ha delle interpretazioni che per certi aspetti lo relativizzano. E gli stoici sostengono che il suicidio «non sia in certe circostanze una forzatura del corso degli eventi, quanto piuttosto il contrario». Il suicidio stoico è considerato un atto di estrema libertà individuale, come il compimento di quel cammino di ogni uomo verso il perfezionamento e la completa realizzazione; ciò che la Chiesa invece vede nell’applicazione della sua morale indirizzata da quel suo Dio che – e qui lo dico e lo ripeto – nell’Antico Testamento non c’è. Quindi è una morale che e stata elaborata da teologi: pensiamo a Sant’Agostino, che distingueva tra persecuzione giusta e persecuzione ingiusta. La persecuzione giusta era quella della Chiesa perché era fatta in nome dell’amore (cioè: si poteva uccidere in nome dell’amore). Ma la Chiesa dice che la vita è un dono di Dio. Però la cosa strana è che dice che questo dono è indisponibile all’uomo. Ma allora, che dono è?Se io vi regalo un libro e vi dico: questo libro è vostro – però attenzione: lo dovete leggere, non lo dovete sgualcire, non lo potete prestare, non lo potete regalare, lo dovete mettere in una precisa posizione nella vostra libreria – questo è un dono o una imposizione? Un dono diventa nella disponibilità di chi l’ha ricevuto. Invece il Vaticano dice che la vita è un dono indisponibile. Ora, se i cristiani per fede vogliono accettare questo, sono liberissimi di farlo; ma non possono pretendere di imporre questa loro visione agli altri, perché altri – che non hanno quella fede – devono essere liberi di non ritenere la vita un dono di Dio, e quindi di farne ciò che vogliono. La Chiesa cita, sempre dentro questo Bollettino 476, Matteo 7, 12 che dice: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». Ma se noi portiamo alle estreme conseguenze questa affermazione, allora cosa dobbiamo dire? Io ad esempio ho firmato un documento nel quale descrivo tutta una serie di condizioni all’interno delle quali io non voglio continuare a vivere perché non è più vita. Be’, siccome io voglio che gli altri facciano a me questo, stando a quanto c’è scritto in Matteo 7, 12, io dovrei farlo gli altri. Ma non mi sogno di farlo, perché ritengo che gli altri siano liberi di decidere di continuare a vivere qualunque siano le condizioni nelle quali si trovano a continuare a vivere.Sono due cose diverse, due cose assolutamente diverse. E questo vale per molte religioni: l’Induismo per esempio che lascia libertà di coscienza, il Buddismo l’ho detto prima… il Dalai Lama che in un’intervista ha detto che vale (cioè che è necessario) valutare caso per caso. Quindi vuol dire che ci sono scelte diverse, possibilità di scelte diverse: dunque il dono non può essere un’imposizione. Questo principio del fare agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi non può essere esteso: perché, se portato alle estreme conseguenze, crea l’anarchia, ovviamente (perché già una persona credente non vuole l’eutanasia, io la voglio e quindi chi dei due ha ragione? Nessuno dei due. Quindi bisogna lasciare libertà di scelta). La Chiesa dice anche che «l’annuncio della vita dopo la morte non è un’illusione o una consolazione ma una certezza che sta al centro dell’amore». Questo è scritto nel Bollettino che vi ho citato; ma la Chiesa dimentica ciò che scrive la Nuova Enciclopedia Cattolica nella edizione americana, la quale afferma che «parlando della resurrezione di Cristo», che è garanzia della resurrezione della vita dopo la morte per tutti, afferma che «l’ipotesi è di per sé storicamente indimostrabile perché il solo contesto, cioè la crocifissione di Gesù per motivi di sedizione, è oggetto di valutazione storica. I racconti della resurrezione non contengono quindi elementi che possano essere oggetto di una ricerca storica in quanto si tratta di dichiarazioni teologiche».Benissimo, dichiarazioni teologiche che valgono per chi crede in quella teologia, ma che non possono essere imposte a tutti, tanto meno possono essere imposte a tutti in uno Stato laico che deve necessariamente ascoltare tutti e lasciare libertà di scelta, perché una morale può essere diversa da un’altra e non necessariamente superiore. Ricordo che, partendo dallo stesso libro, cattolici romani e valdesi la pensano diversamente: eppure il libro è lo stesso. Vediamo un attimo questo libro perché, quando si dice che la vita è un dono di Dio e in quanto tale non è nella disponibilità dell’uomo, mi pare, anzi sono certo, che il Vaticano dimentica centinaia di passaggi anticotestamentari: ve ne leggo pochissimi. In Giosuè 10, 40 si fa una sorta di verbale delle battaglie che Giosuè, il successore di Mosè, ha combattuto per conquistare la cosiddetta Terra Promessa, che era un dono di Dio. E qui si dice chiaramente, nella sintesi che fa al versetto 40: «Così Giosuè conquistò tutta la regione», e fa l’elenco: «Non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni vivente, come aveva ordinato Yahweh l’Elohim di Israele». Cioè: Giosuè stermina tutti per ordine di Dio, quello stesso Dio che sarebbe garante del diritto naturale e che avrebbe donato la vita come dono indisponibile per l’umanità.Ma qui la Bibbia ci dice chiaramente che quel dono è disponibile, tant’è che lo si può azzerare semplicemente per andarsi a conquistare dei territori, non soltanto con l’approvazione (dietro ordine) di Dio. Ma c’è di peggio: vi leggo un paio di altri passi tra le centinaia disponibili. Sempre nel Libro di Giosuè, quando si parla della spartizione dei territori tra le varie tribù d’Israele, si dice che «la porzione dei figli di Dan risultò troppo piccola per loro», e quindi avevano bisogno di un territorio più grande. E allora cosa fanno? Provvede Dio? No! Devono provvedere da soli. E come fanno? Dimenticando che la vita è un dono di Dio e non è disponibile per l’umanità: quindi noi non possiamo fare ciò che vogliamo né della nostra né della vita degli altri. «I Daniti, giunti a Lais, trovarono quel popolo pacifico e che si sentiva sicuro, lo passarono a fil di spada e dietro diedero alle fiamme la città». Cioè, cosa fanno i Daniti? Trovano una città di gente che vive tranquilla, che non fa del male a nessuno, che non ha nessun appoggio perché erano lontani da Sidone, non avevano contatti con Amman (quindi non potevano ricevere aiuto o rinforzi) e i seguaci di quel Dio che fa il dono indisponibile della vita cosa fanno? Li massacrano.Li massacrano, per prendere quel territorio che serviva loro perché, come è scritto sempre nel Libro dei Giudici al capitolo 18, «a quella terra non mancava nulla anzi era molto ricca». Era molto ricca, e quindi i Daniti se la prendono. Ma siccome per sfortuna loro ci vivevano degli altri, loro li uccidono. Ora, come si fa a dire che questo Dio ci ha dato questa vita come dono indisponibile? Sempre nel Bollettino si dice: «L’uomo, in qualunque condizione fisica o psichica si trovi, mantiene la sua dignità originaria di essere creato a immagine di Dio». Nella Bibbia forse se ne sono dimenticati: i seguaci di Yahweh se ne sono sicuramente dimenticati. E Yahweh non glielo ha ricordato, non gli ha mai detto: non uccidete quelli là, perché sono immagine mia. L’uomo, si legge sempre nel Bollettino, «può vivere e crescere nello splendore divino perché è chiamato ad essere “ad immagine e gloria di Dio”», e il testo cita la Prima Lettera ai Corinti, capitolo 11, versetto 7. E andiamo a vedere. Qui San Paolo, sant’uomo, parla di come ci si deve comportare quando si partecipa all’assemblea. E dice che l’uomo non deve coprirsi il capo, mentre la donna sì. E dice: deve coprirsi il capo «a motivo degli angeli», perché – come ho già ricordato – le capigliature lunghe delle ragazze, e soprattutto delle ragazze giovani, eccitavano sessualmente gli angeli: quindi le donne dovevano coprirsi il capo a loro tutela.Ma questo non lo dice soltanto San Paolo; ne parla Tertulliano nei suoi scritti, ne parlano gli scritti di Qumran che dicono appunto: le donne che partecipano all’assemblea abbiano il capo coperto dove sono presenti i Malakim, cioè di angeli: abbiano il capo coperto a loro tutela. Ma torniamo al nostro tema: l’uomo non deve coprirsi il capo essendo “a immagine e gloria di Dio” e quindi, essendo “a gloria di Dio” la Chiesa dice l’uomo non può fare ciò che vuole del suo corpo… La Chiesa si ferma qui, nella citazione del versetto 7, essendo “immagine e gloria di Dio”. Ma il versetto 7 prosegue: «Mentre la donna è gloria dell’uomo». Cioè: la donna non è gloria di Dio. Come la mettiamo? Se portiamo alle estreme conseguenze questo versetto, possiamo dire che l’eutanasia non è praticabile sul maschio, ma la donna può scegliere: perché tanto lei non è gloria di Dio («mentre la donna è gloria dell’uomo poiché non l’uomo deriva dalla donna ma la donna dall’uomo»). Quindi la donna è gloria dell’uomo, non di Dio: e allora come la mettiamo? Perché si cita soltanto una parte del versetto e non l’altra?Insomma, ci sono tutta una serie di cose che ci fanno dire che la Chiesa, come ogni altra confessione religiosa, ha il diritto di esprimersi, e lo Stato laico ha il dovere di ascoltare tutte le forme di pensiero, sia religiose che filosofiche, che quelle della laicità etica o della eticità laica, quella degli agnostici, quella degli atei: deve ascoltare tutti. Invece qui siamo di fronte ad una situazione nella quale qualcuno dice che chi fa quella pratica indipendentemente dalla legge è un criminale. Questo non è accettabile, perché significa entrare prima già in un processo, in un iter legislativo che è comunque difficoltoso, ma che deve essere lasciato al libero pensiero laico di uno Stato laico. Io ho iniziato dicendovi che talvolta il lupo non perde né il pelo né il vizio, e vi ho accennato alle vicende nelle quali è coinvolto anche l’Obolo di San Pietro. Ora, l’Obolo di San Pietro è un qualcosa che è iniziato da subito. Se noi leggiamo gli Atti degli Apostoli, leggiamo che gli appartenenti alla setta dei Gesuani dovevano vendere i loro beni e mettere il denaro i piedi degli apostoli. Di una setta, si trattava: bisogna dirlo con chiarezza. Una setta, cioè un piccolo gruppo di persone che cercavano di diffondere una loro visione di quel Gesù.I Gesuani poi sono ancora un gruppo diverso rispetto ai cristiani, che hanno presentato nel mondo occidentale tutta un’altra visione di Gesù partendo da Paolo (quindi Paolo era in contrasto con i Gesuani). Bene, all’interno dei Gesuani guidati da Pietro, tutti gli appartenenti a quella setta dovevano vendere i loro beni e mettere il denaro ai piedi di Pietro, in particolare; poi gli apostoli avrebbero provveduto alla redistribuzione, ma intanto il discorso era: il denaro lo date a noi, lo gestiamo noi. Ora per fortuna quest’obbligo non c’è più, però comunque la richiesta di avere donazioni per la Chiesa è continua – e donazioni non soltanto delle monetine che si mettono in chiesa alla domenica, ma donazioni e anche elargizioni molto importanti, intere eredità che la Chiesa accumula (e non stiamo a parlare della ricchezza che ha accumulato, perché è nota a tutti). Bene, ma cosa succede? Succede che due persone, marito e moglie, appartenenti a questo gruppo, a questa setta di Gesuani, vendono un loro bene, consegnano quasi tutto il denaro a Pietro e ne trattengono una parte. Tutti noi sappiamo che all’interno delle sette vige – sia in forma strutturata, sia in forma quasi naturale – una sorta di regime poliziesco, per cui c’è chi va a riportare le cose e i capi le vengono sempre a sapere.Pietro, informato del fatto che Anania e Saffira si erano trattenuti una piccola parte del denaro per le loro esigenze personali, convoca Anania e gli dice, in sostanza: ma come mai Satana, cioè l’avversario, ti ha riempito il cuore? Come hai potuto pensare in cuor tuo ad una azione simile? Non hai mentito agli uomini ma a Dio. «All’udire queste parole Anania cadde a terra morto e un grande spavento si impadronì di tutti quelli che ascoltavano. Subito alcuni giovani si mossero per avvolgerlo e portarlo a seppellire». Cosa dobbiamo pensare? Che Anania sia morto di spavento, sia morto d’infarto, sia morto di ictus? la cosa più naturale è che sia stato ucciso da Pietro, anche – leggiamo, andando avanti nel racconto – che «circa tre ore dopo si presentò anche sua moglie ignara dell’accaduto». Pietro, pensate che astuzia – e qui siamo all’interno delle più sofisticate tecniche di indagine poliziesca, che consistono nell’avere informazioni da più parti per trovare conferme facendo in modo che chi ha le informazioni non possa parlarsi, le dice: «Dimmi, è per tal prezzo che avete venduto il campo?». E lei, ignara di ciò che era avvenuto, dice: sì, per tale prezzo. E Pietro le dice: «Ma perché vi siete accordati per tentare lo Spirito? Ecco alla porta i passi di coloro che hanno sepolto tuo marito, porteranno via anche te. Ella gli cade improvvisamente ai piedi morta».«Quei giovani, entrati, la trovarono morta e la portarono a seppellire vicino al marito. Un grande spavento si diffuse per tutta la Chiesa e in quanti ascoltavano queste cose». Cioè, nessuno doveva permettersi di trasgredire alle regole della setta: voi vendete tutto ciò che avete, e il denaro lo portate qui: chi non obbedisce, muore. Ma Pietro non era quello che aveva sentito dire da Gesù “perdonare fino a settanta volte sette”? Se n’erano dimenticati? Pietro si era dimenticato del fatto che la vita è un dono indisponibile di Dio? Uno dirà: va be’, ma questa qui è un’interpretazione di Biglino. Sapete chi ha scritto di questo, dicendo che Pietro li ha uccisi? Ne ha scritto Girolamo, quello che ha tradotto la Bibbia in latino, se non ricordo male nella Lettera 109; poi in una lettera successiva ha cercato di recuperare un po’, dicendo «ma lo ha scritto Porfirio». Bene, possiamo discutere quanto volete. Sentiamo cosa ne dice il Papa, cosa ne ha detto il Papa Francesco. Siamo al 16 ottobre del 2018, nel Bollettino 758 della Santa Sede è riportato l’incontro che Francesco ha avuto con i seminaristi della Lombardia. A un certo punto hanno cominciato a fargli tutta una serie di domande. E un sacerdote gli chiede che cosa pensa degli scandali che stanno travagliando la Chiesa. Eravamo nel 2018: scandali. Ora siamo nell’ ottobre 2020: scandali, per combinazione finanziari, Obolo di San Pietro.Il Papa risponde così: «E’ necessario che ci siano degli scandali, lo dice Gesù stesso: lo scandalo è dall’inizio della Chiesa, pensate ad Anania e Saffira, quei due che volevano truffare la comunità, uno scandalo. Pietro ha risolto in modo chiaro lo scandalo, in quel caso: ha, tra virgolette, tagliato la testa a tutti e due». Lo dice il Papa. Quindi: a partire dall’Obolo di San Pietro, cioè quello che veniva dato a San Pietro allora, fino agli scandali attuali, siamo di fronte a una struttura che ha, lo ripeto, il diritto di esprimere il suo pensiero, anche perché coloro che credono a quella struttura aspettano che quella struttura si esprima, perché spesso purtroppo non hanno voglia di leggere da soli ciò che c’è scritto nella Bibbia, e allora preferiscono farselo raccontare da altri. Benissimo, anche questo è un diritto legittimo, non ci interessa. Quello che però voglio ribadire, sottolineare, è che nessuna struttura può pensare di imporre la sua etica ad uno Stato laico, soprattutto quando quella struttura fa derivare la sua visione etica e morale da dei testi che quella struttura fa derivare da un Dio che quella stessa struttura ha inventato a tavolino: questo è assolutamente inaccettabile.(Mauro Biglino, video-intervento “Vaticano, Bollettino Santa Sede 0476″, pubblicato sul canale YouTube “Il vero Mauro Biglino” il 3 ottobre 2020).L’Obolo di San Pietro, al centro dell’ennesimo scandalo vaticano finito sui giornali? Esisteva già al tempo degli Atti degli Apostoli: era una donazione obbligatoria, che poteva costare la vita ai trasgressori. Lo rammenta il biblista Mauro Biglino, citando l’uccisione dei discepoli Anania e Saffira, giustiziati proprio da San Pietro (come ricordato dallo stesso Bergoglio) per aver sottratto ai “gesuani” una parte del ricavato della vendita di un terreno di famiglia. Biglino ne prende spunto per commentare il Bollettino Stampa della Santa Sede, numero 476 del 22 settembre 2020, in cui il Vaticano riprende il tema dell’eutanasia. «Liberissimi di pensarla come vogliono, purché non pretendano di imporre il loro credo allo Stato laico, trasformandolo in legge, contro la libertà e i diritti di chi non la pensa come loro: non solo atei e agnostici, ma anche valdesi, anglicani, buddisti e induisti». Biglino è autore del saggio “La Bibbia non l’ha mai detto” (Mondadori), scritto con la professoressa Lorena Forni, giurista e docente dell’università Milano Bicocca: molte leggi dello Stato traggono ispirazione proprio dalla Bibbia, o meglio da traduzioni erronee dell’Antico Testamento. Nel suo ultimo intervento (di seguito, proposto testualmente), Biglino cita i tantissimi passaggi veterotestamentari da cui risulta proibitivo ricavare l’idea che, per gli autori biblici, la vita fosse un “dono di Dio”, vista l’enorme quantità di stragi e massacri ordinati dallo stesso Yahwè.
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Suicidio Italia: ebbene Sì, ha vinto il Partito della Catastrofe
Ce l’hanno fatta ancora una volta: loro, i demolitori. Il Movimento 5 Stelle, clamoroso depistaggio politico di massa, è riuscito a convincere gli italiani: “meno è meglio”. Meno democrazia, meno rappresentanza, meno spazi di libertà e dissenso. D’ora in poi, i parlamentari – ridotti di un terzo – saranno ancora più lontani dagli elettori e ancora più legati ai boss di partito. Ovvio, da parte di un movimento-caserma che ha espulso in modo sistematico chiunque osasse esprimere un pensiero diverso: tolleranza zero, per le idee elaborate in autonomia. L’esito del referendum confermativo della peggiore riforma costituzionale della storia repubblicana rappresenta un capolavoro, per un grande statista del calibro di Luigi Di Maio, uomo-simbolo dell’Italia allo sbando che è riuscita a insediare a Palazzo Chigi nientemeno che Giuseppe Conte, l’ometto che ha rinchiuso in casa i cittadini per quasi tre mesi, col pretesto del Covid, affondando l’economia. La grande opera dei rivoluzionari all’amatriciana: mettere la guida del governo nelle mani di un prestanome del potere italico più antico e storicamente meno democratico, quello del Vaticano.Osservatori indipendenti come Paolo Barnard, Alessandro Meluzzi e Federico Dezzani – diversissimi tra loro – l’avevano detto fin dall’inizio: lo psico-movimento creato da Gianroberto Casaleggio insieme ad Enrico Sassoon, esponente di un’importante famiglia legata ai Rothschild già dal Settecento, non era altro che una sorta di “psy-op”, un’operazione illusionistica del grande potere. Obiettivo: intercettare l’esasperazione popolare crescente, deviando il dissenso verso lidi innocui. In altre parole: un colossale equivoco, costruito per ingannare gli elettori. Secondo Dezzani, il Movimento 5 Stelle è stato il continuatore naturale di Antonio Di Pietro (di cui ereditò l’elettorato) e dell’operazione-Tangentopoli, con la quale si rottamò la Prima Repubblica, per via giudiziaria. Fondamentale, Mani Pulite, per permettere ai predatori dell’Italia di allungare le mani sul Belpaese. Evento simbolico di quella stagione: il party a bordo del panfilo Britannia, con il gotha della finanza anglosassone. A bordo del Britannia c’era anche Beppe Grillo: l’ha detto Emma Bonino, che era presente, e lo disse (allora) anche Enrico Mentana.Sempre presentato come ex comico, reduce da rumorosi spettacoli giocati in modo abilissimo contro gli abusi del potere, Grillo in realtà era cresciuto all’ombra del potere democristiano. Lo ricorda Meluzzi, secondo cui il futuro leader dei grillini militava in quella sinistra Dc che fu scelta, come socio di minoranza dell’ex Pci, per dar vita – attraverso l’Ulivo – a quella casta italiana asservita ai poteri forti stranieri. Il patto: vi affidiamo il governo, a condizione che cediate ai privati il cuore dell’economia nazionale. A sparigliare le carte è poi sopraggiunto Berlusconi, e proprio l’antiberlusconismo ha gonfiato le fila grilline, grazie al carisma di Grillo e all’abilità “visionaria” di Casaleggio. Crollato il paese sotto i colpi di Monti, dopo l’effimera meteora Renzi è toccato proprio ai 5 Stelle l’onere del governo, e così sono cominciati i guai – per loro, e per gli italiani. Se il bilancio dei pentastellati è catastrofico, sia sul piano politico-elettorale che su quello governativo, non si può dire altrettanto per i loro eventuali mandanti occulti, sempre se si presta fede all’analisi dietrologica dei loro detrattori. E’ un fatto, comunque: coi grillini al governo (e il loro uomo in prestito, Conte), l’Italia si è ulteriormente indebolita in modo spaventoso, e oggi è praticamente in ginocchio. Missione compiuta, dunque?Il taglio dei parlamentari – richiesto per un istinto populistico, retoricamente antipolitico e quindi antidemocratico, senza un riassetto complessivo delle istituzioni – non è mai piacito ai veri partiti in campo, dal Pd alla Lega. Alla sciagurata proposta dei 5 Stelle si piegò Salvini nel 2018, per tenere insieme l’esecutivo di allora, e ora si è piegato Zingaretti, sempre per mantenere viva l’alleanza di governo. A limitare i danni, come si è visto, non sono bastate le dichiarazioni di voto contrario, a favore del No, espresse da leghisti come Borghi, Bagnai e Giorgetti, e da esponenti del centrosinistra come gli ulivisti Prodi e Parisi, senza contare lo stesso Veltroni, fondatore del Pd. Vent’anni di Vaffa e di linciaggio verso i politici hanno centrato il bersaglio: indebolire la politica, quindi la democrazia. Festaggiano giornalisti sfacciatamente “dimezzati” come Travaglio e Scanzi, grandi sponsor di Grillo e Conte: hanno stravinto, anche loro. L’Italia è ko, ma pazienza. Come recita il vecchio adagio ospedaliero: l’operazione è riuscita, anche se il paziente è morto. Ha vinto Di Maio, il ministro più imbarazzante della storia. Ha vinto il Partito della Catastrofe, nonostante abbia tradito tutte le promesse elettorali, dimezzando i propri voti. Ha vinto Conte, l’uomo del lockdown che ha messo in croce il paese. Sono convinti di avere vinto persino gli italiani, quelli che hanno votato Sì.(Giorgio Cattaneo, 22 settembre 2020).Ce l’hanno fatta ancora una volta: loro, i demolitori. Il Movimento 5 Stelle, clamoroso depistaggio politico di massa, è riuscito a convincere gli italiani: “meno è meglio”. Meno democrazia, meno rappresentanza, meno spazi di libertà e dissenso. D’ora in poi, i parlamentari – ridotti di un terzo – saranno ancora più lontani dagli elettori e ancora più legati ai boss di partito. Ovvio, da parte di un movimento-caserma che ha espulso in modo sistematico chiunque osasse esprimere un pensiero diverso: tolleranza zero, per le idee elaborate in autonomia. L’esito del referendum confermativo della peggiore riforma costituzionale della storia repubblicana rappresenta un capolavoro, per un grande statista del calibro di Luigi Di Maio, uomo-simbolo dell’Italia allo sbando che è riuscita a insediare a Palazzo Chigi nientemeno che Giuseppe Conte, l’ometto che ha rinchiuso in casa i cittadini per quasi tre mesi, col pretesto del Covid, affondando l’economia. La grande opera dei rivoluzionari all’amatriciana: mettere la guida del governo nelle mani di un prestanome del potere italico più antico e storicamente meno democratico, quello del Vaticano.
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Biglino: ma un’umanità matura non ha bisogno di religioni
Una umanità veramente matura non ha bisogno di religioni. Per religioni intendo: strutture di potere che dispensano delle verità, per lo più dogmatiche, regolarmente studiate a tavolino. Quando parlo di religioni intendo questo; quindi, una umanità veramente matura non dovrebbe averne bisogno. Poi mi rendo conto che la cosa non è facile, anzi è difficilissima: gran parte dell’umanità, infatti, ha bisogno che qualcuno le dica “guarda che le cose stanno così, te lo dico io; credici, e non porti problemi, perché la verità è questa”. Per vivere al di fuori di queste certezze ci vuole maturità. Non è da tutti, però devo dire che – attraverso dieci anni di incontri e conferenze – la crescita pubblica che ho registrato è notevolissima. Veramente: sono in continuo aumento le persone che riflettono con la propria testa, e secondo me è fondamentale. Mi si dice che distruggerei la legge d’amore dei Vangeli? Supponendo che nei Vangeli ci sia, la legge dell’amore (cosa che non voglio discutere, adesso), io mi chiedo: se noi veramente crediamo che la legge dell’amore sia quella che può salvare il mondo, abbiamo bisogno che a dircelo sia un presunto figlio di Dio? Se siamo persone mature, perché intanto non la applichiamo, indipendentemente dal fatto che ce l’abbia detto o meno un figlio di Dio?Se noi pensiamo che lì stia la salvezza del mondo, non chiediamoci chi è il primo che ne ha parlato, perché tanto non ha importanza. L’importante è applicarla, questa legge. Tutto il resto è sovrastruttura culturale, su cui sappiamo che cosa è stato costruito. E devo dire che chi ci ha costruito sopra non sempre l’ha applicata, questa legge dell’amore (e “non sempre”, beninteso, è un eufemismo). Certo, è possibile che il cristianesimo sia una delle religioni di “quelli lì”, cioè gli esseri non umani che la Bibbia chiama Elohim. Può essere uno dei sistemi di pensiero che, a partire dal VI-V secolo avanti Cristo, sono stati elaborati in varie parti del mondo, in vari continenti e – direi – quasi in contemporanea. Questi sistemi di pensiero hanno rappresentato il nuovo sistema di controllo. Sempre “facendo finta che…” (è bene ripeterlo, altrimenti sembra che io dispensi delle verità), questo sistema di controllo passa attraverso degli intermediari. Prima, invece, tutti i racconti antichi ci parlavano di rapporti diretti con le “divinità”. Da un certo punto in avanti, invece, questi rapporti si sono quantomeno diradati, fino a poi (pare) scomparire.(Mauro Biglino, dichiarazioni rilasciate alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 18 febbraio 2020, ripresa anche su YouTube. Già traduttore della Bibbia per le cattoliche Edizioni San Paolo, Biglino è un caso editoriale: ha firmato 15 libri, alcuni editi da Mondadori, nei quali propone una lettura letterale dell’Antico Testamento, non deformata dall’interpretazione teologica. Se ne ricava una possibile verità che sembra riecheggiare eventi storici: la comparsa sulla Terra di un gruppo di dominatori, gli Elohim, uno dei quali – Yahwè – avrebbe avuto “in eredità” la tribù ebraica di Giacobbe, per poi stipulare con Mosè un patto politico per la conquista militare della Terra Promessa, peraltro ostacolata da altre tribù, ciascuna protetta dai rispettivi Elohim. Biglino rivendica il metodo del “fare finta” che sia attendibile, il racconto biblico: l’Antico Testamento è un corpus di testi senza fonti. Non si sa chi abbia scritto quei libri, né in che lingua: l’ebraico non esisteva ancora. Ininterrottamente corretta e rimaneggiata fino all’epoca medievale di Carlomagno, la Bibbia di incerta attendibilità: Biglino si limita a riscontrare la coerenza del racconto che se ne ricava, a patto di non inserirvi nessuna categoria metafisica: i concetti di divinità, spiritualità, eternità e onnipotenza non sono presenti né nella Bibbia, né nella cultura ebraica originaria).Una umanità veramente matura non ha bisogno di religioni. Per religioni intendo: strutture di potere che dispensano delle verità, per lo più dogmatiche, regolarmente studiate a tavolino. Quando parlo di religioni intendo questo; quindi, una umanità veramente matura non dovrebbe averne bisogno. Poi mi rendo conto che la cosa non è facile, anzi è difficilissima: gran parte dell’umanità, infatti, ha bisogno che qualcuno le dica “guarda che le cose stanno così, te lo dico io; credici, e non porti problemi, perché la verità è questa”. Per vivere al di fuori di queste certezze ci vuole maturità. Non è da tutti, però devo dire che – attraverso dieci anni di incontri e conferenze – la crescita pubblica che ho registrato è notevolissima. Veramente: sono in continuo aumento le persone che riflettono con la propria testa, e secondo me è fondamentale. Mi si dice che distruggerei la legge d’amore dei Vangeli? Supponendo che nei Vangeli ci sia, la legge dell’amore (cosa che non voglio discutere, adesso), io mi chiedo: se noi veramente crediamo che la legge dell’amore sia quella che può salvare il mondo, abbiamo bisogno che a dircelo sia un presunto figlio di Dio? Se siamo persone mature, perché intanto non la applichiamo, indipendentemente dal fatto che ce l’abbia detto o meno un figlio di Dio?
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Di Maio e Grillo, al capolinea la grande farsa dei 5 Stelle
La notizia, in fondo, è che faccia notizia l’harakiri di Di Maio alla vigilia delle regionali emiliane e calabresi. Era il 27 maggio 2018: chiederemo l’impeachment per Mattarella, tuonava il cosiddetto capo politico dei 5 Stelle. Già l’indomani tornava sui suoi passi, preparandosi a salire a testa china al Quirinale, ingoiato in sole 24 ore il “niet” presidenziale sulla nomina strategica di Paolo Savona al dicastero dell’economia. Due anni prima, i 5 Stelle avevano tentato – a freddo, senza preavviso né spiegazioni – il clamoroso trasloco, a Strasburgo, nel gruppo europarlamentare dell’Alde, quello dei pasdaran ultra-euristi, amici di Mario Monti. L’abbaglio pentastellato si era già palesato in tutto il suo fulgore: un grandioso equivoco da 9 milioni di voti, in un’Italia stremata dalla finta alternanza tra berlusconiani e antiberlusconiani, tutti strettamente devoti alle direttive austeritarie del neoliberismo eurocratico e privatizzatore. Il ciclone Grillo si era abbattuto in modo spettacolare sulla palude italica, promettendo una rivoluzione nella governance. Ora Grillo (lo stesso che nel 2016 tentò di associare i pentastellati ai fanatici guardiani dell’euro) è l’uomo che ha imposto ai suoi sudditi l’alleanza sfacciata con il loro nemico storico, il Pd, il “partito del potere” contro cui si era gonfiato il consenso incautamente attribuito al MoVimento.L’eredità elettorale di Grillo è stata largamente acquisita da Matteo Salvini, che negli ultimi anni ha cavalcato l’onda contestataria dei 5 Stelle, facendo proprie molte delle parole d’ordine grilline. Esattamente come fino a ieri i pentastellati, Salvini – ora all’opposizione – può insistere nell’invocare un rovesciamento sostanziale della filosofia di governo, nel segno del recupero della sovranità italiana. E, proprio come i suoi ex sodali gialloverdi, nemmeno Salvini offre soluzioni praticabili, fondate su parole nette e su un disegno politico credibile, preciso e sostanziale. Non a caso, l’ex vicepremier leghista ha tirato a campare per un anno intero, insieme al suo socio grillino, senza nulla osare: il “governo del cambiamento”, infatti, non ha cambiato di una virgola le avvilenti condizioni della sudditanza italiana rispetto ai poteri forti che gestiscono privatisticamente l’Unione Europea, dentro il grande “frame” del neoliberismo universale dove lo Stato – ridotto in bolletta e ricattato dai “mercati” col giochino dello spread – viene neutralizzato come motore economico e ridotto al ruolo di spietato esattore. A differenza dei 5 Stelle, almeno Salvini si era impegnato sul fronte dell’alleggerimento fiscale: ma, proprio come i suoi ex compagni di viaggio, senza mai entrare davvero nel merito. Tante chiacchiere sulla Flat Tax di Armando Siri, ma mai una spiegazione su come trasformarla in realtà.In altre parole, il salvinismo barricadero edizione 2020, recitato comodamente dall’opposizione, ricorda in modo sinistro le roboanti promesse dei 5 Stelle alla vigilia del loro storico esordio al governo del paese. S’è visto come i grillini abbiano prontamente tradito tutti gli elettori, nel modo più sconcertante: Tap e Tav, vaccini, Ilva, armamenti, trivelle, euro e banche. Velo pietoso sullo sbandieratissimo reddito di cittadinanza, micro-elemosina vincolata a stringenti condizionalità. Inevitabile, peraltro, avendo evitato di affrontare il problema dei problemi: la liquidità a disposizione dello Stato per poter dispiegare vere politiche utili al paese, detassazioni e investimenti di lungo respiro. Sul Grande Nulla degli imbarazzanti 5 Stelle ha imperato solo e sempre il misterioso Grillo, giunto a umiliare Di Maio tentando di fargli credere di avere davvero il potere di decidere qualcosa. Il fatto che oggi Di Maio getti finalmente la spugna, aumentando ulteriormente il caos generale che regna tra i grillini, non dovrebbe avere la minima importanza per chi osserva lucidamente la politica italiana, i devastanti problemi del paese e l’assenza cosmica di soluzioni sul tappeto, da parte di tutti gli attori attualmente sulla scena.La notizia, in fondo, è che faccia notizia l’harakiri di Di Maio alla vigilia delle regionali emiliane e calabresi. Era il 27 maggio 2018: chiederemo l’impeachment per Mattarella, tuonava il cosiddetto capo politico dei 5 Stelle. Già l’indomani tornava sui suoi passi, preparandosi a salire a testa china al Quirinale, ingoiato in sole 24 ore il “niet” presidenziale sulla nomina strategica di Paolo Savona al dicastero dell’economia. Due anni prima, i 5 Stelle avevano tentato – a freddo, senza preavviso né spiegazioni – il clamoroso trasloco, a Strasburgo, nel gruppo europarlamentare dell’Alde, quello dei pasdaran ultra-euristi, amici di Mario Monti. L’abbaglio pentastellato si era già palesato in tutto il suo fulgore: un grandioso equivoco da 9 milioni di voti, in un’Italia stremata dalla finta alternanza tra berlusconiani e antiberlusconiani, tutti strettamente devoti alle direttive austeritarie del neoliberismo eurocratico e privatizzatore. Il ciclone Grillo si era abbattuto in modo spettacolare sulla palude italica, promettendo una rivoluzione nella governance. Ora Grillo (lo stesso che nel 2016 tentò di associare i pentastellati ai fanatici guardiani dell’euro) è l’uomo che ha imposto ai suoi sudditi l’alleanza sfacciata con il loro nemico storico, il Pd, il “partito del potere” contro cui si era gonfiato il consenso incautamente attribuito al MoVimento.
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Il fantasma Edoardo Agnelli, le non-indagini sulla sua fine
Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.Il primo a non credere alla versione ufficiale è un cronista di razza come Gigi Moncalvo, per un semplice motivo: nessuno svolse vere indagini. E ha dell’incredibile la trascuratezza di chi avrebbe dovuto ricostruire le ultime ore di Edoardo Agnelli. Un ragazzone di 46 anni, a lungo celebrato dall’Iran come “martire dell’Islam”. «Sulla sua morte, il governo di Teheran ci ha pedalato parecchio», dice Moncalvo, autore del saggio “Agnelli segreti”, che alla tragica fine di Edoardo dedica 8 capitoli, fondati sul fascicolo della Procura di Mondovì. La tesi degli ayatollah: Edoardo, che aveva aderito all’Islam, sarebbe stato ucciso da un complotto sionista, ordito per mettere le mani sulla Fiat manipolando l’ebreo John Philip Jacob Elkann, allora giovanissimo. Obiettivo: scongiurare il rischio che ci finisse “un musulmano”, a controllare i conti della Fiat. A far paura era la caratura di Edoardo, che aveva dichiarato guerra alla produzione di armamenti, «come le mine antiuomo che la Fiat metteva sul mercato, tramite la consociata Valsella».Moncalvo è un veterano dell’informazione italiana: profetico innocentista sul caso Tortora, redattore al “Giorno” e al “Corriere”, fautore dei primi Tg berlusconiani, infine dirigente Rai. E autore prolifico di saggi coraggiosi (e subito scomparsi dalle librerie) come quelli dedicati alle dinastie Agnelli e Caracciolo. «Non dico che Edoardo non si sia ucciso, né che sia stato suicidato», ribadisce a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Dico solo che, a 19 anni dal decesso, non sappiamo come sia morto: se si è tolto la vita, se è stato ucciso. Se è uscito di casa da solo, oppure no. Se è stato deposto già cadavere ai piedi di quel viadotto. L’unica verità è che non lo sappiamo». Riparlare della sua morte, osserva il giornalista, sembra sempre una cosa sgradevole, «come se si volesse rivangare il passato e non lasciare in pace un signore che è morto a 46 anni, in circostanze che sono ancora oggi misteriose, anzi misteriosissime». Stranezze: «Dopo 19 anni, il fascicolo presso il tribunale di Mondovì è ancora secretato, nonostante ci siano state inchieste, e nonostante io e alcuni avvocati abbiamo inviato alla Procura di Mondovì il mio libro “Agnelli segreti”, dove sono indicati 48 punti che rivelano come NON sono state fatte le indagini, come si è voluto nascondere una serie di responsabilità notevoli».Niente complottismi: solo fatti documentati. «Una massiccia campagna di stampa orchestrata dall’ufficio pubbliche relazioni della Fiat, quindi per ordine della famiglia, ha sempre voluto far credere che Edoardo si fosse suicidato». Chiariamoci, premette Moncalvo: «Tutte queste voci attorno alla sua morte si sono diffuse proprio a causa della mancata chiarezza fatta da chi aveva il potere e il dovere di intervenire: il primis il procuratore capo di Mondovì, Riccardo Bausone, ora in pensione». Edoardo «poteva dare fastidio, pur nella sua irrequietudine», nonostante «le trappole in cui era caduto». Per esempio, nel ‘90, l’incidente di Malindi, in Kenya: fermato dalla polizia per possesso di stupefacenti. «Un arresto avvenuto con accompagnamento di telecamere, cioè in una maniera che destava molti sospetti sulle modalità e sugli scopi di quella vicenda». La storia poi accelera di colpo nel ‘97, quando si spegne (a soli 33 anni) il cugino Giovannino, cioè Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, dipinto dai giornali, erroneamente, come ipotetico delfino dell’Avvocato. Al suo posto, nel Cda Fiat, anziché Edoardo viene inserito stranamente l’imberbe John. Per protestare, il primogenito chiama Paolo Griseri, affidando al “Manifesto” la più clamorosa delle interviste: non creda, mio padre, di sbarazzarsi di me.Attenzione: «Edoardo era considerato una sorta di lebbroso, un ragazzo da evitare. Per offenderlo, screditarlo e diffamarlo, si diceva: Edoardo è matto, drogato e sbalestrato, impregnato di teorie e filosofie confuse, piene di astrattismi e di utopie». Obiettivo: isolarlo. Griseri, oggi redattore di “Repubblica”, violò l’embargo. Incontrò il giovane Agnelli al convento dei cappuccini di Torino, una sera di nebbia. Ne uscirono frasi lapidarie. Un avvertimento: come erede, mi spetterà un terzo dalla Fiat, della Exor, dell’Accomandita Giovanni Agnelli e soprattutto della Dicembre, la società strategica che domina tutto. «Una dichiarazione che a qualcuno fa tremare i polsi: non si illuda, mio padre – precisa Edoardo – di scrivere o di disporre che quel terzo di diritto che mi spetta, delle azioni, mi venga liquidato convertendolo in denaro. No: io voglio le azioni, come mio diritto. Voglio verificare i bilanci della società, controllare i prodotti della Fiat». Edoardo lo mette proprio in chiaro: non accetterà di essere messo alla porta con una buonuscita zeppa di milioni. Vuole poter pesare, dire la sua. Per questo, esigerà un terzo della partecipazione azionaria.Prende anche le distanze da John Elkann: mi meraviglia, dice, che mio padre lo abbia nominato. E’ stato un grosso errore: la nomina di “Yaki” è stata decisa contro le perplessità di mio padre, che infatti all’inizio non voleva dare il suo assenso. «Come se (e qui fa una rivelazione importante) Gianni Agnelli fosse stato in qualche modo convinto, forzato, costretto a nominare John nel Cda?». Edoardo dice che “qualcuno” ha spinto il padre ad agire in quel modo. Moncalvo pensa a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, «i due “consiglieri della corona”, i due Richelieu della real casa torinese». Quasi ci fosse la seguente configurazione: intanto prepariamo il terreno a ciò che accadrà dopo la morte dell’Avvocato, all’epoca in precarie condizioni, reduce da 6 operazioni al cuore e tormentato da un tumore alla prostata (si spegnerà quasi 5 anni dopo, il 24 gennaio 2003). Quindi, “qualcuno” – per mantenere il potere – manovrò perché venisse fatto fuori, sul piano azionario, il figlio di Agnelli, per mettere al suo posto un soggetto come il ragazzino John, molto più controllabile, addomesticabile, condizionabile?La domanda di Moncalvo resta in sospeso, fino alle deduzioni più recenti, dopo la guerra familiare scatenata dalla sorella di Edoardo, Margherita Agnelli, sull’eredità dell’Avvocato. E se Edoardo fosse stato ancora vivo, alla morte di suo padre nel 2003? «La vedova, Marella, ha donato tutto a suo nipote John Elkann irritando la figlia, Margherita. Vivo Edoardo, alleato con sua sorella, la madre non avrebbe potuto fare quello che ha fatto, a favore di John». Quindi, ragiona Moncalvo, «la scomparsa di Edoardo ha facilitato il disegno di coloro che volevano mettere le mani sulla Fiat, o ufficialmente o dietro le quinte, o comandando attraverso un giovanotto pallido, imberbe e inesperto». Costoro, aggiunge sempre Moncalvo, se si fossero trovati sulla loro strada Edoardo Agnelli, come avrebbero potuto convincere “donna Marella” a donare la sua parte? «Come avrebbero potuto convincere John ad accoltellare sua madre, Margherita, portandole via la Dicembre e il controllo della società? E come avrebbe potuto, la stessa “donna Marella”, accoltellare alla schiena sua figlia Margherita, rompendo l’unità familiare e mettendole contro il primogenito, John? Pensate che cosa avrebbe determinato, la sola presenza di Edoardo».Solo ipotesi, naturalmente, perché Edoardo Agnelli è diventato ufficialmente un fantasma due anni e sette mesi dopo la famosa intervista al “Manifesto”. E qui Moncalvo, autorizzato da Margherita Agnelli a consultare le carte giudiziarie, spalanca il libro della vergogna. Il 15 novembre 2000, la famosa Fiat Croma viene avvistata da un addetto alla sicurezza autostradale, in sosta sul ponte che sovrasta il fiume Stura di Demonte, nel territorio di Fossano. Il corpo di Edoardo è rinvenuto, quasi intatto, 78 metri più in basso, ai piedi del viadotto. L’esame necroscopico è sommario, grossolanamente superficiale: il medico legale (non quello di turno, ma un medico chiamato apposta dal procuratore) sbaglia il peso e l’altezza del cadavere, togliendoli 20 chili e 20 centimetri. Dieci anni dopo, a “La storia siamo noi”, Giovanni Minoli farà una sua ricostruzione, “L’ultimo volo”, che cita le versioni alternative ma poi accredita la tesi del suicidio. Gli esperti in studio, si esaspera Moncalvo, «arriveranno a dire che è normale, se uno cade in piedi, che possa accorciarsi e diventare quasi nano».Gigi Moncalvo insiste sui primi istanti del ritrovamento. La polizia stradale di Cuneo, subito sul posto, viene rimpiazzata dalla polizia torinese, accorsa in forze. Il questore, Nicola Cavaliere, ha accompagnato personalmente il padre, Gianni Agnelli, a riconoscere quel che resta di suo figlio. Il procuratore Bausone fa due annunci, a caldo. Primo: non si esclude nessuna ipotesi. Secondo: sarà fondamentale l’esito dell’autopsia. Peccato però che l’autopsia non verrà mai eseguita, e che l’unica ipotesi in campo sarà quella del suicidio. L’esame autoptico, chiarisce Moncalvo, sulla carta era rischioso: se per caso nel corpo di Edoardo fossero emerse tracce di stupefacenti, sarebbe scattata d’ufficio una imbarazzante indagine parallela, a Torino, sul mondo dello spaccio eventualmente frequentato dalla vittima. Ma l’autopsia mancata, secondo Moncalvo, è solo uno degli aspetti, neppure il peggiore, della clamorosa non-indagine. La Croma era parcheggiata in modo perfetto, allineata al guard-rail, e Edoardo Agnelli non sapeva posteggiare in retromarcia. Pesava 119 chili, ed era claudicante: si aiutava col bastone, per i postumi di una caduta. In quelle condizioni, con un fisico come il suo (un metro e novanta di statura) sarebbe sgusciato dall’auto e si sarebbe arrampicato sul parapetto, alto un metro e mezzo, per poi lanciarsi sotto. E senza essere visto da nessuno, lungo un’autostrada percorsa da quasi 70 veicoli al minuto.Per la Procura di Mondovì, la prova regina dell’ipotetico suicidio è rappresentata dal Telepass a bordo della Croma, che registra ogni spostamento. Quella mattina: l’ingresso a Torino in direzione Savona, l’uscita a Marene, il rientro in autostrada fino al viadotto di Fossano. Coincide coi percorsi dei tre giorni precedenti: segno, per gli inquirenti, che Edoardo Agnelli vagasse in cerca di un ponte da cui gettarsi. Peccato, dice Moncalvo, che la vettura su cui era installato il Telepass viaggiasse a 150 all’ora: non certo la velocità ideale, per chi si sta guardando attorno in cerca del punto adatto in cui farla finita. Non solo: il Telepass non prova che Edoardo fosse alla guida della Croma. E non essendo collegato alla targa, non dimostra nemmeno che fosse installato su quella berlina: l’aggeggio infatti può essere benissimo trasferito da una vettura all’altra. Per giunta, la Croma disponeva di un navigatore Gps: quello sì, avrebbe rivelato con certezza i movimenti della vettura. «Ma il Gps non è stato controllato. Invece il Telepass, incredibilmente, è diventato l’unica prova su cui fondare l’ipotesi del suicidio». Del resto, meglio non dire: si stenta a credere che ci si sia davvero rifiutati di indagare.Eppure, visitata Villa Sole, la casa di Edoardo sulla collina torinese, la Digos – dice Moncalvo – evita di sequestrare i filmati delle telecamere di sorveglianza: sarebbe stato il primo passo, elementare. Avrebbe svelato a che ora Edoardo era uscito di casa, se era solo o accompagnato, se era ancora vivo. E se indossava già – come poi si è accertato, sotto il tragico viadotto – il suo pigiama a righe, sotto l’abito blu. E non è tutto: in casa ci sono quattro telefoni, ma nessuno chiederà alla Telecom i tabulati. Resteranno muti anche i due computer. «Erano protetti da password, dissero gli inquirenti. Per superare l’ostacolo, bastava un hacker di vent’anni». E la scorta di Edoardo? Se c’era, dormiva: «Dissero che si era allontanato senza che ne accorgessero, nonostante avessero avuto l’ordine di sorvegliarlo ovunque: la famiglia sperava che la presenza della scorta lo tenesse lontano dalla droga o da incontri con persone particolari». Cade dalle nuvole, il personale di sicurezza: dice che Edoardo se n’era andato a spasso, con la sua Croma, anche nei tre giorni precedenti. La cosa strana, osserva Moncalvo, è che la polizia non fa altre domande: anzi, si accontenta di un memoriale consegnato loro dai vigilantes, evidentemente preparato dalla società, la Orione, che gestisce la security del mondo Fiat.Secondo Moncalvo, a rendere gli agenti della Digos così accondiscendenti possono aver giocato tanti aspetti: il potere immenso della famiglia Agnelli, i rapporti personali del questore con l’Avvocato, e forse anche il miraggio di lasciare un giorno la divisa per un posto tra le guardie dell’Orione, dove si rischia meno e si guadagna il doppio? Ma quello che lascia maggiormente stupefatti, dice Moncalvo, è innanzitutto il comportamento della magistratura. «Dieci giorni dopo il ritrovamento – racconta il giornalista – al procuratore di Mondovì arriva una lettera anonima, proveniente da un carcere di massima sicurezza del Nord Italia». Si parla apertamente di omicidio, riguardo alla fine di Edoardo. La lettera l’ha scritta probabilmente un detenuto condannato per reati di mafia, dato che (in altre sue parti) contiene riferimenti precisi a una vicenda criminale molto grave. «Nella lettera vengono accusati alcuni magistrati». Nel momento in cui Bausone riceve la missiva, per dovere d’ufficio la trasmette alla Procura generale di Torino, allora retta da Giancarlo Caselli. «Bausone allega un proprio appunto, in cui dice: è arrivata questa lettera, anonima, che formula ipotesi sui mandanti e sul modo in cui è morto Edoardo Agnelli. Ma posso assicurare che si tratta di un evidente caso di “precipitazione”».Quindi, sintetizza Moncalvo, «a soli 10 giorni dalla morte, senza aver svolto indagini, Bausone ha già deciso che Edoardo Agnelli si è suicidato». E questo, nonostante il minuzioso rapporto della Polstrada di Cuneo: Edoardo Agnelli avrebbe guidato la sua auto fino a Fossano, ma come un fantasma, senza lasciare tracce. «Sulle superfici lisce della Croma non ci sono impronte. Volante, cambio, autoradio, radiotelefono, sedili, portiere, maniglie. E Edoardo non portava guanti». Senza impronte anche gli oggetti a bordo: una bottiglia d’acqua bevuta a metà, 11 scatole di fiammiferi, 8 confezioni di filtri David Ross, 11 confezioni di panni per la pulitura delle lenti. Non un’impronta neppure sui 5 bloc notes con fogli manoscritti: con scritto cosa, poi? Non lo si sa. Niente tracce sulle 5 cartine geografiche, sulle 2 mappe fotocopiate, sui 4 blocchetti di prelievo materiale. Nessuna impronta digitale sui 2 telecomandi, sulla lampada di emergenza, sullo spolverino, sulle 5 audiocassette. Su quell’auto, Edoardo non aveva mai lasciato un’orma, nemmeno nei giorni precedenti?L’assenza di impronte lascia sbalorditi, dice Moncalvo: «Morire che ci sia un poliziotto, un questore, un capo della Digos – ma soprattutto un magistrato – che non rimanga stupefatto come lo siamo rimasti noi». Logica deduzione: «Solo un’organizzazione criminale di altissimo livello arriva a “ripulire” perfettamente da ogni tipo di impronte ogni superficie, interna ed esterna, di un’automobile». Mafia? Servizi segreti? E chi lo sa. Nessuno ha incalzato la scorta, per capire come mai Edoardo fosse stato lasciato libero di allontanarsi. Nessuno ha mai chiesto nemmeno all’autogrill sull’autostrada, dice Moncalvo, se per caso, quel maledetto 15 novembre, qualche automobilista di passaggio non avesse intravisto un uomo alto quasi due metri, praticamente zoppo, arrampicarsi sul parapetto. «Di fronte a un sospetto suicidio – ricorda il giornalista – si indaga per induzione al suicidio: qualcuno potrebbe aver spinto il malcapitato alla disperazione, per qualsiasi motivo (di salute, finanziario, sentimentale), magari comunicandogli notizie false. Si tratta ovviamente di un reato gravissimo».Quella fatidica mattina, risulta che Edoardo Agnelli abbia chiamato suo padre, per il quale nutriva una sorta di venerazione, restando però in linea solo per dieci secondi. Poi ha chiamato lo zio, Carlo Caracciolo, con cui era sempre stato in ottimi rapporti. Cosa si dissero? Non si sa, dice Moncalvo: nessuno gliel’ha chiesto. «Normalmente, si interrogano le ultime persone con cui la vittima ha parlato, per appurare se trasparisse un suo eventuale stato di angoscia». Invece, in questo caso, «il procuratore Bausone non ha sentito né il padre, né la madre, né lo zio, né la sorella». Alberto Bini, il procuratore di Edoardo, ha detto che quella mattina il figlio dell’Avvocato aveva chiamato il dentista, per disdire un appuntamento: per che motivo? «La polizia – aggiunge Moncalvo – non ha sentito nemmeno il centralinista di casa Agnelli, giusto per verificare se ci fosse stata davvero, quella telefonata al padre. Né sono stati sentiti Gabetti e Grande Stevens». Ufficialmente, infatti, Edoardo lavorava all’Ifi, Istituto Finanziaro Italiano, e quindi era un dipendente di Gabetti, «che avrebbe potuto dire se c’erano preoccupazioni, se Edoardo si trovava bene, o se magari creava problemi».In compenso, Margherita Agnelli rivela che, quella stessa mattina, Edoardo aveva telefonato a suo marito, Serge De Pahlen. A suo cognato, Edorado disse: so che sei a Torino, vediamoci più tardi e andiamo a pranzo insieme. «Strano, per uno che sta per suicidarsi». A meno che, appunto, sul viadotto di Fossano non sia mai salito Edoardo Agnelli, ma solo il suo fantasma: un uomo invisibile, capace di guidare senza lasciare impronte. Zoppicante, ma agile come un gatto: lesto ad arrampicarsi – non visto da nessuno – sul parapetto. Per poi finire 78 metri più in basso, coi mocassini ai piedi e gli occhiali ancora al loro posto. Insiste Moncalvo: restiamo ai fatti, tralasciando i complottismi (fioriti inevitabilmente a causa delle troppe reticenze). «L’unica vertà accertata è che Edoardo è morto. Ma parlare ancora di suicidio, dopo 19 anni, è una vergogna». Curiosità: il tragico viadotto di Fossano è dedicato al generale dei carabinieri Franco Romano, morto due anni prima di Edoardo. Cadde in elicottero, «un incidente strano». Dopo una prima tappa in val d’Aosta, sarebbe volato fino al Sestriere per commemorare Giovannino Agnelli. Il generale sfortunato e il figlio dell’Avvocato: due destini di morte, in qualche modo collegati a quel viadotto. E un’unica simbologia, la “precipitazione”: la caduta dall’alto, a troncare la vita di chi contava molto.Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.
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Moncalvo: silenzio assordante sulla fuga della Fiat in Francia
«Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?Categoria alla quale peraltro appartiene lo stesso Moncalvo, cronista di rango, già attivo su alcune tra le maggiori testate italiane (collaboratore di Maurizio Costanzo, Piero Ottone e Guglielmo Zucconi) nonché giornalista sulle reti Mediaset e infine dirigente Rai. Negli ultimi anni, con esplosivi libri-inchiesta (”I lupi e gli Agnelli”, “Agnelli segreti”, spariti dalle librerie ma disponibili attraverso il sito dell’autore), Moncalvo si è concentrato nello scavare tra “ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”. Fino a scoprire cosa? Questo: che un potere-ombra, finanziario e anglosassone, si sarebbe impossessato del controllo politico della Fiat già dal dopoguerra, fino poi a “imporre” che l’eredità di Gianni Agnelli finisse a John Elkann, il quale – giovanissimo – alla scomparsa dell’Avvocato mise l’impero Fiat nelle mani del manager finanziario Sergio Marchionne, campione del neoliberismo americano. Moncalvo evoca anche «rabbini francesi e grembiulini» nell’orbita di John Elkann, alludendo al ruolo del padre, il giornalista e scrittore Alain Elkann, membro del potentissimo Jewish Institute e figlio del banchiere, industriale e rabbino francese Jean-Paul Elkann. Dietro alla “real casa” torinese, attraverso il ramo Elkann oggi al comando, aleggia il potere del B’nai B’rith, elusiva massoneria sionista?Ne parlò il saggista e massone Gianfranco Carpeoro, a proposito della strana fine di Edoardo Agnelli nel 2000: il figlio “ribelle” dell’Avvocato, che in un’intervista al “Manifesto” aveva annunciato l’intenzione di volersi occupare del destino della Fiat, si sarebbe convertito all’Islam, e addirittura alla confraternita mistica dei Sufi. Una foto lo ritrae a Teheran in una sessione di preghiera guidata dall’ayatollah Alì Khamenei, guida suprema della ierocrazia sciita. Fu proprio l’Iran ad accusare il Mossad, il servizio segreto israeliano, della morte di Edoardo Agnelli, precipitato da un viadotto autostradale in circostanze mai del tutto chiarite. Forse per motivi di pura propaganda politica anti-sionista, Teheran accusò la “lobby ebraica” di aver sostanzialmente propiziato l’eliminazione di Edoardo Agnelli (caso archiviato come suicidio) per poter poi mettere completamente le mani sull’impero Fiat dopo la morte di Gianni Agnelli. Dietrologie, semplici illazioni, addirittura insinuazioni senza fondamento? Dal lavoro di Moncalvo, incentrato per lo più sulla imbarazzante “guerra” familiare per l’eredità dell’Avvocato (seguita dall’ancora più imbarazzante silenzio dei media), emerge in sostanza l’impenetrabilità della governance Fiat, retta da logiche che ricordano quelle delle antiche monarchie.Carte giudiziarie alla mano, Moncalvo ha scoperto che il grosso del “tesoro” degli Agnelli è depositato all’estero, lontano dall’Agenzia delle Entrate (a Panama e in un caveau dell’aeroporto di Ginevra), e che i due uomini-ombra dell’Avvocato, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, manovrarono – insieme ai notai, e d’intesa con la vedova Agnelli, Marella Caracciolo – per favorire in modo esclusivo l’allora giovanissimo John Elkann, entrato nel board Fiat a soli 21 anni. Oggi, ragiona Moncalvo, la Exxor (finanziaria di famiglia) è stata stra-premiata con un “bonus” di oltre 5 miliardi dai futuri partner francesi, che in cambio però prenotano il controllo del colosso Fca-Psa, che verrebbe affidato a Carlos Tavares, l’uomo-Peugeot. Una maxi-buonuscita agli Elkann per lasciare il timone alla Francia, il cui governo oltretutto controlla il 13% del gruppo che include Peugeot, Citroen e Opel? Secondo “Money.it”, Fca porta in dote 102 stabilimenti e un fatturato da oltre 110 miliardi, con marchi come Fiat e Jeep, Lancia, Abarth, Alfa Romeo, Maserati, Chrysler, Dodge, Fiat Professional e Ram. Da canto suo, Psa (che possiede anche Ds Automobiles e Vauxhall) mette sul piatto appena 45 stabilimenti e un giro d’affari da 74 miliardi, inferiore quindi a quello dell’ex Fiat.In sostanza: i francesi offrirebbero di meno ma otterrebbero di più, dopo aver “premiato” a suon di miliardi i torinesi, forse ansiosi – da tempo – di disimpegnarsi dal settore auto? Se è presto per trarre conclusioni, visto che ogni giorno emergono precisazioni sullo sviluppo dell’accordo, ancora in corso nella sua definizione, è sconcertante – rileva Moncalvo – il silenzio assordante del sistema-Italia, di fronte a una notizia di questa portata. Gli stessi sindacati si limitato a mormorare: forse, auspica Landini, la fusione rafforzerà il comparto industriale. Certezze, nessuna: quand’era a capo della Fiom, Landini si vide beffare dall’inesistente Fabbrica Italia, il piano di rilancio solo vagheggiato da Marchionne. Ma ancora più clamoroso è il silenzio dei media nazionali e della stessa politica, evidenziato dall’assenza totale – nella vicenda – del governo Conte. E se chiuderanno gli stabilimenti del centro-sud? Visto che a decidere saranno i francesi, come possono dormire sonni tranquilli gli operai di Melfi, Pomigliano e Termini Imerese? Nessuno sembra domandarselo: silenzio di tomba. Muti i giornali, zitti i partiti, non pervenuto Palazzo Chigi. Purtroppo, la cosa non stupisce: solo in Italia, ricorda Moncalvo con amarezza, nel 1991 – per timore di dispiacere ai signori della Fiat – fu tradotto col titolo “Il silenzio degli innocenti” il film-kolossal di Jonathan Demme, con Jodie Foster e Anthony Hopkins. Nel resto del mondo, il titolo originale (”The silence of the lambs”) fu tradotto correttamente: il silenzio degli agnelli.«Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda“, ripreso anche su YouTube: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?
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L’Italia perde la Fiat, venduta alla Francia. E nessuno fiata
L’Italia perde la sua maggiore azienda, per decenni sorretta dallo Stato: a mangiarsi la Fiat è la Francia di Macron, con il gruppo Psa (Peugeot-Citroen-Opel) di cui il governo francese possiede il 13%. Il Cda di quello che diventerà il quarto produttore automobilistico al mondo, con 50 miliardi di dollari di fatturato, sarà guidato dall’attuale numero uno di Peugeot, Carlos Tavares, lasciando a John Elkann la presidenza del nuovo soggetto industriale. Clamorosa l’assenza totale della politica italiana: gli uomini del Conte-bis si limitano al ruolo di semplici spettatori, e tace anche l’opposizione. Silenzio generale, di fronte alla perdita definitiva del gruppo Fiat, fatto a pezzi nel corso degli anni. Stabilimenti delocalizzati in Polonia, Serbia, Turchia, Brasile, Argentina, India e Cina. E domicilizioni “emigrate” in Gran Bretagna (sede legale), in Lussemburgo (fiscale) e negli Usa (borsistica). E ora, addio anche alla proprietà italiana del marchio, nonostante l’oceano di soldi – agevolazioni sugli stabilimenti, cassa integrazione – versati dai contribuenti italiani per tenere in piedi l’industria torinese. «Al silenzio della politica seguirà quello di giornali e televisioni», avverte Gigi Moncalvo: «Nessuno oserà contestare l’accordo, visto che il gruppo Fiat spende enormi quantità di denaro, in termini pubblicitari, sui media italiani».Autore di scomodi saggi sul potere della maggiore dinastia industriale italiana (“Agnelli segreti”, “I lupi e gli agnelli”), intervenendo nella trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, Moncalvo sottolinea lo squallore della situazione italiana, di fronte allo “scippo” francese propiziato da «rabbini e grembiulini vicini a John Elkann». Moncalvo, che ha seguito da vicino anche l’ingloriosa saga dell’eredità di Gianni Agnelli, ha scoperto che il grosso del denaro di famiglia è tuttora custodito all’estero, in un caveau all’areoporto di Ginevra, fuori dalla portata del fisco italiano. Sempre Moncalvo racconta che la Fiat, “scomunicata” dagli Usa nel 1945 per gli enormi benefici ottenuti dalle commesse belliche del regime fascista, fu improvvisamente riabilitata (e inserita nel Piano Marshall) grazie ai buoni uffici di Pamela Harriman, nuora di Churchill e buona amica dell’allora giovane Avvocato. A partire proprio dal dopoguerra, però – sostiene Moncalvo – il vero timone della Fiat passò nelle mani di Wall Street. Morto il problematico Edoardo Agnelli, che aveva annunciato la sua intenzione di avere voce in capitolo nel destino della Fiat, il gruppo torinese è stato affidato al ramo familiare Elkann.Scomparso Gianni Agnelli, i suoi storici collaboratori – Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens – hanno fatto in modo, d’intesa con la vedova, che tutto il potere finisse nelle mani dell’allora giovanissimo John Elkann. Due anni dopo, la finanza Usa ha “spedito” a Torino il super-manager bancario Sergio Marchionne, che ha finto di rilanciare gli stabilimenti italiani per poi invece siglare l’accordo con Chrysler e trasferire il cuore del gruppo a Detroit, con il varo del marchio Fca. E oggi, appena un anno dopo la prematura morte di Marchionne, il gruppo formalmente rappresentato da John Elkann sembra voler “sbaraccare” quel che resta della Fiat in Italia, cedendo il controllo dell’ex impero al paese che più sta danneggiando l’Italia, sul piano industriale: la Francia. Secondo gli analisti, segnala il “Fatto Quotidiano”, la volontà francese di restare alla guida del nuovo gruppo sarebbe evidente anche dai numeri dell’operazione. Il gruppo Psa riconosce ai soci Fca un premio da 6,7 miliardi rispetto alle quotazioni di Borsa antecedenti l’inizio delle indiscrezioni sulle nozze. Senza contare che la cifra in questione sarebbe anche al netto del dividendo straordinario di Fca – 5,5 miliardi, di cui di cui 1,6 destinati ad Exor, la cassaforte degli Agnelli – e delle quote di Faurecia e Comau che verranno distribuite ai soci.«Psa sta sostanzialmente comprando Fca», ha spiegato senza mezzi termini la società di consulenza Equita, secondo cui i francesi hanno pagato «un buon premio» agli Elkann e si sono assicurati la “maggioranza” per il controllo del nuovo gruppo. Come ha spiegato a “Bloomberg” Philippe Houchois, analista di “Jefferies”, «Psa sta pagando un premio del 32% per assumere il controllo di Fca». Sottraendo dal gruppo italo-americano i 5,5 miliardi del dividendo straordinario e il valore della quota di Comau (circa 250 milioni di euro), e da quello francese il valore della quota in Faurecia (2,7 miliardi), si arriva a una “capitalizzazione di mercato teorica” di “20 miliardi” per Peugeot e di “13,25 miliardi” per Fca. Sulla base di questi valori e “senza un premio”, agli azionisti di Peugeot sarebbe spettato il 60,15% del nuovo gruppo e a quelli di Fca il 39,85%, anziché il 50% a testa negoziato. Insomma, i conti della “fusione alla pari” non tornano, scrive Fiorina Capozzi sul “Fatto”. Del resto, aggiunge, «a Torino era noto da tempo che gli Elkann avessero intenzione di ridimensionare il peso dell’auto nel patrimonio di famiglia».Non è un mistero neppure che Fca fosse alla ricerca di un partner strategico, come testimonia il tentato “blitz” su Renault, sventato nei mesi scorsi dall’intervento di Macron. Lo Stato francese, socio di Renault, è anche azionista di Psa: segno che «in questo caso, ha fatto bene i suoi conti», chiosa Capozzi. Da parte sua, Moncalvo si domanda che fine faranno, ora, gli operai degli stabilimenti di Cassino, Melfi e Pomigliano d’Arco. Negli ultimi anni la Fiat ha chiuso Termini Imerese e Rivalta, senza contare l’Alfa Romeo di Arese. Nella storica fabbrica torinese di Mirafiori ormi si produce solo il Suv della Maserati, mentre a Cassino le Alfa (Giulia, Giulietta e Stelvio), a Melfi la 500 X e la Jeep Renegade, a Pomigliano la Panda. La Cinquecento è prodotta in Polonia, le grandi Jeep in Brasile e in India, la Tipo in Turchia. Il gruppo oggi avrebbe 130.000 dipendenti, in 119 stabilimenti distribuiti nel mondo. Drammatico, negli ultimi anni, il crollo dei livelli occupazionali italiani. Negli anni Sessanta, Mirafiori dava lavoro a 65.000 operai. Oggi, le poche migliaia di addetti rimasti si limitano all’unica linea attiva, quella della Maserati Levante. Residuo futuro per l’ex Fiat? La famiglia Elkann sembra volersene lavare le mani. D’ora in poi a dettare legge saranno i francesi. E addio al made in Italy nel settore auto.L’Italia perde la sua maggiore azienda, per decenni sorretta dallo Stato: a mangiarsi la Fiat è la Francia di Macron, con il gruppo Psa (Peugeot-Citroen-Opel) di cui il governo francese possiede il 13%. Il Cda di quello che diventerà il quarto produttore automobilistico al mondo, con 50 miliardi di dollari di fatturato, sarà guidato dall’attuale numero uno di Peugeot, Carlos Tavares, lasciando a John Elkann la presidenza del nuovo soggetto industriale. Clamorosa l’assenza totale della politica italiana: gli uomini del Conte-bis si limitano al ruolo di semplici spettatori, e tace anche l’opposizione. Silenzio generale, di fronte alla perdita definitiva del gruppo Fiat, fatto a pezzi nel corso degli anni. Stabilimenti delocalizzati in Polonia, Serbia, Turchia, Brasile, Argentina, India e Cina. E domiciliazioni “emigrate” in Gran Bretagna (sede legale), in Lussemburgo (fiscale) e negli Usa (borsistica). E ora, addio anche alla proprietà italiana del marchio, nonostante l’oceano di soldi – agevolazioni sugli stabilimenti, cassa integrazione – versati dai contribuenti italiani per tenere in piedi l’industria torinese. «Al silenzio della politica seguirà quello di giornali e televisioni», avverte il saggista Gigi Moncalvo: «Nessuno oserà contestare l’accordo, visto che il gruppo Fiat spende enormi quantità di denaro, in termini pubblicitari, sui media italiani».
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Moncalvo: perché Salvini continua a tacere su Moscopoli?
«Male non fare, paura non avere. Ma soprattutto: non tacere». Gigi Moncalvo, giornalista di razza, attacca frontalmente Matteo Salvini, sottolineando l’evidente imbarazzo del leader leghista di fronte al caso “Moscopoli”. Sul tappeto, l’ipotetico affare petrolifero di cui il suo emissario a Mosca, Gianluca Savini, avrebbe parlato un anno fa all’Hotel Metropol con alcuni esponenti del potere politico-economico russo. «Fino a quando Salvini (vigliaccamente, senza coraggio) continuerà a tacere?», si domanda Moncalvo, nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, condotta da Stefania Nicoletti e Rudy Seery. Il capo della Lega, ricorda Moncalvo, si avvale tuttora dell’immunità parlamentare che lo protegge, virtualmente, dall’indagine aperta dalla Procura di Milano: nel caso i magistrati ravvisassero effettive irregolarità, dovrebbero chiedere al Parlamento il permesso di procedere contro di lui. Un Parlamento, peraltro – come ricordato polemicamente da Vittorio Sgarbi – dove lo stesso premier Conte (ascoltato dal Copasir per il caso Russiagate) e i leader dei maggiori partiti (le indagini sul figlio di Grillo, le sentenze sui genitori di Renzi) si sono dovuti occupare di questioni giudiziarie gravide di scomodi riflessi mediatici.Secondo Moncalvo, Salvini – con le vele gonfiate dai sondaggi e ora anche dall’esito delle regionali in Umbria – potrebbe sempre dichiararsi vittima di un’ingiusta persecuzione, da parte delle toghe, nel caso in cui “Moscopoli” dovesse esplodere, carte giudiziarie alla mano, alla vigilia delle prossime elezioni politiche. Pietra dello scandalo, a livello televisivo, il servizio realizzato da Giorgio Mottola per “Report”, in cui – fra l’altro – si evidenzia il legame tra Salvini e l’oligarca russo Konstantin Valeryevič Malofeev, ultra-tradizionalista, a capo di un vero e proprio impero editoriale. Malofeev è impegnato in una crociata contro i gay, definiti «sodomiti, pederasti», letteralmente. «La paura sbianca il volto di Salvini quando, a Pontida, Mottola gli domanda se conosce Malofeev». Risultato: scena muta. «Ma Salvini – prosegue Moncalvo – si è rifiutato di parlare con “Report” anche in seguito: Mottola infatti aveva chiesto per ben tre volte, alla sua segreteria, di organizzare un incontro per consentire al leader della Lega di replicare, dandogli l’opportunità di offrire la sua versione su ogni aspetto del servizio televisivo trasmesso da RaiTre il 21 ottobre».Le polemiche della Lega indurranno “Report” a trasmettere altro materiale sul tema, aggiunge Moncalvo, che rivela che il servizio fu realizzato già a luglio, quando Salvini era ancora ministro dell’interno e vicepremier. Moncalvo mette in relazione “Moscopoli” con la repentina scelta di Salvini di staccare la spina al governo gialloverde, sorprendendo lo stesso Giancarlo Giorgetti. «Salvini ha deciso tutto da solo, e neppure Giorgetti conosceva il motivo di quella decisione», dice Moncalvo, che nel servizio di “Report” svolge un ruolo di primo piano: ricorda di quand’era direttore de “La Padania” e tentò inutilmente di allontanare Salvini. «Pur essendo giornalista – afferma Moncalvo – Salvini non ha mai scritto un articolo in vita sua». Lo tratteggia come un opportunista sfrontato e ambizioso. All’epoca – ha raccontato lo stesso Moncalvo di fronte alle telecamere di “Report” – ebbe ripetuti scontri con Salvini, definito assenteista e pronto a che a gonfiare la sua nota spese. Un giorno, l’allora leader dei giovani leghisti affrontò il direttore della “Padania” con queste parole: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente».Che ci siano vecchie ruggini, tra Moncalvo e Salvini, appare evidente. Altrettanto palese, per contro – come sottolinea il giornalista – è l’impenetrabile silenzio del leader leghista su “Moscopoli”. Reticenza? «Alle domande – insiste Moncalvo – Salvini non ha mai voluto rispondere, in nessuna sede». Spesso, Salvini è ricorso all’umorismo, o se l’è cavata con la formula: «Se ne sta occupando la magistratura». Giornalisti e avversari insistono: che ci faceva, Savoini, a Mosca? A che titolo avrebbe trattato una sorta di maxi-tangente su una fornitura di idrocarburi? A monte, è nota la difficoltosa situazione finanziaria della Lega, costretta – dalla magistratura genovese – a consegnare allo Stato 49 milioni di euro, a causa di vecchie irregolarità imputate alla gestione Bossi. Attenzione, avverte Luca Telese: non si tratta di soldi “rubati” dalla Lega. Di fronte all’originario ammanco accertato (un paio di milioni, forse meno), il partito è stato dichiarato – a posteriori – non idoneo a percepire finanziamenti. Diversi giuristi hanno trovato insolita la condanna: per colpa del mini-buco della Lega Nord di Bossi, alla nuova Lega di Salvini si è chiesto di “restituire” altri soldi, quelli ricevuti successivamente (e regolarmente spesi per l’ordinaria gestione politica, gli stipendi dei funzionari e le spese elettorali). Questo – si domanda qualcuno – potrebbe aver spinto Salvini a spedire Savoini a Mosca in cerca di finanziamenti russi in vista delle europee?Quello su cui invece “Report” evita accuratamente di indagare è la fonte del presunto scandalo: quale servizio segreto avrebbe intercettato Savoini, per poi far pervenire gli audio del Metropol alla magistratura milanese? Servizi russi? Americani? Italiani, addirittura, su ordine di Conte? La domanda è di importanza capitale, perché permette di mettere a fuoco la regia di quella che appare come una classsica “imboscata”, dunque il movente politico e i relativi mandanti. In attesa che la questione si chiarisca, Moncalvo ribadisce: il silenzio di Salvini è imbarazzante e inaccettabile, qualunque cosa sia avvenuta a Mosca. Sempre Moncalvo, nel servizio di “Report”, traccia un profilo non entusiasiamente del rapporto tra Salvini e il fido Savoini, descritto come animato da simpatie per l’iconografia nazista e a lungo frequentatore dell’estremista di destra Maurizio Murelli. Per Moncalvo, addirittura, fu proprio Savoini a “plasmare”, letteralmente, il giovane Salvini, dando una sorta di formazione politico-culturale a quello che allora era poco più che un semplice militante, con scarsa dimestichezza con i libri. In ogni caso, sostiene Moncalvo, Salvini farebbe meglio a parlare, fornendo finalmente agli italiani la sua versione sulla storia del Metropol.(Gigi Moncalvo è un giornalista di lungo corso: ha lavorato al “Corriere della Sera”, a “L’Occhio” e al “Giorno”, collaborando con Piero Ottone, Maurizio Costanzo e Guglielmo Zucconi (la sua direzione della “Padania” è relativa al periodo 2002-2004). A lungo impegnato nelle reti berlusconiane, è poi approdato in Rai (fino al 2008 è stato dirigente, capostruttura dell’informazione di RaiDue). Letteralmente esplosivi i saggi pubblicati a partire dal 2009 da Vallecchi: “I lupi e gli Agnelli: ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia, “Agnelli segreti” e “I Caracciolo: storie, misteri e figli segreti di una grande dinastia italiana”. Libri stranamente scomparsi dalle librerie poco dopo l’uscita, specie quelli sulla “real casa” torinese: pagine in cui Moncalvo racconta come John Elkann sia stato aiutato ad acquisire l’eredità di Gianni Agnelli, in una Fiat sostanzialmente in mano alla finanza Usa, dal primissimo dopoguerra all’imposizione di Marchionne. Nel mirino di Moncalvo, ora, è finito Salvini).«Male non fare, paura non avere. Ma soprattutto: non tacere». Gigi Moncalvo, giornalista di razza, attacca frontalmente Matteo Salvini, sottolineando l’evidente imbarazzo del leader leghista di fronte al caso “Moscopoli”. Sul tappeto, l’ipotetico affare petrolifero di cui il suo emissario a Mosca, Gianluca Savini, avrebbe parlato un anno fa all’Hotel Metropol con alcuni esponenti del potere politico-economico russo. «Fino a quando Salvini (vigliaccamente, senza coraggio) continuerà a tacere?», si domanda Moncalvo, nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, condotta da Stefania Nicoletti e Rudy Seery. Il capo della Lega, ricorda Moncalvo, si avvale tuttora dell’immunità parlamentare che lo protegge, virtualmente, dall’indagine aperta dalla Procura di Milano: nel caso i magistrati ravvisassero effettive irregolarità, dovrebbero chiedere al Parlamento il permesso di procedere contro di lui. Un Parlamento, peraltro – come ricordato polemicamente da Vittorio Sgarbi – dove lo stesso premier Conte (ascoltato dal Copasir per il caso Russiagate) e i leader dei maggiori partiti (le indagini sul figlio di Grillo, le sentenze sui genitori di Renzi) si sono dovuti occupare di questioni giudiziarie gravide di scomodi riflessi mediatici.
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Feltri: rimpiango Sandro Pertini, il coraggio della coerenza
Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro Paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.Quando egli entrò al Quirinale sulle ali del trionfo (832 voti su 995 votanti: un primato) circolò una battuta: finalmente ci tocca un evaso e non un evasore. Il riferimento era duplice. Al passato del nuovo inquilino, che tra carcere e confino, durante il fascismo, fu prigioniero del regime per 15 anni; e alla sua proverbiale onestà. Quest’ultima qualità non è considerata sufficiente per reggere uno Stato, però non guasta. Pertini aveva una forma maniacale di rispetto per il denaro non suo. «Andai a trovarlo – racconta Enzo Biagi – alla Camera, di cui era presidente. Bevemmo un caffè, e lui accennò a pagare. Ma gli uscieri glielo impedirono. Un finimondo. Lui si offese a morte, protestò. E alla fine riuscì a saldare il conto. Non si può dire che a quel tempo gli premeva che si sapesse in giro dei suoi scrupoli: non era ancora capo dello Stato, e nessuno avrebbe scritto l’episodio sui giornali. No, sulla sua correttezza non vi sono dubbi in assoluto». Aneddoti simili si sprecano. Forse vale la pena di rammentare solo l’ultimo, o almeno il più clamoroso. Il Parlamento propose di aumentare l’appannaggio del Quirinale, che era veramente ridicolo: poco più di cento milioni. La legge sarebbe stata approvata in cinque minuti e all’unanimità. Ma Pertini, come ne venne a conoscenza, si inalberò: «Finché qui rimango io, non verrà dentro una lira in aggiunta. Quel che piglio, mi basta e avanza». Mentiva. Era in bolletta nera.Se non ci fosse stato Maccanico, che si faceva anticipare di un biennio gli stipendi del personale, e depositandoli in banca usufruiva degli interessi, i quattrini per pagare tutti ogni mese non ci sarebbero stati. Onestà non soltanto in senso generale, ma anche intellettuale. Pertini non è mai venuto meno agli ideali, neanche a quelli che considerava doveri. Fin da giovanissimo. Era contrario all’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, essendo già simpatizzante socialista, ma al primo tonare di cannone era già in prima linea: allievo ufficiale nei mitraglieri. Aveva poco più di 19 anni e appena terminato il liceo. Non riteneva nemici coloro che erano al di là della linea, ma compagni di sventura; tuttavia, benché pacifista e convinto che sotto il sole nascente non vi fossero divisioni nazionali, combatté senza mai risparmiarsi. Aveva il senso dello Stato, e sapeva che “imboscarsi” avrebbe danneggiato i suoi compagni di trincea. Fu proposto addirittura per una medaglia d’argento, che non ebbe mai per “disguidi burocratici”. Questo il motivo agli atti. In realtà, non gliela diedero perché era “rosso”.Dopo il conflitto, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Genova. E alla sezione socialista del suo paese, Stella (Savona), dov’era nato nel ‘96. Il padre, piccolo proprietario terriero, morto giovane; la madre, Maria Muzio, ebbe altri tre figli, due maschi e una femmina. Una famiglia borghese, tradizionalista, né ricca né povera. Sandro si laureò in fretta, e bene. Ma aveva altri orizzonti oltre quelli del diritto. E si trasferì a Ca’ Foscari, a Venezia, dove – sempre a gran velocità – ottenne il secondo dottorato: scienze sociali. Non era soltanto un uomo d’azione come è apparso a noi negli ultimi anni e si evince dal suo curriculum nella Resistenza: aveva una inclinazione piuttosto schietta per gli studi. Nei quali, però, non esauriva tutta la carica che aveva dentro. Ecco perché, nel partito, si buttò con ardore. Conobbe Treves e Turati e stabilì con loro una collaborazione intensa. Non si limitava ad arringare le folle; in piazza, ci andava anche a fare i volantinaggi, da umile attivista. E fu in una di queste circostanze, nel 1925, che esordì in galera.Era di maggio. Lo sorpresero nei pressi di casa sua, a Stella, mentre distribuiva una rudimentale pubblicazione intitolata: “Sotto il barbaro dominio fascista”, stampata in proprio. Scattarono le manette. Processo al tribunale di Savona: otto mesi di reclusione. Comincia per lui il “dentro e fuori”. Un dettaglio rivelatore dal carattere dell’uomo: durante l’udienza, egli non si difende affatto. Anzi, con un tono quasi di sfida, ammette di essere socialista e sottoscrive ogni responsabilità che gli viene addebitata. Accanto, c’è un colonnello dei carabinieri che strabilia. È ammirato da quel giovane col «pelo sullo stomaco», e si mette sugli attenti in segno di deferenza. Se non nei riguardi dell’imputato, almeno del suo coraggio. Nel ‘26 Pertini è a Milano, ospite di Carlo Rosselli. E insieme con Adriano Olivetti e Ferruccio Parri organizza la fuga di Filippo Turati. Un’impresa da matti. Partono in motoscafo da Savona e arrivano in Corsica per miracolo: il mare è grosso, l’imbarcazione sta insieme con lo spago. Turati scende. I “complici” si sparpagliano. Parri, Olivetti e Rosselli rientrano, e come mettono piede dalle nostre parti sono prelevati e condotti in cella. Sandro, che è rimasto in Francia per tenere i collegamenti con gli esuli, è condannato in contumacia.Sono anni tremendi. Gli tocca fare di tutto: lavamacchine, muratore. Cose di cui si è già scritto molto. Ma un particolare forse, se non inedito, è poco noto. Pertini, a un certo punto, decide che è ora di svegliare gli italiani. Come? La stampa clandestina è un fiasco perché non riesce a penetrare nelle maglie della censura; di fare riunioni carbonare, non se ne parla neanche. La circolazione delle idee, anche se affidata alle chiacchiere, è pericolosa: ogni persona può essere una spia. La soluzione ci sarebbe, la radio. Ma i costi sono pazzeschi. Lui, il “ribelle”, fa presto: vende la sua quota di eredità – podere e fattoria – e investe il ricavato in un impianto adatto all’alfabeto morse. Il “bip” del dissenso valica il confine e giunge in Liguria. L’autore dei messaggi si firma con lo pseudonimo Jaques Gauvin, ma suscita subito sospetti nelle autorità del fascismo che fanno una soffiata alla polizia d’oltralpe. L’emittente è costretta a tacere, sequestrata. E il proprietario rischia cinque anni di galera e l’espulsione.Ma gli va bene che i francesi colgano l’occasione del processo per svergognare la dittatura del Duce; la magistratura lo condanna a un mese con la condizionale e gli consente di rimanere sulla Costa Azzurra. Chiunque altro si sarebbe calmato, almeno per un periodo. Pertini non molla un secondo: con passaporto falso intestato a Luigi Roncaglia, va in Svizzera ampliando i reticoli dell’opposizione al regime. Poi si stufa di stare all’estero ed eccolo a Milano. Non si contenta, gira al Centro e al Meridione, su e giù in treno: nella borsa, solito materiale sovversivo. Fatale che lo becchino. Ancora prigioni, in una delle quali incontra Gramsci e diventano amici, per quanto, ogni tanto non manchino di litigare. Il leader sardo un giorno esprime un giudizio pesantuccio su Turati e Treves. Apriti cielo. L’altro gli risponde malamente e si imbroncia: non c’è verso di rasserenarlo. E soltanto quando Gramsci si scuserà, affermando che si trattava esclusivamente di una valutazione politica, Sandro sorriderà e gli stringerà la mano.La madre, che da anni non lo vede, preoccupata per la sua salute, di sua iniziativa chiede la grazia e lui non ne vuol sapere, scrive questa lettera al presidente del tribunale speciale: «Non mi associo a simile domanda perché sento che mancherei alla mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme». E rimprovera la povera donna che aveva agito per amore: «Mamma, con quale animo hai potuto fare questo». Anche a lei terrà a lungo il broncio. Intanto, fra un’amnistizia e nuovi arresti, condoni e libertà provvisorie, Pertini compie 40 anni: in pratica è sempre stato detenuto. Ovvio che il suo livore per le camicie nere sia incontenibile, e si traduca col tempo, specialmente durante il secondo conflitto mondiale, in un piano per toglierle di mezzo. Nella guerra partigiana, dal 1943, alla Liberazione, il suo ruolo sarà determinante insieme con quelli di Saragat e Nenni e di molti altri. Due capitone fondamentali: le insurrezioni di Firenze nel ‘44 e di Milano nel ‘45 furono capeggiate da lui. Fece di tutto: lo stratega e il manovale, l’ideologo e la sentinella, a seconda del bisogno.E a Liberazione avvenuta, nonostante la medaglia d’oro (stavolta arrivò), i meriti acquisiti sul piano politico e militare, e per la solidificazione del socialismo, nel partito gli riservano sistematicamente posti senza potere, benché di prestigio: direttore dell’“Avanti!” e del “Lavoro”, per esempio. È naturale, non aveva correnti, aborriva gli intrighi di corridoio, le cordate, le scalate; nessuna vocazione ai patteggiamenti, alle mediazioni, alle spartizioni, alle lottizzazioni. Mai entrato nella stanza dei bottoni dal 1946 al 1968, quando fu eletto presidente della Camera, seggiola che abbandonò nel 1976, l’indomani dell’avanzata comunista, e qualcuno pensò che alla falce e martello spettasse la guida di un ramo del Parlamento, a scopo di legittimazione democratica. Pertini, che negli otto anni aveva avuto esclusivamente consensi per aver retto la carica alla grande, mai guardando in faccia a nessuno se occorreva far osservare le regole, abbozzò: salutò il nuovo presidente, Pietro Ingrao, e non accese polemiche, per quanto non gli mancassero le ragioni.Il salto al Quirinale, due anni più tardi, fu casuale. Leone era stato costretto a dimettersi su pressioni del Pci, che era nella maggioranza e contava. Ma non esisteva un’alternativa accettabile a tutti i partiti della famosa ammucchiata, eufemisticamente definita “solidarietà nazionale”. Ogni candidato si bruciava in tre minuti. Inutile, trascorsero 10 giorni; quindici scrutini vani. Il paese non ne poteva più. Ci fu del panico nelle segreterie della Dc, del Psi e dello stesso Pci: che figura facciamo? Craxi tirò fuori dal cilindro la vecchia bandiera: Pertini. Sul quale – al punto in cui si era – piovvero i voti del cosiddetto arco costituzionale al completo. Alla gente il vecchio fu subito simpatico: immaginiamo che le ispirasse tenerezza, almeno all’inizio; poi venne la venerazione. Fu una conquista lenta e graduale, la sua; il pubblico cominciò ad apprezzare. E ora lo rimpiangiamo.(Vittorio Feltri, ritratto di Sandro Petrini pubblicato su “Libero” il 9 ottobre 2019).Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.
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Contro la disoccupazione l’unica guerra di Trump: stravinta
Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.In primo luogo Trump ha promesso di non iniziare nuovi conflitti geopolitici, al fine di risparmiare le vite di giovani americani e di consentire ad ogni paese ove vi sono tensioni di superarle in autonomia. Una volta eletto, ha rispettato questo impegno? I dati sono sotto gli occhi di tutti. Trump non ha iniziato alcun conflitto e i suoi interventi (ad esempio in Siria) sono risibili rispetto a quelli dei suoi predecessori, Obama e Bush. Ha minacciato Turchia, Corea del Nord, Venezuela. Ma stava solo prendendo per i fondelli i falchi del Pentagono, che da anni sono rimasti senza cibo. Sentite cosa ha dichiarato su di lui l’economista Paul Krugman, non senza un travaso di bile: «A quanto pare, per Trump distruggere la Nato non è un mezzo per raggiungere uno scopo: è lo scopo in sé. Trump non vuole riformare l’ordine mondiale. Vuole distruggerlo». E tutto l’intervento di Krugman viene riportato sul maggior organo di informazione finanziaria d’Italia. Sì, insomma, quando questi si arrabbiano è segno che la direzione intrapresa è quella giusta.Ma veniamo all’economia, alla “struttura”, tanto per usare termini marxisti. Trump aveva promesso di aiutare il settore economico manifatturiero americano. Anche se il manifatturiero pesa pochino dentro la balena economica americana, molti statunitensi sono infatti in difficoltà da anni, perché diverse fabbriche hanno chiuso i battenti per lasciare la produzione nelle mani dei paesi emergenti o di quelli già emersi, come la Cina. Gli Usa, infatti, non sono abitati solo da avvocati ebrei della Grande Mela che vanno a teatro e suonano il flauto nei pub, come Woody Allen, né la costa ovest è frequentata solo dagli smanettoni della Silicon Valley e dagli artisti di San Franciso. Ci sono anche operai, artigiani, estrattori, agricoltori. Insomma, l’America non è solo Apple e Facebook! Trump lo ha capito e ha pensato di aiutare il mondo del lavoro anche della gente comune, e lo sta facendo con politiche protezionistiche tese a savaguardare le produzioni locali. I risultati che finora ha ottenuto sono di destra o di sinistra? Se ancora vi piacciono queste classificazioni, giudicate da soli il dato uscito stamani: il tasso di disoccupazione negli Usa oggi è arrivato al 3,5%.Sembrerà strano, ma non tutti quelli che mi leggono sono intelligenti, e allora per i più duri di comprendonio vale la pena ripeterlo almeno 5 volte, con l’invito di ripetere questa frase ogni mattina, prima delle abluzioni. «Il tasso di disoccupazione – recitano le agenzie – non era così basso dal dicembre di 50 anni fa. Rivisti al rialzo anche i dati sull’occupazione dei due mesi precedenti: a luglio i nuovi posti sono passati da 159.000 a 166.000, ad agosto da 130.000 a 168.000». Cosa significa, per una comunità di enormi dimensioni (327 milioni di abitanti) abbassare la disoccupazione al 3,5%? Due cose, anzitutto: i lavoratori dipendenti hanno maggior potere contrattuale, e in quei territori non lavora solo chi non vuole lavorare. Pregherei i detrattori di risparmiarmi la filastrocca sull’America che non ha la sanità pubblica, il diritto allo studio e le solite cose. Lo so benissimo e combatto contro questo, nel mio piccolo, da sempre. Ma sono distorsioni del capitalismo che non sono di sicuro imputabili a Trump, eletto nel 2016. Che piaccia o no, Trump sta dimostrando almeno due cose: da un lato, che la pianificazione pubblica dell’economia può dare enormi risultati. Dall’altro, che il mondo può essere una realtà politica e culturale multipolare.(Massimo Bordin, “Trump ha ucciso la disoccupazione, ora tocca ai suoi critici”, dal blog “Micidial” del 4 ottobre 2019).Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.
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Fenomenologia di Conte: un ologramma a Palazzo Chigi
Giuseppe Conte non è. Non è un leader, non è un eletto, non è un politico, non è un tecnico, non è nulla. È il Nulla fatto premier. E lo conferma ogni giorno adattandosi come acqua corrente alle superfici che incontra. È la plastica rappresentazione che la Politica, dopo lo Scarso, lo Storto, il Pessimo, ha raggiunto lo Zero, la rappresentazione compiuta del Vuoto. Luogotenente del Niente, Conte è oggi il fenomeno più avanzato della politica dopo i partiti, i movimenti, le ideologie, la politica e l’antipolitica, i tecnici e i populisti, le élite e le plebi. È la svolta avvocatizia della politica che pure è da sempre popolata di avvocati: ma Conte non scende in politica, assume solo da avvocato l’incarico di difendere una causa per ragioni professionali; ma i clienti cambiano e così le cause. Andrebbe studiato nelle università del mondo perché segna un nuovo stadio, anonimo e postumo della politica. Non si può esprimere consenso né dissenso nei suoi confronti perché non c’è un argomento su cui dividersi; lui segna la fine del discorso politico, la fine della decisione, la fine di ogni idea, di ogni fatto. È la somma di tante parole usate nel gergo istituzionale, captate e assemblate in un costrutto artificiale. È lo stadio frattale del moroteismo, il suo dissolversi. Ogni suo discorso è un preambolo a ciò che non accadrà, il suo eloquio è uno starnuto mancato, di cui si avverte lo sforzo fonico e il birignao istituzionale ma non il significato reale. Altri semmai decideranno, lui si limita al preannuncio.Ogni volta che un Tg apre su di lui, non c’è la notizia, è solo una presenza che denota un’assenza; si spalanca una finestra nel vuoto. I fatti separati dalle opinioni, si diceva; lui è nello spazio intermedio dove non ci sono i fatti e non ci sono le opinioni. Dopo che Conte avrà parlato lascerà solo una scia di silenzi e di buchi nell’acqua. Non darà risposte, sceneggerà un ruolo e dirà lo Zero virgola zero. Nelle sue citazioni saccenti vanifica l’autore citato, lo rende vuoto e banale come lui. Conte non rientra in nessuna categoria conosciuta, eppure abbiamo avuto una variegata fauna di politici al potere. Lui non è di parte, eccetto la sua, è piovuto dal cielo in una sera senza pioggia. Conte è portatore sano di politica e di governo, perché lui ne è esente. È contenitore sterile di ogni contenuto. Non ha una sua idea; quel che dice è frutto del luogo, dell’ora e delle persone che ha di fronte. Parla la Circostanza al suo posto, la Circumstancia, per dirla con Ortega y Gasset; Conte è la somma dell’habitat in cui è immesso, traduce il fruscio ambientale in discorso. Figurante ma senza neanche figurare in un ruolo, è l’ologramma di una figura inesistente, disegnato in piattaforma come un gagà meridionale degli anni 50. Un po’ come Mark Caltagirone, il fidanzato irreale di Pamela Prati; è solo una supposizione.Trasformista, a questo punto, sarebbe già un elogio, comunque un passo avanti, perché indicherebbe un passaggio da uno stadio a un altro. Conte, invece, è solo la membrana liquida che di volta in volta riveste la situazione, producendo un molesto acufema in forma di eloquio. Conte cambia voltura a ogni utente e rispetto a ogni gestore (non fu un caso nascere a Volturara). Conte è fuoco fatuo, rappresentazione allegorica del niente assoluto in politica, ma a norma di legge. Quando apparve per la prima volta dissero che aveva alterato il curriculum e in alcune università da lui citate non era mai stato, non lo conoscevano; ma Conte è un personaggio virtuale, il curriculum può allungarsi, allargarsi, restringersi secondo i desiderata occasionali. Conte non ha una storia, non ha eredità e provenienze, non ha fatto nessuna scalata. È stato direttamente chiamato al Massimo Grado col Minimo Sforzo, anzi senza aver fatto assolutamente nulla. Una specie di gratta e vinci senza comprare nemmeno il biglietto, anzi senza aver nemmeno grattato. Da zero a Palazzo Chigi. Come Gregor Samsa una mattina si svegliò scarafaggio, lui una mattina si svegliò premier. Un postkafkiano. Conte è di momento in momento di centro, di destra, di sinistra, cattolico, laico, progressista, medieval-reazionario con Padre Pio, democratico-global con Bergoglio, fido del sovranista Trump e al servizio degli antisovranisti eurolocali; è genere neutro, trasparente, assume i colori di chi sta dietro. Un passe-partout.Il Conte Zelig, come lo battezzammo agli esordi, ha assunto di volta in volta le fattezze gradite a tutti i suoi interlocutori: merkeliano con la Merkel, junckeriano con Juncker, trumpiano con Trump, macroniano con Macron, chiunque incontra lui diventa quello; è lo specchio di chi incontra. In questa sua capacità s’insinua e manovra. Conte non dice niente ma con una faticosa tonalità che sembra nascere da uno sforzo titanico, la sua parlata cavernosa e adenoidea è una modalità atonica, priva di pensieri o emozioni, pura espressione vanesia di un dire senza dire, il gergo della premieralità. Il suo vaniloquio è simulazione di governo, promessa continua di intenti, rinvio sistematico di azioni; è un riporto asintomatico di pensieri, la somma di più uno e meno uno. Indica con fermezza che si adatta a tutto e non comunica niente. Dopo Conte non c’è più la politica; c’è la segreteria telefonica, il navigatore di bordo, la cellula fotoelettrica. Il drone. Conte però ha una funzione, e non è solo quella di cerniera lampo tra sinistra e M5S, punto di sutura tra establishment e grillini. È la spia che la politica non c’è più, nemmeno nella versione degradata più recente. Lui è oltre, è senza, è il sordo rumore del nulla versato nel niente.(Marcello Veneziani, “Fenomenologia di Giu’ Conte”, dal numero 41 di “Panorama” 2019).Giuseppe Conte non è. Non è un leader, non è un eletto, non è un politico, non è un tecnico, non è nulla. È il Nulla fatto premier. E lo conferma ogni giorno adattandosi come acqua corrente alle superfici che incontra. È la plastica rappresentazione che la Politica, dopo lo Scarso, lo Storto, il Pessimo, ha raggiunto lo Zero, la rappresentazione compiuta del Vuoto. Luogotenente del Niente, Conte è oggi il fenomeno più avanzato della politica dopo i partiti, i movimenti, le ideologie, la politica e l’antipolitica, i tecnici e i populisti, le élite e le plebi. È la svolta avvocatizia della politica che pure è da sempre popolata di avvocati: ma Conte non scende in politica, assume solo da avvocato l’incarico di difendere una causa per ragioni professionali; ma i clienti cambiano e così le cause. Andrebbe studiato nelle università del mondo perché segna un nuovo stadio, anonimo e postumo della politica. Non si può esprimere consenso né dissenso nei suoi confronti perché non c’è un argomento su cui dividersi; lui segna la fine del discorso politico, la fine della decisione, la fine di ogni idea, di ogni fatto. È la somma di tante parole usate nel gergo istituzionale, captate e assemblate in un costrutto artificiale. È lo stadio frattale del moroteismo, il suo dissolversi. Ogni suo discorso è un preambolo a ciò che non accadrà, il suo eloquio è uno starnuto mancato, di cui si avverte lo sforzo fonico e il birignao istituzionale ma non il significato reale. Altri semmai decideranno, lui si limita al preannuncio.